Riassunto Lett. Latina
Riassunto Lett. Latina
Riassunto Lett. Latina
Livio Andronico
(teatro/poesia epica) scrive l'Odusia, la prima traduzione in lingua latina
dell'Odissea di Omero. Crea un linguaggio letterario, utilizzando forme del
linguaggio religioso romano, forma quotidiane e arcaiche, laddove non esistessero
corrispondenze di parole grece in latino.
Nevio
(teatro/poesia epica) scrive il Bellum Poenicum, un poema epico sulla prima
guerra punica con un importante excursus sulla fondazione di Roma per mano di
Enea, a cui fa discendere Romolo. Saturnio: verso tipico della poesia romana
arcaica che riunisce elementi greci che si adattano allo stile romano.
Ennio
scrive gli Annales, una trattazione annalistica in cui racconta la storia di Roma
dalle origini sino al 169 a.C. Utilizza per primo l'esametro, emulando il verso
omerico. Nel proemio invoca le Muse e racconta di un sogno, nel quale Omero lo
investe poeta e suo continuatore. Utilizza uno stile solenne pieno di arcaismi,
onomatopee e allitterazioni per accentuare il pathos. Scrive anche diverse
tragedie coturnate, dedicate al ciclo troiano, e commedie.
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Teatro Romano:
cothurnata: tragedia di argomento greco
preatexta: tragedia di argomento latino
palliata: commedia di argomento greco
togata: commedia di argomento romano, ambientata a Roma e ne riflette vita
e costumi
La commedia
Plauto
scrisse circa 130 commedie, 21 solo pervenute, palliate, commedie latine di
argomento greco.
Le commedie presentano una trama fissa: lotta tra due antagonisti per il possesso
di un bene (una donna o una cosa di valore) che termina con la vittoria di uno e la
sconfitta dell'altro. Numerosi gli intrecci di vicende.
I personaggi sono stereotipati e amorali, privi dunque di qualsiasi spessore
psicologico.
Tipologia di commedia preferita è la ''commedia del servo'': il servo è al centro
dell'azione e cerca di aiutare il suo padrone a vincere sul suo avversario
attraverso inganni, che poi viene ripagato dal padrone.
La divinità è sempre presente, laddove il protagonista non sappia come muoversi,
interviene il Deus Ex Machina.
Altra tipologia prediletta è la ''commedia del riconoscimento'', che ruotano attorno
ad un'identità nascosta e al suo svelamento e che si risolvono in un'agnizione
finale. A differenza di Terenzio, Plauto non si preoccupa di nominare le commedie
greche alle quali si è ispirato, nientemeno il suo pubblico non presuppone una
conoscenza della cultura greca, essendo le sue opere destinate ad ogni genere di
persona.
Si rifà soprattutto a Menandro, di cui mantiene gli intrecci, i personaggi,
l'ambientazione, ma cambia in nome, il titolo della commedia e lo spessore dei
personaggi (piatti, amorali e privi di ogni concretizzazione psicologica).
Ambientazione greca con riferimenti alla realtà romana, in modo che il pubblico
potesse riconoscervi. Vi è un rovesciamento dei valori tradizionali, come il servo
astuto (fonte principale del divertimento), persone libere trattate come schiave e
padri che desiderano le donne dei figli. Il tutto termina positivamente
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(scioglimento finale) con la punizione dell'antagonista e la vittoria del
protagonista. Nessuno scopo didascalico. La polimetria (numeri innumeri/infiniti
versi) è un tratto tipico della commedia plautina e lo differenzia dalla commedia
greca. Stile paratattico (tendenza al ''risparmio'') ricco di neologismi, giochi di
parole, grecismi e arcaismi. Importanza del dialogo, dove la funzione emotiva è
più importante della ragione.
Terenzio
è attento ai significati, a differenza di Plauto, infatti, opta per un teatro
meditativo, che impegna il pubblico su temi etici e sociali, utilizzando gli intrecci
tipici della commedia nuova di Menandro. Importante è l'introspezione psicologica
dei personaggi, parla di individui, non di maschere, soffermandosi sull'aspetto
umano, spesso però appaiono non convenzionali (ex. suocera non bisbetica), che
comporta una riduzione della comicità (vis comica). Terenzio aderisce all'ideale
etico dell'humanitas (''homo sum: humani nihil a me alienum puto''), influenzato
da quello greco della philantropia, basato su fiducia e rispetto reciproco, difatti
rapporti umani autentici assumono un ruolo chiave nelle sue commedie. Fedele
alla commedia di Menandro, abolisce ogni forma di metateatro, come ad esempio
battute rivolte direttemente al pubblico o momenti di autocoscenza, che vengono
concentrati nel prologo. Il prologo viene utilizzato da Terenzio per esporre pensieri
e riflessioni (Plauto lo utilizzava per riassumere la vicenda narrata nelle
commedie, accennando al finale), spiegando il rapporto con i modelli greci
utilizzati e rispondendo a critiche dei suoi avversari. Viene accusato di
contaminatio, cioè ibridismo tra testi diversi, ma si difende sottolineando come
anche Plauto, Ennio e Nevio avessero fatto lo stesso. Lo stile di Terenzio è attento
alla verisimiglianza, utilizza un linguaggio colto e quotidiano, censurato,
selezionato, dominato dai dialoghi (deverbia), in opposizione allo stile fantasioso e
acceso di Plauto.
La Tragedia
Accio e Pacuvio
sono esponenti della tragedia arcaica e vissero tra l'epoca dei Gracchi e di Mario.
Fecero della tragediografia uno svago dell'elité aristocratica. Lo stile di Pacuvio
era, a detta di Lucilio, contorto, ampolloso, parole nuove inventate dal poeta.
Entrambi scrissero cothurnatae, tragedie di argomento greco.
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La Satira
(''satura lanx'': vassoio pieno di frutta offerto agli dèi > mescolanza/varietà) è
un genere letterario di origine latina (''satura tota nostra est'', Quintiliano),
caratterizzato da varietà di generi, realismo e utilizzato dai poeti per dar sfogo
alla propria voce.
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civilizzatrice di Roma; dunque, si scusano con Augusto di non poter cantare
temi epici (recusatio)
II fase dell’età augustea > viene meno il rapporto tra l’ambiente del principe e la
ricerca letteraria. Ovidio, ad esempio, canta i piaceri della vita ed esalta il principe
e tocca una contraddizione che restava aperta nel mondo augusteo: la frattura tra
le tendenze reali della corte augustea, non rispettosa di quei valori morali che
Augusto aveva perseguito, e la proclamazione di valori ideologici, come l’impegno
civile, la purificazione dei costumi, compressione del lusso, restaurazione
religiosa.
Lucrezio
si ispira alla filosofia epicurea e la sua opera, il De Rerum Natura (titolo traduzione
del Perì Physeos di Epicureo), non fa altro che spiegarne il pensiero il lingua latina.
Il genere utilizzato da Lucrezio per il De Rerum Natura è il poema epico-
didascalico a tema filosofico, nonostante abbia condannato la poesia per
l'invenzione e assenza di realismo: giustifica questa scelta utilizzando la
similitudine del miele: come si cospargono di mieli gli orli di una coppa che
contiene assenzio per renderlo più dolce al gusto dei bambini, così Lucrezio vuole
rendere piacevole una dottrina amara. La Venere dell'inno presente nel proemio
non è altro che la personificazione della natura. Indaga ogni fenomeno a fondo,
non limitandosi a descriverlo, fornendo diverse argomentazioni e dimostrazioni
ricorrendo all'utilizzo del sillogismo e all'analogia per far comprendere a pieno il
significato delle cose. Diversi gli argomenti trattati tra cui la religione, la fisica,
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l'origine del mondo e degli esseri viventi. Lucrezio è ateo, si distacca dalla
religione pagana, sostenendo che sia una superstizione, crede infatti che gli dei,
essendo esseri perfetti, vivano nell'intermundia, non curandosi della situazione
dell'essere umano, dunque egli non deve avere paura di loro. Riguardo la fisica
sostiene che gli atomi indistruttibili si muovano infinitamente nel vuoto e,
aggregandosi, diano origine a molteplici realtà in un processo di aggregazione e
disgregazione. Così coesistono nascita e morte. Fondamentale è il clinamen, cioè
l'inclinazione che interviene nel movimento degli atomi e permette diverse
aggregazioni. L'animo è mortale, in quanto costituito da atomi, e la morte non va
temuta poiché implica l'assenza di sensibilità. Lucrezio spesso è positivo riguardo
la condizione umana, sostenendo che essa sarà rinnovata dall'epicureismo, altre
volte negativo, perché prende atto della stoltezza umana e della fragilità della
vita. Il suo intento è quello di trasmettere al lettore i significati profondi di una
dottrina in cui crede profondamente attraverso l'utilizzo di una lingua concreta e
realistica senza astrattismi, ripetizioni frequenti e appelli al lettore, arcaismi (si
ispira a modelli greci, quali Omero, Eschilo). Utilizza l'esametro in cui ricorrono
spesso enjambement soprattutto nei momenti di pathos.
La lirica
Catullo
è l'emblema della poesia neoterica. Il Liber contiene 116 carmi tra cui nugae,
epigrammi e carmina docta di metri vari in cui sono trattati argomenti privati
come affetti, amicizie, amori, odi. Nei carmi brevi la figura di Lesbia (pseudonimo
dedicato a Saffo, poetessa dell'amore) ha un ruolo centrale. Una donna di grazia e
bellezza particolare, intelligente, raffinata e acculturata con la quale Catullo
commette più volte adulterio; un amore dunque malato e sbagliato: egli cerca di
nobilitarlo attraverso la tenerezza degli affetti familiari, ma il suo dolore viene
accentuato dai continui tradimenti. Il rapporto con Lesbia, un amore libero e
contro le regole, viene visto da Catullo come un foedus matrimoniale, ma tale non
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è perché vengono meno la fides (patto stretto moralmente tra gli sposi) e la
pietas (virtù di chi assolve ai propri doveri). L'amore ha un ruolo primario, mentre
i doveri di cittadino romano e l'esercizio della vita politica assumono un ruolo
marginale, come tipico di un poeta novus. Nei carmi dotti prevale l'epillio, epos in
scala ridotta, caratterizzato da uno stile elaborato e raffinato. Importante è il
carme 64, le nozze di Peleo e Teti, che contiene il lamento di Arianna
abbandonata, le due vicende (la felicità dei primi in contrapposizione con la
tristezza della seconda) sono importati per sottolineare l'importanza della fides
(fondamentale per Catullo), il cui valore viene meno nel presente corrotto.
Cicerone
è protagonista delle vicende politiche del I secolo a.C. Celebre oratore e avvocato,
ricopre diverse cariche pubbliche, tra cui la questura della Sicilia nel 75 e il
consolato nel 69, anno durante il quale reprime la congiura di Catilina, che viene
condannato alla pena capitale senza processo, per questo motivo nel 58 viene
esiliato da Clodio. Sostenne in un primo momento Pompeo, alla sconfitta di questi
a Farsalo ottiene la grazia di Cesare. Vittima nel 43 delle liste di proscrizione di
Antonio, membro del Secondo Triumvirato. Humanitas di Cicerone: ricerca di una
via di mezzo tra il mos maiorum romano, dunque il rispetto delle tradizioni, e le
nuove istanze culturali, che stavano dilagando a Roma; tuttavia, rifiuta
l'epicureismo per il disinteresse della vita politica e per l'ateismo.
Orazioni:
a. Pro Sexto Roscio Amerino: prima orazione in cui difende Sesto Roscio contro
potenti sostenitori di Silla. Il padre di Roscio era stato ucciso dai parenti in
combutta con un sillano, che aveva fatto inserire il nome dell'ucciso nelle liste di
proscrizione per poterne ottenere i terreni, il figlio poi sarebbe stato accusato di
parricidio.
b. Verrine: orazioni contro Verre, ex governatore della Sicilia, accusato dai
siciliani di essersi impadronito dei beni dell'isola. Le orazioni sono due, ma C. ne
riesce a pronunciare solo due, Verre infatti fugge dall'Italia e viene condannato in
contumacia. Il periodare è complesso e armonioso, la sintassi duttile, lo stile non è
né asiano né atticista.
c. Pro Lege Manilia: Cicerone appoggia il tribuno Manilio che voleva concedere
a Pompeo libertà di azione in Asia per contrastare Mitridate, re del Ponto, e i
pirati. Fa leva sull'importanza dei vectigalia, ovvero i triubuti provenienti dall
province orientali.
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d. Catilinarie: quattro orazioni con cui Cicerone svela la congiura ordita da
Catilina con l'intento di impadronirsi del potere con la forza, poiché sconfitto nella
corsa al consolato. In particolare, i toni della prima sono veementi, polemici e
ricchi di Pathos e C. ricorre all'artificio retorico della personificazione della Patria,
che si scaglia contro Catilina.
e. Pro Murena: difesa di Lucio Murena, console designato per il 68, accusato di
corruzione. Importante è il nuovo modello etico che C. tratteggia, rispetto per le
tradizione e al contempo apertura verso nuovi costumi.
f. Orazioni contro Clodio: Pro Sestio, in cui difende Sestio, un tribuno accusato
di violenza da Clodio, dove C. espone una nuova teoria riguardo l'intesa tra i ceti
abbienti, Consensus Omnium Bonorum, cioé la concordia tra tutte le persone
agiate, amanti dell'ordine politico e sociale, che adempiono ai doveri della patria e
della famiglia (la Concordia Ordinum invece si limitava solamente all'intesa tra
cavalieri e senatori), e la Pro Caelio, in cui difende Celio Rufo accusato di aver
tentato di avvelenare la sua ex amante Clodia, sorella di Clodio (la Lesbia di
Catullo), che viene dipinta come una meretrice che ha avuto atti incestuosi con il
fratello.
g. Pro Milone: Milone, protagonista degli scontri tra bande che lo videro
opporsi a Clodio, viene accusato della morte di questi. C. mostra le eccezionali
abilità di oratore, facendo leva sulla legittima difesa e sull'esaltazione del
tirannicidio. C. perde la causa, Milone è costretto a fuggire da Roma.
h. Filippiche (rif. Filippiche di Demostene contro Filippo V di Macedonia):
orazioni pronunciate da C. per indurre il senato ad opporsi a Marco Antonio, la cui
figura viene ammazzata a parole sia nel privato che nel pubblico, dipinto, infatti,
come un ubriacone, un tiranno, un ladro di denaro pubblico.
Opere retoriche:
a. De oratore: dialogo tra Marco Antonio, nonno del triumviro, e Crasso,
ambientato nel 91, anno che precede le guerre sociali e i conflitti tra Mario e
Silla, gli ultimi giorni della repubblica, in un giardino di una villa romana.
Crasso, portavoce di C., afferma che la formazione culturale dell'oratore deve
essere vasta, infatti la capacità di sostenere un discorso è nulla se non si
mostrano le giuste virtù (probitas ''onestà'' e prudentia) per convincere la
gente per bene.
b. Orator: trattato in cui C. delinea la figura dell'oratore ideale. C. spiega i fini
dell'ars dicendi, cioè probare, delectare e flectere, a cui corrispondo tre stili
diversi, ovvero basso, medio e alto.
c. De re publica: scritto sottoforma di dialogo platonico, viene discussa la forma
di stato più adatta con uno sguardo al passato. C. parte dalla dottrina
aristotelica delle tre forme fondamentali di governo (monarchia, aristocrazia,
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democrazia) e le tre degenerazioni (tirannide, oligarchia e oclocrazia), come lo
stato romano dei maiores abbia trovato un equilibrio (monarchia nel consolato,
aristocrazia nel senato, democrazia nei comizi), salvandosi
dall'estremizzazione.
d. De legibus: dialogo tra Cicerone, il fratello Quinto e Attico, dove il primo è
rappresentato come conservatore moderato, il secondo come ottimate
estremista e il terzo come un epicureo che si pente delle sue credenze
filosofiche, parlando delle leggi ideali che uno stato dovrebbe avere.
Opere morali:
a. De finibus bonorum et malorum: si parla del sommo bene e del sommo male. Il
sommo bene coincide con la virtù.
b. Tusculanae: scritto sottoforma di dialogo, vengono trattati argomenti come la
morte, il dolore, la tristezza, la felicità, in un grande riassunto dell'etica antica.
L'intento di C. è divulgativo (i Romani hanno bisogno di acquisire un'adeguata
cultura filosofica) e ''personale'' (dà risposta ai suoi interrogativi e dubbi).
c. De officis: trattato di etica in cui si discute dell'honestum (ciò che è
moralmente giusto), l'utile e il loro conflitto. C. sostiene che le virtù sono parte
dell'honestum, i modi di conseguire potere e consenso si attengano all'utile e
che tra i due vi sia identità, poiché il secondo è conseguenza del primo.
L'honestum scaturisce da quattro fonti:
aspirazione all'armonia che porta alla temperanza, che si realizza nel
decorum, che è armonia di gesti, parole e azioni;
desiderio di primeggiare che si traduce in magnitudo animi, l'istinto al
dominio deve essere svuotato di egoismo e messo al servizio della
collettività;
ricerca della verità, che fa nascere la sapienza, che si deve esplicare in
azioni concrete: la virtù si attua nell'azione;
protezione nella società, che si realizza in iustitia e tutela la proprietà
privata, e in in beneficentia, che dona i propri beni per il benessere della
comunità, ma non deve tradursi in atti di corruzione;
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La Storiografia
Sallustio
è il primo grande storiografo della lingua latina. Scrisse il Bellum Iugurthinum e il
Bellum Catilinae, monografie storiche, le Historiae, incompiuta, e due epistole
spurie, Epistulae ad Caesarem de re publica e Invectiva in Ciceronem. Durante gli
ultimi anni di vita si ritira a vita privata, dunque da negotium a otium, e giustifica
la sua scelta dicendo che deve dar conto alla sua attività di intellettuale di fronte
a un pubblico tradizionalista come quello romano. La storiografia per S. è
strettamente collegata alla prassi politica e fondamentale per la formazione
dell'uomo politico.
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c. Historiae: opera che, riallacciandosi alla narrazione di Sisenna, narra
sottoforma annalistica dal 78 e rimasta incompiuta. Ci rimangono quattro discorsi
e due lettere, una di Pompeo e una di Mitridate, particolarmente ampi. Il quadro
dipinto è fosco: corruzione dei costumi, a parte alcune eccezioni come Sertorio, e
politica in mano a demagoghi, persone corrotte.
Cesare
scrive il De Bello Gallico e il De Bello Civili, commentari sulle sue esperienze
belliche, il primo sulla conquista della Gallia e il secondo sulla guerra che lo ha
visto opposto a Pompeo. Il commentarius si distingue dal genere storiografico
poiché è un diario personale, contiene appunti e materiali grezzi ed è scritto in
modo disadorno, quelli di Cesare perà si avvicinano al genere dell'historia per la
drammatizzazione di alcune scene, l'utilizzo del discorso diretto, ma evitando
artifici retorici ed effetti plateali.
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Varrone Reatino
s'interessò a diversi ambiti del sapere.
L’elegia
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corteggiamento, rifiuta la recusatio e la poesia elevata a favore di una leggera e
misurata che garantisca immediatezza dei sentimenti.
Tibullo
è il primo poeta che viene menzionato da Quintiliano tra i poeti elegiaci. Noto
come il poeta dei campi, egli celebra la compagna e la vita agreste, auspicando a
pace e tranquillità, un locus aemenus abitato da persone semplici, lontano dai
tormenti della vita e dal caos della guerra (rif. alle guerre civili). Manca ogni
riferimento alla mitologia, la cui funzione - rifugio dalle amarezze di una vita
tormentata e delusioni di un amore infelice - è sostituita dal mondo agreste, luogo
di felicità e serenità. T. si rifà ai poeti alessandrini, Callimaco e Fileta in
particolare, il suo stile è raffinato e semplice, i toni tenui e delicati, l'espressività
naturale e il ritmo regolare e cantabile lievemente, nonostante manchi
l'erudizione tipica e l'evocazione ai miti. Le elegie sono racchiuse nel Corpus
Tibullianum.
Properzio
è il secondo poeta nominato Da Quintiliano tra i poeti elegiaci. L'elegia di P. si
concentra attorno alla figura della donna amata, Cinzia (pseudonimo collegato ad
Apollo, dio della poesia, di cui ''Cinzio'' era epiteto) e, in età più tarda, si conforma
alla morale augustea, spinto da Mecenate e da Augusto.
Pervengono quattro libri di elegie:
a. il primo, Cynthia, contiene componimenti dedicati a Clizia e sono assenti
riferimenti morali e civili. P. fa dell'amore per Clizia l'argomento portante della sua
poesia fortemente autobiografica.
Clizia è una donna elegante e raffinata, una cortigiana di cui P. è servo d'amore,
egli dedica la sua vita all'otium, negando i valori del costume romano, il mos
maiorum. Rivendica la sua diversità rispetto agli altri poeti elegiaci, che si
condannano per aver rinunciato alla carriera e al decoro sociale, facendone un
vanto. P. sogna per lui e Clizia i grandi amori del mito, passioni eterne ed
esclusive oltre la morte.
b. il secondo comincia con una recusatio, cioè il rifiuto della poesia celebrativa
e la sua incapacità ad affrontare la musa della poesia epica. Si acuisce il disagio
per la vita di nequitia ed merge il senso di una vita incompleta.
c. nel terzo libro la materia trattata si amplia, i componimenti dedicati a Clizia
sono meno frequenti e l'atteggiamento di P. è meno appassionato. La prospettiva
cambia, vi è l'avvicinamento a tematiche gradite agli ambienti ufficiali (interesse
per la politica augustea, attenzione alle virtù guerresche), cominciando a
integrarsi al regime.
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d. il quarto libro è dedicato all'elegia civile, non mancano però i riferimenti a
Clizia e all'amore. Spinto da Mecenate e dalla crisi intima che lo ha colpito, P.
decide di dedicarsi ad un tipo di poesia differente. Rifacendosi a Callimaco e agli
Aitia, racconta le origini dei miti, dei nomi, dei culti romani in modo leggero e non
rinunciando al pathos che caratterizza la sua elegia erotica. P. riscopre i valori
dell'amore coniugale, degli affetti familiari e delle virtù domestiche, mentre Clizia
viene accostata alla corruzione e al vizio.
Orazio
è un poeta versatile, scrive infatti un libro di Epodi in metro giambico, due libri di
Satire e due di Epistole in esametri e quattro libri di Odi in metri lirici.
a. Epodi: la forma metrica utilizzata è l'epodo, un distico formato dal primo
verso più lungo del secondo (O. li chiama Iambi). Sono caratterizzati da un tono
aggressivo e da polimetria. Sono stati scritti in età giovanile e l'aggressività è
dovuta sia al canoni della poesia giambica sia all'età violenta che stava vivendo
(guerra tra Cesare e Pompeo, assassinio di Cesare e sconfitta dei cesaricidi a
Filippi, secondo triumvirato). O. si rifà ad Archiloco nell'animo aggressivo, non nel
contenuto, mentre il poeta greco parla degli odi e dei rancori di un aristocratico
greco del VII secolo a.C, i bersagli di Orazio sono personaggi minori e ''irrilevanti''
per via dell'epoca. Nella struttura si ispira a Callimaco. I contenuti sono vari, ad
esempio l'epodo 10, una specie di propemptilòn a rovescio in cui O. augura a
Mevio di fare naufragio (il modello è l''epodo di Strasburgo'' di Archiloco),
ricorrono anche epodi erotici, civili, oltre che quelli invettivi.
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l'amicizia, che si esprime anche in una comunanza di condotta e ideali, e il buon
senso, che si apprende dalla vita quotidiana. O. si rifà alla filosofia ellenistica in
generale, in particolare all'epicureismo, alla tradizione romana e agli
insegnamenti, tramandategli dal padre.
c. Le Odi furono pubblicate in due momenti diversi: i primi tre libri nel 23, il
quarto probabilmente nel 17. Nel complesso sono 103 odi, i primi tre libri furono
dedicati a Mecenate. Orazio nelle Odi rappresenta sé stesso. Emergono il suo
mondo interiore, le sue aspirazioni, la sua visione della vita, i sentimenti verso sé
stesso e gli altri. Le Odi, tuttavia, rappresentano l'espressione di un colloquio con
gli altri; spesso, infatti, Orazio si rivolge a un interlocutore, un amico, una donna o
comunque un personaggio ora fittizio, ora storicamente definito. O. si definisce
l'Alceo romano e il suo rapporto con il modello greco risulta essere di imitazio;
dunque, rispetto delle regole del genere letterario che il poeta vuole operare, del
decorum letterario e la creazione di un sistema di attese nel destinatario, allo
stesso tempo ricerca l'originalità, com'è evidente nei temi e nelle ambientazioni
tipicamente romane e nel linguaggio poetico oraziano. I suoi modelli sono Alceo,
Saffo e Pindaro, da cui si distaccò.
d. Orazio chiama le epistole sermones. Comprendono due libri, dove nel
primo si nota come il passare degli anni passati e la vecchiaia ormai prossima
abbiano fatto venire meno l'equilibrio e la fiducia in regole di saggezza che
avevano sorretto il poeta nelle Satire e nelle Odi; il secondo invece è dedicato a
questioni letterarie, che culminano nelle riflessione dell’Ars poetica, in cui Orazio
suoni principi della composizione poetica (coerenza, equilibrio, misura, rispetto
delle regole del genere letterario).
Epica
Virgilio
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metaletterari del giovane poeta ai suoi modelli artistici. Traspare però una
realtà dilaniata dalle guerre civili, che portano lutti e devastazioni. L’atmosfera
è dunque inquieta e tesa nelle Bucoliche, dove si lamenta la fragilità della
bellezza che soccombe di fronte alla morte. Il paesaggio bucolico (bucolica
viene da “bucolos” = pastore) è idillico e ovunque si avverte la presenza
dell’Arcadia felix, luogo ameno dove il suono dell’acqua che sgorga dai ruscelli,
la frescura degli alberi, i verdi praticelli, gli uccellini cinguettanti creano un
incanto fiabesco. Questo ambiente è del tutto innaturale e artificioso e sembra
costituire una fuga, un isolamento, in un mondo costruito attraverso le sole
leggi dell’arte; un mondo che tuttavia non riesce a liberarsi dalle insidie del
dolore. Nella IV egloga si parla della nascita di un puer che avrebbe riportato
l’Impero all’età dell’ora, diverse sono state le congetture fatte a riguardo, tra
cui quella cristiana secondo cui il puer sarebbe Gesù Cristo, tuttavia nel 40 a.C.
, anno in cui l’egloga è datata, si nutrivano molte speranze dall’unione politica
tra Ottaviano e Marco Antonio, che ne aveva sposato la sorella, ma non nacque
un erede maschio.
b. Georgiche: poema didascalico sulla vita agreste, dove ognuno dei libri ne
tratta un aspetto: coltivazione dei campi, arboricoltura, allevamento del
bestiame e apicoltura. La natura è descritta in funzione dell’uomo. Virgilio è
ancora legato all’ambiente agreste e l’epoca è ancora dilaniata dalla guerra
civile; il poema didascalico si propone in primis come messaggio di speranza e
fiducia nell’uomo e nelle sue capacità. Di qui l’esaltazione dell’impegno, della
fatica e del lavoro umano come mezzo per ricondurre in terra l’età dell’oro. La
terra generosa ricompensa il lavoro umano. Le Georgiche nascono in un clima
di preoccupazione per la decadenza del mondo contadino italico di fronte
all’avanzata del latifondo. Virgilio sente che non bisogna fuggire dalla realtà
alla ricerca di una vagheggiata età dell’oro o un’Arcadia felix, ma bisogna
impegnarsi nella costruzione e nella ricostruzione di un mondo meno idillico e
più concreto. L’opera mira a descrivere l’azione positiva che l’uomo può e deve
esercitare nei confronti della natura, non sempre benefica. Abbiamo una nuova
concezione virgiliana del lavoro: il faticoso lavoro umano viene concepito non
più solo come una punizione inflitta dagli dèi per i peccati umani, ma come un
dono di Giove per non far infiacchire gli uomini e per non farli perdere nell’ozio.
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contaminazione dei poemi omerici sia una continuazione: le imprese di Enea
seguono all’Iliade e si riallacciano all’Odissea. Inoltre, molte vicende narrate
dell’Eneide si possono accostare a quelle dei poemi omerici (la guerra nel Lazio
ricorda la guerra di Troia), altre invece vengono rovesciate: Troiani nell’Eneide,
seppur appaiano in difficoltà all’inizio, riescono a vincere gli avversari con Enea
che uccide Turno come Achille uccide Ettore e, invece di distruggere la città,
ne fondano una nuova. L’intento di Virgilio era quello di lodare Augusto:
nell’Eneide si fa passare Enea come progenitore della gens Iulia, di
conseguenza Cesare e Ottaviano discendono dal fondatore della città.
Enea è l’eroe del fato, la cui missione renderà possibile la fondazione di Roma
e la sua salvazione da parte di Augusto.
La guerra per Virgilio è una triste necessità, Enea la affronta a malincuore.
Emerge l’attenzione al mondo dei vinti, che soffrono a causa di una superiore
giustizia, avvertita spesso come intollerabile. In Virgilio è assai presente questa
sensibilità per il soffrire dell’uomo. In particolare, emerge la figura di Didone,
regine di Cartagine, che cerca di mettere da parte i suoi doveri nei confronti
della sua città e del suo popolo per amore di Enea, che decide di abbandonarla
mettendo in primo piano la sua missione. Nella vicenda si può vedere il
contrasto tra dovere e piacere.
Il testo offre una molteplicità di punti di vista: il lettore apprezza sia la
necessità fatale della vittoria sia la ragione degli sconfitti, guardando il mondo
da una prospettiva superiore (narratore onnisciente) e così partecipando alle
sofferenze individuali. Si parla di epica del sentimento.
Si potrebbero distinguere i diversi livelli nel rapporto di trasformazione.
L‟Eneide è innanzitutto una particolare contaminazione dei due poemi omerici.
In secondo luogo, vi è anche una continuazione di Omero. Infatti le imprese di
Enea fanno seguito all‟Iliade – il libro II di Virgilio racconta l‟ultima notte di
Troia che nell‟Iliade veniva solo profeticamente intravista – si riallacciano
all‟Odissea - nel III libro Enea segue in parte la traccia delle avventure di
Odisseo, affrontando pericolo che l‟eroe greco ha già attraversato. Virgilio
riprende l‟esperienza dell‟epos ciclico: la catena di narrazioni epiche che
“integravano” la poesia di Omero in una sorta di continuum.
Ovidio
Egli è il primo poeta davvero “moderno” della letteratura latina. Affermava di
essere soddisfatto di vivere nel presente, e non nel passato celebrato dai poeti
precedenti. La sua era una letteratura piacevole, adatta a lettori meno selezionati
rispetto al pubblico della poesia tradizionale, e quindi Ovidio si rivolgeva ad un
pubblico più largo, desideroso soprattutto di intrattenimento.
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a. Amores: Ovidio si sentì erede dei primi grandi poeti elegiaci, Cornelio Gallo,
Tibullo e Properzio. Con loro ebbe in comune le forme poetiche e la tematica
amorosa (incontri, gelosie, abbandoni, sofferenze e il ricorso agli esempi
mitologici), ma non l'intensità sentimentale. Se per Catullo, prima ancora
che per Tibullo e Properzio, la donna amata costituisce il centro di tutta la
vita affettiva oltre che dell'ispirazione poetica, per Ovidio l'amore è gioco
galante, contemplato con distacco sorridente quando non con ironia, e
talvolta anche con autoironia, come nell'epigramma introduttivo. Alcuni
motivi tipici sono rovesciati dal poeta con gusto gioioso del paradosso: non
implora l'amata di essergli fedele, ma di fingere di esserlo; non odia il
marito della donna, ma anzi lo invita a proteggerla meglio, perché "ciò che è
permesso non piace, ciò che è proibito accende una passione ardente". La
Corinna cui sono dedicati gli Amores non è una donna reale, ma piuttosto
la sintesi di più immagini femminili, tutte ugualmente vagheggiate da un
poeta che confessava di sentire attrazione per tutte le donne pur che
fossero belle. Corinna è un personaggio letterario, un elemento unificatore
delle varie elegie.
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così l'aspetto didascalico presente nella poesia elegiaca, scrivendo questo
poemetto, L'arte di amare, perché, come è annunciato nei primi due versi chi lo
legge possa amare da esperto. I primi due libri sono indirizzati agli uomini. Il primo
libro è dedicato alla conquista della donna, a cominciare dai luoghi
dell'incontro, i teatri, il circo, le passeggiate, i Portici di Pompeo, dove le
donne vanno per vedere ed essere vedute; come ottenerne i favori,
sostenendo che si possono conquistare tutte le donne: basta saper tendere
bene i lacci.Il secondo libro insegna come si può, una volta conquistata una
donna, conservarne l'amore: sono necessari intelligenza, amabilità,
assecondarne i desideri; è inutile scrivere versi, perché "la poesia si loda,
ma si preferiscono i grandi doni: purché sia ricco, piace anche un barbaro";
nascondere i propri tradimenti e fingere di non conoscere quelli dell'amata.
Il terzo libro è rivolto alle donne, perché anch'esse imparino a conquistare e
conservare l'amore di un uomo: curare la propria persona (acconciatura,
trucco, vestiti), nascondere i difetti, amare la poesia, il canto, la danza e i
poeti che non corrono dietro al guadagno. Poiché tutte le donne sono
conquistabili, l'austera severità della matrona romana, fulcro della famiglia,
sulla cui sacralità Augusto aveva fondato il recupero dei valori della
tradizione, è, per esplicita ammissione del poeta, lontanissima dalla sua
fantasia. Il libro fece scandalo, ma, pur nella sua indiscutibile
spregiudicatezza, è una squisita opera intrisa di umorismo, redatta da un
libertino di raffinata sensibilità. L'analisi attenta della psicologia femminile,
le similitudini, le azzeccate digressioni e gli esempi illustrativi dei precetti
fanno dei libri di Ovidio una deliziosa opera d'arte.
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alla fine, tende a smarrire il confine tra realtà e finzione. Qui Ovidio dà voce
ai miti e alle storie più disparate, dalle remote origini del mondo fino alla
Roma di Augusto. Vicende amorose si alternano a scene cosmiche,
catastrofi, passioni, esempi di amore coniugale e storie di amori infelici. Un
effetto di vertigine trasporta il lettore in un mondo in cui Ovidio, comunque,
non fa perdere di vista le piccole cose quotidiane, che raffigura con grande
realismo e con simpatia, senza mai dimenticare che il protagonista assoluto
è l’uomo, con le sue passioni, nobiltà e grandezze. Messaggio delle
Metamorfosi: tutto muta (mondo, uomini, ogni cosa), perennemente, e si
trasforma in altro. Ed ecco che subentrano le apparenze, le quali ci
circondano e che sono simbolo di un destino incerto. È il relativismo
ovidiano. La metamorfosi sfuma i confini tra realtà e apparenza, tra
concretezza delle cose e mutevolezza di ombre e fantasmi. Prende così vita
un mondo incerto, sfuggente, espressione di una profonda crisi spirituale.
e. Tristia: opera scritta durante il triste esilio a Tomi, sul mar Nero. Raccolta
di cinque libri di elegie dedicate all’amara esperienza dell’esilio. Composte
in tono spesso lamentoso e afflitto, nella speranza di ottenere il ritorno a
Roma. Il libro II è un’unica, lunghissima elegia indirizzata ad Augusto per
chiedergli perdono.
Tito Livio
a. Ab urbe condita: Livio ritornava alla struttura annalistica che aveva
caratterizzato fin dall’inizio la storiografia romana, rifiutando implicitamente
l’impianto monografico delle prime opere di Sallustio. La narrazione liviana
inizia dalle origini mitiche di Roma, la fuga di Enea da Troia, e arrivava alla
morte di Druso, figliastro di Augusto, avvenuta nel 9 a. C., o forse alla
disfatta di Varo nel 9 d. C. Come buona parte dei precedenti storici latini, a
cominciare da Catone, Livio dilatava l‟ampiezza della propria narrazione
man mano che ci si avvicinava all‟epoca contemporanea. Le fonti utilizzate
furono numerose; per la prima decade, c‟erano a disposizione
esclusivamente gli annalisti. Nelle decadi successive, agli annalisti romani
venivano ad affiancarsi il grande storico greco Polibio, dal quale Livio attinse
soprattutto la visione unitaria del Mediterraneo e dei legami fra Roma e i
regni ellenistici.; sporadica l‟utilizzo delle Origines di Catone. Livio non
sembra procedere ad un attento vaglio critico delle proprie fonti: in certi
casi, la facilità di accesso e di reperibilità sembra essere stato il criterio di
scelta determinante; Livio fa uso estremamente scarso della
documentazione contenuta in manoscritti e antiche iscrizioni, come pure dei
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risultati delle ricerche scrupolose degli antiquari della precedente
generazione, come Varrone. Di conseguenza si è visto in lui soprattutto un
exornator rerum, principalmente preoccupato di amplificare e adornare la
traccia che trovava nella propria fonte. Su questa strada si è voluto
escludere Livio dallo sviluppo della maggiore storiografia latina da Sallustio
a Tacito, cioè dalla grande storiografia senatoria: quindi non lo storico
senatore, che la politica mette in grado di formarsi un giudizio personale e
approfondito, e che ha accesso a documentazione come gli Acta Senatus;
ma lo storico letterato che lavora soprattutto di seconda mano sulla
narrazione di storici precedenti. Ma ciò non significa che Livio non sia uno
storico “onesto”, e nemmeno che scriva in una gioiosa esaltazione del
regime augusteo, non incrinata da alcun dubbio.
Seneca
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a. Dialoghi e filosofia stoica: Consolatio ad Marciam indirizzata alla figlia
dello storico Cremuzio Sordo per consolarla della perdita del figlio. Il genere
della consolazione, già coltivato nella tradizione filosofica greca, si
costituisce attorno a un repertorio di temi morali (la fugacità del tempo, la
precarietà della vita, la morte come destino ineluttabile…) che saranno
parte della riflessione filosofica di Seneca. Le singole opere dei Dialoghi
costituiscono trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari
dell‟etica stoica, il quadro generale in cui l‟intera produzione filosofica
senecana si iscrive (uno stoicismo, comunque, che ha stemperato l’antico
rigore dottrinale). Il De vita beata affronta il problema della felicità e del
ruolo che nel perseguimento di essa possono svolgere gli agi e le ricchezze.
In realtà, dietro il problema generale, Seneca sembra voler fronteggiare le
accuse di incoerenza tra i principi professati e la concreta condotta di vita
che lo aveva portato ad accumulare un patrimonio sterminato. Saggezza e
ricchezza non sono necessariamente antitetiche (nemo sapientiam
paupertate damnavit); Seneca resta generalmente estraneo al fascino del
modello cinico, avvertito come pericolosamente asociale: che aspira alla
sapientia dovrà saper “sopportare” gli agi e il benessere che le circostanze
delle vita gli hanno procurato, senza lasciare invischiarsene. La “trilogia”
dedicata all‟amico Sereno, che abbandona le sue convinzioni epicuree per
accostarsi all’etica stoica, è composta da: De constantia sapientis, De otio,
De tranquillitate animi. Il primo esalta le qualità del saggio stoico, forte della
sua interiore fermezza. Il terzo affronta il tema della partecipazione del
saggio alla vita politica: Seneca cerca una mediazione fra i due estremi
dell’otium contemplativo e dell’impegno proprio del civis romano. La scelta
di una vita appartata è invece chiara nel De otio: una scelta forzata, resa
necessaria dalla situazione politica difficile. Nel De providentia affronta il
problema della contraddizione fra il progetto provvidenziale che secondo la
dottrina stoica presiede alle vicende umane (in polemica con la tesi
epicurea dell’indifferenza divina) e la sconcertante constatazione di una
sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli onesti. La risposta
di Seneca è che l’avversità che colpiscono chi non li merita non
contraddicono tale disegno provvidenziale, ma attestano la volontà divina di
mettere alla prova gli onesti.
22
filantropia e di liberalità, è nell’intento di instaurare rapporti sociali più
umani.
23
cristiana: in realtà l’etica senecana resta profondamente aristocratica, e il
sapiens stoico che esprime la sua simpatia per gli schiavi maltrattati
manifesta apertamente anche il suo irrevocabile disprezzo per le masse
popolari abbruttite dagli spettacoli del circo. La conquista della libertà
interiore (resasi necessaria la rinuncia alle rivendicazioni sul terreno
politico) è l’estremo obbiettivo che il saggio stoico si pone.
24
interventi di contaminazione, di ristrutturazione, di razionalizzazione
dell’impianto drammatico. Il rapporto con gli originale è mediato comunque
dal filtro del gusto e della tradizione latina; il linguaggio poetico ha la sua
base costitutiva nella poesia augustea – Ovidio – . Le tracce della tragedia
latina arcaica si avvertono nel gusto del pathos esasperato, nella tendenza
al cumulo espressivo, ecc. Spesso l’esasperazione della tensione
drammatica è ottenuta mediante l’introduzione di lunghe digressioni
(ekphràseis), esorbitanti rispetto alla consuetudine epica e soprattutto
tragica.
25
filosofia senecana, tesa fra la ricerca della libertà dell’io e la liberazione
dell’umanità.
Lucano
a. Il Bellum civile: poema noto anche con il titolo di “Pharsalia” (i fatti di
Farsalo => località dove si combatté lo scontro decisivo tra Cesare e
Pompeo). I fatti narrati iniziano con il passaggio del Rubicone da parte di
Cesare e si interrompono con l’arrivo di Cesare in Egitto. L’opera è
interrotta, a causa della morte dell’autore (che ricevette l’ordine di
suicidarsi come lo zio Seneca poiché accusato di essere coinvolto nella
congiura di Pisone). Lo stile epico della Pharsalia si
distacca prepotentemente dal modello virgiliano dell’Eneide, che aveva
celebrato, attraverso la vicenda mitica dell’arrivo di Enea nel Lazio, il
passato glorioso della civiltà romana e dato una giustificazione ideale al
principato di Ottaviano Augusto. L’opera si concentra su un passato recente
e, soprattutto, politicamente ancora vivo e problematico, dato che sceglie
come proprio tema (come si vede anche nella caratterizzazione dei
personaggi principali) la fine della libertà repubblicana di Roma. Le critiche
a Lucano presuppongono un confronto più o meno esplicito con l’Eneide di
Virgilio: a ragione si è potuto parlare di una sorta di “anti-Eneide”, e del suo
autore come un “anti-Virgilio”. Nelle mani di Lucano il poema epico
stravolge la caratteristiche che gli erano state proprie nella tradizione
letteraria romana fin dai tempi di Nevio e di Ennio: da monumento eretto a
testimonianza delle glorie dello stato e dei suoi eserciti, si trasforma nella
indignata denuncia della guerra fratricida, del sovvertimento di tutti i valori
morali, dell’avvento del regno dell’ingiustizia. C’è un tono di risentita
indignatio nei confronti del modello: è come se Virgilio, nell’Eneide, avesse
perpetrato un inganno, coprendo con un velo di mistificazioni la fine delle
libertà romana e la trasformazione dell’antica res publica in tirannide.
Lucano sembra prefiggersi il compito di smascherare l’inganno, di scrivere
un poema che non giustifichi il potere del principe ricorrendo ad antiche
favole religiose, ma mostri, invece, come il regime sia nata dalle ceneri
della libera res publica. La via che Lucano sceglie per sconfessare Virgilio è
in primo luogo il mutamento dell’oggetto: non rielaborazione di racconti
mitici, ma un scelta programmatica i fedeltà al “vero” storico. Il poema si
apre con un elogio a Nerone, che però suona come una nota stridente: nel
progetto stesso del poema era insita la contraddizione fra la visione
pessimistica dell’ultimo secolo di storia romana, che Lucano andava
maturando, e la aspettative suscitate dal nuovo principe. Nel seguito del
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poema il pessimismo di Lucano si fa più radicale, e approda a una
concezione coerentemente priva di luci: un vero e proprio “anti-mito” di
Roma, il mito del suo tracollo, della inarrestabile decadenza, che si
contrappone a quello virgiliano dell’ascesa della città da umili origini. Come
l’Eneide, la Pharsalia si articola intorno a una serie di profezie che rivelano
non le future glorie di Roma, ma la rovina che l’attende. La più importante è
costituita senza dubbio dalla nekyomantèia (“negromanzia”) del libro VI.
Introducendo il mondo dell’oltretomba, Lucano mostra l’evidente volontà di
creare un pezzo che posa fare da pendant alla catabasi (“discesa agli
Inferi”) di Enea. Lucano rovescia il modello virgiliano fin nei minimi
particolari. La scelta di Pompeo a destinatario della rivelazione si spiega col
fatto che Luciano ha inteso collegare la stirpe di Pompeo al mito della rovina
di Roma, come Virgilio aveva collegato la gens Iulia a quello della sua
ascesa gloriosa. Per di più sesto Pompeo, figlio degenere ed empio,
rappresenta per molti aspetti un rovesciamento del pio Enea. l’azione del
poema ruota attorno soprattutto a Cesare e Pompeo e Catone. Cesare
domina a lungo la scena con la sua malefica grandezza: egli assurge a
incarnazione del furor che un’entità ostile, la Fortuna, scatena contro
l’antica potenza di Roma. Il furor, l’ira, l’impatientia sono le passioni che
agitano il suo personaggio; sono anche i tratti tipici della rappresentazione
del tiranno. Alla frenetica energia di cesare si contrappone una relativa
passività da parte di Pompeo: un personaggio in declino, affetto da una
sorta di senilità politica e militare. L’intento di Lucano è quello di farne una
sorta di Enea cui il destino si mostra avverso: così egli diviene una figura
“tragica”, l’unica che, all’interno dell’opera, subisca una evoluzione
psicologica. Alla progressiva perdita di autorevolezza in campo politico fa
riscontro, in Pompeo, un ripiegamento nella sfera del privato; va incontro ad
una sorta di “purificazione”: diviene consapevole della malvagità dei fati,
comprende che la morte in nome di una causa giusta costituisce l‟unica via
di riscatto morale. Questa consapevolezza costituisce invece per Catone un
solido possesso fino dalla sua prima apparizione nel poema. Lo sfondo
filosofico della Pharsalia è indubbiamente di tipo stoico: ma nel personaggio
di Catone si consuma la crisi dello stoicismo di stampo tradizionale, che
garantiva il dominio della ragione nel cosmo e, quindi, la provvidenza divina
nella storia. Di fronte alla consapevolezza della malvagità di un fato che
cerca unicamente la distruzione di Roma, diviene impossibile, per Catone,
l’adesione volontaria alla volontà del destino (o degli dei) che lo stoicismo
pretendeva dal saggio. Matura così la convinzione che il criterio della
giustizia è ormai da ricercarsi altrove che nel volere del cielo. Catone si
impegna nella guerra civile, con piena consapevolezza della sconfitta alla
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quale va incontro, e della conseguente necessità di darsi la morte, l’unico
modo che gli resta per continuare ad affermare il diritto e la libertà.
Epica imperiale
Valerio Flacco
a. Gli Argonautica (Argonautiche) , dedicati a Vespasiano, sono l’unica sua
opera a noi giunta. Si tratta di un poema epico che costituisce una
“riscrittura” e ampliamento del poema “Argonautiche” di Apollonio Rodio
(una delle opere più celebri della letteratura greco-ellenistica). Nei punti in
cui Valerio segue da vicino il testo greco la sua rielaborazione appare
guidata dalla ricerca dell’effetto: accentuazione del pathos e
drammatizzazione del modello. Il fondamentale influsso di Virgilio spinge
Valerio ad una poetica “reazionaria”: il tema è mitologico, l’apparato divino
onnipresente, l’impostazione morale del racconto senza dubbio edificante.
Mentre Apollonio aveva fatto di Giasone un eroe problematico e
chiaroscurale – quasi un antieroe – Valerio riporta il suo protagonista ad una
scala di grandezza epica. La narrazione di Valerio Flacco esaspera la
propensione virgiliana allo stile soggettivo, a rendere cioè situazioni e
avvenimenti attraverso il punto di vista e le sensazioni dei vari personaggi.
Ma la tendenza, ovviamente, comporta una continua psicologizzazione del
racconto, a scapito della narrazione degli eventi: ne risulta un testo assai
difficile e dotto; infatti, a volte il lettore non trova tutte le informazioni
necessarie, ma per comprendere deve essere già a conoscenza degli
avvenimenti, e del testo di riferimento di Apollonio. Le vicende politiche nel
regno di Colchide sono più sviluppate e ripresentano il tema della guerra
civile tra fratelli, tipico dell’immaginazione e della cultura flavia. Questa
situazione permette di manifestare una curiosità più aggiornata sulle
popolazioni barbariche. E‟ tipico dell‟età flavia il crescere di interessi
etnografici per i popolo di confine. L’autore inserisce un paragone fra
l’impresa degli argonauti e la spedizione in Britannia compiuta da
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Vespasiano. L’autore vuole riavvicinarsi al modello virgiliano, dopo che
Lucano se ne era invece allontanato. Il tema è mitologico e l’intervento degli
dèi nella storia umana è ben presente.
Silio Italico
a. I Punica (Puniche): I Punica sono il più lungo epos storico latino a noi
giunto. I 17 libri raccontano la II guerra punica dalla spedizione di Annibale
in Spagna al trionfo di Scipione dopo Zama. L’argomento stesso del poema
subito pone il problema delle fonti storiografiche. La linea “annalistica”
testimonia la volontà del poeta di collegarsi alla più imponente trattazione
monografica in latino dagli eventi che vanno dal 218 al 201 a. C.: la terza
deca di Livio. Nello sviluppo della narrazione l’uso dell’opera dello storico
augusteo è sempre piuttosto ampia; in alcuni passi ne segue la traccia con
notevole aderenza. Il parallelo più ovvio dei Punica sono gli Annales di
Ennio, che forniva un esempio canonico per la composizione di un “epica
“anno per anno”. Un altro precedente arcaico, più distante e certamente
meno diretto, era Nevio l’autore del Bellum Poenicum. L’impulso
fondamentale dell’opera venne dell’Eneide. La guerra di Annibale è
presentata come una diretta continuazione di Virgilio: è originata dalla
maledizione di Didone ed i suoi discendenti. Silio Italico restaura, all’interno
dell’epica storica, la funzione strutturale dell’apparato mitico. Per una
meccanica estensione, Giunone fino alla vittoria di Canne asseconda le
iniziative di Annibale. Nei Punica la volontà di Giove è quella di imporre ai
Romani una durissima prova: fornendo prove di valore deve dimostrare di
essere degna di aspirare al dominio su altri popoli. L’intento di elaborare
una “teoria” non allontana il fastidio provocato dall’inverosimiglianza delle
intrusioni divine nel corso dell’azione storica. I lettori sono chiamati ad
accettare non solo le convenzioni dell’epos virgiliano, ma addirittura di
quello omerico. Manca il protagonista assoluto: più volte è stato sottolineato
che Annibale, l’unico personaggio presente con una certa continuità
dell’inizio alla fine, merita a buon diritto questo titolo. La caratterizzazione
dell’eroe negativo tradisce ora l’influsso del Turno virgiliano, ora, negli
spunti più demoniaci, quello del Cesare di Lucano. Contro si erge un nutrito
gruppo di eroi romani, degni rappresentanti di valori ideologici, quali fides,
pietas, constantia, fortitudo. Tra questi eroi spiccano Scipione e Fabio
Massimo. L’opera nel suo complesso si innesta, senza aggiungere molto nel
ricco filone della letteratura patriottica romana. Le disgressioni mitologiche
ed eziologiche e la ricerca di esattezza antiquaria tutta rivolta al mondo
dell’Italia arcaica denunciano attenzione e sensibilità al fascino della poikilìa
(varietà) alessandrina
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Stazio
a. Tebaide: narra la saga tebana. L’argomento è la guerra fratricida tra i figli
di Edipo per il trono di Tebe. I due fratelli si uccidono a vicenda. Nell’epilogo
Stazio dichiara di avere l’Eneide come modello, che la Tebaide dovrà
seguire a distanza. Il piano dell’opera è in 12 libri, divisi in due esadi; la
seconda è tutta una storia di guerra, come la “metà illiadica” dell’Eneide; la
prima più variata, ha funzione di lunga preparazione, e insieme contiene
tratti “odissiaci” (il viaggio), come la prima metà dell’Eneide. Il difetto più
tipico della Tebaide è piuttosto l’ossessiva ricorsività di motivi e atmosfere.
Tutta la storia è dominata da una ferrea necessità: la casa di Edipo è
schiacciata non tanto da una maledizione di vendette famigliari quanto da
una ferrea Necessità universale. La scelta ideologica è chiaramente
virgiliana: salvare l’apparato divino dell’epica, ma rendendolo più
“moderno” con l’approfondire la funzione del Fato. Ma un tema così
negativo porta Stazio molto vicino alla posizione di Lucano. Il risultato è un
compromesso che avrà grande influsso sulla storia dell’epica occidentale. Le
divinità epiche tradizionali appaiono come svuotate o appiattite: le forza
divine più vitali sono invece personificazioni di idee astratte, con tonalità
persino allegoriche. Schiacciate dalle leggi del cosmo e della
predestinazione, le figure umane sono a loro volta appiattite. Stazio
concede molto poco alle sfumature psicologiche. L’assenza di riferimenti
diretti all’attualità non costringe Stazio a eludere gli incubi propri della sua
epoca. Una guerra civile vista come scontro fra tiranni specularmene uguali;
la degenerazione di una famiglia regnante in dispotismo fanatico; il
problema etico di “vivere sotto i tiranni” rispettando comunque una regola
morale.
c. Sylvae: opera non epica con caratteri legati al gusto contemporaneo. Stazio
è un letterato professionale, che vive della sua opera. Il titolo dell’opera
vuole indicare forse una raccolta di “schizzi”, ma queste poesie sono un
preziosissimo documento sulla società dell’epoca. I “committenti” delle
varie poesie si rispecchiano in molte di esse, rivelandoci mentalità e
atteggiamenti di ceto colto e benestante. I valori che guidano questo
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sistema sociale: il ripiegamento sulla vita privata e l’ideologia del “pubblico
servizio” nelle strutture dell’impero.
La Satira
Persio
a. Satire: Sono 6 componimenti satirici in esametri dattilici, il metro ormai
tradizionale di questo genere letterario. La I illustra i vezzi deplorevoli della
poesia contemporanea; la II attacca la religiosità formale e ipocrita di chi
non conosce onestà di sentimenti; la III è indirizzata ad un “giovin signore”
che conduce una vita ignava e dissipata; la IV illustra la necessità di
praticare la norma del nosce te ipsum, ecc. Il suo spirito polemico, e
l’entusiastica aspirazione alla verità, trovavano nella satira lo strumento più
idoneo ad esprimere il sarcasmo i l’invettiva, nonché l’esortazione morale.
La sua poesia è innanzi tutto ispirata da un “esigenza etica, dalla necessità
di mascherare e combattere la corruzione e il vizio, e si contrappone perciò
polemicamente alle mode letterarie del tempo. Agli occhi di Persio la poesia
contemporanea è viziata da una degenerazione del gusto che è anche
segno di indegnità morale. Nella descrizione delle molteplici forme in cui il
vizio e la corruzione si manifestano, Persio ricorre con frequenza a un
campo lessicale, quello del corpo e del sesso, sfruttandone il ricco
patrimonio metaforico. L’immagine ossessiva del ventre diventa il centro
attorno a cui ruota l’esistenza dell’uomo, e l’emblema stesso della sua
abiezione (l’assimilazione tra vizio morale e malattia fisica era un
presupposto comune della filosofia stoica e della sua terapia delle passioni).
Nella denuncia del vizio, e nella aspra descrizione delle sue manifestazioni,
Persio si riallaccia alla tradizione della satira e della diatriba (ciò spiega la
sua tendenza a delineare tipi fissi), ma ne accentua i toni forzandoli verso
un barocchismo macabro. La fenomenologia del vizio diventa così l’aspetto
prevalente, relegando in uno spazio marginale la fase “positiva” del
processo di liberazione morale: cioè sono poche le indicazioni sul recte
vivere. Lo stoicismo di Persio non assume apertamente i carattere
dell’impegno civile; inclina piuttosto verso un raccoglimento interiore,
condizione per praticare il culto della virtù. Allo storico della letteratura il
libro delle Satire offre l’occasione di una verifica importante; bisogna prima
riconoscere, sotto la specie dei forti echi intertestuali che lo animano, la
presenza reale di modelli e autori esemplari, voci diverse e lontane della
tradizione letteraria romana chiamate a dialogare e contrastare fra loro.
Prima presenza, costante e unanime, è quella del sermo oraziano, una
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forma discorsiva che aveva saputo adattarsi sia all’intenzione satirica che
alla pensosità epistolare. Ma risultano coinvolte questioni di portata più
generale. Anche per suggestione lucreziana, erano stati importanti nella
letteratura augustea ambizioni genericamente educative, istanze
pragmatiche e allocutorie: cioè, pur al di fuori delle forme proprie del
genere didascalico, il poeta cercava il contatto intenso col destinatario, lo
provocava lo coinvolgeva. Persio raccoglie questo “modello lucreziano” e lo
sviluppa nel suo rovescio, di Lucrezio anzi ne fa praticamente un
antimodello. Era stato Orazio che aveva mediato alla classicità augustea
istanze e atteggiamenti lucreziani. Un suo tratto caratterizzante è nel
rapporto paritetico fra il poeta e il destinatario: Orazio non si atteggia a
maestro che insegna, ma percorre, insieme all‟amico cui si rivolge un
cammino comune Questo il modello depositato dalla tradizione. Il liber
poetico di Persio vale come riflessione su di esso e insieme come apostasia.
Trasformando radicalmente quella che era la figura cordiale dell’autore-
filosofo proteso amichevolmente verso il lettore, le Satire descrivono l’iter
predicatorio di un maestro perennemente inascoltato. Il discorso didascalico
in Persio si nega statutariamente la possibilità di una risposta positiva del
destinatario. Il sermo oraziano, pacato nella sua bonomia, viene sostituito
da un atteggiamento aspro e aggressivo., necessario per superare
l’indifferenza dei miseri in preda la vizio. Indebolito il contatto con l’altro
polo della comunicazione, si guadagna spazio per una letteratura
dell’interiorità, per il monologo confessionale: quella dell’esame di
coscienza è la cifra culturale che sigla tutto il libro. A questa intenzione di
aggredire salutarmene il lettore, di scuoterlo, va ricondotta principalmente
anche la peculiarità dello stile di Persio, la sua ben nota oscurità. Un
linguaggio scabro sarà la maniera migliore per esprimere sentimenti
autentici, la realtà naturale delle cose. A tale scopo Persio (laddove Orazio
aveva raccomandato la scelta accurata della callida iunctura) ricorre
abitualmente alla tecnica della iunctura acris, del nesso urtante per
asprezza, sia dal punto di vista fonico che soprattutto semantico; l‟uso
dell’aprosdòketon. La lingua, quindi, è quella della quotidianità, ma lo stile si
incarica di deformarla ad esprimere una verità non banale, a istituire
relazioni insospettate fra le cose.
Giovenale
La sua attenzione si concentra esclusivamente sulla parte negativa della condotta
umana (vitiorum copia) che ha raggiunto i massimi livelli nei tempi moderni.
La satira è il genere più adatto a esprimere la furia del suo disgusto per la
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corruzione morale dilagante. Giovenale non si propone di educare e correggere
ma solo a denunciare e i vizi. Al contrario di Orazio e di Persio, che non
rinunciavano a proporre una terapia al vizio, Giovenale non crede che la sua
poesia possa influire sul comportamento degli uomini: la sua satira si limiterà a
denunciare, senza coltivare illusioni di riscatto. Il feroce moralismo è alla base
dell’indignatio in cui Giovenale esprime il suo sdegno. Ma il poeta non si presenta
nella sua veste autobiografica, ma come una sorta di anonimo difensore della
sensibilità morale offesa. Egli interpreta la realtà contemporanea solo alla luce del
vizio, l’unico punto di vista aderente alla realtà, e tuttavia apporta sempre il filtro
interpretativo della sua ira. Giovenale segna con ciò uno scarto sensibile rispetto
alla tradizione satirica latina: rifiuta di uniformarsi alla tradizione satirica
precedente, rigettando la morale diatribica, consolatoria, che insegna a restare
indifferenti di fronte al mondo delle cose concrete, a guardarle con ironia e
distacco, con lo sdegno dell’uomo offeso dal vedere il vizio e la colpa premiati e
con il rancore dell’emarginato, di chi si vede escluso dai benefici che la società
elargisce ai corrotti.
Petronio
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e vogliono continuamente soddisfarne il bisogno, denaro, tutti lo cercano,
pronti a procurarselo con ogni mezzo, avidi nel custodirlo, il denaro diventa
un valore di riferimento per gli uomini, che vengono in base ad esso
apprezzati o meno, e la morte, l’unico dato certo con cui devono
confrontarsi non solo i personaggi del romanzo, ma l’intera umanità. In tutto
il resto opera la mutevole fortuna, mentre la morte tocca tutti, prima o poi,
e il solo pensiero ossessiona, mette paura; altre volte la morte, invece, è
desiderata o è oggetto di una curiosità quasi morbosa.
Plinio il Vecchio
Fu autore di diverse opere, non pervenuteci, su svariati argomenti. Ci è giunta la
Naturalis historia. Si tratta di una vasta enciclopedia scientifica in 37 libri,
dedicata a Tito, figlio di Vespasiano (nella prefazione dell’opera troviamo la dedica
a Tito). Vuole essere una summa del sapere scientifico antico. La Naturalis
historia, che è l’unica opera pliniana giunta a noi, si presenta innanzitutto come
un monumentale ricettario del sapere scientifico antico, in cui l’autore, senza
porsi grandi questioni stilistiche, vuole in particolare organizzare e catalogare la
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propria sete di sapere, con un occhio di riguardo per l’applicazione pratica della
conoscenza. Spicca così l’attenzione di Plinio per una scienza che sia utile al
soddisfacimento dei bisogni dell’uomo, in particolare quelli di natura pratica o
connessi alle attività economico-produttive. Se la filosofia stoica ha postulato
l’esistenza di un dio razionale sotteso alla Natura, Plinio è più interessato a
indagare la “legge” generale che regola il mondo attorno all’uomo, affinché
quest’ultimo possa conoscerlo e governarlo. Quest’indole pratica porta Plinio a
rifiutare nella maggior parte dei casi le spiegazioni magiche e soprannaturali degli
eventi. L’organizzazione dello sterminato materiale della Naturalis historia segue
un criterio per materie e infine c’è una digressione sull’arte antica. Il principio
espositivo va dal più importante al meno importante: così, ad esempio, nella
sezione dedicata agli animali la suddivisione per classi comincia dall’uomo,
mentre in quella dei metalli il primo è l’oro, il secondo l’argento e il terzo il bronzo.
In accordo con la concezione della scienza a Roma, rilevante è la piega o la
declinazione pratica di ogni sapere e nozione. Grazie alla Naturalis historia, spesso
ridotta, compendiata e sintetizzata, Plinio il Vecchio rimase un’auctoritas per tutto
il Medioevo e almeno fino al Rinascimento.
Plinio il Giovane
a. Panegirico a Traiano: Nel Panegyricus, la gratiarum actio di fronte al
senato trapassa in un encomio dell’imperatore: Plinio enumera ed esalta le
virtù dell’optimus princeps Traiano, che ha reintrodotto la libertà di parola e
di pensiero; auspicando, dopo la fosca tirannide di Domiziano, un periodo di
rinnovata collaborazione fra l’imperatore e il senato, si sforza di delineare
un modello di comportamento per i principi futuri: fondato sulla concordia
fra imperatore e ceto aristocratico, e sulla intesa politica, e integrazione
sociale fra quest’ultimo e il ceto equestre. Non senza qualche ingenuità,
Plinio sembra rivendicare una funzione “pedagogica” nei confronti del
principe: traspare il tentativo di esercitare una blanda forma di controllo
sull’imperatore. Ma i reali rapporti fra Plinio e Traiano emergono
chiaramente dall’epistolario intercorso fra i due, conservato nel libro X della
Epistulae. Plinio si comporta come funzionario scrupoloso e leale, ma anche
alquanto indeciso, che informa Traiano di tutti i problemi che sorgono e da
lui si attende consigli e direttive. Dalle risposte di Traiano traspare talora un
lieve senso di fastidio per continui quesiti che gli sottopone. Famoso
l‟atteggiamento di assunto dall’imperatore a proposito della questione dei
Cristiani: in mancanza di una legislazione in materia, dà istruzione a Plinio di
non procedere se non in caso di denunzie non anonime.
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b. Epistule: è probabile che Plinio segua soprattutto un criterio di alternanza
di argomenti e motivi, in modo da evitare al lettore la monotonia. Le lettere
sono infatti solitamente dedicate ciascuna a un singolo tema, sempre
trattato con cura attenta dell’eleganza: questa è una delle differenze che
separa questo epistolario, concepito per la pubblicazione, da quello
ciceroniano, modello di riferimento, dove l’urgenza della comunicazione
spingeva spesso l’autore ad affastellare argomenti più vari. Le lettere di
Plinio sono in realtà una seria di brevi saggi di cronaca sulla vita mondana,
intellettuale e civile. Elogia personaggi diversi, soprattutto poeti; ma è raro
che per qualche personaggio non trovi una frase gentile che ne metta in
evidenza le caratteristiche positive. Plinio si rivela un frequentatore assiduo
delle sale dove si tenevano recitationes e declamationes, manifestazione
che egli stesso contribuiva ad organizzare. E‟ un entusiasta, che non lesina
parole di lode a quasi tutti i versificatori ei conferenzieri che ascolta. Plinio
non è preoccupato, come il suo maestro Quintiliano o il suo amico Tacito,
dalla crisi della cultura; la letteratura di cui si diletta è essenzialmente
frivola, destinata all’intrattenimento e a un consumo frivolo: si tratta, oltre a
brani di oratoria declamata, soprattutto di versiculi, di nugae poetiche
spesso insipide. Si capisce come l’estrema mondanità di Plinio e il suo
essere contemporaneamente un uomo ricchissimo, un importante
personaggio politico, e uno stimato letterato, lo ponessero in una posizione
privilegiata come osservatore della sua epoca. Nel suo epistolario
compaiono le massime figure del tempo, da Traiano a Tacito, a Svetonio. Un
quadro di insieme della letteratura nell’età dei Flavi e di Traiano, e il nome
di un gran numero di autori ci è conservato solo attraverso l’epistolario di
Plinio. I toni sempre smorzati e accomodanti, il signorile senso della misura
a scapito di una vigorosa caratterizzazione della propria personalità –
insomma, quanto rende Plinio un autore “minore” agli occhi dei lettori
moderni” contribuirono invece al successo e lo resero un modello già presso
gli antichi.
Quintiliano
Fu maestro di retorica. Di lui è andato perduto il trattato De causis corruptae
eloquentiae, in cui l’autore affermava che le cause della corruzione dell’eloquenza
vanno ricercate nella scarsa preparazione culturale di maestri e allievi.
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famiglia e dell’istruzione elementare presso il grammatico, poi
dell’istruzione secondaria presso il rhetor e poi si occupa di questioni
tecniche, tra cui i vari tipi di oratoria e le diverse parti del discorso. Poi offre
una panoramica critica sugli scrittori greci e latini da leggere e imitare e
tratteggia il tipo ideale dell’oratore. Questo testo contribuì in seguito alla
rinascita della pedagogia, quando venne ritrovato da Bracciolini nel
Monastero di San Gallo nel ‘400 e fu fatto circolare. Il “progetto politico”
delle Intitutiones oratoriae: formare una classe dirigente di buona
preparazione culturale e capaci di amministrare lo stato (ciò di cui l’impero
aveva necessità). Aspirazione dell’epoca era infatti formare un ceto di buoni
amministratori e funzionari responsabili, come anche restituire prestigio ai
grandi modelli culturali del passato (Cicerone in primo luogo) e adattarsi alle
circostanze (“servire temporibus”). Compito delle Institutiones oratorie:
“fare” un oratore, seguendolo fin dall’infanzia tappa dopo tappa. Dunque,
per quanto sia importante l’eloquenza, Quintiliano spiega che sono molto
importanti anche le altre discipline, come la musica, la matematica e la
ginnastica perfino. Questo per ottenere una formazione globale, completa,
dell’individuo (quella formazione che già Cicerone desiderava per il suo
orator). Occorreva creare l’uomo, prima che l’oratore. Si doveva alimentare
la virtus, la morale, che era importante tanto quanto il sapere e la
formazione culturale. Si rispolvera in questo senso la famosa frase “vir
bonus, dicendi peritus” che era stata precedentemente ripresa da Cicerone
per il suo orator. Tuttavia la figura di oratore che esce dall’opera di
Quintiliano è diversa da quella delineata da Cicerone. Come mai? Perché era
allineata alle esigente di un mutato contesto sociale e politico. Ora non c’è
spazio per l’oratore che si pone troppe domande sul senso delle cose e degli
avvenimenti, perché una tale sensibilità lo renderebbe scomodo al potere.
Quintiliano accetta il principato e lo vede come unica possibilità attuabile.
Non vede alternative possibili al principato. Il suo è realismo politico.
L’oratore che forma è ideologicamente non problematico, ben diverso
dall’uomo politico ciceroniano. L’oratore di Quntiliano ha buone maniere
culturali ma è privo di una visione veramente critica e proprio per questo
potrà essere più gradito al potere. L’educazione del fanciulli e del ragazzo è
molto importante per Quintiliano, ecco perché egli analizza la psicologia
infantile e adolescenziale. Inoltre, sottolinea l’importanza del
coinvolgimento della famiglia perché sa che da casa un allievo porta molto
a scuola. Poi spiega che il maestro deve evitare le percosse; anzi, deve
essere come un padre affettuoso per i suoi allievi, meritandosi la loro stima
e fiducia senza ricorrere alle punizioni corporali. Perciò il maestro va scelto
con cura! Quintiliano propone una rassegna con giudizi critici di autori latini
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e greci da imitare, suddivisi per generi. Egli è convinto che l’imitazione sia
fondamentale in ogni tipo di apprendimento. Bisogna però affidarsi a più
modelli e non ad uno soltanto. La crisi dell’eloquenza: per Quintiliano
dipende dallo scadimento della scuola. Egli non crede che il degrado sia
inarrestabile.
Tacito
a. L’autenticità del Dialogus è stata contestata fin dal XVI secolo, soprattutto
per ragioni di stile; e perplessità rimangono anche fra i moderni. Il periodare
del Dialogus ricorda molto da vicino il modello neociceroniano, cui si
ispirava l’insegnamento della scuola di Quintiliano. Ma è probabile che
l’insolita “classicità” dello stile sia da spiegarsi con l’appartenenza
dell’opera al genere retorico, per il quale Cicerone costitutiva ormai un
modello canonico. Il Dialogus de oratoribus si riallaccia alla tradizione dei
dialoghi ciceroniani su argomenti filosofici e retorici. Il dialogo si conclude
con un discorso di Materno, evidentemente portavoce di Tacito, il quale
sostiene che una grande oratoria era possibile solo con la libertà, o piuttosto
con l’anarchia, che regnava al tempo della repubblica, nel fervore dei
tumulti e dei conflitti civili; diviene anacronistica, e sostanzialmente non più
praticabile, in una società tranquilla e ordinata come quella conseguente
alla instaurazione dell’impero. L’opinione attribuita a Materno rappresenta
una costante del pensiero di Tacito: alla base di tutta la sua opera sta infatti
l’accettazione della indiscutibile necessità dell’Impero come unica forza in
grado di salvare lo stato dal caos delle guerre civili. Il principato restringe lo
spazio per l’oratore e l’uomo politico, ma al principato non esistono
alternative.
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era legata all’apprezzamento dei popoli “primitivi” e nascondeva l’implicito
ricordo della Roma arcaica (i germani di oggi come gli antichi romani di ieri),
un tema caro agli storici romani. Gli austeri costumi dei germani, il loro
profondo senso religioso, il desiderio di gloria militare, l’assenza di
raffinatezze nell’educazione dei figli e nel comportamento delle donne,
diventano un’occasione di rimprovero alla società imperiale romana, tanto
più complessa e matura di quella germanica sul piano istituzionale, quanto
però avviata, dal punto di vista morale, a un’inarrestabile decadenza. Però,
Tacito intuiva il pericolo che questi popoli rappresentavano per l’Impero
Romano, e molti a Roma la pensavano come lui. Tacito sottolinea alcuni
aspetti inaccettabili del mos germanico, come la rissosità, la pigrizia, il vizio
del gioco e del bere. Da una parte sembra che voglia lanciare un allarme
sulla pericolosità bellica di questi popoli, mentre dall’altra parte pare che
voglia ricordare che comunque si tratta di barbari incivili, che una buona
strategia militare avrebbe potuto domare. La superiorità di Roma
sottolineata da Tacito giustifica il diritto alla conquista come mezzo di
diffusione dell’urbanitas, ovvero della civiltà, diffusione avvertita come
dovere storico.
Biografia
Svetonio
Quello biografico era un genere letterario di tradizione greca che, a Roma, era
stato coltivato e collaudato soprattutto da Varrone e Cornelio Nepote: avevano
tracciato i profili di personaggi famosi sulla base dello stesso schema che
inspirerà il (a.) De viris illustribus svetoniano. Brevi informazioni su origini e luogo
di nascita, sull’insegnamento esercitato, sugli interessi principali e le opere
composte, sul carattere: questo grosso modo, è il modello su cui si non impostati i
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succinti ritratti di grammatici e retori delineati da Svetonio. Uno schema non
dissimile sembra essere alla base anche dell’altra opera biografica di Svetonio,
cioè la (b.)Vite dei Cesari. L’aspetto più rilevante nell’organizzazione del materiale
biografica è la rinuncia a una disposizione cronologica che accompagni lo sviluppo
della personalità analizzata: è la stesso autore, in un passo della Vita di Augusto,
a rendere conto di tale criterio espositivo che procede non per tempora sed per
species, secondo una serie di categorie, di rubriche, che trattano separatamente i
vari aspetti della personalità del principe. Gli studiosi hanno maturato la
convinzione che egli abbia “indebitamente” esteso ai Cesari il modello biografico
già sperimentato nel De viris illustribus: questo modello – secondo tale tesi – era
stato elaborato alessandrino, per illustrare le figure degli uomini di cultura, e
costituiva un tipo di biografia destinata alla cerchia degli eruditi e priva di
ambizioni artistiche, nella quale naturalmente la narrazione cronologica
(trattandosi di vite “private”) non aveva una funzione rilevante come in un opera
che volesse tratteggiare la personalità di uno statista o di un condottiero. Per
questo secondo tipo di biografia la cultura greca aveva elaborato un altro
modello, il tipo “plutarcheo” (perché Plutarco, più o meno negli stessi anni di
Svetonio, ne avrebbe dato l’esempio più insigne nelle Vite Parallele), adatto, in
virtù della disposizione cronologica degli eventi narrati, a far luce sullo sviluppo di
personalità di carattere eminentemente pubblico; il tipo di biografia cioè che
Svetonio avrebbe dovuto adottare per le Vite dei Cesari. Nella rinuncia alla
schema annalistico, che la cultura senatoria aveva ancorato al succedersi delle
magistrature repubblicane, si vede quindi la realistica presa di coscienza che
quelle magistrature, pur se formalmente ancora vigenti, sono ormai una parvenza
fittizia, e che solo la durata del regno di ogni singolo principe può scandire il
succedersi di un periodo all’altro. Insieme, prevale ormai la tendenza a ravvisare
tratti specificamente romani proprio laddove prima si supponeva più forte
l’influenza dell’eredità alessandrina: la tradizione degli elogia e delle lauadationes
funebres, che elencavano le imprese civili e militari, le benemerenze, sembra
rivelare la sua influenza sul modo in cui Svetonio seleziona e dispone il materiale.
Le Res Gestae di Augusto ci danno un esempio significativo della spinta che tale
tradizione eminentemente romana poteva esercitare sulla esposizione per species
nelle Vite. E nella tendenza, tanto deplorata come deteriore gusto del
pettegolezzo, a insistere sulla vita privata degli imperatori descrivendone eccessi
e intemperanze, sui particolari futili o scandalistici (che ha alimentato la fortuna
dell’opera, letta come manuale di perversioni regali), si inclina oggi a vedere la
manifestazione di una volontà obiettiva e demistificante, dell’intenzione di
mostrare un ritratto integrale del personaggio. Ne risulta un tipo di “storiografia
minore” (rispetto, ad esempio, a quella tacitiana, rispondente ai canoni della
cultura storiografica aristocratica), che attinge alle fonti più varie e che delinea
anche, in qualche modo, i tratti del suo destinatario, da identificare nell’ordine
equestre al quale lo stesso Svetonio appartiene e che costituisce il punto di vista
attraverso cui le singole vicende sono osservate e valutate. Senza assurgere al
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livello della grande storiografia, le Vite dei Cesari costituiscono tuttavia un
documento eccezionalmente ricco di notizie e informazioni per la ricostruzione
storica del primo periodo imperiale.
Ammiano Marcellino
a. Le Res gestae: sua grande opera storica. Dei 31 libri originari ne
rimangono gli ultimi 18, ovvero quelli dedicati agli eventi recenti (dei quali
Ammiano era stato testimone oculare). L’ordine seguito è prevalentemente
cronologico e annalistico, ma viene abbandonato negli ultimi libri. Anche se
era greco per lingua e cultura, sceglie di scrivere in un latino dotto: la sua
scelta dipende probabilmente dal pubblico a cui si rivolgeva, ovvero
l’aristocrazia dell’Urbe, dotta e tradizionalista. La visione aristocratica della
storia: le Res gestae sono una storia di grandi fatti politici e militari, che si
concentra su imperatori ed alti funzionari, mentre il popolo agisce come una
massa indistinta, oziosa e bestiale, che emerge improvvisamente per poi
sparire altrettanto velocemente. Tema saliente delle Res gestae è
l’inquietudine derivata dalla consapevolezza del declino dell’Urbe. Ammiano
ne soffre e vede nubi oscure avvicinarsi. La corruzione che caratterizza gli
abitanti costituisce un grave problema e lui è dolorosamente consapevole
del declino. Per Ammiano è molto importante narrare la veridicità dei fatti:
bisogna informarsi bene! Tiene un sacco al realismo, un realismo che
spesso ricade su direzioni “basse”, su aspetti bizzarri, immagini di male,
vuoto e morte. Il mondo e irrazionale, spesso aperto all’irruzione del
demoniaco. Atmosfera di sangue, vendette e feroci bestialità risucchiano
anche personaggi ed episodi positivi. Maschere feroci e caricature tragiche
sono ovunque. La realtà appare spettrale.
Letteratura Cristiana
San Girolamo
Il Papa gli affidò il compito di tradurre in latino la Bibbia. N<
a. Nel suo epistolario troviamo: un ritratto del mondo ecclesiale del tempo e i
segni degli improvvisi cambiamenti d’umore e del cattivo carattere
Girolamo visse come una contraddizione interiore l’amore per i classici e la
fede in Cristo. In una delle sue lettere racconta di una visione che dà voce al
suo senso di colpa e motiva la scelta di abbandonare la tanto amata
letteratura pagana. La sua è una scelta radicale ma alla fine confesserà di
non essere riuscito a mantenerne fede, incapace di abbandonare
completamente la lettura di Cicerone e Virgilio. Nella lettera racconta
questo: per la Fede aveva tagliato via tutto dalla sua vita ed era andato a
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militare a Gerusalemme, rinunciando a tutto per Cristo. Però non era
riuscito a staccarsi dalle sue amate letture pagane, come Cicerone. E se si
metteva a leggere i libri dei Profeti, invece, gli veniva la nausea per il loro
stile. Poi, a metà Quaresima, lo assalì una terribile febbre. Rischiava di
morire. Ad un tratto si ritrova davanti al tribunale del Giudice divino,
immerso da una potente luce. Gli viene chiesto chi sia e lui risponde “un
cristiano!”. Allora il Giudice, sul trono, esclama “bugiardo! Sei ciceroniano,
tu, non cristiano!”, e ordina che venga picchiato a vergate. Girolamo sente il
forte senso di colpa e implora pietà. Il tribunale decide che gli sarà data
un’ulteriore punizione se lui tornerà ancora sulle scritture pagane. Gerolamo
comincia a giurare che mai più leggera gli scrittori pagani, così viene
rimesso in libertà sulla Terra e si ritrova ad aprire gli occhi inzuppati di
lacrime. È sicuro che non sia stato un sogno: a lungo ha portato i lividi e le
ferite delle percosse sulle spalle. Da quel giorno dice di essersi messo a
leggere le Sacre Scritture con un ardore che mai aveva impiegato nelle
letture pagane.
Sant’Agostino
Scrisse moltissimo (93 opere) e coltivò sia i generi della letteratura pagana (però
rivisti in chiave cristiana) che i generi della letteratura cristiana. Inoltre, creò
nuovi generi, tra cui quello delle “confessioni”. Agostino è un autore dai mille
interessi, capace di un’analisi accurata e puntuale su qualsiasi aspetto indaghi; è
in grado si esaminare e mettere in discussione prima di tutto se stesso, per
trovare quella verità che viene da Dio. Il suo pensiero è punto di riferimento per la
teologia cristiana che per la filosofia e stimola tutt’ora la mente di molti
intellettuali e filosofi.
a. Le Confessiones: opera più famosa di Agostino, in 13 libri. Appartengono ad
un genere completamente nuovo: l’autobiografia spirituale. Le Confessiones
sono la storia di un’anima e una rivelazione dell’opera della grazia divina,
che attraverso vie segrete conduce alla meta ultima della salvezza.
Agostino è il protagonista di questo faticoso cammino alla ricerca di Dio e
non esita a descrivere gli aspetti più oscuri della propria personalità. Non ha
timore di mostrare la fragilità del proprio animo. La sua è una storia che
parla di lui e dei suoi peccati (come il furto delle pere in età giovanile o la
lotta contro le passioni della carne). Parlando dei suoi peccati vuole far
capire quanto sia misericordioso Dio nel perdono. La sua indagine interiore
raggiunge livelli mai toccati prima. È la storia della propria anima. La
profondità dell’esame che Agostino svolge sulla sua anima ne fa un testo
modernissimo; il lettore del V secolo era abituato a tutt’altro genere
biografico (riportante notizie e dati oggettivi) e dunque le Confessioni di
Agostino risultavano sconvolgenti ai lettori del tempo.
b. Il De civitate Dei: opera in cui Agostino difende il Cristianesimo dalle accuse
pagane di aver causato il sacco di Roma del 410. Si tratta di una grandiosa
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sintesi storica fondata sulla contrapposizione tra Babilonia, immagine delle
città terrene, e la Gerusalemme celeste, città eterna di Dio. Il cristiano vive
da pellegrino in un mondo che non rifiuta e a cui però non appartiene; vive
dunque in Babilonia con lo sguardo sempre rivolto a Gerusalemme. Dunque,
il fine ultimo di ogni uomo, senza distinzione di razza o ideologia, è Dio.
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