3 Epicureo

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Nel X canto dell’inferno Dantesco abbiamo varcato le porte della città di Dite, siamo

nel VI cerchio. Gli abitanti della tetra vallata sono gli Eretici epicurei: non hanno
creduto nella vita eterna.
La condanna è eresia, nient’altro. Epicuro insegnava in un giardino di sua proprietà tra
il IV ed il III secolo a.c.
Per definizione, l’eretico è colui che si allontana dalla fede comune, scegliendo di
sposare opinioni a essa contrarie. La nozione di eresia può dunque applicarsi, a rigore,
solo a orientamenti dottrinali che prendono le mosse dalla rivelazione cristiana. Ma nel
Medioevo era considerato eretico anche un filosofo morto quasi tre secoli prima della
nascita di Cristo, il pagano Epicuro: Dante – per citare l’esempio più celebre – lo
colloca nella necropoli rovente del sesto cerchio dell’inferno, in cui si raccolgono «li
eresiarche coi lor seguaci d’ogni setta». Il filosofo greco è punito insieme ai suoi
discepoli antichi e moderni per aver sostenuto che l’anima muore «col corpo».
Tuttavia il dubbio persiste. Come può un individuo vissuto prima dell’incarnazione
essere considerato un eretico a tutti gli effetti, al pari del monofisita Fotino, citato
all’inizio del canto successivo?

-CHI ERA EPICUREO


In un libro recente di Aurélien Robert, Épicure aux enfers Hérésie, athéisme et
hédonisme au Moyen Âge Robert intende dimostrare che il Medioevo elaborò un’idea
di Epicuro più complessa di quanto si ritenga normalmente, e che la vulgata secondo
cui la riscoperta della dottrina epicurea spetta all’umanesimo andrebbe oggi liquidata
come un mito.
Le accuse di empietà contro Epicuro sono comunissime nel Medioevo.
Nelle sue Vite e dottrine degli illustri filosofi , Diogenes Laertius riporta una serie di
osservazioni maligne contro Epicuro. Oltre ai frequenti attacchi filosofici rivolti al suo
materialismo, al suo rifiuto di ogni provvidenza o anche al ruolo che dà al piacere, le
persone mirano all'uomo, alla sua morale e alle sue convinzioni. Tuttavia, come
mostra il libro, un cambiamento importante avviene a partire dal II secolo d.C., quando
l'epicureo diventa una figura di eresia. Tale associazione nacque ai confini orientali
dell'Impero Romano, dall'Asia Minore all'Egitto, dove le comunità epicuree conobbero
la massima espansione; ma è proprio in quei luoghi e in quei decenni che si
determinarono le condizioni del loro successivo declino. Le fonti lasciano intuire che i
rapporti con le vicine sette cristiane erano per lo più conflittuali. Essendo dediti al
proselitismo (un movimento, un partito per cercare e formare nuovi seguaci),
gli adepti della filosofia del Giardino erano percepiti dai convertiti alla nuova fede
come concorrenti. Perciò le prime sette cristiane erano in concorrenza con le scuole
filosofiche pagane, e in particolare quelle degli Epicurei.
L'epicureo vi appare come il pensatore pagano più immorale e il più lontano dalle
pratiche morali e religiose romane, in contrasto con il cristianesimo, presentato come
pienamente compatibile con questi valori. Rapidamente, questi attacchi ai filosofi si
trasformarono in discorsi contro gli eretici. Perché se il termine
greco hairesis designava inizialmente un gruppo o una setta, senza connotazione
religiosa, assunse in questo momento un nuovo significato e permise un inedito
riavvicinamento tra eresie religiose e scuole filosofiche.
In questo quadro, Epicuro assunse il ruolo di caposcuola ideale di ogni speculazione
tentata dalle seduzioni del mondo, dalla difesa del piacere, da forme più o meno
marcate di scetticismo.

Un uso pastorale della figura dell'epicureo


L'immagine dell'epicureo eretico, simbolo dell'ateismo e dell'edonismo volgare, non è
quindi in alcun modo una creazione medievale, sebbene si ritrovi persino nella Divina
Commedia di Dante, che colloca Epicuro e i suoi discepoli nel sesto girone dell'Inferno
tra gli eretici.
Da questa antica eredità, il Medioevo ha forgiato un "ritratto biblico" dell'epicureo,
accostando all'antico filosofo alcune figure dell'Antico e del Nuovo
Testamento. L'epicureo altri non era che lo stolto dei Salmi che diceva in cuor suo che
Dio non esiste; era anche il personaggio dell'Ecclesiaste che trae dall'osservazione
della vanità del mondo che è necessario godere di tutti i piaceri; è stato infine colui
che esclama «mangiamo e beviamo, perché domani moriremo» in Isaia.
Oltre a questo nuovo ritratto dell'epicureo, è soprattutto l'uso di questa figura che si
evolve durante il periodo medievale per occupare un posto molto importante in quella
che Jean Delumeau chiamava la pastorale della paura . Il popolo doveva riconoscersi
in questo ritratto dell'eretico epicureo e temere di subire le pene dell'inferno che gli
erano riservate. Essere epicureo, cioè non credere o credere male, o lasciarsi guidare
solo dai piaceri terreni, significava diventare un cristiano eretico.
In realtà lo scopo degli epicurei, diversamente da quello che accadeva nei centri
accademici più importanti dell’epoca, era prettamente pratico: curare i turbamenti
dell’anima. La filosofia epicurea ha posto come obiettivo della vita il conseguimento
del piacere, ma il problema, o meglio la soluzione, sta nel capire cosa intenda per
“piacere”. Sicuramente non quello carnale o sessuale. Il piacere è l’assenza di
turbamenti dell’anima. Assenza di dolori del corpo. Quanto alla vita sociale, l’aspetto
etico non è abbandonato, anzi è centrale. Per essere felici bisogna essere virtuosi. Le
leggi vanno rispettate, ma è meglio rimanere il più possibile lontani dalla politica e
dalla vita pubblica: l’unico rapporto umano che dà pienezza è l’amicizia. Condividere
una vita serena con gli amici, aiutarsi a vicenda, parlare e confrontarsi su problemi
che possono dare turbamento.
Ricordiamoci che il giardino filosofico di Epicuro era un punto di ritrovo per gli amici ed
una sorta di clinica dell’anima. La filosofia non come teoria, ma come cura. La vita è
bella in sé, quindi la filosofia deve solo insegnare ad allontanare le sovrastrutture che
non consentono di goderne a pieno.
Inoltre, evento raro nella storia della Grecia classica, erano ammesse anche le donne
(e persino gli schiavi), perché considerate simili agli uomini. Risparmio la concezione
che ha delle donne il modello filosofico di Dante, Aristotele, che in ogni caso andrebbe
considerata nel contesto storico-culturale in cui è espressa.
La ricerca del piacere per il maestro greco non significava rincorrere desideri,
distrazioni e divertimenti sensibili, bensì, al contrario, il distaccarsi il più possibile
dalle brame materiali. La vera felicità veniva individuata da lui nella gioia
dell’animo. Per Epicuro il piacere supremo consisteva nell’assenza di turbamenti
mentali, nell’assenza di preoccupazioni: di quelle stesse preoccupazioni che i desideri
materiali producono in noi. La felicità è lo stato d’animo di chi si dedica al
mantenimento di un cuore calmo, di chi desidera il meno possibile.
Da questa prospettiva Epicuro appare allora predicare un ideale più ascetico
che edonista, in quanto la felicità per lui significava condurre uno stile di vita
semplice, lontano dalle passioni e dalla cupidigia. In altre parole il piacere più alto era
per lui l’autosufficienza interiore e a dimostrarlo è proprio la vita modesta che lui e i
suoi associati del Giardino hanno condotto, la raffinatezza intellettuale e spirituale
delle sue raccomandazioni.

Possiamo quindi affermare che l'Inferno di Dante esprime una visione di Epicuro che è
il culmine di questa logica operante nella predicazione medievale.
Epicuro non fa parte di quella che Dante chiama “la famiglia filosofica”, mentre
Democrito, anche lui materialista, Diogene, e molti altri; è molto ampia: Diascoride,
Orfeo, matematici come Euclide, medici come Galeno, loro ne fanno parte.
Tale esclusione è sorprendente anche perché nelle altre opere di Dante, ovvero la
Monarchia e il Convivio, la scuola epicurea è presentata su un piano di parità con le
altre, e in particolare gli stoici. Un’oscillazione analoga si avverte anche nell’opera di
Dante. Nel secondo trattato del Convivio, l’opinione di chi predica la mortalità
dell’anima è giudicata una «bestialità», ma Epicuro non è menzionato tra i filosofi
responsabili di averla condivisa. Anzi: nel quarto trattato Epicuro è ricordato, in termini
positivi, per aver individuato il bene nel «diletto sanza dolore».
Abbiamo perciò una valutazione positiva da Dante rispetto agli e. (nel Convivio), se poi
paragonata alla condanna che di loro è pronunciata nella Commedia, dove sono bollati
come quelli che l'anima col corpo morta fanno (If X 15). Qualcuno ha voluto vedere in
questo mutamento di opinione, due tempi nella conoscenza degli e. da parte di D: in
un primo tempo, nel Convivio, D. deriverebbe la sua conoscenza unicamente dal primo
libro del De Finibus di Cicerone; solo in un secondo tempo sarebbe venuto a
conoscenza del dogma perverso degli e., e di qui la condanna.

Robert ritiene che Dante abbia infine deciso di allinearsi al senso comune: questo
imponeva un poema concepito per essere «une grande fresque pastorale laïque».
Se le cause del ripensamento dantesco restano oscure, altro potrebbe dirsi sulle sue
conseguenze osservando con maggiore attenzione i protagonisti del canto degli
epicurei, Farinata degli Uberti e Cavalcante dei Cavalcanti. Dotati di caratteri opposti,
entrambi manifestano nondimeno lo stesso atteggiamento esistenziale, «tutto
compreso nel sentimento della finitezza e della contingenza: chiuso nell’amore
paterno Cavalcante, fieramente attaccato al suo passato di capo ghibellino Farinata».
La loro adesione all’errore di Epicuro, in altre parole, «è più una “forma di vita” che
una dottrina filosofica» (i brani citati provengono da un saggio di Paolo Falzone).
L’elaborazione poetica di Dante coglie il nucleo intimo di una tradizione lunghissima.
Che si esaurisca o meno nelle maglie dell’eresia, il lascito di Epicuro, per il Medioevo, è
anzitutto questo: uno speciale radicamento nel presente, un senso definitivo di
appartenenza al dominio del sensibile e del divenire.

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