Bove

Scarica in formato pdf o txt
Scarica in formato pdf o txt
Sei sulla pagina 1di 35

Capitolo IX: La strategia della multitudinis potentia, strategia

propria del conatus politico


Il progetto politico di autonomia come sovranità assoluta e/o
affermazione «del tutto assoluta» del corpo collettivo
La virtù, potenza di affermazione e di resistenza, in ogni dominio, combatte. Il pensiero
politico di Spinoza, come quello etico, è innanzitutto una lotta che ha la propria strategia
(filosofico-politica) corrispondente alla situazione del tempo. È il procedimento esplicito del
Trattato teologico-politico che, in forme diverse, prosegue ed accompagna il combattimento degli
scolii, prefazioni ed appendici dell’Etica. L’avversario esplicitamente designato è il Teologo 1 e,
nella sua scia, il Tiranno. Ma al di là delle concezioni particolari prese di mira, il vero nemico della
filosofia di Spinoza è l’universo comune di significati e di strutture della dominazione politica che
queste dottrine implicano. Un tale universo mantiene infatti le società, i popoli e gli uomini separati
dalla propria potenza politica di azione e di costituzione, di cui solo lo svolgimento sarebbe la vera
garanzia della loro libertà.
Ma il combattimento spinozista per l’autonomia, sul terreno politico come nel dominio
etico, si sviluppa sulla base metafisica di una concezione del dispiegamento della realtà, concepito
come strategico nella sua attualizzazione modale singolare. Il concetto di una strategia del conatus
del corpo collettivo o della multitudinis potentia (la moltitudine, come modalità specifica della
realtà politica, nella sua tensione a costituirsi come «nazione», come «popolo» o come «Stato»), 2 ci
porta immediatamente nel nucleo del pensiero politico di Spinoza, sviluppato in maniera innovativa
nel Trattato politico.3
In quest’ultimo libro incompiuto viene esplicitamente stabilita la perfetta analogia tra il
corpo individuale e il corpo collettivo che, nel loro sforzo comune di conservazione e di
affermazione, seguono la stessa logica di causalità propria delle essenze singolari, con le
implicazioni decisive che ne fanno il pensiero più radicale di una strategia del conatus. La lettura
del Trattato politico conferma e precisa, così, le conseguenze teoriche innovative dello studio
storico del Trattato teologico-politico.
Il pensiero politico di Spinoza, si potrebbe dire, è innanzitutto una lotta per la libertà. Ma
l’affermazione sarebbe relativamente banale se non si accompagnasse alla definizione che Spinoza
stesso offre della libertà, intesa come dinamica della «libera necessità», correlativa all’affermazione
assoluta di un’esistenza o della sua infinitezza in atto; 4 definizione dell’autonomia (poiché
l’individuo umano agisce in questi casi secondo «delle cause che si comprendono adeguatamente
attraverso la sua sola natura») valida anche nel domino politico:

come nello stato di natura l’uomo più potente e più autonomo è quello che è guidato dalla ragione, così pure
sarà massimamente potente e autonoma quella cittadinanza che è fondata e diretta razionalmente. 5

E la fondazione razionale si trova proprio nella potenza della moltitudine. In questo senso la
libera necessità è innanzitutto quella della multitudinis potentia organizzata in corpo politico, 6 nella

1
Ep. XXX e LXVIII a Oldenburg, G. IV pp. 166 e 299. Sull’antagonismo radicale tra il filosofo ed il teologo
cfr. A. Tosel, Spinoza ou le crépuscule de la servitude, cap. I, Aubier, Paris 1984.
2
TP II,17.
3
Antonio Negri ha magistralmente chiarito, proseguendo i lavori di Ale xandre Matheron sui rapporti fra la
politica e le passioni, la logica costitutiva dello Stato dal punto di vista della «potenza della moltitudine». Cfr.
L’anomalia selvaggia. Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza, Milano, Feltrinelli, 1981.
4
TP II,7 e II,11.
5
TP III,7. Cfr. Paolo Cristofolini, Esse sui juris e scienza politica, “Studia spinozana”, 1 (1985), ora in La
scienza intuitiva di Spinoza, Napoli, Morano, 1987.
6
Nam Civitatis Jus potentia multitudinis, quæ una veluti mente ducitur, determinatur, TP III,7.
sua affermazione – in tanto in quanto è possibile, e qui è insieme la specificità del problema politico
ed il suo progetto - «del tutto assoluta»7 o, che è lo stesso, nella sua auto-costituzione radicalmente
autonoma. Ma la libera necessità del corpo politico implica anche quella dei sudditi-cittadini, la cui
libertà si afferma entro ed attraverso la libertà dello Stato. La libertà civile, paradossalmente, è
correlata all’affermazione assoluta dello Stato, cioè alla «sovranità assoluta». 8
Spingendo, infatti, fino al limite l’ideale di razionalità politica del suo secolo - secondo il
punto di vista del razionalismo assoluto in politica - Spinoza cerca di superare due contraddizioni
che caratterizzano il pensiero e la realtà politica: quella tra la libertà dei cittadini e l’autorità dello
Stato, che implica la prospettiva assolutista (l’autorità dello Stato sembra potersi affermare solo
contro la libertà dei cittadini); quella tra la libertà pre-politica della moltitudine e l’autorità dello
Stato, che instaura una situazione di guerra latente nella società (di fatto l’autorità dello Stato lascia
allo stato «selvaggio» una libertà che la moltitudine può esercitare solo in maniera sediziosa).
Spinoza penserà insieme – secondo il legame intrinseco al processo dinamico della loro
costituzione - l’assolutismo dello Stato e la libertà dei cittadini (compresa nell’affermazione «del
tutto assoluta» della potenza della moltitudine che definisce il Diritto del sovrano). 9 La riflessione
politica spinoziana ci conduce verso una nuova figura della cittadinanza, in seno all’auto-
costituzione della moltitudine come «soggetto» autonomo-strategico, attraverso l’esercizio
rivoluzionario del diritto di guerra (limite insuperabile in un’autentica democrazia), nella doppia
tensione tra diritto di natura e diritto civile da un lato e tra obbedienza e resistenza dall’altro, al
limite della “rottura” nel Corpo politico.
Nel Trattato politico Spinoza definisce a più riprese lo Stato (imperium) come un individuo
(individuo di individui), confrontandolo con quello umano. Innanzitutto in Trattato politico III,2,
dove la nozione di multitudo (già apparsa negli articoli I,5 e II,17 in cui Spinoza definisce il diritto
dello Stato attraverso la multitudinis potentia) designa il corpo politico collettivo (o corpo dello
Stato, quando la moltitudine è ordinata, contrariamente alle inordinatæ multitudinis), 10 organizza to -
aggiunge Spinoza - come un humano corpori, 11 oppure «come guidato da una sola mente».
L’espressione è tuttavia ingannevole (multitudinis quæ una veluti mente ducitur), poiché può
suggerire l’illusione di una concezione dualista per cui la mente conduce il corpo. La mente non è
altro, invece, che il corpo sociale stesso nella sua auto-organizzazione politica, anche se questa può
apparire in certe condizioni come insopportabile ad una parte anche numerosa degli individui che
costituiscono quel corpo.
Così «nello stato di civiltà i cittadini tutti nel loro insieme sono da considerarsi alla stregua
di un uomo allo stato di natura». 12 Tutti i corpi - quelli degli individui umani come quelli degli Stati
- sono infatti prodotti secondo la stessa logica causale, quella dell’essenza attuale e attualizzante dei
modi. Quali conseguenze si possono trarre dall’idea spinozista dell’individuo politico come corpo?
Questa idea implica: 1) che il corpo politico si definisce attraverso una molteplicità i cui elementi
sono stabilizzati in un rapporto particolare di movimento e di quiete (la sua facies civitatis); 13 2) che
questo stesso corpo possiede un’attitudine ad essere affetto ed affettare, sia corpi differenti sia i
corpi che lo compongono; 3) che questo corpo complesso possiede, come il corpo umano, una
potenza costitutiva di concatenare tra loro delle affezioni; 4) che questo corpo, per la sua
complessità, deve poter essere pensato come soggetto pratico e quindi, come per il soggetto etico,
si pone la questione del suo divenire-causa o della sua autonomia.
Innanzitutto lo Stato (come l’individuo umano definito come soggetto pratico) agisce
sempre in vista di un fine, cioè l’utile che appetisce. Il fine per cui un individuo agisce è proprio il

7
TP XI,1, C. p. 235.
8
TP VIII,3, C. pp. 153-55.
9
TP II,17, C. p. 49.
10
TP VIII,19, C. p. 169.
11
TP X,1, C. p. 221.
12
TP VII,22, C. p. 133.
13
TP VI,2, C. p. 87.
suo appetito. 14 Tuttavia questo, come potenza propria del corpo politico, si riflette in una struttura
teleologica che definisce i fini e le ragioni per cui questo Stato esiste ed agisce (fini e ragioni che,
come per l’individuo umano, possono essere del tutto immaginari, nell’ignoranza delle cause reali
che lo determinano all’azione).
Lo Stato, infatti, si può definire in modo teleologico secondo tre diversi significati:
1) C’è innanzitutto un fine reale dello Stato, inerente alla sua esistenza stessa, cioè «niente
altro che la pace e la sicurezza della vita», 15 a cui aspira «una moltitudine libera […]
guidata più dalla speranza che dalla paura». 16 È il vero fine dello Stato; 17 porre lo Stato
significa dunque, nella sua differenza con lo stato di natura, porre una struttura della vita
comune che deve assicurare una sicurezza maggiore e, per quanto possibile, condurre gli
uomini sulla via della ragione trasformando così l’obiettivo della sicurezza in quello
della libertà. 18 Ma, quando lo Stato si instaura in virtù del diritto di guerra su una
popolazione sconfitta, questo suo fine reale si rovescia in una schiavitù del popolo
altrettanto reale:

Perciò il fine dello Stato conquistato per diritto di guerra è il dominare e l’avere dei servi, piuttosto che dei
sudditi. E sebbene, dal punto di vista generale del diritto di ciascuno dei due – lo stato creato da una libera
moltitudine e quello conquistato per diritto di guerra – non si dia alcuna differenza essenziale, essi differiscono
non poco per il fine, come già abbiamo mostrato, e anche per i mezzi con i quali ciascuno di essi deve
conservarsi.19

2) C’è inoltre il fine immaginario che ciascun popolo attribuisce alla propria comunità. Si
tratta dei significati fondativi dell’esistenza di una «nazione» singolare; in questo modo
gli ebrei si pensano come «figli di Dio» e membri del popolo eletto.
3) Ci sono, infine, gli obiettivi parziali e congiunturali che uno Stato persegue, in una
situazione particolare, in funzione dei propri fini reali ed immaginari, ma anche in
funzione dei propri interessi immediati. In quest’ultimo senso parleremo per lo Stato,
come per l’individuo umano, di una struttura del soggetto pratico.
In effetti lo Stato (cioè la potenza collettiva attraverso le sue istituzioni ed i suoi dirigenti),
come qualsiasi individuo allo stato di natura, agisce in funzione di ciò che ritiene il proprio utile. In
questo senso, seguendo il movimento stesso del suo desiderio (o della sua potenza), determina i
propri valori: ciò che ritiene essere bene o male, giusto o ingiusto; e stabilisce delle leggi, le
interpreta per ogni caso particolare ecc. 20 Lo Stato esiste così affermando il proprio Diritto, ponendo
i propri significati e valori, costruendo il proprio mondo attraverso le leggi, i decreti e le decisioni.

Questo diritto che si definisce in base alla potenza della moltitudine di solito si chiama stato. E ne ha il governo
in forma assoluta chi per comune accordo ha la cura della repubblica, ovvero promulga, interpreta e abroga le
leggi, decide delle fortificazioni delle città, della guerra e della pace, eccetera. 21

La struttura dello Stato è quindi inseparabile da una «direzione» impressa alla società civile
dal «potere sovrano», 22 che Spinoza paragona alla «mente dello stato, dalla quale tutti devono
essere guidati». 23 La pratica dello Stato è quindi teleologica per natura; implica (o suppone) una

14
E IV, def. 7.
15
TP V,2, C. p. 81.
16
TP V,6, C. p. 85.
17
Come c’è un «vero fine» delle leggi. Cfr. TTP IV, G. III p. 58, D. p. 104.
18
TTP XX, G. III p 241, D. p. 482.
19
TP V,6.
20
TP IV,1, C. p. 73.
21
TP II,17, C. p. 49.
22
TP III,1, C. p. 55.
23
TP IV,1, C. p. 73.
riflessione pratica che, come i politici ben sanno, è intelligenza dei rapporti di forza e degli interessi
di ciascuno. In effetti, poiché gli Stati «stanno reciprocamente tra loro come due uomini allo stato di
natura», 24 cioè sono naturalmente nemici, 25 le alleanze per il mantenimento della pace sussistono
solo tanto quanto le cause che le hanno determinate (cioè il timore di un danno o la speranza di un
profitto). Appena queste cause vengono meno ciascuno ritorna al proprio diritto, limitato solo dalla
propria attuale potenza:

ciascuno dei paesi alleati riprende il diritto di governarsi da sé; ciascuno allora tenta per quanto possibile di
porsi fuori pericolo, e di conseguenza di rendersi autonomo e di impedire all’altro di uscire più potente. Se
dunque un paese si lamenta di essere stato ingannato, può davvero condannare non la malafede del paese
alleato, ma soltanto la propria stoltezza, per avere affidato la propria salvaguardia ad un altro, autonomo e
avente per legge suprema la salvaguardia del proprio stato.26

Le uniche trasgressioni degli Stati – così come degli individui allo stato di natura – sono
quindi trasgressioni o peccati contro se stessi, 27 cioè errori strategici:

La cittadinanza dunque trasgredisce quando fa o sopporta che sian fatte cose che possono provocare la sua
rovina, e allora diciamo che essa trasgredisce, nel senso che impiegano i filosofi o i medici quando parlano di
peccati di natura.28

Questa tendenza, essenziale in ogni società civile, verso ciò che deve essere ed esser fatto (il
proprio utile), definisce la «volontà cittadina» che «deve essere considerata la volontà di tutti». 29
Questa spiega perché i primi poteri di una società istituita, cioè le prime espressioni del «diritto
dello stato, ossia del potere sovrano», 30 siano quelli di direzione (o di comando, mandata) e di
repressione: si tratta innanzitutto di governare e quindi di ottenere obbedienza ma anche, al tempo
stesso, di punire coloro che non si sottomettono alle direttive della summa potestas;

Allorché gli uomini hanno diritti comuni e tutti sono come guidati da un’unica mente, è certo (per l’articolo 13
di questo capitolo) che quanto minore è il diritto di ciascuno di loro, tanto più tutti gli altri assieme lo superano
in potenza; ossia, egli non ha in realtà nessun diritto sulla natura all’infuori di quello che gli è concesso dal
diritto comune. Per il resto è tenuto a eseguire tutto ciò che di comune accordo gli viene comandato, ovvero
(per l’articolo 4 di questo capitolo) vi è giuridicamente obbligato.31

È il prolungamento dello stato di natura, con la sola differenza – che definisce la struttura
teleologica dello Stato come soggetto pratico – che, nella società civile, tutti partecipano alla stessa
tendenza (o alla stessa «volontà») verso ciò che deve esser fatto oppure evitato, poiché,

tutti temono le stesse cose, e c’è per tutti un’unica fonte di sicurezza e norma razionale di vita. 32

D’altronde lo Stato, come soggetto pratico, può anche definirsi a partire dai principi
associativi che si trovano alla base del proprio tessuto relazionale e sociale, cioè le leggi stesse della

24
TP III,11, C. p. 67.
25
TP III,13, C. pp. 67-9.
26
TP III,14, C. p. 69.
27
TP II,18, C. p. 49.
28
TP IV,4, C. p. 75.
29
TP III,5, C. p. 59.
30
TP III,2, C. p. 55.
31
TP II,16, C. pp. 47-9.
32
TP III,3, C. p. 57. Sui due aspetti primari – governamentale e giudiziario – della costtituzione del potere cfr.
TP III,2-8.
natura che costituiscono il suo Diritto o potenza naturale:33 le leggi dell’imitazione costitutiva del
corpo sociale primitivo (pre-politico); le leggi dell’Abitudine che forgiano una memoria collettiva,
una lingua, dei costumi; il principio di piacere che orienta le associazioni.
Infine lo Stato, come soggetto pratico, è ciò in cui questi principi e le loro conseguenze sono
riflessi sotto forma di istituzioni, di leggi (è il ruolo dell’immaginazione schematizzante o
ricognitiva che conferisce infatti alla società il suo statuto di soggetto pratico) e attraverso cui sono
utilizzati secondo la problematica strumentale del fine e dei mezzi:

Poiché tutte queste faccende, nonché gli strumenti che occorrono per la loro esecuzione, sono affari riguardanti
l’intero corpo dello stato, ossia la repubblica, ne consegue che la repubblica dipende unicamente dalla direzione
di chi detiene la sovranità dello stato; e di conseguenza soltanto al potere sovrano appartiene il diritto di
giudicare le azioni di ciascuno, di farsi rendere ragione di quel che ciascuno fa, di infliggere pene ai
delinquenti, di dirimere le controversie legali tra i cittadini, o di nominare giurisperiti che applichino in sua
vece le leggi promulgate. Sono poi di sua pertinenza tutti gli strumenti per disporre e organizzare la guerra e la
pace, ossia la fondazione e la fortificazione delle città, l’arruolamento dei soldati, la distribuzione dei compiti
militari, l’esercizio del comando, l’invio e il ricevimento degli ambasciatori di pace, e infine la riscossione
delle imposte per tutte queste cose.34

È dal punto di vista della sovranità – comandare e punire – che si dispiega dunque, ad un
primo livello, la strategia del conatus del corpo politico (come strategia del potere esplicito che
dirige la società). Ma solo dal punto di vista della costituzione di questa sovranità e delle
disposizioni particolari che, in seno alla società civile, presiedono all’elaborazione della legge (ed in
ultima istanza al contenuto particolare delle decisioni del sovrano) si comprende, oltre le ragioni
coscienti del sovrano stesso, il grado di razionalità (o di adeguazione) della strategia globale dello
Stato. Rispetto a questa auto-organizzazione costitutiva della sovranità nello Stato secondo una
logica di resistenza attiva alla dissoluzione (contro i nemici all’esterno e le forze disgregatrici
all’interno) è possibile parlare di una strategia del conatus propria della società civile. Le istituzioni,
le leggi, le decisioni appaiono allora come altrettanti casi di soluzioni che un corpo politico riflette e
genera in funzione di come ha saputo porre i problemi entro ed attraverso le sue relazioni reali
(quelle dell’articolazione sempre particolare degli individui secondo le leggi dell’immaginazione,
esse stesse già comprese nelle strutture proprie di una data società), nello sforzo che questo corpo fa
per perseverare nel suo essere.
Vediamo che al centro di questo dispositivo di soggettivazione del corpo politico le relazioni
reali (a partire dalle quali si pongono i problemi di una società) si stringono secondo una logica
ulteriore, più profonda di quella - teleologica – supposta dalla strategia esplicita del soggetto
pratico. È la logica causale della potenza di affermazione e di resistenza che costituisce il legame di
tutti i corpi, potenza della loro perseveranza comune. Questa è anche potenza di immaginazione e di
costituzione, poiché l’essenza singolare o il conatus proprio di questo corpo collettivo - la potenza
stessa della moltitudine - si afferma secondo le leggi dell’immaginazione. È al tempo stesso potenza
dell’affermazione assoluta di una qualsiasi esistenza o dell’infinitezza in atto e potenza di una
strategia del conatus politico, senza principio né fine, secondo cui ciascuna cosa (individuo o Stato)
si afferma nella sua massima perfezione, traendo ad ogni istante, rispetto alle affezioni che
attualizzano l’attitudine ad essere affetta della moltitudine come corpo politico, tutte le conseguenze
della propria esistenza attuale. Tuttavia l’analisi politica radicalizza quella metafisica in senso
materialista, poiché l’essenza della realtà modale politica (lo Stato) è esplicitamente un prodotto
storico. In effetti, cos’altro sono il rapporto specifico di movimento e quiete di una società o la sua
attitudine ad affettare ed essere affetta se non delle costituzioni dell’Abitudine? Nell’analisi della
modalità politica appare con chiarezza l’identificazione totale del conatus del corpo collettivo col
suo habitus (e/o dispositio), al tempo stesso effetto e produttore della storia; e questa identificazione

33
TP II,4, C. p. 37.
34
TP IV,2, C. pp. 73-5.
(che non può corrispondere ad una confusione) si inscrive ontologicamente sul piano di una pura
immanenza della strategia del corpo collettivo alla sua affermazione.
L’infinito attuale, come affermazione assoluta dell’esistenza, è l’auto-organizzazione senza
principio né fine della realtà modale politica. La libertà è senz’altro un fine per l’impresa politica, il
cui progetto è l’autonomia. Da questo punto di vista «il fine dello Stato è la libertà». Tuttavia, ancor
prima di essere un fine, la libertà è per il soggetto il movimento reale dell’auto-organizzazione del
reale politico, la sua necessità interna, la sua essenza come potenza di affermazione, di resistenza e
di costituzione. Il progetto di autonomia significa quindi che l’infinito attuale può essere
politicamente organizzato avendo come fine la libertà, poiché la libertà è la sua stessa essenza.
Ritroviamo quindi, per il politico, i due piani della strategia del conatus nel dominio etico,
oltre ogni illusione tecnica dell’organizzazione. Il secondo piano (quello, in apparenza trascendente,
del progetto) è sempre l’effetto del primo (quello del movimento immanente della costituzione del
reale). Il progetto politico di autonomia ritorna sul piano di immanenza di cui è l’effetto, in un
processo ricorsivo di accumulazione delle forze; tensione dall’essenza all’esistenza secondo una
strategia perfetta della multitudinis potentia nella sua affermazione «del tutto assoluta» che abolisce
lo Stato come struttura di dominio a favore dello «Stato assoluto» come affermazione della propria
libertà. 35
Ora, questa organizzazione del corpo politico, entro ed attraverso la tensione dell’infinitezza
attuale, è quella dell’Abitudine. Sappiamo che il collettivo, come corpo, è da sempre organizzato
nelle abitudini particolari acquisite (del corpo sociale pre-politico o politicamente organizzato): «gli
uomini per natura desiderano lo stato di civiltà, e non può mai accadere che essi lo sciolgano del
tutto». 36 Ciò significa che, anche in assenza dello Stato, gli uomini non possono sfuggire alle
consuetudines, cioè ai costumi, alle abitudini comuni di pensare ed agire che definiscono la
condizione degli esseri umani, il loro ingenium. Questo fa delle consuetudines una questione
politica, come si afferma chiaramente alla fine dell’introduzione del Trattato politico:

Poiché infine gli uomini, barbari o civilizzati che siano, dappertutto instaurano comuni usanze e danno forma a
qualche stato di civiltà, le cause e le fondamenta naturali dello stato non vanno ricercate negli insegnamenti
della ragione, ma vanno dedotte dalla comune natura, ovvero condizione, degli uomini.37

Socialmente, l’infinito attuale si afferma necessariamente entro un habitus specifico che


determina l’essenza singolare dello Stato (o più precisamente nel quale si auto-determina l’essenza
dello Stato). Questo avviene entro ed attraverso un rapporto singolare di movimento e di quiete (tra
le diverse parti del corpo), così come un’attitudine ad affettare ed essere affetto propria del corpo
collettivo. Il conatus-Abitudine è quindi immediatamente l’habitus stesso come conatus.
L’immaginario istituisce dei limiti che non sono degli ostacoli. La determinazione dell’essenza è la
sua stessa affermazione. L’habitus specifico, struttura dinamica di un certo corpo collettivo,
determina il campo di possibilità in cui si esercita lo sforzo di questo corpo per perseverare nel suo
essere. Attraverso l’habitus si determinano dinamicamente le possibilità per l’avvenire, totalmente
strutturate eppure imprevedibili. Perché il conatus del corpo collettivo, che pure non si dispiega in
modo arbitrario, non implica tuttavia in modo embrionale il proprio avvenire. Come prodotto,
questo conatus si costituisce nella sua progressiva affermazione nel processo stesso di auto-
organizzazione del corpo collettivo, determinato dalle cause esterne che agiscono attraverso e su di
lui. Come forza produttiva (appetitus e cupiditas) l’avvenire si costituisce in lui, nel presente della

35
TP VIII,5, C. p. 157. Come sostiene giustamente Antonio Negri, «l’infinito è […] organizzazione della
liberazione umana», cioè della sua perfezione (o della sua potenza), L’anomalia selvaggia, cit., p. 189.
36
TP VI,1, C. p. 87.
37
TP I,7, C. p. 33. L’esempio degli aragonesi che, dopo essersi liberati dai Mori, hanno deciso di darsi un re, è
in questo senso sintomatico; e si comprende l’omaggio che Spinoza rende in questo caso al sovrano pontefice romano
che li aveva consigliati «di non eleggere un re senza aver prima istituito delle procedure equilibrate e consone all’indole
del popolo [ingenio gentis consentaneis]» (TP VII,30, C. p. 145).
sua durata, secondo una stretta necessità. L’idea adeguata della società (come idea «infinita» e
«perfetta») non è soltanto l’idea vera che il soggetto umano (il filosofo politico) può avere nella
rappresentazione come conoscenza di una società particolare. È piuttosto il movimento del reale
stesso nella sua affermazione «del tutto assoluta» della modalità politica. Il progetto politico di
autonomia che una società (un popolo) può darsi è l’espressione diretta della cupiditas di questo
corpo (del desiderio con la sua consapevolezza) nella sua auto-organizzazione. È anche la più alta
affermazione di una razionalità nata dal momento collettivo, dalla sua potenza di affermazione e di
resistenza o dalla sua perfezione. Razionalità e perfezione, liberazione e potenza della moltitudine
vanno del pari.
La razionalità del corpo collettivo, la propria perfezione o potenza di liberazione, dipende in
effetti dalla capacità reale della moltitudine ad auto-organizzarsi senza dispersione di potenza (per
neutralizzazione o esclusione di una parte importante dei suoi elementi costitutivi o per conflitto
sterile delle proprie forze). Quando questa organizzazione esprime l’affermazione «del tutto
assoluta» del corpo collettivo, la politica è il regno della libertà; non uno stato quindi, ma il
movimento reale della costituzione del reale come infinito in atti, come eternità anche, che si
affermano della durata stessa della Libertà attuale dello Stato e dei suoi cittadini. La loro
affermazione nella durata del corpo sociale significa che l’infinitezza e l’eternità sono le potenze
stesse della storia. Potenze sempre necessariamente determinate – in quanto durata e storia sono
quelle della dinamica dell’habitus – che si dispiegano sul piano di immanenza della strategia della
realtà modale politica.
Così, le strategie coscienti ed in apparenza trascendenti dello Stato – adattate o meno alla
situazione che pretendono controllare, decise dal re, da alcuni uomini scelti o dall’intera moltitudine
– sono in ultima analisi l’effetto del movimento reale ed immanente dell’affermazione costitutiva
della Natura stessa nelle sue affezioni singolari. Sono anche l’effetto dei casi di soluzioni che la vita
(come potenza assolutamente infinita di agire e di pensare), senza perseguire alcuno scopo,
immagina e attualizza (è la medesima cosa) nella sua affermazione, nel contesto dei rapporti di
forze contraddittorie (che sono la vita stessa come Natura naturata) entro ed attraverso cui si
dispiegano. Il conatus dello Stato, attraverso cui questo corpo particolare comincia ad esistere,38
implica quindi un immaginario essenziale che, come il Desiderio stesso, non è mancanza di
alcunché, immaginazione di alcunché, ma potenza assolutamente positiva dell’immaginario. In
qualche modo Natura naturante per cui si istituisce e si costituisce un immaginario naturato
caratteristico di una società particolare, con i propri pregiudizi, lingua, credenze, costumi e leggi
attraverso cui si definisce la propria identità, l’individualità singolare, l’ ingenium. 39 La società
istituita è così il prodotto di questo immaginario naturante essenziale, potenza ordinante del conatus
e della corporeità collettiva dispiegata dalla moltitudine nella sua esistenza attuale, determinata
dalle le ggi dell’immaginazione. Perché l’immaginario naturante non è altro che l’attitudine, cioè la
potenza propria del corpo collettivo, a concatenare (organizzare) le proprie affezioni secondo le
leggi naturali dell’immaginazione. Ritroviamo così, per il corpo collettivo, l’equivalente
dell’Abitudine per il corpo individuale, insieme al problema essenziale – il progetto politico stesso
– del suo dispiegamento autonomo. Ma è l’Abitudine che, sul terreno politico, produce e spiega
l’Attitudine; e l’attualizzazione dell’essenza è in questo caso la sua auto-costituzione entro ed
attraverso l’esistenza.

38
TP II,2, C. p. 35.
39
Nel processo di singolarizzazione di un popolo, il capitolo XVII del TTP sembra non accordare una grande
importanza alla lingua. Benché insieme alle leggi ed ai costumi la lingua definisca una nazione, Spinoza aggiunge «&
ex his duobus, legibus scilicet & moribus, tantum oriri potest, quod unaquæque natio singolare habeat ingenium,
singularem conditionem & denique singularia præjudicia», TTP XVII, G. III p. 217, D. p. 433. Il Compendium
Grammatices Linguæ Hebrææ permette di sfumare questa affermazione. Cfr. per esempio il cap. XIII, G. I p. 344; cfr.
anche J. Brykman, La judéité de Spinoza, Vrin, Paris 1972, p. 123 e l’opera più recente di P.-F. Moreau, Spinoza.
L’expérience et l’éternité, Paris, P.U.F., 1994 (specialmente i capp. II e III della seconda parte dedicati al Linguaggio e
alle Passioni), apparsa dopo la stesura di questo lavoro e di cui non abbiamo potuto tener conto.
Così, il vero problema politico posto da Spinoza nella sua radicale novità, nel Trattato
politico, non è quello tradizionale del miglior regime (migliore poiché più stabile ed efficace
nell’assicurare la sicurezza e la pace), ma quello delle condizioni reali (e storiche) di possibilità per
l’attualizzazione di un’organizzazione che permetta al corpo sociale nella sua totalità di accedere ad
un’autonomia reale, correlata ad una strategia adeguata. Attualizzazione, inoltre, di un corpo-
collettivo soggetto che non sia più questo quasi-automa assoggettato allo scopo fissato a priori
attraverso l’immaginario istituito e la cui riflessività e razionalità siano totalmente comp rese in una
funzionalità, talvolta efficace, ma sempre ignara della propria natura; produzione quindi di una
nuova soggettività che, come quella etica, si definisce attraverso una riflessività critica sulla propria
funzionalità ed una volontà costitutiva cosciente di sé, cioè liberata da un rapporto superstizioso con
la legge (immaginata come esteriore e trascendente). Si tratta inoltre dell’autonomia, cioè
dell’attitudine del corpo politico a produrre delle affezioni attive ed a concatenarle attivamente
secondo l’ordine stesso della loro produttività sub specie æternitatis. Produrle e concatenarle, cioè,
secondo il movimento reale della produzione del Reale, per cui l’idea adeguata di questo stesso
corpo si produrrebbe identicamente in Dio come nella Mente (di cui il corpo è l’oggetto).
Ora, questo supporrebbe una condizione che la realtà particolare del corpo politico sembra a
prima vista rendere impossibile, in quanto apre una contraddizione teorica nella filosofia spinozista:
quella della capacità dello Stato, come individuo, a produrre idee adeguate, cioè a pensare
veramente, mentre l’essenza che lo costituisce e lo definisce è potenza di immaginazione.
L’esposizione dei generi di conoscenza ci ricorda la rottura decisiva tra il primo genere,
l’immaginazione, ed il II e III genere, la ragione, che sola è in grado, per Spinoza, di produrre idee
adeguate. Inoltre, nel Trattato politico, Spinoza non pone un assioma equivalente a quello di Etica
II,2, «l’uomo pensa». Si noterà pure che se la capacità della conoscenza adeguata fosse riconosciuta
allo Stato, Spinoza non scarterebbe, nelle prime linee del Trattato politico, la pretesa dei filosofi a
«reggere le sorti della repubblica» per promuovere in seguito – come un orizzonte ancora più
utopico – uno Stato filosofo! Lo Stato non ha per fine né per funzione di essere il teorico (neanche
spinozista) della propria costituzione. Senza contare che una tale prospettiva suppone (sul modello
dell’individualità umana) l’accesso ad una saggezza globale del corpo collettivo che rende allora lo
Stato – come forza di comando e di repressione – del tutto inutile (ciò che Spinoza non prende mai
in considerazione). Il problema posto di un’autonomia reale del corpo politico (o di una strategia
assolutamente adeguata per questo corpo) sembra quindi arrestarsi di fronte a questo ostacolo,
scontrandosi col problema della necessaria correlazione (simultanea), nell’autonomia, dell’idea
adeguata e delle affezioni attive.
Ma forse è venuto il momento di abbandonare il modello dell’individualità umana, divenuto
ingombrante, per comprendere la specificità dell’individualità politica e per scoprirvi la nuova
problematica dei rapporti pratici dell’immaginazione e della ragione a cui – oltre l’aporia teorica –
siamo spinti a pensare.
La posizione politica di Spinoza, nel passaggio dal Trattato teologico-politico al Trattato
politico, è che dal numero nasce la ragione. Così come c’è un’etica spinozista della quantità, c’è
pure una politica spinozista della quantità. Sappiamo che, nel dominio etico, la grande quantità di
forze, di esperienze, di relazioni accumulate e contratte da un corpo individuale (che producono la
massima apertura della sua attitudine ad affettare ed essere affetto) è correlata alle idee vere che
l’idea di questo corpo (la mente) è in grado di produrre. Cosa significa allora, nel dominio politico,
l’apertura massima di questa attitudine del corpo collettivo? Innanzitutto l’affermazione del tutto
assoluta della sovranità, che può essere realmente dispiegata solo dall’insieme della moltitudine che
costituisce il corpo collettivo;40 significa poi l’affermazione di un grado di razionalità (di potenza e
di perfezione) del corpo politico tanto più elevato quanto più questo corpo è il prodotto di un
movimento democratico che coinvolge il più gran numero di cittadini (e se possibile l’insieme della
moltitudine). 41
40
TP VIII,3, C. pp. 153-55.
41
TP VII,4, C. p. 115, TP VIII, 6-7, C. pp. 157-59, TP IX,14, C. pp. 217-19, TP XI,1, C. p. 235.
Nel campo delle pratiche collettive, l’immaginazione degli uomini genera insieme, secondo
Spinoza, il reale ed il razionale. In questo caso, la razionalità non rientra nel dominio della forma o
del contenuto dell’idea, ma in quello della costituzione stessa della mente. Perché la mente del
corpo politico non è altro che l’organizzazione giuridico-politica in atto che questo corpo è stato
capace di darsi in modo assolutamente immanente, nel proprio sforzo di affermazione e di
conservazione. La mente del corpo politico è la razionalità pratica dell’organizzazione del corpo
politico stesso. In questo senso pratico si può parlare dell’idea adeguata di questo corpo, cioè
quando si afferma – come l’idea adeguata in Dio – entro ed attraverso le sue istituzioni, in modo
assoluto e perfetto. Ciò non implica (come nella prima ipotesi che abbiamo fatto) che gli individui
che lo compongono siano divenuti essi stessi saggi o filosofi ma che, spontaneamente – nel caso dei
soggetti che obbediscono liberamente – oppure determinati dalla speranza o dal timore - cioè
costretti dalle istituzioni - siano effettivamente portati ad agire razionalmente, sia individualmente
che nella condotta dello Stato.
D’altra parte – ed è il caso più frequente – quando la moltitudine non è stata capace di
«mettersi d’accordo al suo interno»42 ed ha trasferito il proprio diritto ad un solo uomo con il
compito di dirigerla, la logica è la stessa: anche in questo caso il corpo politico si è dato
un’organizzazione in modo immanente, affermando e continuando ad affermare, nella figura del re,
il proprio diritto. Tuttavia, in questa mediazione istituzionale monarchica, lo Stato ha perso il
proprio carattere del tutto assoluto e la razionalità delle sue decisioni (che esiste fintantoché il corpo
collettivo mantiene una certa unità) è decisamente minore. Poiché la potenza di immaginazione
della moltitudine si esercita solo nella figura individuale del re, la sua razionalità è ridotta alle
opinioni ed agli interessi di una sola persona o del suo consiglio. 43
L’affermazione del tutto assoluta dell’esistenza di un corpo politico (la sua autonomia o
strategia perfetta) si esprime nella massima riduzione (mai totale) dello scarto tra la potenza
naturante dell’immaginazione della moltitudine e l’immaginario naturato delle istituzioni, quando
intere parti della popolazione non sono più condannate ad una sterile inerzia o, peggio, ad una
logica necessariamente sovversiva e disgregatrice, come avviene nel regime tirannico o in quello
aristocratico. Quanto più uno Stato si avvicinerà, quindi, ad essere «assoluto», tanto meno avrà
timore delle cause di sedizione ed offrirà la massima sicurezza ai suoi sudditi:

Infatti quanto maggiore è il diritto del potere sovrano, tanto più la forma dello stato si accorda con i dettami
della ragione (per l’articolo 5 del capitolo III), ed è di conseguenza più adatto al mantenimento della pace e
della libertà. 44

Finché la società si condanna alla mancanza di una certa quantità di potenza politica (quindi
di razionalità), ridotta alla sola forza dell’obbedienza passiva – che il più delle volte le si ribellerà
contro in una reazione rivoluzionaria – non potrà accedere a questo «Diritto assoluto», 45 quindi alla
sua strategia perfetta o alla capacità massima di determinare, affrontare e risolvere razionalmente i
problemi che le si pongono. Come nel dominio etico, un corpo capace di autonomia ha maggiori
forze. Queste non sono, cioè, neutralizzate, disperse o rivolte contro se stesse, ma effettivamente ed
attivamente sviluppate entro ed attraverso istituzioni che esprimono direttamente la loro auto-
organizzazione e il loro auto-sviluppo.
La vera dimensione del problema politico, quindi, è prima di tutto quella collettiva, anonima
e quantitativa, dimensione della multitudinis potentia e dell’immaginario naturante (che ne è
l’essenza) compreso nella sua attività costitutiva implicita. Sappiamo che esiste, per Spinoza, la
distinzione del potere esplicito diretto e di quello implicito indiretto. 46 Questa distinzione tende a

42
TP VII,5, C. p. 117.
43
TP VI, 4-5, C. pp. 89-91.
44
TP VIII,7, C. p. 159.
45
TP V,2, C. pp. 81-3.
46
TTP XVII, G. III p. 203, D. pp. 414-15.
svanire nei due regimi che, dal punto di vista della libertà individuale e della natura stessa dello
Stato, sono diametralmente opposti: lo Stato ebraico e lo Stato democratico. Sappiamo anche che,
nello Stato ebraico, la distinzione svanisce nell’automazione totale di individui che desiderano solo
ciò che è permesso ed hanno in avversione ciò che è esplicitamente proibito; per cui, al limite, il
potere esplicito diviene inutile, insieme ai comandamenti ed alle minacce. In questo primo caso
l’automazione reale, intrinseca alla costituzione di ogni società, è così ben integrata da essere
disconosciuta e, nel profondo della schiavitù, prevale infine il sentimento di una totale libertà. È il
modello perfetto dell’eteronomia assoluta della società e degli individui, che avrebbe potuto
realizzare uno stato ebraico perfetto. Questo avrebbe infatti interamente riassorbito il soggetto
umano, la sua potenza di pensare e di immaginare, nell’automazione del soggetto socia le.
Riflessività e volontà sarebbero state così interamente al servizio dell’adattamento dell’individuo
alla società che lo ha visto nascere e che, fin dall’infanzia, lo addestra a questo perfetto
adattamento; è il grado-zero della riflessività critica, quindi l’assenza della soggettività umana in
quanto tale e al limite, si potrebbe dire, l’assenza di politica (come impresa umana di una lucida
amministrazione dell’esistenza collettiva).
Cosa succede, invece, nello stato democratico? Notiamo innanzitutto che, nel confronto, il
soggetto pratico politico (come società) ha un vantaggio rispetto al soggetto etico individuale. Se, in
effetti, il soggetto pratico individuale non poteva essere compreso come soggetto-della-conoscenza
né come soggetto-del-desiderio (poiché sia la conoscenza affettiva – come idea adeguata – sia
l’affermazione del desiderio, come conatus, si elaborano al di qua della forma soggetto), il soggetto
pratico del corpo collettivo può realmente, in certe condizioni, identificarsi al conatus collettivo.
Infatti, se la moltitudine che detiene la potenza politica (e che la esercita senza saperlo, sia
implicitamente che esplicitamente, anche a suo danno) è capace di produrre un’organizzazione con
cui questa potenza possa effettivamente affermarsi senza sfuggire al suo controllo, è proprio come
soggetto che affermerà direttamente il suo «diritto assoluto». La democrazia è l’istituzione esplicita
della moltitudine come soggetto che decide dei problemi e dei loro casi di soluzioni; soggetto entro
ed attraverso il quale si costituisce quindi il corpo politico. Contrariamente al soggetto individuale,
l’essenziale si gioca quindi all’interno stesso della forma-soggetto -pratico politico (o almeno tende
a farlo), poiché il progetto democratico è quello della volontà collettiva di decidere coscientemente
dell’avvenire della società, di controllarne il divenire ed il senso (come direzione e significato). Al
posto dei meccanismi incoscienti delle passioni e degli interessi che determinano la moltitudine a
scegliere ciecamente una certa direzione, la democrazia instaura ora il popolo come soggetto, cioè
come istanza di riflessione, di confronto di opinioni, di dialogo ed infine - con cognizione di causa -
di decisione. L’autonomia del corpo politico è l’avvento istituzionale e storico della forza
costituente della moltitudine come potenza di riflessione e di decisione. Ciò significa che il popolo-
soggetto (di una strategia razionale) deve sostituirsi agli automatismi imposti dall’immaginazione
istituita (quella dell’autorità religiosa per esempio).
Nell’individuo umano (compreso dal punto di vista della forma-soggetto) è la ragione che
determina il soggetto pratico ad agire razionalmente (anche se questa prospettiva, ancora «dualista»,
viene meno quando si comprende, al di qua della forma soggetto, la soggettività come processo di
singolarizzazione e/o divenire-causa della modalità). Per la società democratica è il popolo-soggetto
che si determina all’azione razionale. Il razionale non è più il prodotto della determinazione della
ragione sul soggetto pratico, ma il prodotto del soggetto stesso secondo la propria azione di
confronti, scambi, deliberazioni, dialoghi interiori ed infine di decisione. Mentre nell’individuo
umano la forma-soggetto è sempre un effetto, per il corpo politico la moltitudine, la cui potenza è
costitutiva, può essere compresa come il soggetto reale sia della materia sia della forma della realtà
politica (cioè dello Stato stesso nella sua organizzazione singolare che corrisponde al proprio diritto
o alla propria potenza). Il conatus- immaginazione, attraverso cui si afferma la moltitudine
costituendosi in corpo politico, è quindi il soggetto reale della costituzione, che funziona al suo
livello più alto di attualizzazione solo in democrazia, quando il popolo riunito delibera e decide il
proprio avvenire (con la più grande efficacia operativa, si potrebbe aggiungere, quando l’assemblea
democratica è il luogo del confronto delle opinioni dei cittadini veramente preparati a questa pratica
di soggetti attivi – il che può avvenire solo nella società democratica che, in quanto possibile, guida
gli uomini sulla via della ragione).
Al di fuori della democrazia, il popolo (che non cessa di essere soggetto, non cosciente di
sé) è dominato da un immaginario sempre-già costituito, che definisce la realtà ed impone così, alla
moltitudine, la direzione della sua attività (passiva) costitutiva. In questo caso si può parlare di auto-
organizzazione alienata o eteronoma. Tuttavia, l’accesso della moltitudine all’istanza di decisione
dei problemi, come soggetto esplicito della condotta della società, non può essere compreso come
l’avvento di uno Stato tanto perfetto quanto statico ma, al contrario, come l’espressione adeguata,
nelle istituzioni, del movimento reale di auto-organizzazione ed auto-produzione indefinita di una
società. Lo Stato democratico è quindi la realtà di una situazione concreta entro ed attraverso la
quale un popolo occupa sempre più il luogo della decisione politica, rovesciando così il rapporto di
schiavitù imposto dalle affezioni passive e dall’immaginario istituito. Rovesciamento che significa
l’instaurazione di un altro rapporto tra la lucidità e l’illusione (tra ciò che è effettivamente cosciente
– come idea dell’idea vera – e ciò che è solo pregiudizio e superstizione), che è anche un diverso
rapporto del popolo con se stesso, con la realtà della sua potenza politica, dei suoi desideri e
bisogni. Non solo presa di coscienza (o presa di potere della coscienza) ma conoscenza effettiva
secondo un movimento reale che è quello della storia particolare di un popolo, dell’accumulazione
di potenza di cui è stato capace per sottrarsi alla schiavitù dell’immaginario naturato ed alle forze
oppressive che questo legittimava. Un popolo si sottrae così al destino della ripetizione delle
abitudini acquisite, trasformando le loro affezioni passive in potenze attive di liberazione.
Significa che la democrazia, come la saggezza, più che uno Stato particolare è il movimento
reale attraverso cui una società si sottrae continuamente allo stato di schiavitù passando ad una
perfezione maggiore. È questo movimento di liberazione (che è anche quello
dell’attualizzazione/costituzione/affermazione dell’essenza singolare del corpo politico) che lo Stato
democratico deve esprimere e favorire. La stabilità delle sue istituzioni si fonda sul dinamismo
stesso del popolo che le ha prodotte, cioè sulla sua potenza di azione e di resistenza ad ogni
aggressione – sia interna che esterna - verso la propria sovranità. Significa che la stabilità delle
istituzioni democratiche dipende, paradossalmente, dalla loro disponibilità alla critica razionale ed
al cambiamento, seguendo i bisogni e i desideri di questo popolo nella sua auto-organizzazione
sempre più perfetta, cioè nella sistemazione sempre più adeguata della strategia di affermazione del
corpo collettivo. La stabilità, così come la realtà della democrazia, dipende quindi dal dinamismo
perenne di auto-perfezionamento della multitudinis potentia.
Se l’attualizzazione della potenza della moltitudine potesse essere totale, se l’intero
immaginario naturante passasse integralmente nel naturato (le istituzioni, i costumi, le leggi), se
l’essenza del politico divenisse così l’esistenza, anche in uno Stato particolare, ciò significherebbe:
1) che la mutazione della potenza immaginaria in strategie razionali sarebbe essa stessa totale,
implicando l’eliminazione di ogni elemento di particolarità che definisce l’identità di una nazione (i
suoi pregiudizi, i suoi costumi singolari); 2) che il tempo proprio di questo Stato (come soggetto
assoluto) non sarebbe altro che la durata stessa dell’eternità nell’identificazione perfetta dell’ordine
della sua produzione con quello per cui la sua idea adeguata si produce in Dio.
Ora queste due conseguenze, dal punto di vista del testo e nello spirito dello spinozismo,
sono entrambe assurde. Implicano, infatti, due idee che Spinoza respinge: quella di una società
filosofica (o di filosofi), che possederebbe cioè, come soggetto assoluto, un sapere assoluto di se
stessa (nell’identità perfetta del soggetto e dell’oggetto della conoscenza); quella di fine della Storia
(sia come termine sia come scopo), che corrisponderebbe al regno definitivo della Ragione (per la
società come per gli uomini).
Questo – la consegue nza è già stata constatata – renderebbe inutile lo Stato stesso e
dissolverebbe ogni istituzione, ma il realismo etico e politico di Spinoza non può prenderlo in
considerazione. Infatti, «gli uomini […] sono, come abbiamo detto, per natura nemici, e sebbene si
uniscano e si vincolino con le leggi, conservano questa natura»; 47 e, si potrebbe aggiungere, per
quanto siano perfette, queste leggi non possono mai liquidare definitivamente questo antagonismo.
Poiché è impossibile, anche in una società democratica, eliminare le passioni che sono la condizione
stessa dell’articolazione dei corpi nel corpo collettivo della società, sulla base passionale/relazionale
del corpo sociale primitivo. La trasparenza sociale (la razionalità del corpo sociale) è questo sforzo
continuamente rinnovato il cui limite assolutamente irraggiungibile (dell’identificazione
dell’essenza e dell’esistenza), invece di essere un ostacolo è al contrario la condizione stessa di
questo sforzo e della possibilità – che constatiamo di fatto – di una storia delle società.
Eppure, l’idea dello Stato assoluto come soggetto, la cui strategia razionale si è portata ai
livelli più alti di perfezione (o di realtà politica) resta esatta, nelle sue linee fondamentali, se non si
identifica il soggetto raziona le ad uno stato compiuto, ma al movimento reale della moltitudine
nella sua volontà tenace e rinnovata di autonomia. Perché attraverso questo stesso movimento della
potenza politica nella sua affermazione assoluta il popolo – organizzando le proprie contraddizioni
e passioni – può affermarsi realmente come soggetto, cioè investire con la sua potenza costitutiva la
struttura soggetto pratico del corpo politico. Così come per il saggio, questa «pienezza» totale della
sovranità non è ottenuta «perché teniamo a freno le libidini; ma al contrario, poiché godiamo di
essa, possiamo tenere a freno le libidini». 48 La pratica stessa della democrazia, quindi, il suo
sviluppo sempre più potente, rende la potenza dell’immaginazione naturante del corpo politico una
potenza sempre maggiore di produzione di razionalità. È la stessa logica dell’accumulazione delle
forze che abbiamo già commentato a proposito del soggetto etico. La proposizione 20 della quarta
parte dell’Etica può essere riformulata così: quanto più uno Stato si sforza di ricercare ciò che è
utile alla concordia ed alla pace, cioè di perseverare nel suo essere, tanto più ne ha il potere e tanto
più è dotato di potenza (o di diritto, il che significa una maggiore potenza di agire secondo le leggi
della propria na tura, 49 in modo autonomo). Al contrario, quanto più questo Stato non persegue il
proprio utile, cioè il suo essere, tanto più il suo diritto diminuisce, condannandosi così
all’eteronomia. Il soggetto autonomo non è espresso, quindi, dal potere di una coscienza sovrana
contro il desiderio, ma è il desiderio stesso al potere in quanto ragione (la moltitudine come
Desiderio), per un lavoro di liberazione senza fine su ciò che, nel corpo sociale come soggetto,
resiste alla sua sovranità assoluta. 50 Questo lavoro consiste nella pratica stessa della democrazia,
nell’insegnamento delle scienze, nell’educazione morale e nella lotta costante contro i pregiudizi, la
superstizione, l’intolleranza ed il fanatismo.
Con la ricorsività dell’accumulazione tra il naturante ed il naturato, ritroviamo la distanza
(senza la quale questa ricorsività sarebbe impossibile) - già rilevata tra il corpo-organico ed il
corpo-desiderio nell’individuo umano - tra il corpo della società istituita ed il corpo naturante di
questa istituzione. Scarto necessario, insuperabile, del legame paradossale attraverso cui si genera
sia l’individuo sia la società. Ciò avviene entro ed attraverso un’organizzazione che – salvo
nell’ordine del pensiero, della produzione dell’idea adeguata «assoluta» e «perfetta» - non può
realizzare radicalmente in se stessa l’infinità della sua causa immanente, benché questa, senza
contraddizione, vi si possa attualizzare in modo «del tutto assoluto». Eppure, così come un corpo,

47
TP VIII,12, C. p. 163.
48
E V,42, B. 317.
49
E IV,35, corollario 2, B. p. 255.
50
Prima di Spinoza (ad eccezione dei Monarcomachi, su cui torneremo in seguito) l’idea dominante della
sovranità (e della sovranità asoluta) è legata all’idea del dominio politico del sovrano sulla moltitudine «selvaggia» e
sulla sua potenza naturale. Il problema è rendere questa dominazione «assoluta», cioè conferire al sovrano un controllo
illimitato (perfino sugli animi: Hobbes, Richelieu…). Spinoza libera l’idea della sovranità assoluta dal mito di un
dominio illimitato della moltitudine, per affermare al contrario la sovranità del tutto assoluta in una logica immanente
dell’auto-organizzazione autonoma del corpo collettivo. Sovranità-autonomia contro sovranità-controllo, questo lo
scontro aperto da Spinoza; e solo nel primo termine dell’alternativa l’idea di una sovranità «assoluta» trova
effettivamente un senso pienamente razionale. Ora questa sovranità assoluta, invece di cedere al fantasma del dominio
illimitato, afferma al contrario l’auto-limitazione della moltitudine ed in questo modo un controllo di sé che è la
principale garanzia della libertà dei cittadini e della stabilità dello Stato.
quando afferma la propria salute attraverso la sua perfezione, non si aliena nella propria
organizzazione, allo stesso modo un corpo politico non si aliena entro delle istituzioni che
assicurino effettivamente la concordia e la pace. Se c’è alienazione, deve essere compresa
certamente in questo rapporto, ma il rapporto stesso è tutt’altro che alienante, poiché esprime il
movimento di auto-affermazione del conatus sociale stesso, cioè la sua radicale positività.
L’alienazione, al contrario, è la conseguenza dell’impotenza di una società ad affermare l’integralità
delle proprie forze, dando luogo ad un’organizzazione politica la cui razionalità – come il diritto o
la potenza a garantire la concordia e la pace – sarà minore.
L’auto-limitazione reale, instaurata col rapporto tra naturante e naturato, non può quindi
essere confusa con l’alienazione con cui una società è separata dalle proprie forze. La società
alienata o eteronoma che si ignora come auto-organizzatrice non può, proprio per questo,
riconoscere l’auto- limitazione. Il limite che riconosce è in funzione di un’entità posta come
esteriore e trascendente la propria attività (la Natura, la Ragione, Dio); può anche tendere, come nel
caso della perfetta teocrazia, a far svanire nei propri sudditi - fin dall’infanzia e attraverso
l’educazione - il sentimento stesso della limitazione, fino ad annientarlo totalmente. In questo modo
obbedire alla Natura, alla Ragione o a Dio, per degli esseri per cui il proibito non ha più alcuna
attrattiva e che desiderano solo ciò che è permesso, significa essere (o credersi…) realmente liberi.
Al contrario, in modo pienamente lucido, una società realmente libera riconosce i propri
limiti nell’atto stesso con il quale si istituisce. Pone i propri criteri di determinazione del bene e del
male, del giusto e dell’ingiusto, senza che qualcosa di esteriore possa garantire la verità di ciò che
pone come vero, la giustizia di ciò che immagina esser giusto, la fondatezza di ciò che prescrive
come bene. Come l’idea vera implica in sé il sapere della propria norma, la società democratica sa
di essere index-sui, autonoma. La società democratica sa, in sé, che può e deve contare solo sulle
proprie forze, che le uniche sue garanzie sono, prima di tutto, nella capacità di auto-regolarsi, di
trovare autonomamente le istituzioni che garantiranno al meglio una condotta moderata del corpo
sociale, prevenendo le passioni eccessive (solo la passione della libertà, al principio stesso della
democrazia, non può – per natura – essere eccessiva). Le sue garanzie si trovano poi nella capacità
di modellare gli animi dei soggetti, di far penetrare lo spirito democratico nei loro cuori, cioè nei
costumi stessi del popolo: è la funzione decisiva dell’educazione.
Infatti, se il primo aspetto (istituzionale) ha una grande importanza, Spinoza è perfettamente
cosciente del fatto che le disposizioni giuridiche hanno ben poca forza quando le passioni sociali si
scatenano e che, contro il delirio anti-democratico di una parte della popolazione, si deve contare
innanzitutto sulla potenza della moltitudine nella difesa delle istituzioni. Ora questa resistenza – del
diritto di natura, contro il diritto (e la logica) di guerra affermata dai ribelli – sarà proporzionale al
desiderio attuale di democrazia provato dalle «masse» (desiderio di libertà e di uguaglianza come
oggetti di un amore comune). Significa che «il diritto che si definisce in base alla potenza» della
moltitudine 51 prevale realmente sulla legge come rappresentazione istituita; significa anche che la
potenza collettiva della moltitudine prevale su delle istituzioni che (come le idee) sono sia adeguate
che operative solo quando non sono separate dalle proprie cause. In caso contrario, le istituzioni
sono solo astrazioni, macchie d’inchiostro su carta, cioè tracce di impotenza. Segnaleremo in questo
modo come, per Spinoza, la libertà si afferma e si difende realmente, non dal punto di vista delle
istituzioni e della loro legittimità, ma da quello della forza del movimento stesso del reale che
produce le istituzioni; punto di vista ontogenetico del diritto di natura e non della legge, della
potenza e non del potere. 52 Queste ultime riflessioni ci spingono, per concludere, alle prime analisi
sul soggetto dell’obbedienza.

51
TP II,17, C. p. 49.
52
Sulle occorrenze delle nozioni di jus e lex nel TP (nettamente favorevole al primo, 335 contro 84), cfr. P.-F-
Moreau, Spinoza, nouvelles approches textuelles, “Raison présente” 43 (1978). Si veda anche su questo punto A. Negri
che oppone il diritto alla legge, come si oppone la potenza al potere. Cfr. L’anomalia selvaggia, in particolare le pp. 225
e sgg. La potenza costitutiva della moltitudine ha quindi il primato sul formalismo della legge. Ma bisogna forse
comprendere (oltre l’interpretazione di Negri) che la legge stessa, nella rappresentazione immaginaria della sfera
È la resistenza che fa il cittadino
In ogni società si tratta di obbedire. Eppure, il soggetto dell’obbedienza di una libera
Repubblica non può certo essere identificato con quello di una tirannia! L’individuo umano è
caratterizzato da impotenza e in-adattamento fin dalla nascita. Il suo sforzo (entro ed attraverso la
rappresentazione) consiste nell’adattarsi al mondo o nell’adattare il mondo a se stesso,
costituendolo. Ora, in una società politicamente organizzata, è essa stessa che costituisce
l’individuo adattato, cioè obbediente; e nello Stato tirannico il desiderio del sovrano è che questo
adattamento sia perfetto. Tuttavia, salvo che per dei barbari interamente privi di ragione ed in
condizioni eccezionali, questa costruzione di automi resta, per una società, il limite ideale ma anche
contraddittorio dell’obbedienza.
Ideale solo in apparenza, poiché l’automazione è il segno – ed il risultato – di un
trasferimento integrale del diritto di natura individuale al sovrano, impresa - come vedremo –
impossibile. Contraddittoria, perché è veramente possibile parlare di obbedienza quando
l’automazione del soggetto è totale? Se l’animale, con una coscienza più o meno grande dei propri
atti, o anche senza alcuna coscienza, agisce esattamente nello stesso modo, nell’adattamento
perfetto alle proprie condizioni di esistenza, si può ancora parlare di un soggetto umano? Sembra
proprio di no. In primo luogo, l’obbedienza è «la costante volontà di fare le cose che secondo il
diritto sono buone e che per decisione comune devono esser fatte»; 53 implica, dunque, un rapporto
ad una legge esteriore esplicita ed in questo modo, nel soggetto sociale, una «volontà» di
sottomettersi o sottrarsi a questa legge, in funzione di un rapporto al reale che si delinea come un
campo di «possibilità». 54 In secondo luogo, il soggetto umano si definisce con l’esercizio della
ragione, non nella funzionalità dell’adattamento (anche gli animali hanno questa ragione), ma nella
capacità di giudicare del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male,
determinando così la propria azione in funzione della rappresentazione di una legge che la volontà
può decidere o meno di osservare. 55 [ho soppresso, ok]
Spinoza non è Hobbes. Per quest’ultimo il soggetto umano può identificarsi totalmente al
suddito dell’obbedienza-automazione, quando la razionalità pratica si esercita idealmente, cioè
adeguatamente alla propria finalità. Per Hobbes, in effetti (che resta così prigioniero della
problematica idealista della pratica che Spinoza critica in apertura del Trattato politico), il
funzionamento perfetto della ragione è nella perfetta espressione che questa, per calcolo, ha potuto
fornire al soggetto sul proprio interesse ben compreso; ossia la riduzione integrale della riflessione
ad una legge naturale che indica imperativamente l’utile dell’individuo il quale non può, per natura,
essere in contraddizione con quello del sovrano. 56 La legge naturale, che Hobbes postula nella
natura umana ed attraverso la quale i soggetti possono divenire - con la ragione - dei perfetti automi,
rende quindi inutile lo Stato. È il limite e la contraddizione di ogni pensiero dell’obbedienza politica
integrale (e/o del controllo illimitato del potere) concepita come sottomissione interna (da non
confondere con il pieno consenso dell’anima, che è un’attività e la conclusione di una riflessione
non solo razionale ma anche critica). Per Hobbes la realizzazione sociale del soggetto pensante è la
sua stessa scomparsa nell’automazione; il soggetto razionale è il soggetto funzionale, cioè l’automa
interamente assoggettato ai fini della sovranità la cui strategia – o la cui teleologia – è tanto più
perfetta quanto più è adatta a priori alle proprie condizioni politiche di esistenza. Da ciò
l’importanza, nella società hobbesiana, di un’educazione politica che deve convincere i soggetti
della verità della scienza politica di Ho bbes, riducendo così lo spazio pubblico dell’espressione

giuridico-politica, è la mediazione necessaria della potenza della moltitudine nella sua affermazione, così come il
sintomo del suo stato presente.
53
TP II,19, C. p. 51.
54
TTP IV, G. III p. 58, D. p. 104.
55
Questo punto è stato sviluppato in particolare da E. Balibar in Jus – Pactum - Lex, op. cit. pp. 123-24.
56
Cfr. A. Matheron, Spinoza et la décomposition de la Politique thomiste, in “Anthropologie et politique au
XVIIème siècle”, Paris, Vrin, 1986, pp. 77-9; A. Tosel, La théorie de la pratique et la fonction de l’opinion publique
dans la philosophie politique de Spinoza, “Studia spinozana”, 1 (1985), pp. 194-95.
plurale delle opinioni ad un campo di propaganda: per Hobbes, convincere o educare significa – da
un punto di vista spinozista – costringere:

se si vuole introdurre una dottrina sana si deve cominciare dalle università. Qui devono essere poste le basi
della dottrina civile vera, e veramente dimostrata; e i giovani, dopo averla assimilata, potranno insegnarla
privatamente e pubblicamente alla plebe. Questo lo faranno con tanto maggiore alacrità e impegno, quanto più
saranno convinti della verità delle cose che insegnano e predicano. Infatti, se vengono oggi accolte, per
l’abitudine a sentirle pronunciare, delle proposizioni del tutto false, e non più comprensibili che se le loro
parole fossero state estratte a caso da un’urna, quanto meglio conquisteranno gli uomini, per la stessa causa,
delle dottrine vere, conformi al loro intelletto e alla natura delle cose? Ritengo dunque sia dovere di chi ha il
potere supremo, fare mettere per iscritto i veri elementi della dottrina civile, o comandare che siano insegnati in
tutte le università dello Stato.57

Quando la verità si impone ai sudditi in modo istituzionale, attraverso lo Stato e in modo


trascendente – sia attraverso le «ragioni, chiare e forti» della «scienza» (Hobbes) o della parola di
Dio (Mosè e lo Stato ebraico), sia attraverso le «astuzie» pedagogiche e la convinzione razionale,
sia attraverso l’addestramento sistematico che porta alla sottomissione superstiziosa – il suddito
dell’obbedienza è ridotto allo stato di automa.
Quando la riflessione del suddito è funzionale e politicamente automatizzata la sua
coscienza, nell’adattamento sociale perfetto, è completamente illusoria e la ragione è ridotta ad un
uso strumentale. La coscienza di sé del suddito è quindi il luogo di una incomprensione
fondamentale del proprio funzionamento, anche – o meglio soprattutto – quando si è nutrita della
scienza politica di Hobbes. La riflessività funzionalizzata è catturata in una logica strategica del
soggetto sociale no n adeguatamente riflettuta. La riflessività costitutiva della soggettività etica, al
contrario, è riflessione sulla riflessione funzionale irriflessa. Riflessione critica che può farsi
esclusivamente (al di fuori dell’illusione che può certamente moltiplicare i punti di vista
contraddittori delle opinioni) dal punto di vista vero dell’idea adeguata del conatus umano nella sua
natura ordinante, immaginante e strategica.
All’altra estremità del ventaglio del soggetto pratico dell’obbedienza si trova quindi il
soggetto etico, il cui oggetto del desiderio (rivestito di senso e di valore) è la verità. Certamente
«non possiamo, se non impropriamente, chiamare obbedienza una vita razionale»; 58 in quanto tale il
soggetto etico non è un soggetto dell’obbedienza. Lo è solo in quanto soggetto sociale confrontato
alle leggi particolari di una data società. Tuttavia il suddito di una libera Repubblica, come il
soggetto etico, si definisce per la sua potenza di ragionamento e di giudizio. E questa potenza, nel
cittadino per eccellenza, è quella della sua riflessività critica: così,

se qualcuno dimostra che una legge è contraria alla sana ragione e quindi ritiene che debba essere abrogata, e
insieme sottopone questo suo parere al giudizio della somma potestà (alla quale soltanto spetta di promulgare e
abrogare le leggi), e intanto nulla fa contro il disposto della legge stessa, egli è benemerito dello Stato né più né
meno di ogni altro cittadino… ut optimus quisque civis.59

Ed è proprio questa soggettività specificamente umana (a differenza della riflessività della


funzionalità) che Spinoza pone come incomprimibile.

57
Hobbes, De Cive. Elementi filosofici sul cittadino, a cura di Tito Magri, Roma, Editori Riuniti, 19923 , II, 13,
9, pp. 197-8.
58
TP II,20, C. p. 51. Di nuovo l’opposizione di Spinoza ad Hobbes è radicale. L’atto di insegnare, anche la
verità, non può essere diverso, per l’autore del Leviatano, da un «gesto con il quale esprimiamo la nostra obbedienza».
In Spinoza, quello di insegnare è un atto di pura indipendenza che si può esercitare solo «a sue spese e a rischio della
propria reputazione» (TP VIII,49, C. p. 203 e Epistola XLVIII a Fabritius del 30 marzo 1673, G. IV pp. 235-36).
59
TTP XX, G. III p. 241, D. p. 483.
Per esempio, nessuno può rinunciare alla facoltà di giudicare: quali promesse o minacce possono mai indurre
un uomo a credere che il tutto non sia più grande di una sua parte, o che Dio non esista, o a prendere per ente
infinito un corpo che vede finito, e, in generale, a credere cose contrarie a quelle che sente e che pensa? E
ancora, con quali promesse o minacce si può indurre un uomo ad amare chi odia o a odiare qualcuno che ama?
Vanno ricondotte in quest’ordine di cose anche quelle azioni dalle quali la natura umana rifugge tanto da
ritenerle peggiori di ogni male: per esempio, che un uomo renda testimonianza contro se stesso, che si torturi,
che uccida i propri genitori, che non cerchi di evitare la morte, e simili cose cui nessuno può essere indotto né
con promesse né con minacce. 60

Si ha qui l’irriducibilità di una potenza o di un diritto assoluto che resiste ad ogni


trasferimento:

Nessuno, infatti, potrà mai trasferire ad altri il proprio potere né, di conseguenza, il proprio diritto fino al punto
da cessare di essere uomo; e nemmeno si darà mai un potere così assoluto, che possa fare tutto ciò che vuole.61

Anche nello Stato ebraico, che si è avvicinato maggiormente alla possibile automazione
integrale del soggetto dell’obbedienza, sia Mosè che la legge non poterono sfuggire alla critica:

per quanti risultati l’artificio abbia potuto ottenere in questo campo, tuttavia non si arrivò però mai a tanto che
gli uomini non sperimentassero che ognuno abbonda del proprio senso e che tanto variano le teste quanti sono i
palati. Mosè, il quale, non per astuzia, ma per divina virtù, era riuscito a influenzare al massimo il giudizio del
suo popolo, come quegli che era ritenuto uomo divino e che nulla diceva né faceva se non per divina
ispirazione, non poté tuttavia sfuggire alle calunnie e alle sinistre interpretazioni del popolo stesso; e meno
ancora poterono sfuggirvi gli altri monarchi: e se questo potesse essere in qualche modo concepito, lo sarebbe
soltanto in un regime monarchico, ma non in quello democratico, dove il potere è esercitato collegialmente da
tutti o dalla grande maggioranza dei cittadini. E credo che la ragione di ciò sia a tutti evidente. 62

Certamente la critica del soggetto dell’obbedienza non è sempre rigorosamente razionale


(ben lungi da ciò) né esente da pensieri sediziosi (sia espliciti che impliciti). Nella sua stessa origine
– nel cuore della superstizione – la critica è solo l’espressione della diversit à e dell’incostanza delle
illusioni che seducono l’animo umano. 63 Tuttavia, Spinoza ritiene questa attitudine a «esprimere il
proprio giudizio intorno a qualunque cosa», 64 per quanto asservita ai significati che in apparenza
essa contesta, un «diritto naturale» che lo Stato non può voler sopprimere senza mettersi così lui
stesso in pericolo. Nella sua estrema diversità, come nella propria natura, la «libertà di giudizio […]
è certamente una virtù», cioè sia una potenza propria della natura umana, sia il fondamento dello
Stato assoluto la cui libertà (nella sua diversità di espressione) è costitutiva della propria sostanza.65
Eppure questo «naturale diritto, e cioè la propria facoltà di ragionare liberamente e di esprimere il
proprio giudizio intorno a qualunque cosa», 66 può solo essere, di fatto, una conquista ed una
produzione storica, se non si intende per libertà solo l’indipendenza relativa dei propri pregiudizi
rispetto a quelli del sovrano, ma la potenza attuale di giudicare la legge dal punto di vista della
ragione. Da qui la formidabile risposta di Spinoza a coloro che disprezzano la moltitudine,

[e] circoscrivono alla sola plebe i vizi che sono insiti in tutti i mortali […]; Non fa infine meraviglia che la
plebe non conosca verità né giudizio, dal momento che i principali affari di stati vengono trattati alle sue spalle,
ed essa può trarre delle congetture solo da pochi elementi che non si son potuti nascondere. La sospensione del
giudizio è una virtù rara. Dunque pretendere di fare ogni cosa all’insaputa dei cittadini, e al tempo stesso che

60
TP III,8, C. pp. 61-3.
61
TTP XVII, G. III p. 201, D. p. 412.
62
TTP XX, G. III p. 239, D. pp. 480-81.
63
TTP, praef., G. III p. 6, D. p. 3.
64
TTP XX, G. III p. 239, D. p. 480.
65
TTP XX, G. III p. 243, D. p. 485.
66
TTP XX, G. III p. 239, D. p. 480.
essi non formulino giudizi malevoli né diano sinistre interpretazioni di tutto, è il massimo della stoltezza. Se la
plebe fosse in grado di controllare se stessa e di sospendere il giudizio sulle cose poco conosciute, oppure di
giudicare correttamente sulla base di pochi elementi noti, allora essa sarebbe degna di governare piuttosto che
di essere governata.67

La costruzione del suddito per eccellenza non può che essere il frutto sia delle istituzioni che
dell’educazione. Il compito storico è quello di permettere allo Stato l’attualizzazione del proprio
fine, che non è il dominio ma la libertà. Non è neanche la produzione di automi (più o meno ben
regolati) ma quella di veri soggetti umani, atti a lavorare insieme nella costruzione di una società di
concordia e di pace, una società autonoma, in cui tutti i cittadini parteciperanno effettivamente alla
costituzione politica. 68 Lo sostiene la dinamica stessa della vita nella sua essenza affermativa e nella
sua accanita resistenza a tutte le figure dell’oppressione: gli uomini non possono essere mantenuti
per lungo tempo nello stato di animali o di automi; «quanto più ci si sforzerà di impedire agli
uomini la libertà di parola, tanto più ostinatamente essi resisteranno», nello stesso modo in cui la
vita resiste in ciascuno alla tristezza, poiché «quanto maggiore è la Tristezza, con tanta maggiore
potenza di agire l’uomo si sforzerà di allontanare la Tristezza». 69 La tirannia, come la tristezza, è
quindi fondamentalmente contro natura… a meno che – triste paradosso della schiavitù – non sia
direttamente la causa di qualche gioia. Così come sappiamo già che delle gioie «cattive» fissano il
soggetto nella sua impotenza e nei suoi pregiudizi, 70 il Trattato teologico-politico ci insegna che
«gli avari, gli adulatori e simile gente dappoco, per la quale la suprema salute sta nel contemplare il
denaro che ha nello scrigno e nell’avere la pancia piena», 71 non resisteranno e, come animali,
godranno e vivranno «content[i] della natura di cui [sono] fatti». 72 Resisteranno solo «coloro che la
buona educazione, l’integrità dei costumi e l’esercizio della virtù hanno resi più liberi». 73 Quelli che
le circostanze storiche e sociali avranno preparato ad una tale resistenza facendogli amare più di
ogni altra cosa la verità e la libertà e che in questo modo, per difendere i valori a cui sono
intimamente legati (poiché costituiscono il senso della loro esistenza), non avranno più timore della
morte. Spinoza afferma in questo modo che «lo Stato più naturale», cioè quello dell’esercizio libero
del giudizio e della parola, è in realtà una produzione storica. Così,

Coloro che hanno coscienza della propria onestà non temono la morte come i malfattori, né hanno terrore del
supplizio; e poiché il loro animo non è angustiato dal rimorso di alcun misfatto, anziché un supplizio, reputano
una fine onorevole e gloriosa quella di morire per la giustizia e per la libertà. E quale esempio si può offrire con
l’uccisione di questi uomini, il cui ideale, incompreso dagli spiriti fiacchi e inerti, e combattuto dai malvagi, è
invece ammirato dagli onesti? Nessuno invero può prenderne esempio se non per imitarne la sorte, o almeno
per esaltarla. 74

Si impone dunque al filosofo, come all’intera società, il compito di formare degli «uo mini
liberi» (viros ingenuos), 75 nell’amore della verità e della libertà; degli uomini pronti
all’indignazione ed alla resistenza ad ogni potenza oppressiva ed inumana; degli uomini capaci, per
la loro onestà ed il loro coraggio, di provocare l’ammirazione del popolo e la vergogna dei tiranno
(ed ancora, con il loro esempio, l’indignazione di ognuno e la sconfitta dell’ambizione e del
fanatismo). Il compito politico del filosofo, come dell’intera società, è quindi di produrre un
soggetto amoroso il cui oggetto, o causa di gioia (che prende senso e valore dal desiderio stesso che
le costituisce come oggetto e come causa), è la verità e la libertà. Ora, queste sono riconosciute
67
TP VII,27, C. p. 141.
68
TTP XX, G. III p. 241, D. p. 483.
69
E III,37 dimostrazione, B. p. 199 e TTP XX, G. III p. 243, D. p. 485.
70
E IV,59, dimostrazione, B. p. 273.
71
TTP XX, G. III p. 243, D. p. 486.
72
E III,57 schol., B. p. 216.
73
TTP XX, G. III p. 243, D. p. 486.
74
TTP XX, G. III p. 245, D. p. 487.
75
TTP XX, G. III p. 245, D. p. 487.
come oggetto, causa, valore e significato solo nel dominio dell’immaginario. Possono essere
desiderate da un soggetto solo come valore e significato, solo come bona causa che è tuttavia
«buona» e «causa» solo secondo il movimento del desiderio che si rivolge verso una cosa
costituendola; processo dell’immaginazione che è anche quello della ricognizione amorosa.
Che la libertà e la verità possano essere, per gli uomini, oggetto di desiderio, significa che
non sono delle semplici astrazioni ma dei valori costitutivi della vita in comune, «veramente
umana» - si dovrebbe dire di un habitus veramente umano – che procura una gioia potente,
superiore ad ogni altra ed una passione ancora più forte di vivere liberi amando la verità. Da ciò
deriva la centralità, per ogni società, dell’impresa educativa. Poiché è pericoloso pretendere di
regolare tutto con delle leggi, il compito dell’educazione occupa un posto essenziale nella libera
Repubblica:

colui che tutto pretende di stabilire per legge, finirà coll’esasperare le passioni più che reprimerle. Ciò che non
può essere vietato deve essere necessariamente permesso, per quanto danno ne derivi.76

Come ridurre, quindi, in quanto possibile, questo «danno» causato dalla libertà? Con la
libertà stessa, che offre i mezzi per lottare contro le proprie conseguenze dannose; e tra questi mezzi
c’è l’insegnamento che, sulla base dell’idea adeguata e della riflessione critica, lavora sul campo
della libertà istituita dallo Stato, aperto all’espressione delle opinioni più diverse, alla formazione di
un’opinione pubblica libera. La filosofia deve così: 1) difendere – si dovrà dire piuttosto produrre –
questo campo aperto alla diversità delle idee, senza il quale non sarebbe essa stessa possibile; il
problema politico, sia per i corpi che per le idee, è un problema di spazio da produrre, liberare,
difendere. Dal fatto che «un pensiero è limitato da un altro pensiero»77 deriva la necessità storica
della lotta ideologica, che è conquista di nuovi spazi per il pensiero; deriva anche la necessità della
strategia (termine che rinvia ad una conquista dello spazio – in questo caso lo spazio pubblico della
libera espressione delle opinioni); 2) sviluppare in seno a questo campo, necessariamente
attraversato da forze contraddittorie (poiché è il terreno dove si affrontano le passioni e gli
interessi), delle forze singolari di analisi, di critica, di resistenza e di indignazione verso coloro che
desiderano ridurre lo spazio di espressione sociale delle opinioni al campo chiuso della propria
superstizione (cioè al grado zero della riflessione critica, il terreno migliore per la formazione del
suddito automa).
Il dinamismo della strategia adeguata della multitudinis potentia suppone l’esistenza di
questa doppia necessità nello Stato: la libera espressione delle opinioni che deve, attraverso la
mediazione delle istituzioni, sfociare su una decisione consensuale; un insegnamento che non lascia
degenerare il confronto di opinioni nella confusione o nell’impotenza a decidere ed agire.
L’impresa critica dell’insegnamento deve: neutralizzare nelle menti le forze che vogliono
sopprimere il libero confronto delle opinioni; rinforzare l’amore della libertà e l’attitudine al
ragionamento di ciascuno; accelerare il processo della costituzione delle soluzioni più adatte.
L’opinione pubblica critica deve – in qualche modo – occupare e difendere lo spazio di
libertà (possibile) lasciato vacante dalla legge (contro le forze dell’ambizione e del fanatismo che
reclamano leggi e sanzioni a favore solamente della propria sètta e dei propri interessi). La necessità
della sua formazione è il segno, in Spinoza, del primato della potenza reale – o dei rapporti di forza
che attraversano la moltitudine – sulla legge che, in ultima istanza, è solo l’espressione
istituzionalizzata di questi rapporti. L’avvenire, che la società come il filosofo possono prescriversi,
può essere preparato solo attraverso le forze dell’indignazione, della resistenza, del coraggio e
dell’amore: forza dell’«esempio» dell’uomo libero che, di fronte al dominio tirannico, in totale
accordo con se stesso ed a rischio della propria vita, oppone potentemente la franchezza alla
doppiezza, la fierezza all’adulazione, la rettitudine alla corruzione, l’onore all’inganno, la ragione

76
TTP XX, G. III p. 243, D. p. 485.
77
E I, def. 2, B. p. 87.
alla violenza e, infine, la gloria offerta dalla lotta per la libertà alla «vergogna» del sovrano divenuto
tiranno. 78 La vergogna (pudor) che è una «Tristezza che accompagna l’idea di una certa azione che
immaginiamo sia dagli altri vituperata»79 e che, come il Pentimento, «dipende soprattutto
dall’educazione», 80 è un affetto necessario nella costituzione del suddito dell’obbedienza. Proprio
una vergogna, infatti, deve esser provata da questo soggetto disobbedendo agli ordini, sia a quelli
degni di essere obbediti, sia a quelli indegni, che sono la vergogna del sovrano… e che creano
l’indignazione. L’indignazione è quindi correlata alla vergogna che si proverebbe ad accettare uno
stato di cose che, di fatto, è contrario alla natura umana, come mostrano appunto, in questa
situazione, l’indignazione e la resistenza dei cittadini più onesti. Così, solo quando gli uomini liberi
ed indipendenti obbediscono alle leggi col pieno consenso dell’anima, la società è sulla strada della
libertà (condizione necessaria ma non sufficiente, poiché talvolta, per la conquista della libertà, è
preferibile obbedire tatticamente, in modo esteriore, al tiranno piuttosto che ribellarsi al momento
inopportuno). Ma, come afferma Spinoza, - seppure in un altro contesto – talvolta è dannoso
mostrare un’eccessiva prudenza o saggezza. Così, non si tratta per la libera Repubblica di produrre
dei sudditi dell’obbedienza perfettamente adattati ad una data società, ma di formare degli uomini
che siano al contrario capaci di resistere ai poteri. L’educazione deve insieme mantenere la funzione
dello Stato e fornire ai cittadini la forza di difendersene. Infatti lo Stato (come la legge) non ha
soltanto, per Spinoza, la funzione di comandare e di punire, ma anche di far avanzare gli uomini
sulla strada della libertà e della Ragione, di fare in modo che «la loro mente e il loro corpo possano
con sicurezza esercitare le loro funzioni»: 81 è la funzione educativa della legge che sembrerebbe
dover protrarre l’educazione che uno Stato deve dare ai propri cittadini. Eppure, se Spinoza sostiene
effettivamente che la legge è un sostituto della Ragione (ed anche un mezzo della sua costituzione
in ogni individuo che non può sviluppare la ragione allo stato di natura), non si fida tuttavia
dell’educazione regolata direttamente dallo Stato:

Le università – afferma – che vengono fondate a spese della repubblica non sono istituite tanto per coltivare,
quanto per coartare gli ingegni. Ma in una libera repubblica verranno coltivate al meglio le scienze e le arti se
verrà concesso a chiunque ne chieda l’autorizzazione di insegnare pubblicamente, a sue spese e a rischio della
propria reputazione.82

Se la legge in quanto tale (astrazion fatta dai suoi contenuti più o meno razionali che
possono entrare in contraddizione con la sua funzione) ha strutturalmente un ruolo liberatore, lo
Stato come impresa di educazione è al contrario una forza coercitiva. Ritroviamo così, nel Trattato
politico come nel Trattato teologico-politico, l’elogio della diversità delle opinioni e degli
insegnamenti, come spazio pubblico della libertà di espressione in cui si può esercitare un
insegnamento dal punto di vista della ragione. E questo insegnamento (contrariamente alla tendenza
naturale di quello di una chiesa o di uno Stato particolari per produrre il proprio suddito
dell’obbedienza, anche «razionale» secondo il progetto di Hobbes) forma un soggetto della società
in generale, indipendentemente dai contenuti particolari che questo soggetto è capace di riflettere, di
criticare e, in una democrazia e con la maggioranza dei suoi concittadini, anche di modificare.
Questo insegnamento produce anche un habitus, che è formazione alla resistenza contro ogni forma
di automazione (di assoggettamento) che trascina gli uomini a loro insaputa a combattere per la
schiavitù come se si trattasse della salvezza e che, più ordinariamente, li acceca in modo tale che
non riconoscono più la loro natura di uomini: è l’habitus dell’esame, dell’ascolto dell’opinione
altrui, della deliberazione, del pensiero critico, l’habitus della libertà. 83

78
TTP XX, G. III p. 245, D. p. 487.
79
E III Def. degli affetti 31, B. p. 225.
80
E III Def. degli affetti, 27, spiegazione, B. p. 223.
81
TTP XX, G. III p. 241, D. p. 482.
82
TP VIII,49, C. p. 203.
83
…passiones domare, sive virtutis habitum acquirere, TTP III, G. III p. 46, D. p. 82.
In questo senso, nella sua funzione educativa in seno alla libera Repubblica, che Spinoza
elogia, 84 il Trattato teologico-politico non è un manifesto di partito per coinvolgere gli uomini in
una nuova opinione. Non si tratta di trascinare gli uomini ma, al contrario, di evitare che lo siano
loro malgrado. In una libera Repubblica, l’insegnamento migliore è quello di un’etica della
resistenza. 85
Ma questa non può essere astrattamente separata dalla cultura di una nazione particolare,
cioè dalla storia di questa nazione. In questo modo (essendo l’onore, l’invidia, la vergogna o il
pentimento dei prodotti dell’educazione) 86 quella dei costumi deve essere compresa in Spinoza
come una questione politica. Da questo punto di vista si chiarisce la lotta spinozista nella cultura del
suo tempo. Lotta fondata su un paradosso: fondare sulla costituzione di un soggetto che ama la
libertà il soggetto assoluto dell’obbedienza. In questo modo, sull’impossibilità di fatto del
trasferimento integrale della potenza di agire dell’individuo verso lo Stato (sull’incomprimibilità di
un diritto alla riflessione critica – di un’attitudine a resistere alla logica dell’assoggettamento
illimitato dello Stato – che Spinoza dice «naturale» ma che pure deve essere formata, educata, cioè
prodotta storicamente) gettare le basi dell’affermazione, correlata a questa limitazione, di uno Stato-
soggetto «del tutto assoluto» o autonomo.
La strategia per eccellenza del conatus politico, o della multitudinis potentia, è quindi
concepita come il movimento stesso, insieme libero e necessario, di auto-costituzione della società
come corpo, quando questo movimento si origina nell’esercizio reale e plurale della libertà di
giudizio e di parola dei propri soggetti. Perché la potenza della moltitudine è la premessa positiva
della costituzione del diritto, la sua essenza produttiva attuale e attualizzante. Il diritto in realtà non
è altro che la forza della maggioranza, poiché di fatto costituisce questa maggioranza nella sua
potenza attuale. 87 La costituzione del corpo giuridico-politico non deriva quindi, originariamente, da
un contratto tra individui separati, dotati di libertà e volontà (anche se l’idea del contratto rimane,
ma come progetto storico correlato alla formazione del soggetto autonomo); è un processo fisico,
quantitativo, consensuale, storico, con il quale il corpo sempre-già sociale della moltitudine passa
ad un’organizzazione superiore, secondo una logica di auto-affermazione correlata ad una resistenza
alle forze esterne 88 e interne 89 che tendono a dissolverlo. Questo è il processo del collettivo stesso
(come moltitudine) nella sua costituzione maggioritaria, nella sua auto-organizzazione
collettivamente maggioritaria o politica; non si tratta della maggioranza di un partito politico o di
una coalizione di governo, ma della maggioranza consensuale che costituisce l’esistenza stessa del
corpo sociale, la perseveranza nel suo essere. È la maggioranza dell’obbedienza - cioè del consenso
- che può tendere, in una società dove questo consenso giunge alla coscienza razionale di sé
correlativa al libero esercizio della volontà di ciascuno, ad una vera e propria maggioranza del
contratto. Questo non è che il «nome» del consenso critico, riflesso, voluto, attraverso cui i sudditi
si riappropriano individualmente e collettivamente della propria storia singolare. In questa
operazione il soggetto collettivo (come cupiditas) tende ad occupare effettivamente e pienamente la
struttura soggetto-pratico dello Stato, cioè ad effettuare l’equazione dell’essenza e dell’esistenza
attraverso la quale si afferma la sovranità del tutto assoluta. Da qui deriva la definizione del
«giusto» e dell’«ingiusto» assolutamente correlata a quella del «legale» e «illegale»; potendosi
concepire solo all’interno dello Stato 90 , il giusto e l’ingiusto sono valori assolutamente aperti, un

84
Alla fine del capitolo XX del TTP.
85
«La costituzione di un habitus di giustizia e di carità», secondo l’espressione di Henri Laux (Imagination et
Religion. La Potentia dans l’Histoire, Paris, Vrin, 1993, p. 210), si inscrive, dal nostro punto di vista, in un’etica della
resistenza. Cfr. il nostro articolo Enseignement du Christ et résistence dans le T.T.P., in La Bible et ses raisons,
publications de l’Université de Saint-Etienne, 1996.
86
E III,55 schol., B. p. 212.
87
Come afferma Antonio Negri, L’anomalia selvaggia, p. 229 e sgg.
88
TP II,15, C. p. 47.
89
TP VI,2, 3 e 6, C. pp. 87-91.
90
TP III,5.
compito storico. Non si tratta di positivismo (come nel caso di Hobbes), ma al contrario della
posizione del diritto civile come potenza della moltitudine.
La tensione propria della democrazia significa quindi che è tanto più perfetta – del tutto
assoluta - quanto più si costituisce secondo una consensualità critica all’estremo limite del
passaggio dall’obbedienza alla sedizione. Quanto più uno Stato è democratico, tanto più si
costituisce al limite della propria distruzione possibile, e tanto meno la sedizione e la distruzione
sono da temere, proprio a causa della sua perfezione; al contrario, quanto meno uno Stato è
democratico, tanto più nel suo processo di costituzione si allontana - in ciascun cittadino - da questo
limite teorico in cui l’obbedienza potrebbe entrare in crisi (nei migliori, a causa della potenza di
resistere all’immaginario istituito, del loro spirito critico, del loro amore per la libertà e la giustizia)
e – paradossalmente - tanto più questo Stato è fragile e praticamente esposto alla sedizione ed ai
crimini. La democrazia vive quindi per delle forze di critica e di resistenza alla società stabilita (al
suo immaginario istituito e/o alla propria logica di assoggettamento), cioè secondo il movimento
reale di costituzione del reale collettivo come libertà o autonomia. La democrazia, cioè, non può
essere definita solamente, come ogni altro Stato, attraverso delle istituzioni o un’organizzazione
particolare (uno stato giuridico-politico che implica necessariamente le proprie strutture di
assoggettamento o di potere), ma ha un’essenza dinamica, o meglio è essa stessa l’essenza dinamica
e contraddittoria della realtà collettiva. La democrazia afferma esplicitamente il contraddittorio
come modalità stessa di esistenza (conflitto delle forze e delle opinioni, ma anche contraddizione tra
il potere costituito e le opinioni critiche, tra la logica del potere e quella della moltitudine; benché
non ci sia, a priori, un lato buono democratico della contraddizione). Quello che Spinoza afferma
per le città in uno Stato aristocratico non centralizzato vale anche per gli individui umani di cui
sappiamo che sono «per natura nemici, e sebbene si uniscano e si vincolino con le leggi, conservano
questa natura»:91

E non è grave che, mentre […] cura[no] i propri interessi e invidiano [gli] altri, siano per lo più in discordia
reciproca e passino il tempo in controversie: poiché se è vero che mentre i Romani deliberano Sagunto cade, è
vero d’altro canto che, laddove pochi decidono tutto sotto i propri impulsi passionali, cadono la libertà e il bene
comune: troppo limitati sono gli ingegni umani, perché possano capire tutto subito; ma consultandosi,
ascoltando, discutendo, si aguzzano, e a forza di tentare tutte le vie finiscono per trovare la soluzione cercata,
da tutti condivisa, e alla quale nessuno prima avrebbe pensato.92

Elogio dello scambio, ma soprattutto della resistenza e della discordia di cui, dal Machiavelli
dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio,93 Spinoza riscopre la potenza costitutiva. La
democrazia, come affermazione del tutto assoluta della potenza della moltitudine, è quindi in se
stessa una potenza positiva di apertura e di movimento. Come idea adeguata della vita politica è una
verità aperta entro e su una storia interminabile. Come processo, è l’essenza stessa del sociale nella
sua necessaria storicità; è il processo di adeguazione aperto (dall’essenza all’esistenza) in progresso
permanente (secondo un perfezionamento infinito). Si tratta nello scambio, nella resistenza e nella
contraddizione, del processo aperto dell’auto-organizzazione della realtà collettiva come «soggetto»
entro ed attraverso la storia. Significa che, come movimento di attualizzazione della libertà, la
democrazia non si arresta mai se non – come la rivoluzione, secondo la bella espressione di Saint-
Just - «con la perfezione della felicità»; quando saranno rovesciati tutti gli ostacoli alla pienezza
completa della vita in comune, quando si dispiegherà integralmente, senza indugio né perdita, tutta
la potenza e l’umanità del corpo collettivo.

91
TP VIII,12, C. p. 163.
92
TP IX,14, C. p. 217.
93
Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, I,3-4.
La resistenza come diritto sovrano ed eterno
La potenza di resistenza è quindi essenziale nella storia, così come nella democrazia. In che
senso questa potenza è anche un «diritto»? Notiamo subito che gli eventi chiave nell’elaborazione
del concetto di «diritto di resistenza» sono tutti di natura teologica e politica: la Guerra dei
Contadini in Germania, la guerra di liberazione dei Paesi Bassi dalla Spagna cattolica, la notte di
San-Bartolomeo in Francia… ed infine – ma il secolo è già avanzato ed il Trattato sul Governo di
John Locke è datato 1690 – la Rivoluzione inglese.

Il diritto di resistenza degli Efori: dai Monarcomachi al Trattato politico.


Di fronte alla teoria del diritto divino dei principi, a cui gli scritti di S. Paolo sono serviti da
fondamento 94 e a cui Lutero resta fedele, 95 Thomas Müntzer, all’inizio del XVI secolo, per
giustificare la rivolta dei contadini contro i loro signori, faceva appello ad un «diritto naturale
assoluto» venuto dal cielo e schernito dai potenti. 96 Lo spirito teocratico delle predicazioni e della
teologia müntzeriana, malgrado la sua potenza reale di ribellione, resta tuttavia essenzialmente
arcaico. Solo attraverso lo spirito più laico del contratto l’idea di un diritto di resistenza al tiranno
assumerà una consistenza ed un significato del tutto nuovi.
Qualche decennio più tardi infatti, sulla base di un’ideologia contrattualistica, certe province
del nord dei Paesi Bassi legittimano, col diritto di resistenza al tiranno (in questo caso Filippo II), la
proclamazione della caduta della sovranità del re di Spagna sui Batavi, il 22 luglio 1581. Secondo
questo stesso principio, sullo sfondo del «diritto naturale», Ugo Grozio potrà sostenere che è giusto
combattere «un Re che si dichiara apertamente nemico del suo popolo e che abdica così al suo
potere». 97 Ma la nozione di «diritto di resistenza» si era forgiata essenzialmente in precedenza nei
libelli ugonotti dopo il massacro di San Bartolomeo. Tra i numerosi scritti di quelli che William
Barclay chiamerà «Monarcomachi»98 le Vindiciæ contra Tyrannos (del 1579) di Philippe Du
Plessis-Mornay (che fu consigliere del principe d’Orange e dei rivoltosi dei Paesi Bassi) esprimono
probabilmente, per la prima volta e con chiarezza, una teoria del diritto di resistenza correlata ad
una filosofia esplicita del contratto. Senza mettere in dubbio l’autorità fondamentale della legge
divina, Du Plessis-Mornay scrive:

94
Il testo di riferimento è senz’altro l’Epistola ai Romani (13, 1-7).
95
Cfr. Martin Lutero, Sull’autorità secolare. Fino a che punto si sia tenuti a portarle obbedienza, del 1523 e
Se anche le genti di guerra possono giungere alla beatitudine, del 1526, entrambi in Lutero, Scritti politici, Torino,
U.T.E.T., 1949. La posizione di Calvino è sostanzialmente la stessa, tuttavia con qualche sfumatura, poiché legittima la
resistenza al tiranno quando ci sono «dei Magistrati istituiti per la difesa del popolo, per frenare la smisurata cupidigia e
licenza dei re, così come nell’antichità i Lacedemoni avevano gli Efori» Istituzioni della Religione cristiana, 1541. Sul
pensiero di Calvino cfr. L. Arenilla, Le calvinisme et le droit de résistence à l’Etat, «Annales ESC», 1967, pp. 360-67.
96
Cfr. Ernst Bloch, Thomas Müntzer als Theologe der Revolution, Frankfurt, Main, Suhrkamp, 1963, trad. it.,
Thomas Munzer teologo della rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1980. Notiamo come Spinoza non si fidi di coloro che si
investono del titolo di «garante della religione» (TP III,10, C. p. 65). Questa sarà anche la posizione di Hobbes che
rifiuta ogni legittimità al riferimento teologico per fondare un diritto di resistenza al principe. Leviatano, XXI. Su
questo aspetto cfr. i commenti di P.-F. Moreau, Hobbes, Philosophie, science, religion, Paris, P.U.F., 1989, pp. 78, 95,
102-3.
97
Tuttavia, secondo Grozio, questo è un caso eccezionale. Hugo Grotius, De jure belli ac pacis, libri tres, in
quibus jus naturæ et gentium item juris publicis præcipua explicantur (1625), I, 4, n. 11. Su «Les théories politiques des
calvinistes dnas les Pays-Bas à la fin du XVIème et au début du XVIIème siècle» cfr. l’articolo di C. Mercier nella
“Revue d’histoire ecclésiastique”, 29 (1933), pp. 25-73. Cfr. in particolare le pp. 28-36 sulle diverse tappe del processo
di liberazione e le giustificazioni giuridico-politiche che le accompagnano.
98
William Barclay, De regno et regali potestate, adversus Buchananum, Brutum, Boucherium et reliquos
Monarchomaquos, 1600.
noi leggiamo di due tipi di patto nell’investitura dei re: il primo tra Dio, e il re e il popolo, affinché il popolo
fosse popolo di Dio; il secondo tra il re e il popolo, affinché il popolo obbedisse fedelmente al re che avesse
comandato con giustizia. 99

Il re è quindi legato da un doppio contratto la cui legittimità è fondata non solo sulla volontà
di Dio ma anche su quella del popolo che scambia in qualche modo l’obbedienza verso il principe
col suo dovere di protezione, di mantenimento della sicurezza e, più in generale, di operare
«giustamente» per il bene pubblico. 100
Rompere questo contratto significa, per il re, perdere la propria legittimità, cioè tradire
insieme Dio ed il popolo, esponendosi così alla giusta resistenza dei sudditi. Questi, nel caso del re
divenuto tiranno, hanno il diritto ma anche il «dovere» di ribellarsi, cioè di sanzionare gli abusi di
un re che, divenuto spergiuro e tiranno, si è rivoltato in questo modo contro Dio! In questo senso la
resistenza, anche insurrezionale, non è – nell’ideologia contrattualista che la implica –
essenzialmente rivoluzionaria, ma ha al contrario un’essenza conservatrice. La filosofia del
contratto legittima quindi la resistenza al tiranno invertendo i ruoli: il popolo ed il suo diritto di
resistenza (vero e proprio diritto divino) e perfino il suo diritto al tirannicidio divengono i veri
garanti dell’ordine monarchico voluto da Dio. E questa garanzia, afferma Du Plessis-Mornay, deve
essere costituzionale. Contro la follia e il tradimento tirannico l’insurrezione popolare è quindi la
difesa dell’ordine, lo sforzo per tornare all’ordine antico e legittimo. Il diritto di resistenza si
inscrive così in una logica della conformità, dello sforzo per ristabilire l’ordine – insieme divino ed
umano – instaurato col contratto voluto da Dio ed illegittimamente perturbato dal tiranno. È il
ritorno ad un principio che - come il diritto divino stesso per i re e per quelli che li venerano – esiste
solo nella chiusura dell’immaginazione teologico-politica dei Monarcomachi!
Tuttavia, ciò non impedisce a questo principio di avere degli effetti ben reali. Un vero e
proprio realismo politico emerge infatti da queste considerazioni, ad esempio con Johannes
Althusius che elabora nel capitolo 38 della Politica methodice digesta101 una teoria dettagliata della
pratica costituzionale della resistenza che è, sembra, prossima alla posizione di Spinoza. Perché non
si tratta, per Althusius (anche se questo elemento è presente), di fondare o legittimare moralmente
(o legalmente) il diritto di resistenza, quanto piuttosto: 1) di comprenderlo realmente come
fenomeno ineluttabile della «consociazione», 102 correlato alla natura popolare della potenza sovrana
e alla natura insensata (un’impossibilità) della tirannia, come volontà di dominazione illimitata; 2)
di costituirlo realmente (nel senso di un diritto costituzionale) come contributo attivo della sovranità
e del suo esercizio. Bisogna così istituzionalizzare il diritto di resistenza per preservare, secondo
una logica di contro-poteri, la società dallo stato di guerra nel quale il tiranno la trascina. Perché «è
più saggio e più prudente prevenire ed evitare i pericoli piuttosto che respingerli con un atto di

99
Il testo delle Vindiciæ contra tyrannos è stato tradotto in francese nel 1581 col titolo De la puissance
légitime du prince sur le peuple et du peuple sur le prince, riprodotto in fac-simile nell’edizione Librairie Droz, Genève,
1979. Citiamo dall’edizione italiana Vindiciæ contra Tyrannos. Il potere legittimo del principe sul popolo e del popolo
sul principe, Editrice La Rosa, Torino, 1994, p. 19.
100
Poiché «mai uomo nacque con la corona sulla testa e lo scettro in mano e nessuno può di per sé essere né
regnare senza il popolo, mentre al contrario il popolo può essere popolo senza re e lo fu a lungo prima di avere dei re, è
assolutamente sicuro che tutti i re sono stati prima di tutto istituiti dal popolo», Vindiciæ contra Tyrannos, p. 76. Si noti
che proprio Du Plessis -Mornay ebbe l’incarico dagli Stati generali dei Paesi Bassi di presentare alla Dieta imperiale ad
Asburgo il diritto degli Stati a deporre Filippo II, sulla base giuridica di una rottura del contratto, la cui responsabilità
ricadeva interamente sul re ed i suoi funzionari. Cfr. Mercier, cit., pp. 48-51.
101
Il capitolo 38, intitolato «De la tyrannie et ses remèdes», non compare nelle edizioni del 1603 e del 1610
della Politica. Viene aggiunto all’edizione del 1614. Il testo di questo capitolo è stato tradotto in francese da Marie-
Hélène Belin e pubblicato su Philosophie, 4 (1984), pp. 13-68, preceduto da un’introduzione della traduttrice dal titolo
«Souveraineté et droit de résistence», pp. 3-11. Ci riferiamo qui a questa edizione. Per un’analisi più dettagliata della
posizione di Althusius cfr. il nostro articolo Spinoza et la question de la résistance, “L’enseignement philosophique”, 5
(1993), maggio-giugno, pp. 3-20.
102
[questa nota si sopprime perché consociazione esiste in italiano]
resistenza: è meglio anticipare che essere anticipato, ed è meglio applicare la cura prima che la
tirannia sia completa ed incurabile». Questa la conclusione pratica di Althusius. 103
Come teorico della potenza sovrana, proprietà inalienabile della moltitudine, Spinoza si
inscrive in questa linea politica (la multitudo è la modalità specifica della realtà politica nella sua
tensione a costituirsi come «nazione», come «popolo» o come «Stato»). 104 La stessa preoccupazione
di Althusius per i contro-poteri, quindi, compare soprattutto nella logica dei congegni costituzionali
del Trattato politico.
Infatti,

perché [lo Stato] si possa conservare, occorre che i suoi pubblici affari siano organizzati in modo tale che gli
amministratori, non importa se guidati dalla ragione o dagli affetti, non possano essere indotti a comportamenti
infidi e disonesti.105

Cioè che non possano, da «amministratori», trasformarsi in «dominatori» dello Stato. 106 Ora,
questa sana costrizione a cui l’amministrazione dello Stato deve essere sottoposta risiede nelle
diverse forme istituite che permettono l’esercizio effettivo di un diritto di resistenza o di
opposizione da parte di coloro che non esercitano direttamente il potere, «possedendo» tuttavia - in
realtà - la sovranità:

è necessario dare allo stato un fondamento tale per cui tutti, governanti e governati, volenti o nolenti, agiscano
comunque a salvaguardia dell’interesse comune, ovvero che tutti siano costretti, spontaneamente o a forza o per
necessità, a vivere secondo i dettami della ragione. 107

Ma è soprattutto dei governanti che non ci si deve fidare, e sono dunque loro che devono
essere contenuti:

e questo avviene se le cose dello stato sono organizzate in modo tale per cui nulla di ciò che attiene alla comune
salvaguardia sia esclusivamente affidato alla buona fede di alcuno. Nessuno è tanto vigilante da non
sonnecchiare di quando in quando, e non c’è mai stato nessuno di animo così forte e puro da non lasciarsi
corrompere e vincere, specie nei momenti nei quali della forza d’animo c’è più bisogno. Ed è proprio da stolti il
pretendere da altri quello che nessuno è in grado di ottenere da se stesso, ossia che si dedichino al prossimo più
che a sé, che non siano avidi né invidiosi né ambiziosi, eccetera – specie se consideriamo a quanti turbamenti
affettivi siamo continuamente esposti.108

Così, considerando lo Stato monarchico e la sua attitudine (possibile in seguito ad una


riforma spinozista di natura democratica) a mantenere la concordia e la pace, Spinoza - contro la
monarchia cosiddetta «assoluta» che, contrariamente a ciò che si crede, trascina il sovrano in un
regime di quasi totale eteronomia (non dipende più dal «proprio diritto») e i soggetti nella
condizione miserabile di schiavi 109 - afferma che:

non è in contrasto con la pratica l’istituire un diritto così stabile che nemmeno il re possa abrogarlo. […] e da
nessuna parte, che io sappia, si elegge un monarca in forma assoluta, senza esplicite condizioni. […] Se dunque
tutto dipendesse dall’incostante volontà di uno solo, non ci sarebbe niente di stabile. E dunque perché lo stato

103
De la tyrannie et ses remèdes, p. 38.
104
TP II,17, C. p. 49.
105
TP I,6, C. p. 33.
106
Cfr. già TTP XVII, G. III p. 209, D. p. 423.
107
TP VI,3, C. pp. 87-9.
108
Ibid.
109
TP VI,8, C. p. 93 e VII,14, C. p. 127.
monarchico sia saldo occorre stabilire che ogni cosa si fa unicamente per decreto regio, ovvero che ogni legge è
esplicita volontà del re; ma non che ogni volontà del re sia legge.110

Per evitare ogni deriva tirannica dello Stato monarchico bisogna innanzitutto che l’esercito
del regno sia «formato unicamente dai cittadini, nessuno eccettuato, e da nessuno altro». 111 Il
popolo in armi esige (ed assicura) innanzitutto (attraverso la presenza continua della sua forza), la
lealtà del re ed il buon esercizio del potere, per il quale è stato scelto dal popolo. Quando sono
armati «i cittadini difend[ono] la propria autonomia e la propria libertà». 112 Bisogna, inoltre,
istituire un’Assemblea numerosa composta da cittadini, 113

il [cui] primo compito […] sia di difendere le leggi fondamentali dello stato e dare orientamenti sulle cose da
fare, così che il re sappia quali decisioni prendere per il bene pubblico.114

In modo che il re, che deve scegliere tra le opinioni dell’assemblea, non possa preferire
l’opinione minoritaria senza avere il popolo contro e assumersi il rischio di una ribellione, né ancor
meno decidere secondo la propria opinione e contro il parere dell’intera assemblea. 115 Questa
potenza di resistenza (costituzionale e armata) alla logica tirannica, che si deve istituire nello Stato
monarchico riformato, fa in modo che il re,

sia che per paura del popolo sia indotto a cercare come accattivarsi la maggior parte del popolo armato, sia che
la generosità dell’animo lo induca a provvedere all’utilità pubblica, avallerà sempre la delibera che avrà
riportato il maggior numero di suffragi, ossia (per l’articolo 5 di questo capitolo), quella più utile alla
maggioranza; oppure cercherà di conciliare, se possibile, le opposte posizioni che vengono a lui deferite, per
attrarre tutti verso di sé: e tenderà tutte le sue fibre in questo sforzo, così che sperimentino quanto egli solo
conti per loro, in pace e in guerra. E dunque sarà autonomo al più alto grado, e avrà il massimo controllo dello
stato, quanto maggiore sarà il suo contributo alla salvaguardia comune del popolo.116

Spinoza cita l’esempio degli Aragonesi che crearono, su consiglio del papa,

un […] supremo consiglio che potesse opporsi ai re come gli efori di Sparta, e che avesse il diritto assoluto di
dirimere le eventuali liti tra re e cittadini. 117

Col riferimento agli efori di Sparta siamo estremamente prossimi alla problematica del
diritto di resistenza per come era esposta dai Monarcomachi, 118 ancor più dopo che Spinoza ha
legittimato, sulla base dei fondamenti dello Stato «considerati come eterni decreti del re», un diritto
di disobbedienza dei ministri ai decreti del monarca, diritto di resistenza fondato
sull’incompatibilità di quei decreti con le leggi fondamentali dello Stato:

110
TP VII,1, C. pp. 111-13.
111
TP VI,10, C. p. 93.
112
TP VII,17, C. p. 129.
113
TP VI,15-30, C. pp. 95-105.
114
TP VI,17, C. p. 97.
115
TP VII,5, C. pp. 115-19.
116
TP VII,11, C. p. 123.
117
TP VII,30, C. p. 145.
118
Proprio al diritto degli efori di Sparta si riferiva anche il principe d’Orange nella sua Apologia, in risposta
alla proscrizione promulgata contro di lui da Filippo II. Rivolgendosi agli Stati Generali, il principe d’Orange dichiara
che appartiene a loro ed ai grandi vassalli del regno la stessa funzione «che gli efori avevano a Sparta nei confronti del
loro re, cioè di mantenere stabile nelle mani del loro principe la monarchia e far servire con ragione colui che
contravviene al proprio giuramento». Cfr. C. Mercier, cit., p. 49.
i principi fondamentali dello stato vanno considerati come eterni decreti del re, tanto che i suoi funzionari gli
sono completamente obbedienti se, quando egli comanda qualcosa che va contro i principi fondamentali dello
stato, rifiutano di eseguire l’ordine. 119

Si tratta del diritto (e del dovere) degli ottimati.


Eppure, malgrado la sua prossimità pratica (e storica), la posizione di Spinoza rispetto al
diritto di resistenza risulta più interessante dal punto di vista di ciò che lo distingue da Althusius e
dai Monarcomachi protestanti.

Diritto di guerra e strategia di resistenza attiva del Corpo collettivo.


Il consenso «fisico» spinozista, costitutivo della vita comune politica, non è infatti un
contratto giuridico- morale tra il popolo ed il sovrano (anche se può essere immaginato così). Se c’è
consenso, cioè obbedienza di fatto dei sudditi al sovrano, è solo perché le condizioni materiali di
questa obbedienza sono ora riunite e sono abbastanza potenti (spontaneamente o per forza) da
condurre i sudditi all’obbedienza o semplicemente alla sottomissione:

si danno determinate circostanze poste le quali hanno luogo il rispetto e il timore dei sudditi verso la
cittadinanza, e tolte le quali scompaiono il timore, il rispetto, e con essi la cittadinanza. La cittadinanza,
dunque, per essere autonoma, è tenuta a conservare le condizioni del timore e del rispetto, altrimenti cessa di
essere cittadinanza. 120

Forse, per questo punto di vista consensuale (le cui condizioni materiali di possibilità
devono essere, istante dopo istante, rinnovate e mantenute), Spinoza è erede di Étienne de La Boétie
che, nel Discorso sulla servitù volontaria, al di qua di ogni ideologia contrattualistica, sottolinea
come la potenza sovrana della moltitudine procura al principe autorità e potere su una base
consensuale ed istantanea. Autorità e potere che possono quindi essere istantaneamente sottratte al
sovrano, nel momento in cui, con la volontà di servire (e, bisogna aggiungere, con le condizioni
materiali e spinozianamente «affettive», dell’accettazione e dell’assoggettamento), cessa anche
l’obbedienza. 121 Questa sostituzione del consenso (puntuale e materiale) alla figura giuridica del
contratto conduce Spinoza a trarre, sulla questione del diritto di resistenza, delle conseguenze del
tutto diverse e perfino opposte a quelle della tradizione monarcomaca, fondando così una filosofia
politica della resistenza decisamente nuova.
Per i Monarcomachi è il re che, tradendo la promessa, dichiara guerra ai propri sudditi; è
quindi lui ad aprire lo «stato di guerra» e a rendere i propri sudditi dei «nemici». Al contrario i
cittadini (o meglio gli ottimati) possono e devono rispondere a questa aggressione dal punto di vista
della legalità (del contratto) e della legittimità (della promessa) di un «diritto» che ha origine nella
costituzione fondamentale dello Stato, la cui natura è insieme giuridica e morale (perfino teologica):
la resistenza è sia un diritto che un dovere.
Per Spinoza, al contrario, la logica tirannica del re non si comprende nei termini giuridic i di
una rottura del contratto né in quelli morali di non- lealtà verso la parola data. Si comprende secondo
le sole leggi delle condizioni materiali e degli affetti (desideri e volontà) da esse determinati; ossia
la logica dell’ambizione di dominio che, ne l suo sviluppo (e nell’accecamento necessario che
comporta), tende a trascinare il sovrano oltre il limite fisico di ciò che i sudditi possono sopportare,
tenendo conto dei loro modi di essere affetti, delle leggi della natura umana in generale, ma anche

119
TP VII,1, C. p. 111.
120
TP IV,4, C. p. 77.
121
Si potrebbe citare lungamente dal Discorso della servitù volontaria di Etienne de La Boétie, particolarmente
le pp. […]. Proprio con accenti prossimi al discorso di La Boétie, Alexandre Matheron spiega correttamente il
trasferimento di potenza che, in senso rigoroso, per Spinoza non esiste. Cfr. Spinoza et la problematique juridique de
Grotius, “Philosophie”, 4 (1984), pp. 87-88. Cfr. anche La fonction théorique de la démocratie chez Spinoza et Hobbes,
“Studia spinozana”, 1 (1985), p. 270.
dei pregiudizi specifici ad una nazione, dell’affezione particolare verso certe regole, verso certi
valori… In questo modo il desiderio di dominio del tiranno provoca per (ed attraverso) i soggetti la
rottura del consenso, in relazione a dei limiti che variano col tempo e il luogo. Ma sono allora i
sudditi che aprono lo stato di guerra secondo un diritto che hanno direttamente per natura, cioè un
«diritto di guerra» che consiste nella sola potenza effettiva di resistere e difendersi dalla violenza
tirannica con tutti i mezzi disponibili… poiché si tratta di conservare la vita. La necessità fisica o
logica, per Spinoza, è quindi veramente la caratteristica oggettiva ed amorale del processo di
resistenza:

infatti le regole e le condizioni del timore e del rispetto, che la cittadinanza è tenuta a salvaguardare nel proprio
interesse, non rientrano nel diritto civile ma nel diritto naturale, dal momento che (per l’articolo precedente)
possono essere garantite non per diritto civile, ma per diritto di guerra [Jure belli]; e la cittadinanza non vi è
obbligata se non da quella ragione per cui l’uomo allo stato di natura, per essere autonomo [sui juris] – vale a
dire, per non essere nemico di se stesso – debba astenersi dal suicidio: cautela, questa, che non è obbedienza,
ma libertà della natura umana. 122

Per le stesse ragioni dell’uomo allo stato naturale, inoltre, il quale fa di tutto per conservarsi
e non può agire contro la propria conservazione, la sovranità non può assolutamente esercitarsi
contro le leggi (o i fondamenti dello Stato) ai quali aderisce storicamente la maggior parte del
popolo, come se si trattasse della propria vita. Infatti,

se [queste leggi] sono di tale natura da non poter essere violate senza che al tempo stesso si debilitino le energie
della cittadinanza, ovvero, senza che il comune timore dei cittadini si converta in indignazione, con ciò stesso
la cittadinanza si dissolve e decade dal contratto, che dunque non è garantito dal diritto civile, ma dal diritto di
guerra. E pertanto chi governa lo stato è tenuto a osservare le condizioni di questo contratto unicamente per
quello stesso motivo che impone all’uomo nello stato di natura di evitare di uccidersi, per non essere nemico a
se stesso, come abbiamo detto nell’articolo precedente.123

Tra la multitudinis potentia (o il suo sforzo per conservarsi) e l’esercizio della sovranità c’è
quindi un rapporto di tensione che può spingersi fino all’antagonismo. Quella della moltitudine è
una potenza di resistenza di fatto all’esercizio della sovranità. In seno alla società civile, lo stato di
guerra è sempre latente e diviene esplicito quando l’esercizio della sovranità è vissuto dalla
moltitudine come un’autentica aggressione:

il re può essere privato della potenza per cui domina non per diritto civile, ma per diritto di guerra, il che
equivale a dire che i sudditi possono reagire alla sua violenza soltanto con la violenza.124

Il consenso non è rotto, quindi, rispetto alla legittimità o alla legalità di un diritto o
all’obbligazione relativa a un dovere, ma perché la situazione è divenuta fisicamente e/o
affettivamente insopportabile, intollerabile, perché è vissuta con indignazione, collera e rivolta: si
ha la rottura fisica del tessuto sociale, sotto l’effetto delle tensioni divenute violentemente
contrarie. 125
L’atto di resistenza non riguarda più, allora, solo quelli a cui compete il diritto e il dovere
(costituzionale) di ribellarsi, ma tutti gli individui per cui gli atti del tiranno hanno trasformato «il
timore e il rispetto» (che i sudditi hanno abitualmente verso il sovrano) in «indignazione». Oltre le
sottigliezze giuridiche dei Monarcomachi, oltre la chiusura storica della loro immaginazione
politica, Spinoza afferma chiaramente che la sovranità politica appartiene assolutamente e per
122
TP IV,5, C. pp. 77-9.
123
TP IV,6, C. p. 79.
124
TP VII,30, C. p. 147.
125
Antonio Negri, nell’Anomalia selvaggia, parla di una «fisica della resistenza» al principio della costituzione
politica. Cfr. p. 262.
natura alla moltitudine nella sua interezza. Non a questo «popolo», ridotto in fin dei conti ai suoi
rappresentanti, o più esattamente a coloro che si sono storicamente a lui sostituiti, fino ad auto-
proclamarsi suoi rappresentanti «naturali», ma alla moltitudine stessa che, per la sua potenza
naturale, possiede naturalmente la sovranità, cioè un diritto assoluto ed inalienabile all’auto-
organizzazione.
D’altronde, contrariamente all’illusione giuridica dei Monarcomachi (temperata in realtà da
precise disposizione pratiche in autori come Althusius), Spinoza afferma che «le leggi prese da sole
non hanno vigore e si infrangono facilmente», 126 e che «esse non obbligano, in realtà, chi regge lo
stato». 127 Le leggi sono valide per il re (o per chi dirige lo Stato) solamente se si accompagnano
(come nel caso della monarchia riformata del Trattato politico) alla sorveglianza di un popolo in
armi e di un’assemblea popolare per farle rispettare. Da qui l’importanza, nella libera Repubblica,
della costante «vigilanza» della moltitudine (multitudinis vigilantia) 128 che, per tutti i potenti spinti
dall’ambizione verso la tirannia, dovrebbe essere come un dictatoris gladius perpetuus brandito
sulle loro teste superbe. 129 Perché la sola legge a cui può sottomettersi il monarca è quella della
potenza effettiva – la volontà e forza - che il popolo ha di far rispettare le regole a cui è affezionato.
Così può dirigere lo Stato solo sotto la minaccia della propria morte (del diritto di guerra per cui
può «essere privato della potenza» dalla moltitudine), 130 cioè in funzione del «bene comune». 131
Quando queste condizioni materiali (quelle dei rapporti di forza) non sono rispettate il sovrano ha
tanto Diritto – è lo stato di natura! – quanta è la sua potenza di farsi effettivamente temere e
rispettare, cioè ottenere l’obbedienza dei sudditi. Il solo limite fattuale all’esercizio della sovranità è
quindi la resistenza (essa stessa fattuale) di coloro per cui «le leggi dello stato [sono] il peggiore di
tutti i mali» 132 e che, a rischio della propria vita, rompono il consenso. Ma insieme alla vita dello
Stato, il tiranno espone al rischio della morte anche la propria vita. Secondo la logica del diritto di
natura, Spinoza considera il «tradimento» del principe nei termini dell’errore nel condurre sia gli
affari dello Stato sia quelli personali. L’ambizione di dominio conduce il re a dimenticare ogni
«prudenza» (quæ sane cautio) 133 ed a commettere un errore strategico fatale che gli solleva contro
l’odio dell’«universale», 134 causa della sua caduta. Non essendo obbligato da alcuna legge, infatti,
non si può dire (come facevano i Monarcomachi) che il sovrano possa «trasgredire». 135 La sola
trasgressione o errore è di tipo strategico, cioè contro se stesso. 136 L’insegnamento è machiavelliano
e non più monarcomaco.
Da un lato è quindi per diritto di natura e per la propria strategia del conatus che si
giudicano gli atti del corpo politico e/o del sovrano e della sua (possibile) logica di auto-distruzione
(nella tirannia), compresa come logica dell’assurdo. La tirannia sviluppa infatti una logica

126
TP VIII,19, C. p. 171.
127
TP IV,6, C. p. 79.
128
TP VIII,4, C. p. 155.
129
TP X,2, C. p. 225.
130
TP VII,30, C. p. 147.
131
Spinoza è così d’accordo con Machiavelli per cui «gli uomini non operono mai nulla bene se non per
necessità» (Cfr. Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I,3, in N. MACHIAVELLI, Tutte le opere, a cura di M.
Martelli, Firenze, Sansoni, 1992, p. 82). Infatti «gli è tanta l’ambizione de’ grandi, che, se per varie vie ed in vari modi
ella non è in una città sbattuta, tosto riduce quella città alla rovina sua» (Discorsi, I,37, p. 120). La fiducia nella sola
lealtà dei governanti è carica di delusioni e di drammi; è un “peccato” nei confronti della libertà (TP VI,3, C. pp. 87-9).
La diffidenza del popolo verso i governanti (o piuttosto la vigilanza che implica la necessaria e vitale lucidità per
conservarsi: «essere armati» secondo Machiavelli, «essere vigilanti» secondo Spinoza) è al contrario un valore
fondamentale della libertà e della democrazia. Si tratta di un tema costante dei Discorsi che viene mantenuto nel TP.
Sull’«importanza teorica della vigilanza» cfr. G. Brykman, La Judéité de Spinoza, Paris, Vrin, 1972, pp. 95-7.
132
TP III,8, C. p. 63.
133
TP IV,5, C. pp. 77-9.
134
L’espressione è di Machiavelli, Discorsi III,6, p. 200 e si adatta perfettamente a ciò che sostiene Spinoza
quando parla delle «cose che suscitano l’indignazione generale» (TP III,9, C. p. 63) poiché, come afferma anche in E
III, def. degli affetti, 20, l’indignazione è «Odio verso qualcuno che ha fatto male a un altro». Cfr. B. p. 222.
135
TP IV,5, C. p. 77.
136
TP II,18, C. pp. 49-51, IV,4, C. pp. 75-7.
dell’affermazione di sé radicalmente contraddittoria. Essere tiranno – assolutamente parlando -
«non è meno impossibile […] di quanto sia […] essere e non essere allo stesso tempo», 137 poiché
significa sopprimere allo stesso tempo l’oggetto della propria tirannia (la società civile stessa) e così
sopprimere se stessi.
Dall’altro, i cittadini possono mantenere entro i limiti della legge quello – o quelli – che
dirigono lo Stato non in virtù di un contratto, ma del diritto di guerra, cioè della effettiva potenza di
resistenza. Il diritto di resistenza è quindi, per essenza, la potenza naturale della moltitudine stessa:
il suo diritto di guerra, che resta sempre tale, anche quando trova parzialmente, in seno alle
istituzioni (sotto forma di diritto di opposizione), delle forme legali di espressione. Perché il diritto
istituzionale di resistenza è effettivo, ancora una volta, solo attraverso la forza (il diritto di natura)
che permette di esercitarlo. Che la politica (l’organizzazione della vita in comune) sia la
continuazione della guerra con altri mezzi è – secondo l’insegnamento dell’«acutissimo
fiorentino»138 - ciò che pensa anche Spinoza. Ricordiamoci della risposta a Jarig Jelles:

riguardo alla politica, la differenza tra me e Hobbes, della quale mi chiedete, consiste in questo, che io continuo
a mantenere integro il diritto naturale e affermo che al sommo potere in qualunque città non compete sopra i
sudditi un diritto maggiore dell’autorità che esso ha sui sudditi stessi, come sempre avviene nello stato
naturale.139

Al contratto dei Monarcomachi Spinoza sostituisce quindi, in seno alla società civile e come
base materiale del consenso, il conflitto fra diritti naturali. Quello del detentore della sovranità, la
cui logica – se diviene di dominio – si ritorce contro la propria conservazione; quello della
moltitudine che possiede in maniera inalienabile la sovranità e la potenza e che, attraverso questa
potenza di resistenza, sviluppa – contro ogni logica di dominio (autodistruttiva) - la strategia di
resistenza attiva del corpo sociale con cui questo stesso corpo afferma la propria tendenza
(essenziale) all’autonomia (ut sui juris esse possit…).

Benevolenza e Indignazione: gli «affetti» della resistenza.


Nel divenire-soggetto-autonomo dell’individuo umano, caratteristico dell’impresa etica, è
possibile (secondo la dinamica di resistenza attiva alla tristezza) 140 individuare il punto focale a
partire da cui – entro ed attraverso il quale – si opera l’inversione del processo di distruzione.
Questo punto di partenza del movimento di resistenza si trova nell’affetto che Spinoza chiama
«benevolenza», definita come una «Cupidità di fare bene a colui del quale abbiamo
compassione». 141 Per l’individuo collettivo, entro ed attraverso l’«indignazione generale» (plurimi
indignantur), 142 o l’indignazione della maggior parte della moltitudine, 143 si blocca il processo di
distruzione e si avvia quello inverso, quantitativo, di riorganizzazione di una vita collettiva.
A prima vista sembra che Spinoza veda nella rottura del consenso, per effetto della tirannia,
ma assunta dai soggetti in una logica di guerra, un’esplosione del corpo collettivo le cui componenti
individuali (i sudditi) sarebbero così ricondotti nello stato di natura, dispersi, atomizzati. La rivolta
sarebbe soltanto, quind i, l’espressione inversa del disordine della tirannia, come per Aristotele. 144 In
realtà non è così. Per effetto dell’indignazione non si assiste alla dissoluzione di questo corpo ma, al
contrario, alla sua riorganizzazione secondo una dinamica di strategia di resistenza attiva del

137
TP IV,4.
138
TP X,1, C. p. 221.
139
Epistola L, G. IV pp. 238-39, Ep. p. 225.
140
E III,37 dimostrazione, B. p. 200.
141
E III, def. degli affetti 35, B. p. 226.
142
TP III,9, C. p. 63
143
TP VII,2, C. p. 113; cfr. anche IV,2 e IV,4 in cui l’indignazione è sempre quella della maggior parte dei
cittadini.
144
Politica III, 1312 b 18 e sgg.
conatus del corpo sociale. Perché contro il dominio e la logica eteronoma del corpo collettivo
sviluppata dal tiranno 145 il movimento di resistenza della moltitudine esprime la tendenza inversa
all’auto-organizzazione autonoma. La lo gica tirannica, per il corpo politico, è il processo
dell’autodistruzione (del suicidio, secondo una strategia la cui razionalità tende al grado zero); la
logica di resistenza della moltitudine, invece, è il processo opposto per cui si difende e si afferma il
corpo collettivo, secondo un processo di auto-organizzazione il cui grado di razionalità è tanto più
elevato quanto più la riorganizzazione si compie secondo una logica democratica dell’autonomia:

quanto maggiore è il diritto del potere sovrano, tanto più la forma dello stato si accorda con i dettami della
ragione (per l’articolo 5 del capitolo III). 146

Oppure si può dire che quanto più il potere sovrano si avvicina alla sovranità assoluta, cioè
quella dell’intera moltitudine, 147 tanto più lo Stato è governato in accordo ai comandamenti della
Ragione. La questione della resistenza ci conduce al problema politico principale del divenire-
soggetto-autonomo della società ed alla strategia della multitudinis potentia entro e verso la propria
affermazione assoluta dell’esistenza.
La dissoluzione del corpo collettivo è infatti l’opera del tiranno, l’effetto distruttivo del suo
dominio. Il tiranno rende la società un deserto (il che significa la distruzione delle relazioni umane e
sociali), rende ciascuna vita una solitudine e la comunità umana un gregge di «pecore». 148 I sudditi,
rivoltandosi, rompono proprio con questa forma di vita quasi animale, ricostituendo così una «vita
umana»:

intendo parlare non solo di quella vita umana che è data dalla circolazione del sangue e dalle altre funzioni
comuni a tutti gli animali, ma a quella che si definisce in base alla ragione, vera virtù e vita della mente. 149

La resistenza implica già in sé la ragione e la virtù. Perché l’indignazione generale si spiega


secondo il principio (inerente ad una vita umana comune che non può mai essere totalmente
dissolta) della ricerca di sicurezza («utile proprio» del corpo collettivo, corrispondente al principio
di piacere a livello individuale) e la resistenza alla distruzione che quello implica. Questo desiderio
è «onesto», cioè ragionevole. 150 Si può così affermare che dalla resistenza che ciascuno oppone «a
tutto ciò che può impedire la propria esistenza» (il principio della sicurezza) all’attualizzazione
della pace e della libertà (l’«indignazio ne generale» all’affermazione del tutto assoluta della libertà,
come essenza dello Stato che si esprime al meglio in democrazia, cioè nell’omnino absolutum
imperium), 151 la continuità reale della «virtù» del corpo politico è costituita dalla stessa
affermazione della potenza di composizione e di organizzazione dei corpi. Questa virtù è per
Spinoza l’affermazione assoluta della potenza della moltitudine. La strategia di resistenza attiva del
corpo collettivo si inscrive così immediatamente nell’ontologia dell’affermazione assoluta di ogni
esistenza. In questa potenza di resistenza e di affermazione si esprime già l’ordine sistematico della
ragione.
L’indignazione è allora il segno di questa ragione o di questa virtù che si ricostruisce.
Mostra, come il dolore, «che la parte lesa non è ancora putrefatta», che una volontà di guarire è
attualmente presente, che la virtù sta combattendo. L’indignazione generale, in seno al corpo
politico malato, è quindi il segno di una salute collettiva ritrovata. Tuttavia, come la benevolenza

145
TP VI,8, C. p. 93 e VII,14, C. p. 127.
146
TP VIII,7, C. p. 159.
147
TP VIII,3, C. p. 155.
148
TP V,4, C. p. 83
149
TP V,5.
150
TTP III, G. III p. 46, D. p. 82.
151
TP XI,1, C. p. 235.
che nasce dalla pietà, 152 l’indignazione è innanzitutto, per Spinoza, un affetto passivo, perfino dei
più negativi in apparenza, poiché è un affetto d’odio. Si tratta, dice Spinoza, di «Odio verso
qualcuno che ha fatto male a un altro». 153 Eppure c’è già qualcosa di positivo alla radice di
quest’odio, cioè il rapporto di identificazione, di similitudine, addirittura di amore che rivolgiamo
verso i nostri simili e che ci conduce necessariamente ad agire per liberarli dai loro mali, di cui noi
stessi soffriamo: «Per quanto è in nostro potere, ci sforzeremo di liberare dall’infelicità la cosa di
cui abbiamo compassione». 154 È il movimento di resistenza che induce la benevolenza. La
dimostrazione di questo corollario, che si riferisce alla proposizione 13 della terza parte, indica
chiaramente (lo abbiamo già sottolineato) che, per venire in aiuto ai nostri simili, per ricomporre la
vita in noi stessi, negli altri e con gli altri, si agisce secondo una vera e propria dinamica di
resistenza alla tristezza (in noi ed in quelli con i quali ci identifichiamo). Ed è una virtù. Ora, in
questa stessa dimostrazione, Spinoza indica che questo movimento di resistenza e di liberazione
(questo desiderio) comporta necessariamente il desiderio di distruggere la causa responsabile del
male provato dai nostri simili:

Ciò che produce un affetto di Tristezza nella cosa di cui abbiamo compassione, produce anche in noi un simile
affetto di Tristezza (per la Prop. Prec.); e perciò ci sforzeremo (per la Prop. 13 di questa parte) di inventare tutto
ciò che ne elimina l’esistenza, ossia che lo distrugge, cioè (per lo Scolio della Prop. 9 di questa parte)
appetiremo di distruggerlo, ossia saremo determinati a distruggerlo; e perciò ci sforzeremo di liberare dalla sua
infelicità la cosa di cui abbiamo compassione.

E l’indignazione non è altro che questo desiderio di distruggere ciò che fa del male ad un
altro, cioè l’esercizio stesso della virtù della benevolenza quando questa – necessariamente secondo
Spinoza – non si limita al trattamento degli affetti (la consolazione dei nostri simili) ma si rivolge
alla causa stessa del male. Ora, in questa distruzione che deve liberare l’altro dalla sua miseria, si
esprime «questa volontà, ossia questo appetito di fare del bene», 155 cioè di ricostituire la vita e non
più soltanto il desiderio (parziale) di distruggerla. In questo sforzo è presente, come mezzo di lotta,
anche la memoria di «tutto ciò che elimina […] l’esistenza»156 di questa cosa, cioè – da un punto di
vista politico – la memoria della libertà, della pace e della sicurezza, idee (e/o affetti) incompatibili
con l’esistenza del tiranno. Perciò, nell’indignazione collettiva, assistiamo veramente all’esercizio
di una virtù.
La resistenza della moltitudine si spiega quindi con la potenza dell’affermazione della vita e
non con l’impotenza che esprimono i sentimenti di pietà e di odio. Come affermazione costitutiva,
la benevolenza nell’indignazione – entro ed attraverso la sua resistenza alla tristezza – si rovescia
contro gli affetti (di pietà e di odio) che decompongono la vita. Del pari, come nel processo etico di
soggettivazione, movimento reale di resistenza e di amore, la benevolenza nell’indignazione è
anche, in seno allo stesso stato di servitù, un centro di libertà e di virtù entro ed attraverso il quale si
afferma la potenza auto-organizzatrice del corpo collettivo. Come ricostituzione del tessuto sociale
entro ed attraverso la solidarietà che sviluppa e la dinamica che suscita, l’indignazione è quindi un
rimedio che il corpo collettivo produce ed applica a se stesso. È il processo stesso di un’auto-difesa
e di un’auto-guarigione. È quindi gioia che si accompagna alla collera dell’indignazione. Una gioia
essenziale (che è «soddisfazione di sé») attraverso cui il corpo collettivo sperimenta e contempla,
attraverso coloro che resistono in modo solidale, l’aumento della propria potenza di agire, la
rinascita della propria «salute». Una gioia inseparabile dall’amore naturale di sé, l’affetto
fondamentale da cui nasce ogni resistenza e, con questa, la speranza in atto, nell’indignazione

152
E III def. degli affetti 35, B. p. 226.
153
E III def. degli affetti 20, B. p. 222.
154
E III,27, corollario III, B. p. 192.
155
E III,27, corollario III, schol., Ibid.
156
E III,27 corollario III, dimostrazione (in riferimento a E III,13). Per una memoria della libertà cfr.
Machiavelli, Il Principe V.
generale, dell’avvento della moltitudine come soggetto autonomo. Nella resistenza al dominio si
elabora così la dinamica della soggettività collettiva (politica) come processo. Dinamica della gioia
che si amplifica entro ed attraverso l’istituzione politica della Libertà che è la pienezza di questo
amore naturale di sé del corpo collettivo, che implicava già, nell’indignazione, l’atto di
resistenza. 157

Dalla resistenza dei migliori all’indignazione di tutti: Machiavelli, La Boétie,


Spinoza.
Pensare la politica e la sovranità secondo una dinamica auto-organizzativa della moltitudine,
della resistenza attiva verso le logiche di dominio dell’affermazione della propria autonomia (come
affermazione del tutto assoluta della propria esistenza e del proprio diritto) significa anche, di fronte
all’esperienza storica, constatare - salvo rare eccezioni - il fallimento di questo sforzo consacrato ad
una logica dell’eteronomia.
Sappiamo che l’autonomia effettiva del corpo politico, come la saggezza individuale, sono
tanto difficili quanto rare: conosciamo le cause di questa difficoltà. Anche liberata da ogni dominio
esplicitamente politico la moltitudine resta, di fatto, prigioniera dei propri pregiudizi, abitudini,
costumi. Come ci ha mostrato l’appendice della prima parte dell’Etica gli uomini, secondo la logica
di un immaginario che si può ritenere universalmente condiviso, sono naturalmente portati ad una
rappresentazione teleologica del mondo di cui la monarchia di diritto divino, nella realtà politica,
sarà la superstizione finalistica perfettamente realizzata. Logicamente, malgrado i pericoli enormi
che questa decisione comporta, malgrado l’essenza affermativa del corpo collettivo, l’«esperienza»
ci mostra e ci insegna «al contrario» che le «masse» desiderano «il conferimento di tutto il potere a
uno solo» per la pace e la concordia! 158
Riprendiamo ancora l’esempio illuminante degli Aragonesi. Ecco un popolo che, attraverso
la lotta, si è liberato dalla schiavitù dei Mori e che, in questo conflitto, ha dovuto far esperienza
della sua forza di auto-organizzazione, di iniziativa e di decisione… e che pure, appena ottenuta la
vittoria, decide di darsi un re. Il desiderio di schiavitù è quindi causa-sui? Certamente no. Questa
risposta è assurda per Spinoza. Inoltre, a partire dallo stesso esempio, l’esperienza mostra anche
che, sulla base delle possibilità reali che gli Aragonesi avevano effettivamente di vivere liberi, e
malgrado il loro desiderio (che sembrerebbe insuperabile) di scegliere un re, con una buona
costituzione e con la volontà (armata) di opporsi a «qualunque atto di forza, da parte di chiunque
volesse impadronirsi dello stato a loro danno, e contro lo stesso re e il principe ereditario, se si fosse
impadronito dello stato a questo modo», 159 hanno saputo e potuto preservare la loro libertà «per un
incredibile spazio di tempo». Non c’è quindi fatalità della schiavitù e, per quanto ristretta, il
cammino di liberazione per un popolo è sempre presente nel campo delle sue possibilità storiche.
Ora, storicamente, questo cammino si mostra inizialmente in modo necessariamente
minoritario, attraverso la resistenza di «pochissimi» (paucissimos) alle forze di asservimento delle
menti e dei corpi, secondo la tesi del capitolo VIII del Trattato teologico-politico, 160 fondata
sull’esperienza. Ed a questi pochi individui, veri e propri spiragli di luce e di resistenza nel contesto
teologico-politico di dominazione di un’epoca, si rivolgono i trattati politici di Spinoza; ai

157
Secondo Spinoza, tutto l’insegnamento di Cristo (e della Scrittura) si trova nel precetto: «tutto ciò che
volete che gli uomini vi facciano, fatelo loro, poiché è la Legge ed i profeti» (Matteo, VII,12). Dal punto di vista della
logica degli affetti, si tratta di un insegnamento della resistenza (cfr. il nostro articolo «Enseignement du Christ et
résistence dans le T.T.P.», op. cit.). Sull’opposizione di Spinoza ad Hobbes, che rovescia il rapporto di inclusione della
Giustizia e della Carità all’obbedienza, aprendo così la possibilità del diritto di resistenza, cfr. Jacqueline Lagrée che,
traendo delle conclusioni diverse dalle nostre (non rientra negli obiettivi della sua analisi), stabilisce chiaramente la
differenza tra le diverse problematiche di Spinoza e Hobbes rispetto al principio evangelico in Le Salut du Laïc, Paris,
Vrin, 1989, VI, pp. 89-90.
158
TP VI,4, C. p. 89.
159
TP VII,30, C. p. 147.
160
TTP VIII, G. III p. 118, D. p. 229.
«pochissimi» che, distinguendosi dalla folla per l’educazione e la fierezza del carattere, sono più
sensibili alla memoria (al richiamo) della libertà. Spinoza non scrive quindi per delle ragioni
astratte, anonime e indeterminate, ma per delle soggettività singolari determinate entro ed attraverso
il contesto teologico-politico di un’epoca, capaci di comprendere con profitto un discorso di
liberazione, per la loro resistenza attuale alle logiche di dominio.
Bisogna forse evocare, ancora una volta, l’eredità di Machiavelli e di Étienne de La Boétie.
L’eredità dell’«acutissimo Machiavelli» che, come afferma l’autore del Trattato politico, «diede
suggerimenti molto salutari» per la difesa della libertà, 161 ineluttabilmente vincente non appena
viene desiderata. Quando tratta «Delle congiure» nel capitolo 6 del III libro dei Discorsi,
Machiavelli vede infatti nel «desiderio di liberare la patria» il motivo più importante che spinge gli
uomini a congiurare contro un principe; e questo motivo è irresistibile:

Né può, da questo omore, alcuno tiranno guardarsi, se non con diporre la tirannide. E perché non si truova
alcuno che faccia questo, si truova pochi che non capitino male. 162

Il Discorso sulla servitù volontaria è della stessa tempra. 163 «La libertà», dirà pure La
Boétie,

ispira [coraggio] ai cuori di quelli che la difendono!164

Vi sono pur sempre alcuni, nati meglio degli altri, che sono insofferenti del peso del giogo e non possono far a
meno di scrollarlo, che non si abituano mai all’asservimento.165

Avendo la testa naturalmente ben fatta, l’hanno ulteriormente affinata con lo studio e il sapere. Anche se la
libertà fosse completamente perduta e bandita da questo mondo, essi se la raffigurerebbero, la sentirebbero nel
loro spirito e l’assaporerebbero. Quanto alla servitù essi l’aborriscono, qualsiasi cosa si faccia per
mascherarla. 166

Quando questi uomini, «vedendo il loro paese maltrattato e caduto in cattive mani»
intraprendono «il progetto di liberarlo con un’intenzione giusta, onesta e sincera», riescono «a
portare in porto l’impresa». 167
L’intero capitolo ventesimo del Trattato teologico-politico fa l’elogio - lo sappiamo – di
questi spiriti fieri e ribelli, di questi uomini indipendenti che «coltivano le arti e la virtù», che
Spinoza distingue da coloro che la tirannia ha ridotto alla perfidia e sottomesso al regno
dell’impostura; quelli per cui «la suprema salute sta nel contemplare il denaro che [hanno] nello
scrigno e nell’avere la pancia piena», e che per avidità e per la speranza di qualche fortuna
fraudolenta (sotto la protezione del tiranno) sono destinati alle lusinghe e al «servilismo». 168 In
effetti,

sotto i tiranni, gli uomini diventano facilmente vigliacchi ed effeminati; 169

161
TP V,7, C. p. 85.
162
Discorsi III,6, p. 201.
163
Sul rapporto tra Etienne de La Boétie e Machiavelli cfr. C. Lefort, Le nom d’Un nell’edizione del Discours
de la Servitude Volontaire, Payot, Paris 1993, pp. 284 sgg.
164
La Boetie, Discorso sulla servitù volontaria, La vita felice, Milano 1996, p. 25.
165
Ibid., pp. 63-5.
166
Ibid., p. 65.
167
Ibid., p. 67.
168
TTP XX, G. III pp. 243-4, D. pp. 486-7.
169
La Boetie, Discorso sulla servitù volontaria, cit., p. 69.
il più sveglio di essi non avrebbe abbandonato la scodella di minestra per riconquistare la libertà della
Repubblica di Platone;170

uomini dominati da una sfrenata ambizione e da notevole avidità, gli si radunano intorno e lo sostengono per
avere una parte del bottino e per diventare, all’ombra di un grande tiranno, tanti piccoli tiranni; 171

Quegli sventurati hanno l’impressione di veder luccicare il tesoro dei tiranni: ne ammirano, stupiti, la
magnificenza; allettati da quel luccichio, si avvicinano senza avvedersi che vanno a gettarsi in un fuoco che
finirà giocoforza per divorarli. 172

Machiavelli, La Boétie, Spinoza. Tutti proclamano l’esemplarità della virtù che resiste. Virtù
che, anche quando gli eroi incontrano la morte, non potrà che propagarsi ed alla fine trionfare.
Combattendo, la virtù dei «pochi» chiama altra virtù e questa la vittoria. Perché si passa
necessariamente, secondo la dinamica degli affetti e su una base mimetica, dall’indignazione dei
migliori173 a quella di tutti.
Certo, l’esperienza e la ragione sembrano mostrare che è «impossibile sottrarre le masse alla
superstizione e alla paura», che sono il miglior sostegno della tirannide (presente o futura) e che non
ci si può (che non si deve) rivolgere ai non filosofi. Per questi, infatti, la lettura del Trattato
teologico-politico è solo l’«occasione» per fare del male, cioè per perseguitare quelli che si
dedicano «alla filosofia con maggiore libertà» e per i quali l’opera potrà invece «riuscire di
grandissima utilità». 174 Non c’è discussione possibile col tiranno, né possibilità di riforma pacifica
per la tirannia: alla violenza del re «i sudditi possono reagire […] soltanto con la violenza»… 175 e
sappiamo sfortunatamente che non basta sopprimere il tiranno per liberarsi del dominio.
Machiavelli e La Boétie, come Spinoza, sanno che «curare le piaghe inguaribili» 176 è spesso
inutile e pericoloso… ma affermano anche che questa lucidità non deve impedire la lotta né far
dimenticare il fine. Perché «pochissimi» sono sempre pronti a comprendere ed a resistere e non ci
sarà mai «ragione di disperare […] interamente». 177
C’è sempre un percorso (per quanto difficile) di liberazione che, secondo il favore delle
circostanze, potrebbe aprirsi a tutti. Ai filosofi ed ai più lucidi il compito di lavorare perché il
rovesciamento del tiranno non sia una fatica inutile. Ora, nella resistenza di alcuni, la tensione
dell’auto-organizzazione autonoma della multitudinis potentia è già all’opera. Bisogna fondarsi su
questa e, per quanto possibile, proteggere – per l’avvenire – la potenza di libertà e di pace che
sviluppa nella lotta. Perché in nessun caso questa resistenza può essere ritenuta un valore guerresco,
anche se da quella nascono gli eroi. È essenzialmente in atti e, per i valori che afferma – resistere è
desiderare ed in questo modo affermare il valore – un «si» alla vita, alla solidarietà umana, alla
libertà ed alla pace. Nel suo principio la resistenza è fondamentalmente anti- nichilista. Non può
quindi, logicamente, se non nella menzogna e nella cattiva fede, essere portatrice di morte; se così
fosse, la resistenza si tradirebbe. Meglio allora tornare al «governo legittimo»…
La strategia di liberazione politica in Spinoza si basa sulla resistenza di queste soggettività
(individuali e/o collettive) che affermano in atti, contro l’inumanità e l’infamia
dell’assoggettamento (che produce truppe di schiavi), una singolarità umana che implica qui ed ora
la speranza politica della libertà. Perché queste singolarità che resistono instaurano già ora - in
modo diametralmente opposto al regno della schiavitù che è pure quello della solitudine, della

170
Ibid., p. 79.
171
Ibid., p. 99.
172
Ibid., p. 115.
173
TP X,8, C. pp. 229-31.
174
TTP praef., G. III pp. 11-2, D. p. 10.
175
TP VII,30, C. p. 147.
176
La Boétie, cit., p. 33, Machiavelli, Il Principe, III, p. 258, in cui si trova una formula simile.
177
TTP VIII, G. III p. 118, D. p. 230.
menzogna e della perfidia (la «corruzione di ogni buon costume») 178 – la benevolenza e l’amore, la
buona fede, la libertà della comunicazione e della parola, col desiderio di conoscersi, di agire e
vivere insieme.
Si chiarisce allora il senso politico principale dei capitoli centrali del Trattato teologico-
politico, cioè il significato liberatore dell’insegnamento dell’amore del prossimo, fondato
sull’essenziale confidenza ontologica della vita in se stessa, attraverso le sue molteplici figure (cioè
la sua modalità politica). Si tratta di passaggi idealisti? Oppure apolitici, individualisti o anche
elitisti? Tutto il contrario. Si tratta dell’ispirazione conflittuale di Machiavelli e La Boétie che
Spinoza perpetua dal suo punto di vista e difende da quello della «massa». Dalla resistenza di alcuni
– vero e proprio nucleo dell’auto-organizzazione autonoma del corpo collettivo – alla liberazione di
tutti, questo il senso politico (e la direzione storica) del progetto spinozista. L’articolazione
dell’ontologia e della storia si compie quindi, in Spino za, attraverso il concetto di resistenza.
Compare così il paradosso del concetto di resistenza per come si è formato storicamente.
Quest’idea si è forgiata (dal XVI al XVII secolo) in una pratica di reale trasformazione storica,
riflettendosi però in un’ideologia conservatrice della restaurazione, a partire dalle nozioni chiave di
diritto naturale e di contratto. Spinoza rompe, dal punto di vista della multitudinis potentia, le
teologie della Legge, del Diritto e dello Stato (sia che si fondino sul mito del diritto naturale o di
quello del contratto). Afferma – oltre il teatro della rappresentazione teologico- giuridica e
dell’«apparenza del diritto», attraverso cui la rivolta, o addirittura il regicidio, tendono a
giustificarsi nell’immaginario 179 - il fatto assoluto e reale del diritto sovrano ed eterno della
resistenza. Diritto compreso nella dinamica costitutiva delle affezioni del corpo della moltitudine,
nella sua strategia di resistenza attiva (e/o nella sua affermazione del tutto assoluta dell’esistenza).
Così, rompendo con l’immaginario del diritto naturale e del contratto, Spinoza trasforma il concetto
di resistenza nella possibilità stessa di una storia. Ma anche, dal punto di vista della dinamica della
potenza della moltitudine, il concetto della possibilità dell’avvento (come processo) di una
soggettività singolare ed il luogo dell’auto-costituzione (e della comprensione) della sovranità.
Fondare insieme la stabilità e la pienezza del corpo collettivo sul principio di resistenza (che è la
sua stessa essenza, come tensione di e verso l’autonomia, pienezza espansiva della cupiditas),
questo il progetto di una filosofia politica spinozista. Se è «l’obbedienza […] che fa il suddito», 180 il
capitolo XX del Trattato teologico-politico fa l’elogio della resistenza dei «migliori», mentre il
Trattato politico, nella sua posizione democratica in favore dei contro-poteri, ci insegna anche e
soprattutto che è la resistenza che fa il cittadino. La resistenza può quindi apparire non più solo
come un atto di conservazio ne ma, al contrario, come l’azione per cui si produce nella sua
essenziale socialità storica la realtà umana e la sua dimensione etica e politica, così come,
nell’immaginario, i nuovi significati che accompagnano questa costituzione.

178
TTP XX, G. III p. 243, D. p. 486.
179
TTP XVIII, G. III p. 227, D. p. 454.
180
TTP XVII, G. III p. 202, D. p. 413.

Potrebbero piacerti anche