Pirandello - L'Umorismo

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The Project Gutenberg EBook of L'umorismo, by Luigi Pirandello

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Title: L'umorismo

Author: Luigi Pirandello

Release Date: April 10, 2018 [EBook #56958]

Language: Italian

*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK L'UMORISMO ***

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L'UMORISMO
LUIGI PIRANDELLO

L'UMORISMO

SAGGIO

SECONDA EDIZIONE AUMENTATA

FIRENZE
LUIGI BATTISTELLI — E
1920
P L
Stab. FED. SACCHETTI & C. — MILANO — Via
Zecca Vecchia, 7
INDICE
PARTE PRIMA
I.
La parola «umorismo»

Alessandro D'Ancona, in quel suo notissimo studio su Cecco


Angiolieri da Siena, [1] dopo aver notato quanto vi sia di burlesco in
questo nostro poeta del sec. XIII, osserva: «Ma per noi l'Angiolieri
non è soltanto un burlesco: bensì anche, e più propriamente, un
umorista. E qui i camarlinghi della favella ci faccian pure il viso
dell'arme, ma non pretendano di dire che in italiano bisogna
rassegnarsi a non dir la cosa, perchè non abbiam la parola».
E, accortamente, in una nota a pie' di pagina, [2] soggiunge: «È
curioso però che il traduttore francese di una dissertazione tedesca
sull'Humour, inserita nel Recueil de piéces intéressantes, concernant
les antiquités, les beaux-artes, les belles-lettres, citando il Riedel.
Theor. d. Schöne Kunsten, I. artic. Laune, sostenga che sebbene gli
Inglesi, ed il Congreve in particolare, rivendichino per sè i vocaboli
humour e humourist «il est néanmoins certain qu'ils viennent de
l'italien».
E quindi il D'Ancona riprende: «Del resto, poi, la nostra lingua ha
umore per fantasia, capriccio, e umorista per fantastico: e gli umori
dell'animo e del cervello ognun sa che stanno in stretta relazione
con la poesia umorista. E l'Italia ebbe ai suoi tempi le accademie
degli Umorosi a Bologna ed a Cortona e degli Umoristi in Roma, [3] e
speriamo che i mali umori della politica non le facciano mai venir
meno i begli umori nel regno dell'arte».
La parola umore derivò a noi naturalmente dal latino e col senso
materiale che essa aveva di corpo fluido, liquore, umidità o vapore, e
col senso anche di fantasia, capriccio o vigore. «Aliquantum habeo
humoris in corpore, neque dum exarui ex amoenis rebus et
voluptariis» (Plauto). Qui humor non ha evidentemente senso
materiale, perchè sappiamo che, fin dai tempi più antichi, ogni umore
nel corpo era ritenuto segno o cagione di malattia.
«Li uomini, — si legge in un vecchio libro di mascalcia, — hanno
quattro umori: cioè lo sangue, la collera, la flemma e la malinconia: e
questi umori sono cagione delle infermità degli uomini». E in
Brunetto Latini: «Malinconia è un umore, che molti chiamano collera
nera, ed è fredda, e secca, ed ha il suo sedio nello spino» — com'è
insomma nel latino di Cicerone e di Plinio. Sant'Agostino poi in un
suo sermone ci fa sapere che «i porri accendono la collora, i cavoli
generano malinconia». [4]
Sarà bene, trattando dell'umorismo, tener presente anche quest'altro
significato di malattia della parola umore, e che malinconia, prima di
significare quella delicata affezione o passion d'animo che
intendiamo noi, abbia avuto in origine il senso di bile o fiele e sia
stata per gli antichi un umore nel significato materiale della parola.
Vedremo appresso la relazione che le due parole umore e
malinconia avranno tra loro assumendo un senso spirituale.
Diciamo intanto che tal relazione, se non mancò affatto nello spirito
della nostra lingua, certo non vi apparve chiaramente. Da noi, infatti,
la parola umore o serba il significato materiale, tanto che un
proverbio toscano può dire: «Chi ha umore non ha sapore»
(alludendo alle frutta acquose); o, se assume un significato
spirituale, esprime sì inclinazione, natura, disposizione o stato
passeggero d'animo o anche fantasia, pensiero, capriccio, ma senza
una qualità determinata; tanto vero che dobbiamo dire umor tristo o
gaio, o tetro, buono o cattivo o bell'umore, ecc.
Insomma, la parola italiana umore non è la inglese humour. Questa,
come dice il Tommaseo, racchiude e contempera le nostre
espressioni bell'umore, buonumore e malumore. C'entrano un po',
dunque, i cavoli di Sant'Agostino.
Discutiamo adesso su la parola, non su la cosa: è bene avvertirlo,
perchè non vorremmo si credesse che a noi manchi veramente la
cosa per il solo fatto che la parola nostra non riuscì idealmente a
serbare e a contemperare in sè ciò che già materialmente includeva.
Vedremo che tutto, in fondo, si riduce a un bisogno di più chiara
distinzione che sentiamo noi, perchè, o bello o buono o tetro o gajo,
umore è sempre, e non è diverso dall'inglese nell'essenza, ma nelle
modificazioni che naturalmente vi imprimono la lingua diversa e la
varia natura degli scrittori.
Del resto, non si creda che la parola inglese humour e il suo derivato
umorismo siano di così facile comprensione.
Il D'Ancona stesso, in quel suo saggio su l'Angiolieri, su cui più tardi
dovremo ritornare, confessa: «S'io dovessi dare una definizione
dell'umorismo sarei davvero molto impacciato». Ed ha ragione. Tutti
dicono così.

Piuttosto no 'l comprendo, che te 'l dica.

Di tutte quelle tentate nei secoli XVIII e XIX parla in un suo studio già
citato, il Baldensperger, per concludere, a modo del Croce, che: «il
n'y a pas d'humour, il n'y a que des humouristes», come se per poter
dire o riconoscere che questo o quello scrittore è un umorista, non si
dovesse avere un qualche concetto dell'umorismo, e bastasse
sostenere, come fa il Cazamian, citato dallo stesso Baldensperger,
che l'umorismo sfugge alla scienza, perchè gli elementi caratteristici
e costanti di esso sono in piccolo numero e sopratutto negativi,
laddove gli elementi variabili sono in numero indeterminato. Sì.
Anche l'Addison stimava più facile dire ciò che l'humour non è, che
dire ciò che è. E tutte le fatiche che si son fatte per definirlo
ricordano veramente quelle speciosissime che si fecero nel secolo
XVII per definir l'ingegno (oh, il Cannocchiale aristotelico di
Emmanuele Tesauro!) e il gusto o buon gusto e quell'ineffabile non
so che, per cui il Bouhours scriveva: «Les Italiens, qui font mystère
de tout, emploient en toutes rencontres leur non so che: on ne voit
rien de plus commun dans leur poëtes». Gl'Italiani «qui font mystère
de tout». Ma andate a domandare ai Francesi che cosa intendano
per esprit.
Quanto all'umorismo, «certo è, — seguita il D'Ancona, — che la
definizione non è facile, perchè l'umorismo ha infinite varietà,
secondo le nazioni, i tempi, gl'ingegni, e quel di Rabelais e di Merlin
Coccajo non è una cosa coll'umorismo dello Sterne, dello Swift o di
Gian Paolo, e la vena umoristica dello Heine e del Musset non è di
egual sapore. Non vi ha poi forse alcun altro genere nel quale sia, o
dovrebbe esser più sottil differenza dalla forma prosaica alla poetica,
per quanto ciò non venga sempre avvertito dai lettori, e neanche
dagli scrittori. Ma di ciò, e delle ragioni di queste differenze, e delle
varietà fra l'umore e la satira e l'epigramma e la facezia e la parodia
e il comico d'ogni foggia e qualità, e se, come vuole il Richter, alcuni
umoristi sieno semplicemente lunatici, non è qui il luogo di discutere.
Certo è questo, che un fondo comune vi è in tutti coloro che la voce
pubblica raccoglie sotto la stessa denominazione di umoristi».
L'osservazione in fondo è giusta; ma — piano con la voce pubblica!
— vorremmo dire al D'Ancona. «Dopo la parola romanticismo, la
parola più abusata e sbagliata in Italia (in Italia soltanto?) è quella di
umorismo. Se fossero realmente umoristi gli scrittori, i libri, i giornali
battezzati con questo nome, noi non avremmo nulla da invidiare alla
patria di Sterne e di Thackeray o a quella di Gian Paolo e di Heine.
Non si potrebbe uscir di casa senza incontrar per la strada due o tre
Cervantes e una mezza dozzina di Dickens... Vogliamo solo notare
fin da principio che vi è una babilonica confusione
nell'interpretazione della voce umorismo. Per il gran numero,
scrittore umoristico è lo scrittore che fa ridere: il comico, il burlesco, il
satirico, il grottesco, il triviale: — la caricatura, la farsa, l'epigramma,
il calembour si battezzano per umorismo: come da un pezzo si
costuma di chiamare romantico tutto ciò che vi è di più arcadico e
sentimentale, di più falso e barocco. Si confonde Paul de Kock con
Dickens, e il visconte d'Arlincourt con Victor Hugo».
Questo notava Enrico Nencioni, già fin dal 1884, in un articolo su la
Nuova Antologia intitolato appunto L'Umorismo e gli Umoristi, che
fece molto rumore.
Non si può dir veramente che la voce pubblica in tutto questo lasso
di tempo, si sia ricreduta. Anche oggi, per il gran numero, scrittore
umoristico è lo scrittore che fa ridere. Ma, ripeto, perchè in Italia
soltanto? Da per tutto! Il volgo non può intendere i segreti contrasti,
le sottili finezze del vero umorismo. Si confondono anche altrove la
caricatura, la farsa bislacca, il grottesco con l'umorismo; si
confondono anche là dove al Nencioni sembrava (e non a lui
soltanto) che l'umorismo stèsse di casa: non ha forse nome
d'umorista Mark Twain, i cui racconti sono, secondo la sua stessa
definizione «una collezione di eccellenti cose, prodigiosamente
divertenti, che strappano il riso anche dai volti più ingrugniti?».
Il giornalismo, un certo giornalismo si è impadronito della parola, l'ha
adottata e, sforzandosi di far ridere più o meno sguajatamente a ogni
costo, l'ha divulgata in questo falso senso.
Cosicchè ogni vero umorista prova oggi ritegno, anzi sdegno a
qualificarsi per tale. — Umorista, sì, ma... non confondiamo, — si
sente il bisogno d'avvertire: — umorista nel vero senso della parola.
Come dire:
— Badate ch'io non mi propongo di farvi ridere facendo sgambettar
le parole.
E più d'uno, per non passar da buffone, per non esser confuso coi
centomila umoristi da strapazzo, ha voluto buttar via la parola
sciupata, abbandonarla al volgo, e adottarne un'altra: ironismo,
ironista.
Come da umore, umorismo; da ironia, ironismo.
Ma ironia, in che senso? Bisognerà distinguere, anche qui. Perchè
c'è un modo retorico e un altro filosofico d'intendere l'ironia.
L'ironia, come figura retorica, racchiude in sè un infingimento che è
assolutamente contrario alla natura dello schietto umorismo. —
Implica sì, questa figura retorica, una contradizione, ma fittizia, tra
quel che si dice e quel che si vuole sia inteso. La contraddizione
dell'umorismo non è mai, invece, fittizia ma essenziale, come
vedremo, e di ben altra natura.
Quando Dante aggrava la riprensione eccettuando dal numero dei
ripresi chi è più riprensibile, come per la brigata dei prodighi matti,
allor che esclama: ... Or fu giammai — Gente sì vana? e un dannato
risponde: — Tranne lo Stricca... E tranne le brigata; oppure là dove
dice:

Ogni uom v'è barattier fuor che Bonduro;

o quando rammenta il bene per esacerbare il sentimento del male,


come fanno i diavoli al barattier lucchese:

... Qui non ha luogo il Santo Volto


Qui si nuota altrimenti che nel Serchio;

o quando a chi parla fa rammentare i proprii vantaggi nell'usarli


aspramente, come fa quell'altro diavolo che toglie a S. Francesco
l'anima d'un reo, argomentando teologicamente su la penitenza, per
modo che quell'anima presa da lui si sente dire:

Forse
Tu non pensavi ch'io loico fossi;

o quando esclama:

Godi, Firenze, poichè sei sì grande;

oppure:

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta


Di questa digression che non ti tocca
. . . . . . . . . . . . . . . .
Or ti fa lieta, che tu hai ben onde;
Tu ricca, tu con pace, tu con senno...
dà mirabili esempi di ironia nel senso retorico della parola: ma nè
qui, nè in altro punto, del resto, della Comedia, non è traccia
d'umorismo.
Un altro senso, dicevamo, e questo filosofico, fu dato alla parola
ironia in Germania. Lo dedussero Federico Schlegel e Ludovico
Tieck direttamente dall'idealismo soggettivo del Fichte; ma deriva in
fondo da tutto il movimento idealistico e romantico tedesco post-
Kantiano. L'Io, sola realtà vera, spiegava Hegel, può sorridere della
vana parvenza dell'universo: come la pone, può anche annullarla;
può non prender sul serio le proprie creazioni. Onde l'ironia: cioè
quella forza — secondo il Tieck — che permette al poeta di dominar
la materia che tratta; materia che si riduce per essa — secondo
Federico Schlegel — a una perpetua parodia, a una farsa
trascendentale.
Trascendentale più d'un po', osserveremo noi, questa concezione
dell'ironia: nè, del resto, se consideriamo per poco donde ci viene,
poteva essere altrimenti. Tuttavia essa ha, o può avere, almeno in
un certo senso, qualche parentela col vero umorismo, più stretta
certamente che non l'ironia retorica, da cui, in fondo, tira tira, si
potrebbe veder derivare. Qui, nell'ironia retorica, non bisogna
prender sul serio quel che si dice; lì, nella romantica, si può non
prender sul serio quel che si fa. L'ironia retorica sarebbe, rispetto
alla romantica, come quella famosa rana della favola, la quale,
trasportata nel macchinoso mondo dell'idealismo metafisico tedesco
e abbottandosi qua più di vento che d'acqua, fosse riuscita ad
assumere le invidiate proporzioni del bue. L'infingimento, quella tal
contraddizione fittizia, di cui parla la retorica, è diventata qua, a furia
di gonfiarsi, la vana parvenza dell'universo. Ora ecco: se l'umorismo
consistesse tutto nella puntura di spillo che svescia quella rana
abbottata, ironia e umorismo sarebbero press'a poco la stessa cosa.
Ma l'umorismo, come vedremo, non è tutto in questa puntura di
spillo.
Al solito, Federico Schlegel non fece altro qui che esagerare idee e
teorie altrui: oltre all'idealismo soggettivo del Fichte, la famosa teoria
del gioco esposta dallo Schiller nelle 27 lettere Ueber die
aesthetische Erziehung des Menschen.
Il Fichte aveva voluto, in fondo, compire la dottrina kantiana del
dovere: dicendo che l'universo è creato dallo spirito, dall'«Io», che è
anche divinità, l'anima dell'essenza del mondo, che genera tutto ed è
impersonale, che è volontà infaticabile, la quale racchiude in sè
ragione, libertà, moralità; aveva voluto dimostrare il dovere dei
singoli uomini di sottomettersi al volere della totalità e di tendere al
culmine dell'armonia morale.
Ora, quest'«Io» del Fichte diventò l'«io» individuale, il piccolo «io»
strambo del signor Federico Schlegel, che con un cannellino e un
po' d'acqua saponata si mise allegramente a gonfiar bolle di sapone:
vane parvenze d'universo, mondi; e a soffiarci su. E questo era il
giuoco. Povero Schiller! Non poteva esser falsato in modo più
indegno il suo Spieltrieb. Ma il signor Federico Schlegel prese alla
lettera le parole: «der Mensch soll mit der Schöneit nur spielen, und
er soll nur mit der Schöneit spielen. Denn, um es endlich auf einmal
herauszusagen, der Mensch spielt nur, wo er in voller Bedeutung
des Worts Mensch ist, und er ist nur da ganz Mensch, wo er
spielt», [5] e disse che per il poeta l'ironia consiste nel non fondersi
mai del tutto con l'opera propria, nel non perdere, neppure nel
momento del patetico, la coscienza della irrealtà delle sue creazioni,
nel non essere lo zimbello dei fantasmi da lui stesso evocati, nel
sorridere del lettore che si lascerà prendere al giuoco e anche di sè
stesso che la propria vita consacra a giocare. [6]
Intesa in questo senso l'ironia, ognun vede come a torto essa venga
attribuita a certi scrittori, come ad esempio, al nostro Manzoni, che
della realtà oggettiva, della verità storica si fece una vera e propria
fissazione, fino a condannare il suo stesso capolavoro. Nè d'altra
parte si può attribuire al Manzoni quell'altra ironia, la retorica,
giacchè nessuna contradizione fittizia si trova mai in lui tra quel che
dice e quel che vuole sia inteso, contradizione frutto di sdegno. Il
Manzoni non si sdegna mai della realtà in contrasto col suo ideale:
per compassione transige qua e là e spesso indulge,
rappresentando ogni volta minutamente, in forma viva, le ragioni del
suo transigere e del suo indulgere: il che, come vedremo, è proprio
dell'umorismo.
La sostituzione di ironismo, ironista a umorismo, umorista non
sarebbe quindi legittima. Dall'ironia, anche quando sia usata a fin di
bene, non si sa disgiungere l'idea di un che di beffardo e di mordace.
Ora, beffardi e mordaci possono essere anche scrittori
indubbiamente umoristici, ma il loro umorismo non consisterà già in
questa beffa mordace.
È pur vero però che a una parola si può per comune accordo
alterare il significato. Tante parole che noi adoperiamo adesso in un
senso, ne avevano un altro in antico. E se alla parola umorismo,
come abbiamo veduto, s'è già veramente alterato il senso, non ci
sarebbe in fondo nulla di male se — per determinare, per significare
senza equivoco la cosa — venisse adoperata un'altra parola.
II.
Questioni preliminari

Prima di entrare a parlar dell'essenza, dei caratteri e della materia


dell'umorismo, dobbiamo sgomberarci il terreno di tre altre questioni
preliminari: 1) se l'umorismo sia fenomeno letterario esclusivamente
moderno; 2) se esotico per noi; 3) se specialmente nordico.
Queste tre questioni si ricollegano strettamente con quella più vasta
e complessa della differenza dell'arte moderna dall'arte antica,
lungamente agitata durante la lotta tra classicismo e romanticismo
considerato dalle genti anglo-germaniche come una rivalsa contro il
classicismo delle genti latine.
Vedremo in fatti ripresi nelle varie dispute su l'umorismo tutti gli
argomenti della critica romantica, a cominciare da quelli de lo
Schiller, il quale, col saggio famoso Ueber naïve und
sentimentalische Dichtung, fu, a dire del Goethe [7] il fondatore di
tutta l'estetica moderna.
Questi argomenti sono ben noti: il subiettivismo del poeta
speculativo-sentimentale, rappresentante dell'arte moderna, in
contrapposto con l'obbiettivismo del poeta istintivo o ingenuo,
rappresentante dell'arte antica; il contrasto tra l'ideale e il reale; la
serenità marmorea, l'equilibrio dignitoso, la bellezza esteriore
dell'arte antica contro l'esaltazione dei sentimenti, il vago, l'infinito,
l'indeterminato delle aspirazioni, le melanconie, la nostalgia, la
bellezza interiore dell'arte moderna; e da un canto le bassure del
verismo della poesia ingenua, e dall'altro le nebbie dell'astrazione e
il capogiro intellettuale della poesia sentimentale; [8] l'azione del
cristianesimo; l'elemento filosofico; l'incoerenza dell'arte moderna
opposta all'armonia della poesia greca; le particolarità singole di
fronte alle tipificazioni classiche; la ragione che s'interessa del valore
filosofico del contenuto più che della vaghezza della forma esteriore;
il sentimento profondo di un'interna disunione, di una doppia natura
dell'uomo moderno, ecc. ecc.
Per darne qualche prova, citeremo ciò che scriveva il Nencioni in
quel suo studio su L'Umorismo e gli umoristi, di cui abbiamo già fatto
parola: «L'antichità, nel suo felice equilibrio dei sensi e dei
sentimenti, guardò con calma statuaria anche nelle tragiche
profondità del destino. L'anima umana era sana e giovine allora, nè il
cuore e la intelligenza erano stati tormentati da trenta secoli di
precetti e di sistemi, di dolori e di dubbi. Nessuna penosa dottrina,
nessuna crisi interiore aveva alterato la serena armonia della vita e
del temperamento umano. Ma il tempo e il cristianesimo hanno
insegnato all'uomo moderno a contemplare l'infinito, a paragonarlo
con l'effimero e doloroso soffio della vita presente. Il nostro
organismo è continuamente eccitato e sovreccitato; e secolari dolori
hanno umanizzato il nostro cuore. Noi guardiamo nell'anima umana,
e nella natura con una simpatia più penetrante, e vi troviamo delle
arcane relazioni e un'intima poesia ignote all'antichità... Il riso
d'artista e la comica fantasia di Aristofane, alcuni dialoghi di Luciano,
sono eccezioni. L'antichità, non ebbe, nè poteva avere, letteratura
umoristica... Si direbbe che questa sia la caratteristica delle
letterature anglo-germaniche. Il cielo crepuscolare e l'umido suolo
del Nord sembrano esser più acconci a nutrire la delicata e strana
pianta dell'umorismo.»
Concedeva però il Nencioni che «anche sotto il cielo azzurro e nella
vita facile delle razze latine» l'umorismo «ha talora fiorito, e due o tre
volte in modo unico, meraviglioso». E parlava infatti del Rabelais e
del Cervantes, e anche dell'umorismo «realista, e vivente» di Carlo
Bini, e diceva il Don Abbondio del Manzoni una creazione umoristica
di prim'ordine.
Più preciso nella negazione fu Giorgio Arcoleo [9] il quale, pur
ammettendo che la nota dell'umorismo, speciale della letteratura
moderna, non manchi di legami col mondo antico, e pur citando
quell'insegnamento di Socrate che dice: «Una è l'origine dell'allegria
e della tristezza: nei contrapposti un'idea non si conosce che per la
sua contraria: della stessa materia si forma il socco e il coturno»,
soggiungeva: «Questo lo intelletto greco pensava: ma l'Arte non
potea esprimerlo: la percezione dei contrasti rimaneva nel campo
astratto, perchè diversa era la vita. La Teogonia avvolgeva l'anima
nel mito; l'Epopea i fatti umani nella leggenda; la Politica le forze
individuali nella suprema legge dello Stato. L'Antichità costrinse
serenamente le forme nell'armonia del finito: vide il Ciclope o lo
Gnomo, le Grazie o le Parche. Come la vita avea liberi o servi,
onnipotenti o impotenti, così la scienza ebbe sorrisi o pianto: Eraclito
o Democrito; e la letteratura, ebbe tragedie o commedie. Tutt'al più il
contrasto dalla sfera dell'intelletto passò nell'altra della
immaginazione, si tramutò in fantasma, e allora Aristofane fece la
satira dei sofisti, Luciano degli Dei. Ma se il Paganesimo si era
obliato nella magnificenza delle forme e della natura, il Medio Evo si
tormentò nei dubbii e nelle angosce dello spirito. Fu triste, ebbe
sogni agitati da spettri: la potenza baronale finiva spesso nei
conventi, la bellezza nei chiostri. La corruttela romana non seduceva
neppure come ricordo: la dissoluzione del grande Impero aveva
inoculato negli animi l'idea dell'impotenza. A rovescio del mondo
antico: questo rimpiccolì nelle forme plastiche le energie
soprannaturali; il Medio Evo le allargò nell'infinito: e, compreso dallo
spazio e dal tempo, lo spirito umano si annullò con braminica
rassegnazione. Tale depressione soffocò ogni spirito d'iniziativa e di
ricerca. Nelle credenze sovraneggiò il dogma, nella scienza
l'erudizione, nell'arte la copia, nel costume la disciplina. L'umanità
nel suo periodo di decadenza romana avea sostenuto i dolori della
vita coll'indifferenza dello stoico: ne avea cercato i piaceri con la
sensualità dell'epicureo: nel Medio Evo volle sottrarsi alla vita con
l'estasi: donde una nuova mitologia cristiana, popolata di rimorsi, di
paure, di preghiere. Il pensiero seguiva la fede: il manuale di logica
era un'appendice del catechismo. In tali condizioni dominava il
terrore, si aspettava il finimondo... Finalmente nella materia come
nello spirito sorge un nuovo mondo. È un periodo di esultanza e al
tempo stesso di mestizia e di riflessione: ma si rivela con due
tendenze spiccate, l'una presso le razze germaniche, l'altra presso le
latine: lì il libero esame o la Riforma: qui il culto della bellezza e della
forza, la Rinascenza. I contrasti si moltiplicano nelle istituzioni, nella
vita privata, nei costumi, nelle leggi, nella letteratura... Non è antitesi
percepita dall'intelletto o intravista dalla fantasia; non è lotta contro la
natura umana, come nell'età di mezzo; è dissonanza che stride in
tutte le sfere del pensiero e dell'azione: è il dissidio tra lo spirito
nuovo e le forme vecchie. In tale situazione il trionfo dell'uno o
dell'altra ha influenza decisiva sulle istituzioni, sulla scienza, sull'arte.
Qui appunto va notata la differenza dei risultati nelle razze
germaniche e nelle latine: differenza che spiega in gran parte,
perchè l'umorismo ebbe tanto sviluppo presso le prime, e riuscì
quasi nullo presso le seconde».
Ora, si dovrebbe innanzi tutto intendere che, prendendo in esame
un'eccezionale e speciosissima espressione d'arte come
l'umoristica, queste rapide sintesi, queste ideali ricostruzioni
storiche, non sono ammissibili.
Come nella formazione d'una leggenda l'immaginazione collettiva
rigetta tutti gli elementi, i tratti, i caratteri discordanti con la natura
ideale d'un dato fatto o d'un dato personaggio ed evoca invece e
combina tutte le immagini convenienti; così, nel tracciare in breve la
sintesi d'una data epoca, inevitabilmente noi siamo indotti a non
tener conto di tanti particolari in contradizione, delle singole
espressioni. Non possiamo prestare orecchio alle voci che
protestano in mezzo a un coro soverchiante. Nella lontananza, si sa,
certi colori accesi, sparsi qua e là, si attenuano, si smorzano, si
fondono nella tinta generale, azzurra o grigia, del paesaggio. Perchè
questi colori risaltino, riassumendo intera la loro individualità,
bisogna che noi ci avviciniamo: riconosceremo allora come e quanto
ci avesse ingannato la lontananza.
Seguendo le teorie del Taine, considerando i fenomeni morali come
soggetti anch'essi al determinismo al pari dei fenomeni fisici, la
storia umana come parte della naturale, l'opera d'arte come il
prodotto di determinati fattori e di determinate leggi, e cioè di quella
de le dipendenze e di quella de le condizioni, con le regole che ne
derivano: del carattere essenziale o della facoltà dominante, dalla
prima; delle forze primordiali, razza, ambiente, momento, dalla
seconda; e vedendo esclusivamente nelle espressioni artistiche gli
effetti necessarii di forze naturali e sociali; non penetreremo mai
nell'intimità dell'arte, ci rappresenteremo per forza tutte le
manifestazioni d'un dato tempo come solidali tra loro e
complementari, per modo che ciascuna necessiti le altre e tutte
insieme rispecchino quelle qualità che, secondo il nostro concetto o
la nostra idea sommaria, le ha raccolte e prodotte; non già la realtà
infinitamente varia e continuamente mutabile, e i singoli sentimenti di
essa, varii infinitamente e continuamente mutabili anch'essi. Dopo
aver considerato il cielo, il clima, il sole, la società, i costumi, i
pregiudizii, ecc., non dobbiamo forse appuntar lo sguardo sui singoli
individui e domandarci che cosa siano divenuti in ciascuno di essi
questi elementi, secondo lo speciale organamento psichico, la
combinazione originaria, unica, che costituisce questo o
quell'individuo? Dove uno s'abbandona, l'altro si rivolta; dove uno
piange, l'altro ride; e ci può esser sempre qualcuno che ride e
piange a un tempo. Del mondo che lo circonda, l'uomo, in questo o
in quel tempo, non vede se non ciò che lo interessa: fin dall'infanzia,
senza neppur sospettarlo, egli fa una scelta d'elementi e li accetta e
accoglie in sè; e questi elementi, più tardi, sotto l'azione del
sentimento, s'agiteranno per combinarsi nei modi più svariati.
«L'Antichità costrinse serenamente le forme nell'armonia del finito».
Ecco una sintesi. Tutta l'antichità? Nessun antico escluso? Il Ciclope
o lo Gnomo, le Grazie o le Parche? E non anche le Sirene, metà
donne, metà pesce? «La vita non aveva che o liberi o servi». E non
poteva qualche libero sentirsi servo e qualche servo sentirsi libero
entro di sè? Non cita lo stesso Arcoleo Diogene che «chiude il
mondo nella botte, e non accetta la grandezza d'Alessandro, se gli
toglie la vista del sole?». E che vuol dire che l'intelletto greco poteva
percepire il contrasto e l'Arte non poteva esprimerlo perchè la vita
era diversa? Com'era la vita? O tutta pianto o tutta riso? E come
faceva allora l'intelletto a cogliere il contrasto? Ogni astrazione
bisogna che abbia per forza radice in un fatto concreto. C'era
dunque il pianto e il riso, non il pianto o il riso; e se l'intelletto poteva
cogliere il contrasto, perchè non avrebbe potuto esprimerlo l'arte?
«Tutt'al più — dice l'Arcoleo — il contrasto dalla sfera dell'intelletto
passò nell'altra dell'immaginazione, si tramutò in fantasma, e allora
Aristofane fece la satira dei sofisti, e Luciano degli Dei». Che vuol
dire quel tutt'al più? Se il contrasto dalla sfera dell'intelletto passò in
quella de l'imaginazione e si tramutò in fantasma, vuol dire che
divenne arte. E allora? Lasciamo andare Aristofane che, come
vedremo, non ha nulla da fare con l'umorismo; ma Luciano non è
soltanto autore del dialogo degli Dei. E andiamo avanti.
«Il mondo antico rimpiccolì nelle forme plastiche le energie
soprannaturali». Ecco un'altra sintesi. Tutto il mondo antico e tutte le
energie soprannaturali? anche il fato? E tutta l'Italia del rinascimento
«rimase nei suoi gusti pagana, serena; non ebbe curiosità, non
intimità?» Vedremo. Parliamo d'umorismo e delle espressioni
artistiche di esso, espressioni eccezionali e speciosissime, ripeto: ci
basterebbe un umorista solo; ne troveremo parecchi, in ogni tempo,
in ogni luogo; e diremo la ragione per cui i nostri segnatamente ci
debba parere che non siano tali.
Tutte le partizioni sono arbitrarie. Poco dopo la pubblicazione del
saggio del Nencioni, che negava — come abbiamo veduto —
all'antichità una letteratura umoristica, non solo, ma anche la
possibilità di averla, sorsero da noi prima il Fraccaroli, con uno
studio intitolato appunto Per gli Umoristi dell'Antichità [10], poi il
Bonghi [11], poi altri ancora a rivelare nelle letterature classiche e
specialmente nella greca, assai più umorismo, che non avesse
saputo vedere il Nencioni.
Quel felice equilibrio, quella calma statuaria e l'anima sana e giovine
e la serena armonia della vita e del temperamento degli antichi,
come la natura rappresentata da questi con precisione e con fedeltà,
senza melanconia nè nostalgia, sono vecchi cavalli di battaglia della
critica romantica. Già lo stesso Schiller, autore primo della
partizione, dovette riconoscere che Euripide, Orazio, Properzio,
Virgilio non si erano fatti un concetto ingenuo della natura e quindi
concludere che vi erano anime sentimentali presso gli antichi e
anime greche, presso i moderni, e cancellare così, come impossibile
a mantenere, la linea divisoria tra ispirazione antica e ispirazione
moderna.
Su le tracce del Biese, che scrisse su l'evoluzione del sentimento
della natura presso i greci [12], il Basch dimostrò agevolmente quanto
di sentimentale vi fosse nella poesia e nel pensiero dei Greci, nella
mitologia primitiva, nelle metamorfosi spesso grottesche delle
divinità, nell'utopia nostalgica dell'età dell'oro, nella raffinata
melanconia dei lirici e degli elegiaci in ispecie, che rappresentarono
la natura non solamente «comme cadre des sentiments de l'âme,
mais encore comme ayant des profondes et mysterieuses affinités
avec ses sentiments». Anche lo Herder, autore della partizione tra
Natur-poesie e Kunst-poesie, non dava ad essa un senso
rigorosamente cronologico. E il Richter negava che il cristianesimo
fosse causa e origine esclusiva della nuova poesia, giacchè i poemi
scandinavi dell'Edda e quelli dell'India eran nati fuori del misticismo
cristiano; e, ripetendo l'osservazione dello Herder che «nessun
poeta resta fedele ad un'ispirazione sentimentale unica», chiamava
romantici non già gli autori, ma quelle fra le opere ch'erano
d'ispirazione sentimentale. Arrigo Heine diceva nella Germania che
si era caduto in un deplorevole errore chiamando plastica l'arte
classica, come se ogni arte, antica o moderna, volendo esser arte,
non dovesse per forza esser plastica nella sua forma esteriore. Ed è
inutile ricordare qui a quali strette si trovò Victor Hugo, volendo
additare come principio dell'arte moderna la famosa teoria del
grottesco, di fronte a Vulcano, a Polifemo, a Sileno, ai tritoni, ai satiri,
ai ciclopi, alle sirene, alle furie, alle Parche, alle arpie, al Tersite
omerico, alle dramatis personae delle commedie aristofanesche.
D'altra parte, nessuno più si sogna di negare che anch'essi gli
antichi avessero l'idea della profonda infelicità degli uomini. La
espressero, del resto, chiaramente filosofi e poeti. Ma, al solito,
anche tra il dolore antico e il dolore moderno si è voluto vedere da
alcuni una differenza quasi sostanziale, e si è sostenuto che vi è una
lugubre progressione nel dolore, svolgentesi con la storia stessa
della civiltà, una progressione che ha fondamento nella sensibilità
dell'umana coscienza, sempre più delicata, e nell'irritabilità e nella
incontentabilità di essa di mano in mano sempre maggiori.
Ma questo lo aveva già detto, se non c'inganniamo, fin dal tempo dei
tempi, Salomone. Accrescimento di scienza, accrescimento di
dolore. E aveva proprio ragione, fin dal tempo dei tempi, Salomone?
Sta a vedere. Se le passioni, quanto più si afforzano e si affinano,
tanto più acquistano una specie d'attrazione e di compenetrazione
scambievole; se con l'ajuto della fantasia e dei sensi noi ci
inoltriamo, come dicono, in un «processo d'universalizzazione» che
si fa sempre più rapido e sempre più invadente, sicchè in un dolore
ci par di sentire più dolori, tutti i dolori, soffriamo noi per questo
veramente di più? No: perchè questo accrescimento, se mai, è a
scapito dell'intensità. E ben per questo il Leopardi notava
acutamente che il dolore antico era un dolor disperato, come suol
essere in natura, com'è ancora nei popoli barbari e semi-selvaggi o
nelle genti della campagna, senza il conforto cioè della sensibilità,
senza la dolce rassegnazione alle sventure.
Facilmente oggi, a gli occhi nostri, se crediamo d'essere infelici, il
mondo si converte in un teatro d'universale infelicità? Vuol dire che,
invece di sprofondarci nel nostro proprio dolore, noi lo allarghiamo,
lo diffondiamo nell'universo. Ci strappiamo la spina, e ci avvolgiamo
in una nuvola nera. Cresce la noja, ma si spunta e si attenua il
dolore. Però, ecco, e quel tal tedio della vita dei contemporanei di
Lucrezio? e quella tal tristezza misantropica di Timone?
Oh via! è proprio inutile sfoggiare esempii e citazioni. Sono
questioni, disquisizioni, argomentazioni accademiche. L'umanità
passata non c'è bisogno di cercarla lontano: è sempre in noi, tal
quale. Possiamo tutt'al più ammettere che oggi, per questa — se
vuolsi — cresciuta sensibilità e per il progresso (ahimè) della civiltà,
siano più comuni quelle disposizioni di spirito, quelle condizioni di
vita più favorevoli al fenomeno dell'umorismo, o meglio, di un certo
umorismo; ma è assolutamente arbitrario il negare che tali
disposizioni non esistessero o non potessero esistere in antico.
A buon conto, Diogene, con la sua botte e la sua lanterna, non è di
jeri; e nulla di più serio nel ridicolo e di più ridicolo nel serio.
Eccezioni, come dice il Nencioni e ripete l'Arcoleo, Aristofane e
Luciano? Ma eccezioni, allora, anche Swift e Sterne. Tutta l'arte
umoristica, ripetiamo, è stata sempre ed è tuttavia arte d'eccezione.
Diverso il pianto, secondo questa critica, e diverso naturalmente
anche il riso degli antichi.
Notissima, la distinzione di Gian Paolo Richter tra comico classico e
comico romantico: facezia grossolana, satira volgare, derisione de'
vizii e dei difetti, senza alcuna commiserazione o pietà, quello;
umore, questo, cioè riso filosofico, misto di dolore, perchè nato dalla
comparazione del piccolo mondo finito con la idea infinita, riso pieno
di tolleranza e di simpatia.
Da noi il Leopardi, che ebbe sempre la nostalgia del passato e che
nei Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura volle far notare che
egli sentiva il dolore non a modo dei romantici, ma a modo degli
antichi, cioè il dolore disperato, difese pure il comico antico contro il
moderno, il comico antico che «era veramente sostanzioso,
esprimeva sempre e metteva sotto gli occhi, per dir così, un corpo di
ridicolo», mentre il moderno «un'ombra, uno spirito, un vento, un
soffio, un fumo. Quello empieva di riso, questo appena lo fa gustare;
quello era solido, questo fugace; quello consisteva in immagini,
similitudini, paragoni, racconti, insomma cose ridicole; questo in
parole, generalmente e sommariamente parlando, e nasce da quella
tal composizione di voci, da quello equivoco, da quella tale allusione
di parole, da quel giocolino di parole, da quella tal parola appunto —
di maniera che, togliete quelle allusioni, scomponete e ordinate
diversamente quelle parole, levate quell'equivoco, sostituite una
parola in cambio d'un'altra, svanisce il ridicolo».
E cita l'esempio di Luciano che paragona gli Dei sospesi al fuso
della Parca ai pesciolini sospesi alla canna del pescatore. Poi
avverte: «Ma forse e senza forse, presentemente, e massime ai
francesi, par grossolano quel che una volta si chiamava sale attico, e
piacque ai greci, popolo il più civile dell'antichità e ai latini. E può
essere che anche Orazio avesse una simile opinione, quando disse
male de' sali di Plauto; e in fatti le Satire e le Epistole di Orazio non
sono di così solido ridicolo come l'antico comico greco e latino, ma
nè anche di gran lunga così sottile come il moderno. Ora, a forza di
motti, si è renduto spirituale anche il ridicolo, assottigliato tanto che
ormai non è più nè pur liquore, ma un etere, un vapore; e questo
solo si stima ridicolo degno delle persone di buon gusto e di spirito e
di vero buon tono, e degno del bel mondo e della civile
conversazione. Il ridicolo delle antiche commedie nasceva anche
molto delle operazioni stesse che erano introdotti a fare i personaggi
sulla scena, e quivi ancora era non piccola sorgente di sale, ma pura
azione; come nelle Cerimonie del Maffei: commedia piena di vero e
antico ridicolo, quel salire di Orazio per la finestra a fine di evitare i
complimenti alle porte. Un'altra gran differenza tra il ridicolo antico e
il moderno è che quello era preso da cose popolari e domestiche o
almeno non della più fina conversazione, la quale poi non esisteva
ancor per lo meno così raffinata; ma il moderno, massime il
francese, versa principalmente intorno al più squisito mondo, alle
cose dei nobili più raffinati, alle vicende domestiche delle famiglie più
moderne, ecc., ecc. (come anche proporzionatamente era il ridicolo
d'Orazio): sicchè quello era un ridicolo che avea corpo, e, come il filo
di un'arma che non sia troppo aguzzo, durò lungo tempo; dove
questo, come ha una punta sottilissima, più o meno secondo i tempi
e le nazioni, così anche in un batter d'occhio si logora e si consuma,
e dal volgo poi non si sente, come il taglio del rasojo a prima
giunta».
Il Leopardi, evidentemente, parla qui dell'esprit francese in
contrapposizione del ridicolo classico, senza pensare che questo
«esprit de conversation, le talent de faire des mots, le goût des
petites phrases vives, fines, imprévues, ingénieuses, dardées avec
gaieté ou malice» [13], è classico anch'esso e antichissimo in
Francia: Duas res industriosissime persequitur gens Gallorum, rem
militarem et argute loqui. Questo esprit nativo in Francia, che si
raffina anch'esso a mano a mano e diviene un po' convenzionale,
elegante, aristocratico, in certi periodi letterarii, non è certamente
l'humour moderno, e tanto meno quello inglese che il Taine gli
contrappone, come fatto appunto di cose più che di parole o, sotto
un certo aspetto, fatto di buon senso, se — come pensava il Joubert
— l'esprit consiste nell'aver molte idee inutili e il buon senso
nell'esser provvisto di nozioni necessarie. Non confondiamo dunque.
Nel 1899 Alberto Cantoni, argutissimo nostro umorista [14], che
sentiva profondamente il dissidio interno tra la ragione e il
sentimento e soffriva di non poter essere ingenuo come
prepotentemente in lui la natura avrebbe voluto, riprese l'argomento
in una sua novella critica intitolata Humour classico e moderno [15],
nella quale immagina che un bel vecchio rubicondo e gioviale, che
rappresenta l'Humour classico, e un ometto smilzo e circospetto, con
una faccia un poco sdolcinata e un poco motteggiatrice, che
rappresenta l'Humour moderno, s'incontrino a Bergamo innanzi al
monumento a Gaetano Donizzetti e là, senz'altro, si mettono a
disputare tra loro e poi si lanciano una sfida, si propongono cioè
d'andare in campagna lì presso, a Clusone, dove si tiene una fiera,
ognuno per conto proprio, come se non si fossero mai visti, e di
ritornare poi la sera, lì daccapo, innanzi al monumento di Donizzetti,
recando ciascuno le fugaci e particolari impressioni della gita per
metterle a paragone. Invece di discorrere criticamente della natura,
delle intenzioni, del sapore dell'umorismo antico e del moderno, il
Cantoni in questa novella, riferisce vivacemente, in un dialogo
brioso, le impressioni del vecchio gioviale e dell'ometto circospetto
raccolte alla fiera di Clusone. Quelle del primo avrebbero potuto
essere argomento d'una novella del Boccaccio, del Firenzuola, del
Bandello; i comenti e le variazioni sentimentali dell'altro hanno
invece il sapore di quelle dello Sterne nel Sentimental Journey o del
Heine nei Reisebilder. Il Cantoni, prediligendo la natura ingenua e
schietta, terrebbe nella disputa dalla parte del vecchio rubicondo, se
non fosse costretto a riconoscere ch'esso ha voluto rimanere tal
quale assai più che non lo comportassero gli anni e che è
volgaruccio e spesso vergognosamente sensuale; ma poi, sentendo
anche in sè il dissidio che tiene scissa e sdoppiata l'anima di
quell'altro, dell'ometto smilzo, lo fa mordere dal vecchio con aspre
parole:
«— A forza di ripetere continuamente che tu sembri sorriso e che sei
dolore... n'è venuto che oramai non si sa più nè che cosa veramente
tu sembri, nè che cosa veramente tu sia... Se tu ti potessi vedere,
non capiresti, come me, se tu abbia più voglia di piangere o di
sorridere.
— Adesso è vero, gli risponde l'Humour moderno. — Perchè adesso
penso solamente che voi vi siete fermato a mezza via. Al vostro
tempo le gioje e le angustie della vita avevano due forme o almeno
due parvenze più semplici e molto dissimili fra di loro, e niente più
facile che sceverare le une dalle altre per poi rialzare le prime a
danno delle seconde, o viceversa; ma dopo, cioè al tempo mio, è
sopravvenuta la critica e felice notte; s'è brancolato molto tempo a
non sapere nè che cosa fosse il meglio, nè che cosa fosse il peggio,
finchè principiarono ad apparire, dopo essere stati così gran tempo
assai nascosti, i lati dolorosi della gioja e i lati risibili del dolore
umano. Anche gli antichi solevano sostenere che il piacere non era
altro che la cessazione del dolore e che il dolore stesso, ben
esaminato, non era punto il male; ma le sostenevano sul serio
queste belle cose: come dire che non ne erano niente penetrati;
adesso invece è venuto pur troppo il tempo mio e si ripete, aimè,
quasi ridendo, cioè con la più profonda persuasione, che i due
suddetti elementi, attaccati da poco in qua alla gioja e al dolore,
hanno assunto aspetti così incerti e così trascolorati che non si
possono più, nonchè separare, nemmeno distinguere. Ne è venuto
che i miei contemporanei non sanno ora più essere nè ben contenti,
nè bene malcontenti mai, e che voi solo non bastate più nè a far
fermentare il misurato sollazzo dei primi e nè a divergere le
sofistiche tremerelle dei secondi. Ci voglio io, che mescolo tutto
scientemente, per fare svanire da una parte quanto più posso
ingannevoli miraggi e per limare dall'altra quante più trovo superflue
asperità. Vivo di espedienti e di cuscinetti, io...
— Bella vita! — esclama il vecchio.
E l'ometto smilzo sèguita:
— ... per arrivare possibilmente ad uno stato intermedio che
rappresenti come la sostanza grigia dell'umana sensibilità. Si sente
troppo adesso, come troppo s'è riso a ufo ed a credenza in altri
tempi: urge però che il pensiero regga le briglie alla più incomposta
manifestazione del sentimento... Rimpiango sempre di non aver
potuto ereditare le vostre illusioni, e mi rallegro nello stesso tempo di
trovarmi di qua dal fosso, bene agguerrito contro alle insidie delle
illusioni stesse! O che avete? Perchè mi affisate a codesto modo?
— Penso, — risponde il vecchio, — che se vuoi proprio aver due
anime in una, fai molto bene a non assumere la famosa guardatura
di quel vedovo innamorato, che a sinistra piangeva la morta e a
destra faceva l'occhietto alla viva. Tu invece vuoi piangere e far
l'occhietto insieme, da tutte due le parti, come dire che non ci si
capisce più nulla».
Come nel dramma romantico che i due bravi borghesi Dupuis e
Cotonet vedevano: «vêtu de blanc et de noir, riant d'un oeil et
pleurant de l'autre».
Ma abbiamo confusione anche qui. In fondo, il Cantoni viene a dire
sott'altra forma quello stesso che avevano detto il Richter e il
Leopardi. Se non che, egli chiama anche humour quello che gli altri
due avevano chiamato comico classico e ridicolo antico. Il Richter —
tedesco — tesse però l'elogio del comico romantico o humour
moderno, e vitupera come grossolano e volgare il comico classico;
mentre il Cantoni, come il Leopardi — da buon italiano — lo difende,
pur riconoscendo che la taccia di vergognosa sensualità non sia
affatto immeritata. Ma anche per lui l'humour moderno non è altro
che una sofisticazione dell'antico. «Via, ho idea, — gli dice infatti
l'Humour classico, — che si sia fatto sempre senza di te, ovvero che
tu non sia altro che la parte peggiore di me medesimo, la quale
abbia messo cresta per impertinenza, come ora usa. È un gran dire
però che non s'abbia mai a conoscersi bene da sè soli! Tu mi sei
certo scivolato di sotto ed io non me ne sono avvisto».
Ora, è vero questo? Ciò che il Cantoni chiama Humour classico è
proprio humour? o non incorre il Cantoni per un verso nello stesso
errore in cui incorse già per l'altro il Leopardi, confondendo cioè con
l'esprit francese tutto il ridicolo moderno? Più propriamente: ciò che il
Cantoni chiama humour classico, non sarebbe l'umorismo inteso in
un senso molto più largo, nel quale sian comprese la burla, la baja,
la facezia, tutto il comico in somma nelle sue varie espressioni?
Qui è il nodo vero della questione.
Non c'entra la diversità dell'arte antica dalla moderna, come non
c'entrano le speciali prerogative di questa o di quella razza. Si tratta
di vedere in che senso si debba considerar l'umorismo, se nel senso
largo che comunemente ed erroneamente gli si suol dare, e ne
troveremo allora in gran copia così presso le letterature antiche
come presso le moderne, d'ogni nazione; o se in un senso più
ristretto e più proprio, e ne troveremo allora parimenti, ma in molto
minor copia, anzi in pochissime espressioni eccezionali, così presso
gli antichi come presso i moderni, d'ogni nazione.
III.
Distinzioni sommarie

Nel Cap. VIII del libro Notes sur l'Angleterre il Taine, com'è noto, si
provò a comparare l'esprit francese e quello inglese. «Non deve dirsi
che essi (gl'Inglesi) non abbiano spirito, — scrisse il Taine, — ne
hanno uno per conto loro, in verità poco gradevole, ma affatto
originale, di sapor forte e pungente e anche un po' amaro, come le
lor bevande nazionali. Lo chamano humour; e, in generale, è la
facezia di chi, scherzando, serba un'aria grave. Questa facezia
abbonda negli scritti di Swift, di Fielding, di Sterne, di Dickens, di
Thackeray, di Sidney-Smith; sotto quest'aspetto, il Libro degli Snobs
e le Lettere di Peter Plymley son capolavori. Se ne trova anche
molto, della qualità più indigena e più aspra, in Carlyle. Essa confina
ora con la caricatura buffonesca, ora col sarcasmo meditato; scuote
rudemente i nervi, o s'affonda e prende stanza nella memoria. È
un'opera dell'immaginazione stramba o dell'indignazione
concentrata. Si piace nei contrasti stridenti, nei travestimenti
impreveduti. Para la follìa con gli abiti della ragione o la ragione con
gli abiti della follìa. Arrigo Heine, Aristofane, Rabelais e talvolta
Montesquieu, fuori dell'Inghilterra, sono quelli che ne hanno in più
larga dose. Ma pur si deve in questi tre ultimi sottrarre un elemento
straniero, la estrosità francese, la gioja, la gajezza, quella specie di
buon vino che non si vendemmia se non nei paesi del sole. Nello
stato insulare e puro, essa lascia sempre, in fine, un sapor di aceto.
Chi scherza così è di raro benevolo e non è mai lieto, sente e
tradisce fortemente le dissonanze della vita. E non ne gode; in fondo
anzi ne soffre e se ne irrita. Per studiar minuziosamente un
grottesco, per prolungar freddamente un'ironia, bisogna avere un
sentimento continuo di tristezza e di collera. I saggi perfetti del
genere si devono cercare nei grandi scrittori, ma il genere è talmente
indigeno che si trova ogni giorno nella conversazione ordinaria, nella
letteratura, nelle discussioni politiche, ed è la moneta corrente del
Punch».
La citazione è un po' troppo lunga; ma opportuna per chiarir
parecchie cose.
Il Taine riesce a coglier bene la differenza generale tra la plaisanterie
inglese e la francese, o meglio, il diverso umore dei due popoli. Ogni
popolo ha il suo, con caratteri di distinzione sommaria. Ma, al solito,
non bisogna andare tropp'oltre, non bisogna cioè prender questa
distinzione sommaria come solido fondamento nel trattare
d'un'espressione d'arte specialissima come la nostra.
Che diremmo di uno il quale dal sommario accertamento che vi son
certi tratti fisionomici comuni per cui, così all'ingrosso, distinguiamo
un Inglese da uno Spagnuolo, un Tedesco da un Italiano, ecc.,
traesse la conseguenza che tutti quanti gl'inglesi, per esempio,
hanno gli stessi occhi, lo stesso naso, la stessa bocca?
Per intender bene quanto sia sommario questo modo di distinguere,
chiudiamoci per un momento nei confini del nostro paese. Noi tutti,
d'una data nazione, possiamo notar facilmente come e quanto la
fisionomia dell'uno sia diversa da quella d'un altro. Ma questa
osservazione, ovvia, facilissima per noi, riesce invece difficilissima a
uno straniero, per il quale noi tutti avremo uno stesso aspetto
generale.
Pensiamo a un gran bosco dove fossero parecchie famiglie di
piante: querci, aceri, faggi, platani, pini, ecc. Sommariamente, a
prima vista, noi distingueremo le varie famiglie dall'altezza del fusto,
dalla diversa gradazione del verde, in somma dalla configurazione
generale di ciascuna. Ma dobbiamo poi pensare che in ognuna di
quelle famiglie non solo un albero è diverso dall'altro, un tronco
dall'altro, un ramo dall'altro, una fronda dall'altra, ma che, fra tutta
quella incommensurabile moltitudine di foglie, non ve ne sono due,
due sole, identiche tra loro.
Ora, se si trattasse di giudicare di un'opera d'imaginazione collettiva,
come sarebbe appunto un'epopea genuina, sorta viva e possente
dalle leggende tradizionali primitive d'un popolo, ci potremmo in
certa guisa contentare di quella sommaria distinzione. Non possiamo
contentarcene più invece nel giudicar di opere che siano creazioni
individuali, segnatamente poi se umoristiche.
Colto astrattamente il tipo dell'umore inglese, il Taine mette prima in
un fascio Swift e Fielding e Sterne e Dickens e Thackeray e Sidney-
Smith e Carlyle, e vi accozza poi Heine, Aristofane, Rabelais,
Montesquieu. Bel fascio! Dall'umorismo inteso nel senso più largo,
come carattere comune, tipico modo di ridere di questo o di quel
popolo, saltiamo a piè pari a considerar le singole e specialissime
espressioni d'un umorismo, che non è più possibile intendere in quel
senso largo, se non a patto di rinunziare assolutatmente alla critica:
dico a quella critica che indaga e scopre tutte le singole differenze
caratteristiche per cui l'espressione, e dunque l'arte, il modo
d'essere, lo stile d'uno scrittore si distingue da quello dell'altro: lo
Swift dal Fielding, lo Sterne dallo Swift e dal Fielding, il Dickens dallo
Swift e dal Fielding e dallo Sterne e così via.
Le relazioni che questi scrittori umoristici inglesi possono avere con
l'umore nazionale sono affatto secondarie e superficiali come quelle
che essi possono aver fra loro, e non hanno per la valutazione
estetica importanza.
Quel che di comune possono aver tra loro questi scrittori non deriva
dalla qualità dell'umore nazionale inglese, ma dal solo fatto ch'essi
sono umoristi, ciascuno sì a suo modo, ma umoristi tutti veramente,
scrittori cioè nei quali avviene quello speciale processo intimo e
caratteristico da cui risulta l'espressione umoristica. E soltanto per
questo, non Arrigo Heine e il Rabelais e il Montesquieu e basta, ma
tutti i veri scrittori umoristici d'ogni tempo e d'ogni nazione possono
andare a schiera con quelli. Non però Aristofane, nel quale quel
processo non avviene affatto. In Aristofane non abbiamo veramente
il contrasto, ma soltanto l'opposizione. Egli non è mai tenuto tra il sì
e il no; egli non vede che le ragioni sue, ed è per il no,
testardamente, contro ogni novità, cioè contro la retorica, che crea
demagoghi, contro la musica nuova, che, cangiando i modi antichi e
consacrati, rimuove le basi dell'educazione e dello Stato, contro la
tragedia d'Euripide, che snerva i caratteri e corrompe i costumi,
contro la filosofia di Socrate, che non può produrre che spiriti indocili
e atei, ecc. Alcune sue commedie son come le favole che
scriverebbe la volpe, in risposta a quelle che hanno scritto gli uomini
calunniando le bestie. Gli uomini in esse ragionano e agiscono con
la logica delle bestie, mentre nelle favole le bestie ragionano e
agiscono con la logica degli uomini. Sono allegorie in un dramma
fantastico, nel quale la burla è satira iperbolica, spietata [16].
Aristofane ha uno scopo morale, e il suo non è mai dunque il mondo
della fantasia pura. Nessuno studio della verosimiglianza: egli non
se ne cura perchè si riferisce di continuo a cose e a persone vere:
astrae iperbolicamente dalla realtà contingente e non crea una realtà
fantastica, come, ad esempio, lo Swift. Umorista non è Aristofane,
ma Socrate, come acutamente osserva Teodoro Lipps [17]: Socrate
che assiste alla rappresentazione delle Nuvole e ride con gli altri
della derisione che fa di lui il poeta, Socrate che «versteht den
Standpunkt des Volksbewusstseinz, zu dessen Vertreter sich
Aristophanes gemacht hat, und sieht darin etwas relativ Gutes und
Vernünftiges. Er anerkennt eben damit das relative Recht derer, die
seinen Kampf gegen das Volksbewusstsein verlachen. Damit erst
wird sein Lache zum Mitlachen. Andererseits lacht er doch über die
Lacher. Er thut es und kann es thun, weil er des höheren Rechtes
und notwendigen Sieges seiner Anchauungen gewiss ist. Eben
dieses Bewusstsein leuchtet durch sien Lachen, und lässt es in
seiner Thorheit logisch berechtigt, in seiner Nichtigkeit sittlich
erhaben erscheinen». Socrate ha il sentimento del contrario;
Aristofane, dunque, se mai, può esser considerato umorista, soltanto
se intendiamo l'umorismo nell'altro senso molto più largo, e per noi
improprio, in cui siano compresi la burla, la baja, la facezia, la satira,
la caricatura, tutto il comico insomma nelle sue varie espressioni. Ma
in questo, senso anche tanti e tant'altri scrittori faceti, burleschi,
grotteschi, satirici, comici d'ogni tempo e d'ogni nazione dovrebbero
esser considerati umoristi.
L'errore è sempre quello: de la distinzione sommaria.
Sono innegabili le diverse qualità delle varie razze, è innegabile che
la plaisanterie francese non è l'inglese come non è l'italiana, la
spagnuola, la tedesca, la russa, e via dicendo; innegabile che ogni
popolo ha un suo proprio umore; l'errore comincia quando
quest'umore, naturalmente mutabile nelle sue manifestazioni
secondo i momenti e gli ambienti, è considerato, come
comunemente il volgo suol fare, quale umorismo; oppure quando per
considerazioni esteriori e sommarie si afferma sostanzialmente
diverso negli antichi e nei moderni; e quando in fine, per il solo fatto
che gli Inglesi chiamarono humour questo loro umore nazionale,
mentre gli altri popoli lo chiamarono altrimenti, si viene a dire che
soltanto gl'inglesi hanno il vero e proprio umorismo.
Abbiamo già veduto che, molto prima che quel gruppo di scrittori
inglesi del sec. XVIII si chiamasse degli umoristi [18], in Italia
avevamo avuto e umidi e umorosi e umoristi. Questo, se si vuol
discutere sul nome. Se si vuol poi discutere intorno alla cosa, è da
osservare innanzi tutto che, intendendo in questo senso largo
l'umorismo, tanti e tanti scrittori che noi chiamiamo burleschi o ironici
o satirici o comici ecc., sarebbero chiamati umoristi dagli Inglesi, i
quali sentirebbero in essi quel tal sapore che noi sentiamo nei loro
scrittori e non sentiamo più nei nostri per quella particolarissima
ragione, che con molto accorgimento fu messa in chiaro dal Pascoli.
«C'è, — disse il Pascoli, — in ogni lingua e letteratura un quid
speciale e intraducibile, che pochi sanno percepire nella lingua e
letteratura lor propria e avvertono, invece, senza difficoltà nelle altrui.
Ogni lingua straniera, pur da noi non intesa, vi suona all'orecchio
più, dirò, mirabilmente, che la vostra. Un racconto, una poesia,
esotici, vi sembrano più belli, anche se mediocri, di molte belle cose
nostrane; e tanto più, quanto più conservano di quell'essenza
nazionale. Ora non crediate che la vostra lingua e letteratura non
abbiano a fare il medesimo effetto negli altri che quelle altre in noi!»
Una prova di questo fatto si può avere in ciò che W. Roscoe scrisse
nel cap. XVI, § 12 della sua opera Vita e pontificato di Leon X, a
proposito del Berni. Il Roscoe, inglese, e che perciò di quel che
comunemente nel suo paese s'intende per humour doveva aver
coscienza, scrisse che le facili composizione del Berni e del Bini e
del Mauro, ecc. «non è improbabile che abbiano aperta la strada ad
una simile eccentricità di stile in altri paesi» e che «in verità può
concepirsi l'idea più caratteristica degli scritti del Berni e dei
compagni e seguaci di lui col considerare esser quelli in versi facili e
vivaci la stessa cosa, che sono le opere in prosa di Rabelais, di
Cervantes e di Sterne».
E non ci dà Antonio Panizzi, che lungamente visse in Inghilterra e
degli scrittori nostri scrisse in inglese, una definizione dello stile del
Berni, che risponde in gran parte a quella che il Nencioni poi volle
dare dell'umorismo? «I precipui elementi dello stile del Berni — dice
il Panizzi —: sono: l'ingegno che non trova somiglianza tra oggetti
distanti e la rapidità onde subitamente connette le idee più remote; il
modo solenne onde allude ad avvenimenti ridicoli e proferisce
un'assurdità: l'aria d'innocenza e d'ingenuità con che fa osservazioni
piene d'accorgimento e conoscenza del mondo, la peculiar bonarietà
con che sembra riguardare con indulgenza... gli errori e le malvagità
umane; [19] la sottile ironia che egli adopera con tanta apparenza di
semplicità e d'avversione all'acerbezza; la singolare schiettezza con
che pare desideroso di scusare uomini e opere nello stesso
momento che è tutto inteso a farne strazio». A ogni modo, è certo
che il Roscoe sentiva nel Berni e negli altri nostri poeti bajoni lo
stesso sapore che sentiva negli scrittori suoi connazionali dotati di
humour.
E non lo sentiva forse il Byron nel nostro Pulci, di cui tradusse
finanche il primo canto del Morgante? E lo stesso Sterne non lo
sentiva finanche nel nostro Gian Carlo Passeroni (Passeroni
dabben', come lo chiamava il Parini), quel buon prete nizzardo che
nel canto XVII, parte III del suo Cicerone ci fa sapere (str. 122ª):

E già mi disse un chiaro letterato


Inglese, che da questa mia stampita
Il disegno, il modello avea cavato
Di scrivere in più tomi la sua vita [20]
E pien di gratitudine e d'amore
Mi chiamava suo duce e precettore.

E, d'altro canto, non risente proprio per nulla degli scrittori francesi
del grand siècle e anche da altri che non appartengono a questo,
quel gruppo di umoristi inglesi di cui abbiamo or ora fatto parola?
Il Voltaire, parlando dello Swift nelle sue Lettres sur les Anglais dice:
«Mr. Swift est Rabelais dans son bon sens et vivant en bonne
compagnie. Il n'a pas, à la veritè, la gaîté du premier, mais il a tout la
finesse, la raison, la choix, le bon goût qui manquent à nostre curé
de Meudon [21]. Ses vers sont d'un goût singulier et presque
inimitable; la bonne plaisanterie est son partage en vers et en pros;
mais pour le bien entendre, il faut faire un petit voyage dans son
pays».
Dans son pays, va bene; ma c'è anche chi vuol dire che
bisognerebbe far pure un piccolo viaggio alla luna in compagnia di
Cyrano de Bergerac.
E chi metterà in dubbio l'azione del Voltaire e del Boileau sul Pope?
E ricorderemo che il Lessing, accusando il Gottsched nelle sue
Lettere su la letteratura moderna, dice che meglio sarebbe
convenuta al gusto e al costume tedesco l'imitazione degli Inglesi, di
Shakespeare, di Jonson, di Beaumont e Fletcher, anzi che quella
dell'infranciosato Addison.
Ma una prova anche più chiara si può cavar dal fatto che, mentre
nessuno di quelli che da noi si sono occupati di umorismo e, per un
pregiudizio snobistico, lo hanno veduto soltanto in Inghilterra, si è
mai sognato di chiamare umorista il Boccaccio per quelle molte sue
novelle che ridono, umorista e anzi il primo degli umoristi è ritenuto
invece in Inghilterra pe' suoi Canterbury-Tales il Chaucer.
Han voluto vedere nel poeta inglese, non — com'era giusto — il quid
speciale della diversa lingua, un altro stile; ma, nello stile, una
maggiore intimità, e dimostrar questa maggiore intimità innanzi tutto
nell'ingegnoso pretesto de le novelle (il pellegrinaggio a Canterbury),
nei ritratti dei pellegrini novellatori, segnatamente di quella
indimenticabile, graziosissima Prioressa, Suor Eglantina, e di sir
Thopas e della donna di Bath, poi nella rispondenza de le novelle ai
caratteri di chi le racconta, o meglio, nel modo con cui le varie
novelle, che il Chaucer non inventa, prendono colore e qualità dai
pellegrini.
Ma questa che vuol parere un'osservazione profonda, è, invece,
superficialissima, perchè si arresta soltanto alla cornice del quadro.
La magnifica opulenza dello stile boccaccesco, la copia e
l'appariscenza della forma si possono forse da un canto considerare
come esteriori e implicano forse dall'altro scarsezza d'intimità
psicologica? Esaminiamo, sotto questo aspetto, a una a una le
novelle, i caratteri dei singoli personaggi, lo svolgimento delle
passioni, la dipintura minuta, spiccata, evidente della realtà, che
sottintende una sottilissima analisi, una conoscenza profonda del
cuore umano, e vedremo se il Boccaccio, segnatamente nell'arte di
render verosimili certe avventure troppo strane, non supera di gran
lunga il Chaucer.
Si è troppo abusato d'una osservazione, al solito sommaria, fatta da
coloro che han studiato con soverchio amore delle cose altrui le
relazioni tra le letterature straniere e la nostra: la osservazione cioè
che gli scrittori nostri abbiano dato sempre a tutto ciò che han tolto
dagli stranieri una così detta maggior bellezza esteriore, una linea
più composta e più armoniosa; e che gli stranieri, invece, abbiano
dato a tutto ciò che han tolto dagli scrittori nostri una maggior
bellezza interiore, un carattere più intimo e profondo.
Ora questo, se mai, può valere per certi scrittori nostri mediocri, da
cui qualche sommo scrittore straniero abbia tolto questo o
quell'argomento: può valere ad esempio per certi novellieri nostri, da
cui lo Shakespeare cavò la favola per alcuni suoi drammi possenti.
Non può valere per il Boccaccio e per il Chaucer. Bisogna invece
considerare, in questo caso, che cosa uno scheletrico fabliau
francese (ammesso che il Chaucer non abbia preso nulla
direttamente dal Boccaccio) sia diventato ne le novelle dell'uno e
dell'altro.
IV.
L'umorismo e la retorica

Giacomo Barzellotti, nel suo volume Dal Rinascimento al


Risorgimento [22], seguendo i concetti e il sistema del Taine e anche
qualche idea espressa dal Bonghi nelle Lettere critiche, e da un
saggio di etologia della nostra cultura, inteso a ricercare la mutua
dipendenza tra le disposizioni morali e sociali, gli abiti della mente,
gl'istinti di razza del nostro popolo e le sue abitudini a concepire e ad
esprimere il bello, passando a studiare Il problema storico della
prosa nella Letteratura italiana, disse che uno dei pregiudizii nostri è
«quello di presuporre che l'arte dello scrivere sia, solo o prima di
tutto, un lavoro esterno di forma e di stile, mentre la forma stessa e
lo stile, il cui studio è bensì essenziale allo scrivere, sono avanti a
tutto, un'opera intima di pensiero, vale a dire una cosa che si può
ottener bene se si prenda immediatamente e come un fine in sè, una
cosa a cui non si giunge se non movendo da un'altra parte, cioè dal
di dentro, dal pensiero, non dalla parola, dallo studio, dalla
meditazione e dalla elaborazione profonda della materia, del
soggetto e dell'idea».
Ora questo pregiudizio, come si sa, fu quello de la Retorica, ch'era
appunto una poetica intellettualistica, fondata tutta cioè su astrazioni,
in base a un procedimento logico [23].
L'arte per essa era abito di operare secondo certi principii. E
stabiliva secondo quali principii l'arte dovesse operare: principii
universali, assoluti, come se l'opera d'arte fosse una conclusione da
costruire al pari d'un ragionamento. Diceva: — «Così si è fatto; così
si deve fare». — Raccolti, come in un museo, tanti modelli di
bellezza immutabile, ne imponeva la imitazione. Retorica e
imitazione sono in fondo la stessa cosa.
E i danni che essa cagionò in ogni tempo alla letteratura sono senza
dubbio, come ognun sa, incalcolabili.
Fondata sul pregiudizio della così detta tradizione, insegnava a
imitare ciò che non si imita: lo stile, il carattere, la forma. Non
intendeva che ogni forma dev'essere nè antica nè moderna, ma
unica, quella cioè che è propria d'ogni singola opera d'arte e non può
esser altra nè di altre opere, e che perciò non può nè deve esistere
tradizione in arte.
Regolata com'era dalla ragione, vedeva da per tutto categorie e la
letteratura come un casellario: per ogni casella, un cartellino. Tante
categorie, tanti generi; e ogni genere aveva la sua forma prestabilita:
quella e non altra.
È vero che tante volte, poi, s'accomodava; ma darsi per vinta non
voleva mai. Quando un poeta ribelle appioppava un calcio bene
scolpito al casellario e creava a suo modo una forma nuova, i retori
gli abbajavano dietro per un pezzo: ma poi, alla fine, se quella forma
riusciva a imporsi, essi se la prendevano, la smontavano come una
macchinetta, la scioglievano in un rapporto logico, la catalogavano,
magari aggiungendo una nuova casella al casellario. Così avvenne,
ad esempio, per il dramma storico di quel gran barbaro dello
Shakespeare. Si diede per vinta la Retorica? No: dopo avere
abbajato per un pezzo, prescrisse le norme per il dramma storico,
accolto nel casellario. Ma è anche vero che questi cani, quanto
s'abbattevano a un povero poeta indebolito di mente, ne facevano
strazio e lo costringevano a tartassar la propria opera non condotta a
puntino sul modello imposto alla imitazione forzata. Esempio: la
Conquistata del Tasso.
La coltura, per la Retorica, non era la preparazione del terreno, la
vanga, l'aratro, il sarchio, il concime, perchè il germe fecondo, il
polline vitale, che un'aura propizia, in un momento felice, doveva far
cadere in quel terreno vi mettesse salde radici e vi trovasse
abbondante nutrimento e si sviluppasse vigoroso e solido e
sorgesse senza stento, alto e possente nel desiderio del sole. No: la
coltura, per la Retorica, consisteva nel piantar pali e nel vestirli di
frasche. Gli alberi antichi, custoditi nella sua serra perdevano il loro
verde, appassivano; e con le frondi morte, con le foglie ingiallite, coi
fiori secchi essa insegnava a parar certi tronchi di idee senza radici
nella vita.
Per la Retorica prima nasceva il pensiero, poi la forma. Il pensiero
cioè non nasceva come Minerva armata dal cervello di Giove: nudo
nasceva, poveretto; ed essa lo vestiva.
Il vestito era la forma.
La Retorica, in somma, era come un guardaroba: il guardaroba
dell'eloquenza dove i pensieri nudi andavano a vestirsi. E gli abiti, in
quel guardaroba, eran già belli e pronti, tagliati tutti su i modelli
antichi, più o meno adorni, di stoffa umile o mezzana o magnifica,
divisi in tante scansie, appesi alle grucce e custoditi dalla
guardarobiera che si chiamava Convenienza. Questa assegnava gli
abiti acconci ai pensieri che si presentavano ignudi.
— Vuoi essere un Idillio, tu? un Idillietto leggiadro e pettinato? Su,
fammi sentire come sospiri: Ahi lasso! Oh, bravo. Hai letto Teocrito?
hai letto Mosco? hai letto Bione? e di Virgilio le Bucoliche? Sì?
Recita su, da bravo. Sei un pappagallino bene ammaestrato. Vieni
qua.
Apriva la scansia, su la cui targa in cima si leggeva: Idillii, e ne
traeva un grazioso abituccio dì pastorello.
— E tu una Tragedia vorresti essere? Ma proprio proprio una
Tragedia? È cosa ardua, bada! Devi essere a un tempo grave e
lesta, cara mia. In ventiquattr'ore, tutto finito. E ferma, veh! Scegliti
un luogo, e lì. Unità, unità, unità. Lo sai? Brava. Ma dimmi un po': ti
scorre sangue reale per le vene? E hai studiato Eschilo, Sofocle,
Euripide? Anche il buon Seneca? Brava. Vuoi uccidere i figli come
Medea? il marito come Clitennestra? la madre come Oreste? Tu vuoi
uccidere un tiranno come Bruto; ho capito; vieni qua.
Così i pensieri facevan da manichini alla forma-vestiario. Cioè la
forma non era propriamente forma, ma formazione: non nasceva, si
faceva. E si faceva secondo norme prestabilite: si componeva
esteriormente, come un oggetto. Era dunque artificio, non arte;
copia, non creazione.
Ora si deve ad essa, senza dubbio, la scarsa intimità dello stile che
si può notare in genere in tante opere della nostra letteratura; si
deve ad essa se — per restringerci alla nostra indagine speciale —
non pochi scrittori nostri che avrebbero avuto e anzi ebbero
indubbiamente, come per tante testimonianze si può arguire, una
spiccatissima disposizione all'umorismo, non riuscirono a
manifestarla, a darle espressione, per rispettare appunto le leggi
della composizione artistica.
L'umorismo, come vedremo, per il suo intimo, specioso, essenziale
processo, inevitabilmente scompone, disordina, discorda; quando,
comunemente, l'arte in genere, com'era insegnata dalla scuola, dalla
retorica, era sopratutto composizione esteriore, accordo logicamente
ordinato [24]. E si può veder difatti che tanto quegli scrittori nostri che
si sogliono chiamare umoristi, quanto quegli altri che sono
veramente e propriamente tali, o son di popolo o popolareggianti,
lontani cioè dalla scuola, o son ribelli alla Retorica, cioè alle leggi
esterne della tradizionale educazione letteraria. Si può vedere,
infine, che quando questa tradizionale educazione letteraria fu
spezzata, quando il giogo della poetica intellettualistica del
classicismo fu infranto dall'irrompere del sentimento e della volontà,
che caratterizza il movimento romantico, quegli scrittori che avevano
una natural disposizione all'umorismo la espressero nelle loro opere,
non per imitazione, ma spontaneamente.
Alessandro D'Ancona in quel suo studio su Cecco Angiolieri, da cui
abbiamo preso le mosse, volle scorgere i caratteri del vero
umorismo nella poesia di questo nostro bizzarro poeta del sec. XIII.
Ora questo, no, veramente. L'esempio dell'Angiolieri può giovarci per
chiarire quanto abbiamo detto or ora e non per altro. Io ho già
dimostrato altrove [25] che i caratteri del vero umorismo mancano
assolutamente all'Angiolieri, come gli mancano pur quelli ritenuti tali
dal D'Ancona. La parola malinconia in Cecco, ad esempio, se non
ha più il senso originario che aveva nel latino di Cicerone e di Plinio,
è pur lontanissima dal significare quella delicata affezione o passion
d'animo che intendiamo noi: malinconia per Cecco significa sempre
non aver denari da scialacquare, non tener la Becchina a sua posta,
aspettare invano che il padre vecchissimo e ricco si muoja

ed e' morrà quando il mar sarà sicco


si ll' à dio fatto per mio strazio sano!

Un certo verso che il D'Ancona chiama singhiozzante e che cita per


ultimo a concludere che ogni sforzo che il poeta faccia per liberarsi
della malinconia gli riesce inutile:

con gran malinconia sempre istò,

non ha affatto il carattere compendioso, nè il valore espressivo che il


D'Ancona gli vuole attribuire. Il contrasto, quel che par sorriso ed è
dolore, in Cecco in somma non c'è mai. A provarlo, il D'Ancona cita
anche qui due versi, staccandoli da tutto il resto e dando ad essi un
valore espressivo che non hanno:

Però malinconia non prenderaggio


anzi m'allegrerò del mi' tormento.

Segue in fatti a questi due versi una terzina, che non solo spiega
l'apparente contrasto, ma lo distrugge affatto. Cecco non prenderà
malinconia, anzi s'allegrerà del suo tormento, perchè ha udito dire a
un uomo saggio:

che ven un dì che val per più di cento.

E il dì sarà quello de la morte del padre, che gli permetterà di far


gavazze, come allude in un altro sonetto:

Sed i' credesse vivar un dì solo


più di colui che mi fa vivar tristo,
assa' di volte ringrazere' Cristo...
Questo giorno ha pur da venire: bisognerà aspettarlo con pazienza,
perchè:

l'uom non può sua ventura prolungare


nè far più brieve c'ordinato sia;
ond'i' mi credo tener questa via
di lasciar la natura lavorare
e di guardarmi, s'io 'l potrò fare
che non m'accolga più malinconia,
ch'i' posso dir che per la mia follia
i' ò perduto assai buon sollazzare.
Anche che troppo tardi mi n'avveggio
non lascerò ch'i' non prenda conforto,
c'a far d'un danno due sarebbe peggio.
Ond'i' mi allegro e aspetto buon porto,
ta' cose nascer ciascun giorno veggio,
che 'n dì di vita (mia) non m'isconforto.

Sul valore della parola malinconia, tante volte ripetuta da Cecco, non
è possibile farsi, come il D'Ancona ha voluto farsi, alcuna illusione.
Cecco non s'allegra mai veramente del suo tormento, sì lo riveste
d'una forma arguta e vivace, la quale per me, spesso, più che per
intenzione burlesca o satirica, proviene dalla sua natura paesana, ed
è affatto popolare senese.
Tutto il popolo toscano, che meritamente si vanta il più arguto
d'Italia, volendo anche oggidì narrare le sue sventure e le sue
afflizioni, esprimere gli odii suoi e i suoi amori, manifestar lo sdegno
o il rimprovero o un desiderio, non usa una forma diversa. In genere,
colorir comicamente la frase è virtù nel popolo spontanea, nativa. Il
Belli, per esempio, non vuol tradurre in romanesco per Luigi Luciano
Bonaparte il vangelo di San Matteo, perchè la lingua della plebe è
buffona, e «appena riuscirebbe ad altro che ad una irriverenza verso
i sacri volumi» [26]. Qui abbiamo, in somma, l'ironia, cioè quella tal
contradizione fittizia tra quel che si dice e quel che si vuole sia
inteso. Il contrasto non è nel sentimento, è solo verbale.
Dobbiamo, dunque, da un canto tener conto di questo generale
umore del popolo, di questa lingua buffona della plebe, e dall'altro
intender l'umorismo in quel senso largo e improprio, se vogliamo
includere tra gli umoristi Cecco Angiolieri, e non Cecco Angiolieri
soltanto, allora, ma tutto quel gruppo di poeti toscani, non di scuola,
ma di popolo, pieni di naturalezza nell'arte loro non ancora ben
sicura, nel cui petto per prima si ridesta o di dolce voglia o per casi
reali, per sentimenti veri, un'anima di canto umano, tra le insulse
sconsolanti scimierie dei poeti per distrazione o per sollazzo o per
moda o per galanteria, tra i bisticci pur che siano della scuola
provenzaleggiante: di quei poeti in fine, ne' cui versi, per dirla col
Bartoli, è l'annunzio del carattere realistico che assumeranno le
nostre lettere.
Son toscani, questi poeti, e in Toscana segnatamente troveremo
queste espressioni così dette umoristiche in senso largo: in Toscana,
e nella non scarsa letteratura nostra dialettale. Perchè? Perchè
l'umorismo ha sopratutto bisogno d'intimità di stile, la quale fu
sempre da noi ostacolata dalla preoccupazione della forma, da tutte
quelle questioni retoriche che si fecero sempre da noi intorno alla
lingua. L'umorismo ha bisogno del più vivace, libero, spontaneo e
immediato movimento della lingua, movimento che si può avere sol
quando la forma a volta a volta si crea. Ora la retorica insegnava,
non a crear la forma, ma ad imitarla, a comporla esteriormente;
insegnava a cercar la lingua fuori, come un oggetto, e naturalmente
nessuno riusciva a trovarla se non nei libri, in quei libri che essa
aveva imposti come modelli, come testi. Ma che movimento si
poteva imprimere a questa lingua esteriore, fissata, mummificata, a
questa forma non creata a volta a volta, ma imitata, studiata,
composta?
Il movimento è nella lingua viva e nella forma che si crea. E
l'umorismo che non può farne a meno, (sia nel senso largo, sia nel
suo proprio senso) lo troveremo — ripeto — nelle espressioni
dialettali, nella poesia macaronica e negli scrittori ribelli alla retorica.
C'è bisogno d'intendersi su questa creazione della forma, cioè su le
reazioni tra la lingua e lo stile? Avvertiva acutamente lo
Schleiermacher nelle sue Vorles. üb. Aesth. che l'artista adopera
strumenti che di lor natura non son fatti per l'individuale, ma per
l'universale: tale il linguaggio. L'artista, il poeta, deve cavar dalla
lingua l'individuale, cioè appunto lo stile. La lingua è conoscenza, è
oggettivazione. In questo senso è creazione di forma: è, cioè, la
larva della parola in noi investita e animata dal nostro particolar
sentimento e mossa da una nostra particolar volontà. Non dunque
creazione ex nihilo. La fantasia non crea nel senso rigoroso della
parola, non produce cioè forme genuinamente nuove. Se, in fatti,
esaminiamo anche i rabeschi più capricciosi, i grotteschi più strani, i
centauri, le sfingi, i mostri alati, vi troveremo sempre, più o meno
alterate per le loro combinazioni, immagini rispondenti a sensazioni
reali.
Ebbene, una forma, press'a poco, o meglio, in un certo senso
corrispondente al grottesco nelle arti figurative troviamo nell'arte
della parola, ed è appunto lo stil macaronico: creazione arbitraria,
contaminazione mostruosa di diversi elementi del materiale
conoscitivo.
E avvertiamo che esso sorse appunto come ribellione e come
derisione, e che non fu solo, che ebbe cioè a compagni altri
linguaggi burleschi, fittizii. «Il dialetto sprezzato — notava Giovanni
Zannoni, illustrando I precursori di Merlin Cocai [27] — volle insinuarsi
malignamente nel latino per sfregiare la togata lingua dei dotti e
quello che era stato un elemento parziale della satira popolare e
gogliardica divenne elemento massimo; volle mostrare la propria
flessibilità, quando il volgare ancora accademico, grave, impacciato
non poteva piegarsi a tutte le esigenze dell'umorismo, e ad un tratto
formò una nuova maniera di sogghigno. In tal modo, da due cause
contrarie ebbe origine il linguaggio macaronico che fu la più grossa e
fragorosa risata del risorgimento, la beffa più atroce al classicismo e
che, pure involontariamente, giovò tanto al definitivo trionfo del
volgare».
Ma quanti furono questi scrittori ribelli? pochi o molti? pochi ahimè,
perchè il maggior numero è sempre dei mediocri: servum pecus. Il
Barzellotti riconosce che «un primo moto di originalità e di feconda
spontaneità creatrice» si era fatto «nella mente e nella vita degli
Italiani durante i secoli decimoterzo e decimoquarto»; ma poi dice
«tutti o quasi tutti gli umanisti avere interrotto con l'imitazione e la
ripetizione degli antichi quel primo moto d'originalità».
Ora questa a noi sembra un'altra di quelle considerazioni molto
sommarie, che abbiamo deplorato più su, considerazione che
s'accorda con altre simili su la scettica indifferenza, ad esempio, su
la pagana serenità, su la mortificazione delle energie individuali, su
la mancanza d'aspirazioni, sul riposo nelle forme e nel senso, ecc.,
ecc., del nostro grande rinascimento, come se il culto dell'antichità
non fosse stato già di per sè un'idealità grande, tanto grande che
illuminò tutto il mondo, il riacquisto d'un patrimonio che si fece
fruttare sapientemente e produsse opere immortali, e come se esso
non fosse venuto anzi a tempo a riempire il vuoto d'idealità cadute o
cadenti; come se insieme con quattro o cinque dotti aridi e vacui non
ce ne fossero stati tant'altri pieni di vita e d'ardire, nel cui latino
palpitano e vibrano le energie tutte della lingua italiana; come se per
entro al Facetiarum libellus unicus di Poggio, per esempio, non
spirassero aure nuove [28]; come se il Valla fosse soltanto autore del
trattato Elegantiarum latinae linguae; come se nel Pontano e nel
Poliziano e in tanti altri non fosse così intero e fresco il sentimento
della realtà, che il Poliziano poi, componendo in volgare, potè aver
tutte le grazie ingenue d'un poeta popolare. E sotto questo mondo
dei dotti, così sommariamente considerato, non c'era forse il popolo?
E si può dire, d'altro canto, che i nostri poeti cavallereschi, ad
esempio, diedero solamente una maggior bellezza esteriore, una
linea più composta, più armoniosa alla materia romanzesca, se da
capo a fondo la ricrearono con la fantasia? Altro che bellezza
esteriore!
Si è troppo ripetuto, e con troppa leggerezza, che nell'indole della
nostra gente predomini l'intelletto più che il sentimento e la volontà,
cioè la parte obiettiva più che la subiettiva dello spirito, donde il
carattere dell'arte nostra più intellettualistica che sentimentale, più
esteriore che interiore.
L'equivoco qui è fondato nell'ignoranza del procedimento di
quell'attività creatrice dello spirito, che si chiama fantasia: ignoranza
che era fondamentale nella Retorica. L'artista deve sentire la propria
opera com'essa si sente e volerla com'essa si vuole. Avere un fine e
una volontà esteriori, vuol dire uscire dall'arte.
E ne escono difatti quanti s'ostinano a ripetere che l'arte nostra del
rinascimento fu splendida di fuori e vuota di dentro. Vuota in che
senso? Nel senso che non ebbe volontà e fini oltre a sè stessa? Ma
questo fu un pregio e non un difetto. O, se no, bisognerebbe
dimostrare che fu arte falsa, cioè artificio. Si può dimostrar questo?
Sì, certamente, se prendiamo i mediocri, gli schiavi della retorica, la
quale insegnava appunto l'artificio, la copia! Ma perchè dobbiamo
prendere i mediocri? perchè dobbiam guardare così taineamente
all'ingrosso, senza distinguere? Arte falsa, quella dell'Ariosto?
Buttando via in un fascio i mediocri, e affrontando i veri poeti, ci
accorgeremo subito di fare una questione di contenuto e non di
forma, una questione dunque estranea all'arte. Ma questo stesso
contenuto, che fa tanto dispetto, come fu assunto dai poeti veri, da
coloro che ebbero innegabilmente uno stile, e dunque originalità e
intimità? Non c'è proprio nulla che riempia il vuoto che ci si vuol
sentire? Non c'è l'ironia di questi poeti? E perchè non si vuol
riconoscere il valore positivo, sottinteso, di questa ironia? Itali rident,
sì, ma con questo riso si cacciò il Medio-evo; e quanto fiele sotto a
questo riso! E che ha di diverso questo riso in Erasmo di Rotterdam,
in Ulrico di Hütten? Perchè si disconosce soltanto nei nostri questo
valore positivo dell'ironia e si riconosce invece negli stranieri? si
disconosce in Pulci e nel Folengo per esempio, e si riconosce in
Rabelais? Forse perchè questi ebbe l'accortezza d'invitare i lettori a
imitare il cane innanzi all'osso, e quegli altri no? «... Vites-vous
oncques chiens rencontrans quelque os médullaire? C'est, comme
Platon dit (lib. II De Rep.), la bête du monde plus philosophe. Si vû
l'avez, vous avez pû noter de quelle dévotion il le tient, de quelle
prudence il l'entomme, de quelle affection il le brise et de quelle
diligence il le succe. Qui l'induit à ce faire? Quel est l'espoir de son
éture? Quel bien prétend-il? Rien plus sinon qu'un peu de moüelle».
E l'osso gettato dal Rabelais ai critici è stato difatti spiato con
devozione, preso con cura, tenuto con fervore, scalfito con
prudenza, spezzato con affetto e succhiato con diligenza. E perchè
non così quelli del Pulci e del Folengo? [29] Ma ogni qual volta si
butta un osso a un critico si deve dunque dire: — Bada, c'è dentro il
midollo? — o far che questo midollo si mostri un tantino da qualche
parte fuori dell'osso? Ma tanto più pregevole è un'opera d'arte,
quanto maggiore è l'assorbimento della volontà e del fine nella
creazione artistica. Questo maggiore assorbimento rischia di parere
indifferenza verso gli ideali della vita a chi consideri le opere con
criterii estranei all'arte, e le opere d'arte superficialmente; ma — a
prescindere che gl'ideali della vita, per sè stessi, non hanno nulla da
vedere con l'arte, che dev'essere creazione spontanea e
indipendente — pure quell'indifferenza, in fondo, non c'è, perchè
altrimenti non ci sarebbe neppure l'ironia. Se l'ironia c'è, ed è
innegabile, non c'è l'indifferenza, di cui tanto s'è parlato.
Piuttosto dove dirsi che questa ironia non riesce se non di rado a
drammatizzarsi comicamente, come avviene nei veri umoristi: resta
quasi sempre comica senza dramma, e dunque facezia, burla,
caricatura più o men grottesca. Lo stesso però avviene in Rabelais:

Mieulx est de ris que des larmes excipre:


Pour ce que rire est le propre de l'homm.

E Alcofibras Nasier è condamné en Sorbonne pour les faceties de


haute graisse qui caracterisent son livre. Che hanno di più o di
diverso queste faceties de haute graisse di quelle del Pulci e del
Folengo e del Berni? Rileggiamo con questo intento il Morgante
Maggiore e il Baldus e poi La vie de Gargantua e Les faits et les dits
héroïques du bon Pantagruel roi des Dipsodes, e ci salteranno agli
occhi a ogni passo la parentela spirituale innegabile, le innegabili
derivazioni.
E rileggiamo il Berni. Lasciando anche da parte le 18 stanze a
principio del canto XX del Rifacimento dell'Orlando Innamorato e
l'opuscolo del Vergerio sul protestantesimo del Berni e tutte le altre
riflessioni filosofiche, sociali e politiche sparse qua e là nel
Rifacimento stesso; lasciando da parte il Dialogo contro i poeti e le
parodie del Petrarca in derisione dei petrarchisti, e l'invettiva famosa:
Nel tempo che fu fatto papa Adriano VI e i sonetti contro Clemente
VII:

Il papa non fa altro che mangiare,


Il papa non fa altro che dormire;

e tutti gli altri sonetti contro a preti e abati, e anche quel sonetto che
comincia:

Poichè da voi, signor, m'è pur vietato


Che dir le vere mie ragion non possa,
Per consumarmi le midolle e l'ossa
Con questo nuovo strazio e non usato; [30]

e lasciando anche da parte il capitolo in lode di Aristotile (che non


affetta il favellar toscano) dedicato a Messer Pietro Buffetto cuoco;
spigoliamo proprio in quei capitoli che pajono i più frivoli e
spigoliamo nelle lettere del Berni. A Messer Latino Juvenale scrive:
«Ecco il Valerio mi riprende, e dice ch'io farei bene a lasciare andar
queste baje e a rivolgere i miei pensieri a miglior parte; che
maledetto sia egli, e chi sente talmente seco. Che penitenza è la
mia, a dare ad intendere al mondo che questo si debbe piuttosto
imputare alla mia disgrazia che ad alcuna elezione? Io non ho
comprato a contanti questo tormento, nè me lo sono andato
cercando a posta per far ridere la gente del fatto mio: che non se ne
ridon però se non gli scempi». E a Monsignor Cornaro scrive: «Ma
che la natura e la fortuna mi ha fatto tale, dico, asciutto di parole e
poco cerimonioso, e per ristoro intrigato in servitù». In un'altra lettera
confessa: «Io, spinto dalla furia del dolore, sono ricorso al rimedio
della poesia». Egli si governa, come dice in una poesia, a volte di
cervello, e a Messer Agnolo Divizio scrive: «conciossiachè alla
giornata io operi e faccia tutte le mie azioni. Che si cava di questo
mondo finalmente altro che 'l contentarsi o almeno cercare di
contentarsi?».

Ciascun faccia secondo il suo cervello


Che non siam tutti d'una fantasia.

E a Giovan Francesco Bini: «Nondimeno ancora io sono stoico come


voi, e lascio correre alla 'ngiù l'acqua di questo fiume». In mezzo alla
peste, allo stesso Divizio suo padrone, che andava fuggendo di qua
e di là per paura, scrive: «Se ben son uomo, e come uomo tengo
conto della vita, ho anche tanta grazia da Dio, che a luogo e tempo
so non ne tener conto; ch'è anche cosa da uomo. Sicchè non mi dite
pauroso, chè io sono piuttosto degno di esser chiamato temerario».
E come uno stoico veramente fu in mezzo alla peste, ne vinse il
terrore e riuscì ad acquistarne quel sentimento che vedremo esser
fondamentale dell'umorismo, cioè il sentimento del contrario: l'ironia,
nei due capitoli in lode della peste riesce a drammatizzarsi
comicamente, e però va oltre alla facezia, oltre alla burla, oltre al
comico. Nel flagello vede, come vedrà poi don Abbondio, la scopa,
ma con ben altre riflessioni filosofiche.

Non fu mai malattia senza ricetta


La natura l'ha fatte tutt'e due
Ella imbratta le cose, ella le netta.

E la natura dopo aver trovato il bujo e le candele e aver fatto gli


orecchi e le campane,

Trovò la peste perchè bisognava

bisognava perchè:

... a questo corpaccio del mondo


Che per esser maggior più feccia mena,
Bisogna spesso risciacquare il fondo.
E la natura che si sente piena
piglia una medicina di moria.

Ma la natura ha anche «forte del buffone» e il Berni sa bene


avvertirne tutti i contrasti amari e le aspre dissonanze e riderne,
rappresentandoli. In una lettera in versi al pittore Sebastiano del
Piombo, parlando anche di Michelangelo, comune amico, dice:

Ad ogni modo è disonesto a dire,


Che voi che fate i legni e i sassi vivi,
Abbiate poi com'asini a morire.
Basta che vivon le querci e gli olivi,
I sorbi, le cornacchie, i cervi e i cani,
E mille animalacci più cattivi.
Ma questi son ragionamenti vani,
Però lasciamli andar, chè non si dica
Che noi siam mammalucchi o luterani.
V.
L'ironia comica nella poesia cavalleresca

Quando il Brunetière, su la Revue des Deux Mondes prima, [31] poi


nel volume Études critiques sur l'histoire de la litterature
française, [32] si scagliò contro l'erudizione contemporanea e la
letteratura francese nel medio evo, a difender questa, e quello
sorsero, fieramente indignati, molti critici, segnatamente romanisti, e
non soltanto della Francia.
Certo, la difesa dell'erudizione contemporanea sarebbe riuscita
molto più efficace, se i difensori non si fossero da un canto lasciati
andare per ripicco a dire ogni sorta di villanie contro la critica
estetica, e non si fossero, dall'altro, provati a difendere con troppo
zelo anche le bellezze della poesia medievale, epica e cavalleresca,
della Francia.
Ricordo, fra le altre, la difesa di Cr. Nyrop, nella sua Storia
dell'Epopea francese nel M. E., [33] per la ingenua speciosità degli
argomenti. «Si è fatto un rimprovero ai poemi dicendo che sono rozzi
e ruvidi e che i personaggi che vi agiscono non possono pretendere
al nome di eroe, poichè tutto il loro sforzo non tende ad altro che ad
uccidere». — Ebbene, da questa accusa di rozzezza, di ruvidità, di
crudeltà, come difendeva egli i poemi? Non li difendeva affatto: «Si
concederà volentieri, — egli dice anzi, — che in molti poemi si
cantano e celebrano cose le quali, osservate dal punto di vista del
nostro tempo, non possono chiamarsi altro che crudeltà, abominevoli
e bestiali crudeltà, e che gli eroi spesso sfogano la loro ira in modo
inumano sopra coloro che per mala ventura sono venuti in loro
potere». Cita, alcuni esempii e quindi, a mo' di scusa, soggiunge:
«ma il Medio Evo non era — osservato cogli occhi del nostro tempo
— neppure differente; l'antico poema francese non si è certamente
reso colpevole di nessuna esagerazione, poichè la storia ha
conservato memoria di molte simili crudeltà».
Bella scusa, la fedeltà storica, di fronte all'estimativa estetica! Ma
anche la crudeltà più atroce, come tutto, può essere argomento
d'arte; e crudelissimo si dimostra Achille nel trascinare attorno alle
mura di Troja il cadavere di Ettore: bisognava dimostrare che la
crudeltà, nei poemi francesi, è rappresentata, non solo con fedeltà
storica (il che in fondo importerebbe poco), ma artisticamente: e
questo il Nyrop non poteva, perchè «gli eroi, — riconosce egli stesso
— considerati dal lato psicologico sono figure poco complesse, i loro
moti interiori, i loro momenti di dubbio, le lotte del loro animo sono
qualche cosa di cui i poeti non fanno quasi mai parola... Analizzare e
notomizzare un'anima è solamente possibile e può soltanto
interessare in un periodo di civiltà più avanzato. Il poeta del medio
evo non conosce tutti questi delicati gradi del sentimento: per lui
esistono soltanto i più spiccati segni esteriori, per lui gli uomini sono
prodi o vigliacchi, lieti o afflitti, credenti o eretici, e quello che essi
sono lo sono completamente ed egli non spende mai molte parole
per dirlo a' suoi uditori o a' suoi lettori».
Esaminando poi a uno a uno tutti i poemi, il Nyrop è costretto a
riconoscere che la religione, la quale accanto al furore bèllico, si
presenta come uno dei principali motivi nell'epica francese, è una
concezione «puerile», anzi la religiosità, egli dice, «occorre le più
delle volte nei poemi come qualche cosa di esteriore, aggiunto agli
eroi, per la qualcosa sta in generale anche in contraddizione con le
loro azioni. In altre parole: gli eroi non sembrano essere intieramente
convinti della verità di tutte le belle sentenze cristiane che si
pongono loro in bocca; il loro carattere e il loro interiore mal
s'accorda coi miti ed umani dommi del cristianesimo, e ne risulta
perciò spesso una contraddizione insolubile che apparisce
fortemente nei loro discorsi e nelle loro azioni. Così, per recare un
esempio, non è raro che l'uno o l'altro eroe dimentichi nelle sue
preghiere sè stesso al punto di aggiungere le peggiori minacce se
Dio non gli concede quello che egli chiede. Ed io credo, —
soggiunge il Nyrop, — che il Gautier e il D'Avril siano molto fuor di
strada, quando considerano la religiosità come il più importante
elemento dell'epopea.
«L'entusiasmo del Gautier ogni volta che gli eroi nominano il nome di
Dio è talora ridicolo; egli va in estasi per la frase più bassa e triviale
in cui si parli di angeli ed esclama tosto: sublime, incomparable; e
quando s'imbatte in qualche verso così stereotipo come questo «Foi
que doi Dieu, le fils sainte Marie», egli lo chiama una energica
affermazione di fede. Il suo punto di veduta, preso nel suo insieme, è
così limitato ed estremamente cattolico, che non vale la pena di
combatterlo. Io concepisco solo la religiosità degli eroi come qualche
cosa che per una parte fu aggiunta più tardi, forse al tempo delle
crociate, e diventa perciò soltanto un fattore concomitante ma
subordinato: la mia opinione può ben anche essere appoggiata da
questo che gli ecclesiastici, specialmente i monaci, sono di rado
messi in una luce di cui non abbiamo molto a lodarsi; se essi
vogliono poter pretendere al favore dei poeti, devono, come Turpino,
presentarsi con la spada a fianco». [34].
Ho voluto ricordar questo, perchè mi sembra che troppo se ne siano
dimenticati quanti, discorrendo con scarsa cognizione dell'epopea
francese, notano in essa serietà e profondità di sentimento religioso
e non so quali e quanti fieri e nobili ideali, per venir poi a dire che
quel sentimento e questi ideali non potevano trovar eco nei nostri
poeti cavallereschi fioriti in un tempo di scettica, pagana serenità,
privo di aspirazione, ecc. ecc.
Tutte queste frasi fatte non c'entrano e la ragione del riso dei nostri
poeti cavallereschi va cercata altrove.
Già l'ironia per la materia, la satira della vita cavalleresca, la
troviamo in Francia fin nei poemi, come ad esempio, nell'Aiol;
l'irrisione per lo Imperatore, gli indizi della degradazione graduale di
lui si trovano già in un poema antico come l'Ogier le Danois, dove
Carlo non ha più la prudenza tranquilla e si lascia facilmente vincer
dall'ira, e ingiuria e poi ha paura della vendetta degli ingiuriati. A
poco a poco, lo vediamo divenire imbecille, «assotez», bersaglio
delle beffe, e moralmente corrotto. Nel Garin de Montglane, com'è
noto, arriva finanche a giocarsi a scacchi la Francia.
La ragione di questo degradamento, di questa irrisione la troviamo
facilmente; è in ispecie nei poemi in cui si vuol glorificare qualche
eroe provinciale, poemi composti da troveri che servivan vassalli, se
non al tutto ribelli, quasi indipendenti, ai quali piaceva di ridere a le
spalle della autorità imperiale.
Come l'irrisione della vita cavalleresca e la degradazione dei
cavalieri, esaltati prima a le spalle dei vilan, si troverà nei poemi non
più cantati a corte o nei castelli. Se il nostro buon Tassoni avesse
potuto leggere nel Siége de Neuville l'impresa di quei bravi tessitori
fiamminghi capitanati da Simone Banin, non si sarebbe forse vantato
più inventore del poema eroicomico. Troviamo finanche questo in
Francia, purus et putus.
E allora? Il Rajna avverte che «la propagazione della materia dalla
regione transalpina alla cisalpina par seguita sopratutto di buon'ora
ed essersi poi rallentata; che altrimenti poco si capirebbe come
l'Italia abbia conosciuto meglio gli strati arcaici delle chansons de
geste che i successivi, tanto da conservare racconti e forme di
racconto dimenticati poi e alterati nella Francia, e da ignorare invece
quasi affatto le creazioni ibride che introdussero nel genere il
meraviglioso dei romanzi d'avventura». E traccia in brevi linee il tipo
più comune del romanzo cavalleresco prevalso nell'età franco-
italiana: tipo a cui risponde in grandissima parte il Morgante del
Pulci. Ma è da notare altresì col Rajna stesso che «la letteratura
romanzesca toscana, senza distinzione di prosa e di rima, ha
rapporti diretti e immediati colle età precedenti.... Non mancano testi
in prosa fabbricati sulle versioni rimate oppure ad un tempo su
queste e sulle forme anteriori, francesi o franco-italiane».
Il fatto è che quando in Francia i più antichi poemi furon tradotti in
forma di romanzi e scesero tra il popolo, l'epica era morta; e che
all'opposto in Italia — se non l'epica, che non era possibile — il
poema cavalleresco cominciò a nascere quando, con versioni in
prosa o rimate, la produzione francese e franco-italiana o veneta
entrò in Toscana e vi trovò il suo metro, l'ottava; e che in tutto questo
movimento la materia o rimase qual'era, degradata, o per ringentilirsi
si contaminò (nel senso classico della parola) e anche si sollevò fino
a drammatizzarsi seriamente.
Che ci han dunque da vedere lo scetticismo del tempo, l'indifferenza,
la mancanza d'ogni ideale, se anzi i nostri poeti cavallereschi
tendono invece a rialzare a mano a mano, a nobilitar la materia, a
rivagheggiar quasi in sogno quegli ideali, lavando del troppo sangue
gli eroi e rendendoli più umani e più gentili? Che se, anche così, poi
essi non riescono bene a prenderli sul serio, non è già perchè li
vedano innanzi a loro spogli di quegli ideali e non più animati
dell'antico sentimento religioso, ma perchè la rappresentazione che
di essi aveva fatto la poesia medievale (tranne qualche rarissima
eccezione), ruvida e rozza, non li poteva in alcun modo nè per alcun
lato far prendere sul serio. A poeti colti e maturi, che leggono e
sanno ammirare i classici, quegli eroi tutti d'un pezzo, foggiati tutti su
lo stesso stampo, dovevano apparir per forza fantocci.
Eppure il popolo ancora e anche i signori prendevano gusto al
racconto delle loro gesta inverosimili?
Il popolo si capisce: se ne diletta vivamente tuttora, a Napoli, a
Palermo; e la materia si modifica, s'accresce, prende nutrimento e
qualità dai sentimenti, dai costumi, dalle aspirazioni della gente
innanzi a cui si rappresenta, assumendo una rozza forma, di cui
facilmente quella si contenta. Il popolo crede; in ispecie il popolo
meridionale, inculto, appassionato e ancor quasi primitivo, serba
anche oggidì tutti quegli elementi d'ingenua meraviglia e di credulità
superstiziosa e fanatica, che rendon possibili la nascita e lo sviluppo
della leggenda: e se Garibaldi, vestito di fiamma, passa in mezzo ad
esso, è investito senz'altro, spontaneamente, dei più antichi attributi
leggendarii: è creduto invulnerabile, e che abbia nella spada un
capello di Santa Rosalia, patrona di Palermo, proprio come Orlando
aveva in Durendala un capello della Vergine. E tutti noi, del resto,
anche privi della beata ignoranza popolare, non abbiamo forse di
Garibaldi, la cui vita fu e volle essere una vera creazione in tutto, fin
nel modo di vestirsi, fuori e sopra le conoscenze d'ogni realtà
contingente, noi tutti, dico, non abbiamo di Garibaldi un sentimento
leggendario, epico, che si offende se minimamente un tratto
discordante si voglia metter in luce, un documento storico tenti in
qualche punto di diminuircelo? Noi tutti però non potremmo più
affatto contentarci oggi d'una epopea garibaldina vera e propria,
sorta cioè dal popolo con quegli ingenui e primitivi attributi
leggendari; come per altro non ci contentiamo dei componimenti
epico-lirici su questo Eroe, componimenti in cui il poeta tenta di
sostituire la immaginazione collettiva del popolo con la propria
fantasia individuale, e non ci riesce, perchè quell'Eroe con la volontà
e col sentimento creò di per sè epicamente la propria vita, cosicchè
la sua storia è di per sè epopea, e nulla potrebbe aggiungervi la
fantasia d'un poeta, come gl'ingrandimenti meravigliosi e ingenui
della immaginazione collettiva del popolo la renderebbero a noi
diminuita e ridicola: parodia d'epopea a volerla rappresentare;
qual'è, ad esempio, La Scoperta dell'America di Cesare Pascarella.
Per il popolo la storia non è scritta; o, se è scritta, esso la ignora o
non se ne cura; la sua storia esso se la crea, e in modo che risponda
a' suoi sentimenti e alle sue aspirazioni.
A una sola storia, se mai, il popolo avrebbe potuto credere, in
materia cavalleresca: alla famosa Cronaca dello pseudo-Turpino, la
quale, all'uopo, per un esempio, avrebbe potuto confermargli che il
gigante di nome Ferraù o Ferracutus fuit de genere Goliat, poichè la
sua statura, era quasi cubitis XX, facies erat longa quasi unius cubiti
et nasus illius unius palmi mensurati et brachia et crura ejus quatuor
cubitum erant et digiti ejus tribus palmis. Ma non ce n'era punto
bisogno! Perchè anzi il bisogno del popolo è sempre un altro: quello
di credere, non di dubitare minimamente di ciò che gli piace credere.
Questo dubbio poteva nascere nei tardi raffazzonatori pseudo-
letterati dell'epica francese, quando, alterate a lor modo le antiche
leggende, tiravano in ballo Turpino o le cronache di S. Dionigi:

Et qui ice voudrai a mançogne tenir


Se voist lire l'estoire en France, a Paris.

Dal che si vede che neanche in questo sarebbero stati originali i


nostri poeti cavallereschi, ogni qual volta a mo' di scusa
aggiungevano: «Turpin lo dice».

***
Quando questa materia cavalleresca, dalle piazze ove ormai è
caduta, risale, per capriccio o per curiosità o per vaghezza che se ne
abbia, ai palagi, alle corti dei signori, che avviene?
Ma bisogna innanzi tutto avvertire all'indole, ai gusti, ai costumi di
queste corti, a cui sale!
Quale fosse la corte di Lorenzo de' Medici, quali le abitudini, i
piaceri, gl'intendimenti di lui, è ben noto; e basterebbe, anche senza
dare tutto quel peso che si deve alla diversa indole e alla diversa
educazione dei poeti, a spiegarci in gran parte perchè il Morgante
Maggiore sia così diverso dell'Innamorato del Bojardo e del Furioso
dell'Ariosto.
Il Morgante risponde perfettamente alla corte di Lorenzo, il quale si
piace della espressione popolare e per il popolo compone,
parodiando, come nella Nencia da Barberino. Egli ha il gusto della
parodia, e lo dimostra anche coi Beoni, parodia dantesca, letteraria,
qui; parodia dell'espressione popolare, nella Nencia. «Ben è vero
che il Medici, — notò il Carducci nella prefazione alle poesie di
Lorenzo de' Medici [35] — contraffece e parodiò più presto che non
ritraesse la espressione degli affetti e il modo di favellare de' nostri
campagnuoli: chè i Rispetti più volte stampati negli ultimi anni
mostrano aperto avere il popolo di Toscana più gentilezza d'affetto,
più squisitezza di fantasia, più forbitezza di favella, che non piacesse
prestargliene a Lorenzo dei Medici detto il magnifico e a Luigi Pulci
suo cortegiano. Il quale, com'è de' cortegiani, volle dar a divedere
ch'è' facea conto del poeta potente imitandolo nella Beca da
Dicomano; e com'è degli imitatori, per superarlo l'esagerò,
sfoggiando lo strano e il grottesco dove il Medici pur nella parodia
s'era tenuto al delicato».
Ma è chiaro che l'intenzione parodica comunica per forza alla forma
la caricatura, giacchè, chi voglia imitare un altro, bisogna che ne
colga i caratteri più spiccati e su questi insista: tale insistenza,
genera inevitabilmente la caricatura.
La presenza di quella pia donna che fu Lucrezia Tornabuoni
potrebbe poi anche spiegarci, almeno in parte, la mascheratura
religiosa che il Pulci volle dare al suo poema; parodia anch'essa, per
altro, a mio modo di vedere, come tutto il resto.
Basta, trattare di religione con la lingua buffona della plebe, perchè
si abbia l'irriverenza.
Ricorderò qui, a questo proposito, ancora una volta quello che il Belli
faceva rispondere a Luigi Luciano Bonaparte che gli proponeva la
traduzione in romanesco del vangelo di San Matteo. Ma questa
irriverenza che nasce dalla lingua buffona della plebe non denota
punto per sè stessa irreligiosità. E ricorderò anche l'aneddoto che si
racconta in Sicilia d'un altro grande poeta dialettale, notissimo
nell'isola e ignoto affatto nel Continente, Domenico Tempio, il quale
chiamato un giorno dal vescovo di Catania e paternamente esortato
a non più cantare cose oscene e a dare invece al popolo durante la
settimana santa un bell'esempio di contrizione sciogliendo un
cantico sacro su la passione e morte di Cristo, rispose a Monsignore
che volentieri lo avrebbe soddisfatto, essendo egli credentissimo e
divoto; e volle anzi dargliene un saggio lì per lì, scagliandosi con due
versi d'estrosa improvvisazione contro Ponzio Pilato così sconci, che
fecero subito passar la voglia a Monsignore del bell'esempio di
contrizione da offrire al popolo catanese durante la settimana santa.
Tutte le dispute che si son fatte intorno alla irriverenza verso la
religione, anzi all'empietà, all'ateismo del Pulci, non possono
veramente non apparir vane quando si intendano a dovere lo spirito
del poema, la qualità e la ragione della sua ironia e del suo riso.
Non è possibile, o è ingiustissimo, giudicare in sè e per sè
esclusivamente il Morgante Maggiore, come fece ad esempio una
prima, volta il De Santis, [36] il quale credette e volle dimostrare che
Pulci, nel comporre il suo poema, non avesse vera e profonda
coscienza del suo scopo; e però condannò come insufficienze del
poeta la puerilità delle situazioni, la rudimentalità psicologica dei
personaggi, le ripetizioni nell'ordito, ecc. ecc. Il Pulci, invece, è
coscientissimo del suo scopo, e tra i due casi che pone il De Santis
di chi dice sciocchezze con intenzione comica e fa ridere non di lui,
ma di quel che dice, e di chi all'incontro dice sciocchezze per
sciocchezza e fa rider di lui e non di quel che ha detto, l'autore del
Morgante sta certamente nel primo caso, non già nel secondo. Il
Pulci dice sciocchezze con intenzione comica o, più propriamente,
parodica, e fa ridere, non tanto però quanto vorrebbe far credere in
un suo libro recente Attilio Momigliano, [37] come vedremo appresso.
Ho ricordato più su La scoperta dell'America di Cesare Pascarella.
Ebbene, si può dire che, esteticamente, il Pulci si trovi, di fronte alla
materia cavalleresca, in certo qual modo nella stessa posizione del
poeta romanesco di fronte alla scoperta dell'America narrata da un
popolano. Il Pascarella infatti sorprende, o finge di sorprendere, in
un'osteria un popolano saputo, che racconta ad amici quella
scoperta, commovendosi della gloria e della sventura di Colombo.
Chi si sognerebbe d'attribuire al poeta romanesco le sciocchezze
che dice quel popolano? la puerilità ridicola di quei dialoghi col re di
Spagna portoghese? tutte le altre meraviglie non meno ridicole e
infantili del viaggio, dell'arrivo, del ritorno? E si noti che codeste
meraviglie suscitano anche, a un certo punto, qualche reazione
d'incredulità in chi ascolta: — «Come le sai tu codeste cose?» —
«Eh! c'è la storia». (Turpin lo dice). E, qua e là, paragoni che par
dimostrino con la massima evidenza qualche cosa e invece non
dimostrano nulla: e certe tirate calorose di sdegno o d'ammirazione;
e certe spiegazioni in cui la logica rudimentale del popolano si
compiace quando vuol farsi ragione di qualche caso o avvenimento
straordinario; e certi impeti di commozione che fanno ridere non per
intenzione comica di chi racconta, ma o per false deduzioni o per
immagini improprie e stonate o per incongrue frasi.

Ciaripensa, e te scopre er cannocchiale.

Chi si sognerebbe di dire che il Pascarella voglia metter qui in


dileggio Galileo? Ma egli non può, pur serbando affatto oggettiva la
rappresentazione di quel racconto d'osteria, non ridere della gloria di
Colombo e d'altri sommi Italiani e anche della scoperta dell'America
in tal modo narrata. E questo suo riso segreto forma quasi un'aria
ilare, un'atmosfera di comicità irresistibile attorno a quella
rappresentazione oggettiva. L'intenzione comica del poeta, nel
riferire oggettivamente le sciocchezze di quel popolano, non si
appalesa mai; il poeta non fa mai capolino. Questo, veramente, non
si può dire del Pulci. Mentre il Pascarella ritrae semplicemente, il
Pulci spesso contraffà per parodia. Ma non si debbono imputare a lui
tutte le sciocchezze, le volgarità, le puerilità dei cantastorie o della
letteratura epica e romanzesca venuta di Francia o dall'Italia
settentrionale, poichè egli anzi, contraffacendo e parodiando, se ne
beffa apertamente. Sarebbe come prendere sul serio una cosa fatta
per giuoco; o come incolpare il Pascarella d'aver deriso la gloria di
Colombo, ritraendo il racconto che ne faceva quel popolano. Il Pulci
non si sogna neppur lui di deridere la cavalleria o la religione; si
spassa a contraffare i cantastorie di piazza, a cantar coi loro modi,
con la loro lingua, con la loro psicologia infantile, coi loro mezzi
inventivi stereotipati, la materia epica e cavalleresca; di tratto in
tratto segue e interpreta il sentimento popolare per qualche scena
patetica, per qualche azione che suscita l'ira o il compianto o lo
sdegno, ecc. Naturalmente, tutto questo, se rappresenta per lui uno
spasso, un giuoco, per il solo fatto poi ch'egli v'impiega l'arte sua e
studio e tempo, non può non esser anche preso sul serio; e non di
rado, dunque, egli si immedesima davvero nel racconto, ma sempre
col sentimento, con la logica, con la psicologia, del popolo, e trova
espressioni efficacissime. È vero che poi, tutt'a un tratto, rompe
questa serietà con una risata. Ma non è mai, secondo me, per
intenzione satirica: l'uscita è spesso burlesca, popolare: segue e
interpreta anche qui spesso il sentimento del popolo.
E sbaglia, dunque, secondo me, il Momigliano e contraddice anche a
sè stesso, quando afferma [38] che «il sorriso del Morgante è
soggettivo: soggettivo nel senso che è la naturale, incoercibile
irruzione dell'indole del Pulci nella materia epica. In questo senso, —
anzi egli aggiunge, — il Morgante è uno dei poemi epici più
soggettivi, che io conosca; potrebbe esser definito: il mondo
cavalleresco veduto attraverso un temperamento giocondo. Anzi,
dopo tante discussioni sul suo protagonista — chi vuole sia
Morgante, chi Gano — io credo, che l'unico personaggio, che
domina tutta l'azione, attorno al quale tutta l'azione si svolge, sia
l'autore stesso: all'infuori di lui non c'è protagonista».
Poche pagine innanzi, [39] egli aveva detto: «In quell'età di riso
spensierato più che satirico il riso del Morgante non è che la vernice
del tempo, che si sovrappone alla materia tradizionale
deformandone soltanto la superficie». E, indagando e studiando
nella prima parte del volume l'indole di Luigi Pulci: «Certo mentre
l'uomo piangeva, il poeta rideva. Non fu piccola forza durar a
scrivere un poema giocondo come il Morgante, col cuore straziato
da sempre nuove ferite, fra le minacce della fame e della prigione
per debiti. Non sono infrequenti i casi di poeti, che si ridono dei
proprii travagli, ma è rarissimo quello di un poeta sventurato, che
impiega la sua attività artistica in un'opera, nella quale il riso non si
vela mai di pianto. È un miracolo, nel quale probabilmente ebbe
qualche parte l'influsso della Rinascenza».
Confesso di passata ch'io non riesco a veder così giocondo lo spirito
del nostro Rinascimento, come il Momigliano insieme con altri lo
vede. Diffido degli inviti a godere, specialmente quando son così
insistenti e vogliono aver l'aria d'essere spensierati; diffido di chi vuol
essere gajo a ogni costo. Il Trionfo di Bacco e d'Arianna? Ma è il
carpe diem d'Orazio:

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi


finem Di dederint...

E può dirsi giocondità quella di chi si stordisce per non pensare?


Potrebbe esser, se mai, filosofia di saggi, non giocondità di giovani.
E quante cose tristi non dicono i famosi canti carnascialeschi a chi
sappia leggervi ben addentro!
Ma lasciamo star questo, che per il momento sarebbe questione
oziosa, tanto più che per me il Pulci ritrae tutto dall'aspetto
caratteristico dell'indole fiorentina e la sua è la lingua buffona del
popolo, e le idee e il sentimento del popolo, rispetto alla materia
epica e cavalleresca, nelle espressioni d'un cantastorie, egli vuol
contraffare e parodiare nel suo Morgante, il quale per me, ripeto, non
è poi tutto quel monumento di giocondità che il Momigliano ci
vorrebbe far credere.
Per spiegarci il miracolo, di cui parla il Momigliano, basta pôr mente
a questo, cioè più allo scopo che il Pulci s'è proposto, che alla sua
indole. Se la vita del poeta è tristissima, se egli nel componimento Io
vo' dire una frottola confessa: «I' ho mal quand'i' rido» e «Io non sarò
mai lieto», «... non piacqui mai A me stesso, nè piaccio», se egli è
inclinato fin dalla nascita alla melinconia, come il Momigliano stesso
dimostra per altre testimonianze, oltre a questa della Frottola
composta negli anni tardi, se «egli aveva due modi per mitigare i
propri dolori: rassegnarcisi — ed era il rimedio al quale ricorreva più
di raro — o riderci su al modo degli umoristi: vera consolazione da
disperato», e «quest'umorismo triste — soggettivo nel Pulci, non
oggettivo — manca quasi affatto nel Morgante», come diventa poi
soggettivo, invece, il riso del Morgante, naturale, incoercibile
irruzione dell'indole del Pulci nella materia epica? Come può esser il
Pulci il vero protagonista del suo poema?
Magari fosse stato! Ma il Pulci, se in parte nelle lettere e nella
Frottola riesce a ridere dei suoi dolori a modo degli umoristi, non
riesce mai a oggettivare nel suo poema la disposizione naturale
all'umorismo. Egli vive due vite, ma non le fa vivere nel suo poema.
«Dualismo doloroso, — esclama qua il Momigliano, — che
condanna il Pulci a rappresentare nel Morgante la parte di una
maschera allegra, mentre, quando s'è raffreddata la sua fantasia,
onde i facili versi sono fluiti come una brigata perennemente gaja
dalle porte d'un palazzo fatato, il dolore della vita tormentata di ogni
giorno lo deve, pel contrasto, riassalire più acuto che mai!» O
dunque? Se è una maschera, non è l'indole che naturalmente e
incoercibilmente irrompe nella materia epica!
Ma non è neanche una maschera. Di veramente soggettivo nel
poema non c'è quasi nulla: il Morgante è «la materia cavalleresca
infusa d'un'anima plebea» come dice il Cesareo, il quale nel gigante
armato di battaglio e in Margutte vede il popolo stesso che si mira
allo specchio del suo rozzo e sincero naturalismo. Il primo è
«ignorante, vorace, manesco, burlone, ma non ha perfidia; e compie
le imprese più ardue a un sol cenno del suo padrone; è la forza
ignara e subitanea del popolo acconciamente diretta da un
sentimento che ne sviluppi le qualità oscure, l'onestà, la giustizia,
l'indulgenza, la devozione, l'amorevolezza. Margutte invece è il
popolo senza fede e senza sentimento, la canaglia abietta e
impudente, motteggiatrice ed obbliqua, criminosa e spavalda». E il
vero protagonista del poema è dunque Morgante, il buon popolo,
che segue, ammirato, le strampalate avventure dei paladini di
Francia e vi partecipa a suo modo. Il Pulci non ha voluto
rappresentare altro, nella sua parodia.
Non posso indugiarmi a rilevare tutte le false conseguenze che il
Momigliano trae dalla — secondo me — erronea convinzione che il
riso del Morgante sia soggettivo. Egli è in buona compagnia: anche
per il Rajna le novità del Morgante consistono «in certi episodî, dove
l'Autore introduce curiosi personaggi di sua fattura e si scapriccia
tanto colla fantasia quanto con la ragione; sopratutto poi nella
dimostrazione del suo io e nell'atteggiamento che prende di fronte
all'opera sua». [40] Ora il vero suo «io» il Pulci, se dobbiamo stare
all'indagine che ne fa lo stesso Momigliano — ripeto — non lo
dimostra affatto nel Morgante. Se vi rappresenta la parte d'una
maschera allegra! Per me è gravissimo torto attribuire direttamente
al poeta ciò che va attribuito al sentimento, alla logica, alla
psicologia, alla lingua buffona della plebe, nella parodia che egli ne
fa.
Così ad esempio, il Momigliano a un certo punto osserva: «Non
oserei però sostenere la perfetta, innocenza del Pulci, quando
Ulivieri mi vien fuori a spiegare il mistero della Trinità con quel certo
esempio della candela, che non spiega un bel nulla». Come se di
queste spiegazioni che non spiegano nulla non fosse piena tutta la
letteratura popolare! E poi, se il paragone si trova già nell'Orlando,
che c'entra la malizia del Pulci? Più sotto, a proposito della
conversione di Fuligatto, osserva: «Già queste conversioni e questi
battesimi — e per la loro rapidità e per la loro frequenza e per il
troppo fervore dei neofiti — più o meno insospettiscono sempre».
Ma se questo è uno dei tratti caratteristici, che dimostrano appunto
la puerilità della concezione religiosa nella epopea francese! Appena
conquistata una città, i vincitori impongono agl'infedeli la
conversione: chi si rifiuta, tagliato a fil di spada; e i battezzati
diventano d'un tratto cristiani zelantissimi. Che c'entra il Pulci? A
proposito dell'episodio d'Orlando motteggiato nel c. XXI dai
ragazzacci della città, che il paladino attraversa su Vegliantino così
mal ridotto, che non si regge in piedi, il Momigliano dice che il Pulci
non sente la maestà cavalleresca, e poi nota: «Pel nostro poeta il
riso è una delle grandi leggi, a cui tutti devono pagare il proprio
tributo. Il Pulci, quindi, accenna ne' suoi personaggi tanto i lati seri
quanto i lati ridicoli e li riduce a quando a quando ai limiti dell'umano.
Così in quest'episodio, pare che egli prenda in giro Orlando, ma non
è vero: un paladino invitto, col palafreno cascante — anche
Vegliantino qui scade dalla dignità solita nei cavalli degli eroi — non
è sottoposto ad una diminutio capitis, non s'avvicina un po' al
Cavaliere dalla trista figura? E questo non può accadere ad un
paladino? Ma fate che gli s'avvicini un petulante a beffeggiarlo e
vedrete che egli non è un Don Quijote, ma un paladino autentico:
ecco in qual modo Orlando, abbassato per un momento subito si
rialza. Nella fonte c'è qualche cosa di molto simile (Ori. L. 30-37).
Siam già vicini alla beffa, ma non l'abbiamo raggiunta ancora: la
beffa si avrà solo, quando il riso sarà l'esplosione della ribellione
meditata del raziocinio». Anche qui è attribuito al Pulci quel che già,
prima di tutto, si trova nella fonte, e che si trova poi in altri poemi,
come ad esempio nell'Aiol e nel Florent et Octavien. Così, quella
certa facilità di commozione che hanno i paladini, e che al
Momigliano sembra non molto naturale in guerrieri di quella tempra,
si trova già, come è noto, nell'epopea francese, dove centinaia di
volte si leggono versi come questi (formule epiche stereotipate):

Trois fois se pasme sor le corant destrier.

Quando non sviene un intero esercito:

Cent milie frane s'en pasment cuntre terre.

Dato il concetto che il Momigliano s'è formato dell'umorismo, che


questo cioè sia «il riso che penetra più finemente o più
profondamente nel proprio oggetto, e, anche quando non si eleva
alla contemplazione di un fatto generale è tuttavia indizio uno spirito
avvezzo a cercare il nocciolo delle cose», s'intende com'egli possa
trovare con molta buona volontà anche l'umorismo nel Morgante,
non ostante che prima egli stesso abbia detto che «il genere di riso
del Morgante non scaturisce da una psicologia profonda» e che
questo procede «da due ragioni, dall'inettitudine del Pulci e dalla
materia, che di solito si appaga di caratteri inconsistenti» e che il
Pulci «vede specialmente il ridicolo fisico, il ridicolo delle forme, degli
atteggiamenti, delle movenze d'un corpo» e il suo sia di solito «un
riso superficiale» che «nella sua quasi costante leggerezza ritrae
dello spirito e della letteratura dei tempi». Ma ora per lui: «il pianto,
l'indulgenza, la simpatia, ecc. ecc., sono tutti elementi accessori»
dell'umorismo, il quale, insomma, è — come ha detto il Masci «il
senso generale della comicità», e nient'altro. Inteso così, l'umorismo
si può trovare da per tutto. Ulivieri è sbalzato di sella da Manfredonio
davanti a Meridiana e dice:

Alla mia vita non caddi ancor mai


Ma ogni cosa vuol cominciamento —?
Umorismo! Meridiana gli risponde:

Usanza è in guerra cader dal destiere,


Ma chi si fugge non suol mai cadere —?

Umorismo! Rinaldo, dimentico di Luciana, si innamora di Antea e


raccomanda a Ulivieri di servirla con ogni cura, e l'amico risponde:
«Così va la fortuna; «Cércati d'altro amante, Luciana; Da me sarai
d'ogni cosa servita»? — «Risposta stringata, filosofica, umoristica»
commenta il Momigliano, e via di questo passo.
Ma no! Il vero umorismo non si può trovare nel Morgante. Si sarebbe
potuto trovare, se il Pulci fosse riuscito a trasfondere i suoi dolori, le
sue miserie in qualcuno dei personaggi o in qualche scena, e ne
avesse riso, come nella Frottola o in qualcuna delle lettere; se la sua
ironia, la vana parvenza di quello sciocco, puerile o grottesco mondo
cavalleresco, fosse riuscita in qualche punto a drammatizzarsi,
attraverso il suo sentimento, comicamente. Ma egli non solo non
vede, nè può vedere sè nel dramma, ma non riesce neanche a
vedere il dramma nell'oggetto rappresentato. E come si può parlare
dunque d'umorismo? Dico del vero umorismo, che non è punto quel
che crede il Momigliano, seguendo il Masci. Dell'altro, cioè
dell'umorismo inteso nel senso più largo e comune, di cui ho già
fatto parola, eh, di quello sì, ce n'è in lui solo tanta copia, quanta in
cento scrittori inglesi messi insieme, che dal Nencioni o dall'Arcoleo
sarebbero tenuti in conto di veri umoristi. Questo è indubitabile.

***
Mi sono intrattenuto così a lungo sul Morgante perchè fra i tre nostri
maggiori poemi cavallereschi è quello in cui certamente ha più
campo l'ironia: l'ironia che — secondo l'espressione dello Schlegel
— riduce la materia a una perpetua parodia e consiste nel non
perdere, neppure nel momento del patetico, la coscienza della
irrealità della propria creazione.
L'intendimento dei due altri poeti, il Bojardo e l'Ariosto, è più serio.
Ma bisogna bene intendersi su questa maggior serietà... Il Pulci è
poeta popolare, nel senso che non solleva per nulla dal popolo la
materia che tratta, anzi ve la tiene per riderne parodiandola, in una
corte borghese come quella di Lorenzo che della parodia, come ho
detto, ha il gusto. Il Bojardo è poeta cortegiano, nel senso che ha,
per usare le parole stesse del Rajna «una profonda simpatia per i
costumi e i sentimenti cavallereschi, cioè per l'amore, la gentilezza, il
valore, la cortesia» e se «non ha ritegno a scherzare col soggetto,
nè ha rimorso di esporre alla derisione i suoi personaggi, gli è che
egli intende a celebrare la prodezza, la cortesia e l'amore, non già
Orlando e Ferraguto»; cortegiano, dunque, nel senso che scrive per
dar buon tempo e gradito sollazzo a una corte che, vivendo in ozii
agiati ed eleganti, appassionandosi ai casi di Ginevra e di Isotta, alle
avventure dei cavalieri erranti, non avrebbe potuto far buon viso ai
paladini di Francia, se questi le fossero venuti innanzi senza amore
e senza cortesia. L'Ariosto, se per condizioni di vita, rispetto alla
casa d'Este, è — in un altro senso — poeta cortegiano anche lui;
rispetto però alla materia che prende a trattare, non guarda che alle
condizioni serie dell'arte.
Abbiamo veduto che nella stessa Francia già da tempo il mondo
epico e cavalleresco aveva perduto ogni serietà. Come avrebbero
potuto i poeti italiani trattare seriamente ciò che già da tempo era
cessato di esser serio? l'ironia comica era inevitabile. Ma «chi fa un
lavoro comico — osserva giustamente il De Sanctis — non è
esentato dalle condizioni serie dell'arte».
Ebbene, queste condizioni serie dell'arte rispetta più di tutti l'Ariosto,
meno di tutti il Pulci, ma non per difetto d'arte, come era parso prima
al De Sanctis, bensì — ripetiamo — per lo scopo ch'egli si prefisse.
Chi fa una parodia o una caricatura è certamente animato da un
intento o satirico o semplicemente burlesco: la satira o la burla
consistono in un'alterazione ridicola del modello, e non sono perciò
commisurabili se non in relazione con le qualità di questo e
segnatamente con quelle che spiccano di più e che già
rappresentano nel modello una esagerazione. Chi fa una parodia o
una caricatura insiste su queste qualità spiccate; dà loro maggior
rilievo; esagera un'esagerazione. Per far questo è inevitabile che si
sforzino i mezzi espressivi, si àlteri stranamente, goffamente o
anche grottescamente la linea, la voce o, comunque, l'espressione;
si faccia in somma violenza all'arte e alle condizioni serie di essa. Si
lavora su un vizio o su un difetto d'arte o di natura, e il lavoro deve
consistere nell'esagerarlo, perchè se ne rida. Ne risulta
inevitabilmente un mostro; qualcosa che, a considerarla in sè e per
sè, non può avere alcuna verità, nè, dunque alcuna bellezza; per
intenderne la verità e però la bellezza, bisogna esaminarla in
relazione col modello. Si esce così dal campo della fantasia pura.
Per ridere di quel vizio o di quel difetto o per deriderli, dobbiamo
anche scherzare con lo strumento dell'arte; esser coscienti del
nostro gioco, che può esser crudele, che può anche non aver
intenzioni maligne o averne anche di serie, come le aveva ad
esempio Aristofane nelle sue caricature.
Se dunque il Pulci nel suo lavoro comico vien meno alle condizioni
serie dell'arte, non è per insufficienza d'arte, ripeto. Lo stesso non si
può dire per il Bojardo. La maggior serietà di questo deve
considerarsi non già nell'intenzion dell'arte, che gli difetta, bensì in
quella di piacere alla sua corte, seguendo anche il suo gusto e il
piacer suo.
Si arrivò finanche a dire che il Bojardo tratta seriamente, nel suo
poema, la cavalleria. Il Rajna, che — com'è noto — nel suo libro su
Le Fonti dell'Orl. Fur. par che si sia proposto di rialzare il Bojardo a
costo del «suo continuatore», a proposito della distinzione da farsi
tra l'Innamorato o il Furioso, domanda: «La faremo noi consistere
nella cosidetta ironia ariostesca? Certo starebbe bene, se fosse
vero, come si pretende, che l'Ariosto avesse, con un sorriso
incredulo, sciolto in fumo l'edificio del Bojardo, e trasformato in
fantasmi i personaggi dell'Innamorato. Il male si è che quell'edificio,
quei personaggi, erano già una fantasmagoria anche per il Conte di
Scandiano. Se Lodovico non crede al mondo che canta e se ne fa
giuoco, non ci crede maggiormente e all'occasione non se ne fa
meno giuoco il suo predecessore e maestro; se ironia c'è nel
Furioso, non ne manca nemmeno nell'Innamorato». E, alcune
pagine innanzi: «Certo il sentir parlare di burlesco e umorismo, a
proposito dell'Innamorato, deve far meraviglia, e non poca. Si è tanto
avvezzi a sentir ripetere su tutti i toni, e da uomini autorevolissimi e
giudiziosissimi, che il Bojardo canta le guerre d'Albraccà, e le
avventure d'Orlando e di Rinaldo, con quella medesima serietà e
convinzione, colla quale il Tasso celebrava un secolo dopo le
imprese dei Cristiani in Palestina e l'acquisto di Gerusalemme! È un
errore, di cui mi par superflua la confutazione... Non ci vuol molto ad
accorgersi che tra il Bojardo ed il mondo da lui preso a
rappresentare, c'è un vero contrasto, dissimile soltanto per grado e
per tono da quello che impediva al Pulci d'immedesimarsi colla sua
materia. Chè agli occhi di ogni Italiano colto del secolo XV erano
ridicoli quei terribil colpi di lancia e di spada, che al paragone
avrebbero fatto apparir fanciulli gli eroi di Omero; ridicolo quel
frapparsi (!) le armature e le carni per le ragioni più futili, od anche
senza un motivo al mondo; ridicole le profonde meditazioni amorose,
che assorbivano tutta l'anima per ore ed ore, e sopprimevano ogni
ombra di coscienza; ridicole, insomma, tutte le esagerazioni dei
romanzi cavallereschi. O come si vuole che un uomo imbevuto fino
ai midollo di coltura classica, e dotato di un buon senso a tutta
prova, avesse a contemplare e rappresentare questo mondo senza
mai prorompere in uno scoppio di riso? E infatti il Bojardo ride, e si
studia di far ridere; anche in mezzo alle narrazioni più serie esce in
frizzi e facezie; e più d'una volta egli crea scene, che si potrebbero
credere trovate dal Cervantes per beffare la cavalleria ed i suoi
eroi».
Il Rajna crede di difendere così il Bojardo da una ingiustizia. Il suo
torto — e gli è stato rilevato alla ristampa del libro dal Cesareo [41] —
è quello di trattare la questione dei rapporti tra il Bojardo e l'Ariosto
senza una adeguata preparazione estetica. Eppure, già il De
Sanctis, trattando della poesia cavalleresca in un corso di lezioni
all'Università di Zurigo, aveva avvertito maravigliosamente: «La
facoltà poetica per eccellenza è la fantasia: ma il poeta non lavora
solo con le facoltà estetiche, tutte le facoltà cooperano: il poeta non
è solo poeta; mentre la fantasia forma il fantasma, l'intelletto e i
sensi non rimangono inerti. Un poeta può avere potente virtù
estetica ed esser povero d'immaginazione, commettere errori nel
disegno o spropositi storici e geografici: questi difetti non toccano
l'essenza della poesia. Ma se un poeta che ha in alto grado queste
alte facoltà, che ha un bel disegno ed una perfetta esecuzione
meccanica, ha debole fantasia, non saprà render vivente quanto
vede: la mancanza di fantasia è la morte del poeta. Ecco la
distinzione da farsi. Fin qui non avete diritto di mettere in quistione
l'ingegno poetico del Bojardo; i difetti, che abbiamo enumerato,
dipendono da altre facoltà. Per venire ad esaminarlo come poeta,
bisogna dunque vedere fino a qual punto abbia la potenza formativa
del fantasma. Ha una grande inventiva: è stato il poeta italiano che
ha raccolto il più vasto e vario materiale di poesia; non solo per
quantità ma anche per qualità. L'inventiva è già una prima
condizione del poeta; e per tal riguardo il Bojardo è superiore al
Pulci. — Ma, non che basti, è poca cosa: l'invenzione nell'arte è il
meno. Dumas lascia ai suoi segretarii l'incarico di raccogliere i
materiali, ne' quali si riserba d'infonder poi la vita. Raccolto il
materiale, il Bojardo lo sa lavorare? Ecco la quistione. Non lo lascia
nudo ed arido come il Pulci; ha la facoltà del concepimento, dà ad
ogni fatto e personaggio le determinazioni necessarie perchè
acquisti una fisionomia propria. Non gli basta l'abbozzare un
personaggio; e anzi, egli è uno dei principali disegnatori della poesia
italiana. Pochi sanno dar con più sicurezza i lineamenti ad un
carattere... Che resta da fare al poeta? Mostrar vivo il personaggio.
Chi ha dato tal forma e tal carattere, lo deve far vivere. Bisogna che
la concezione diventi situazione. Anche i più appassionati non sono
sempre appassionati. Volendo mettere in opera le determinazioni,
bisogna scegliere tali circostanze che, mediante di esse, possano
manifestarsi le forze interne d'un personaggio. V'è situazione
estetica quando il personaggio è posto nelle condizioni più
favorevoli, perchè possa rivelarsi. Ma il Bojardo non sa mutar la
concezione in situazione».
Il Cesareo, che svolge ampiamente e precisa nel suo studio su La
fantasia dell'Ariosto questa stupenda intuizione del De Sanctis, nota
a questo punto che, in verità «quando una creatura vive nella
fantasia d'un poeta, ella si rivelerà intera in qualunque circostanza si
trovi. Il poeta non ha da sceglier nulla, perchè quella creatura è
libera, autonoma, fuori del poeta medesimo, e non si può trovare se
non in quelle situazioni a cui la sospinge il suo carattere in contrasto
coi caratteri circostanti. Le situazioni vengon da sè, non le sceglie il
poeta; il quale deve soltanto curare che in ciascuna situazione,
anche la meno drammatica, il personaggio apparisca tutto, con tutte
le sue determinazioni interiori. E allora una sola situazione basterà a
farci conoscere quella creatura; e noi sapremo a un dipresso ciò che
ella farà in situazioni «più favorevoli». Il carattere di Farinata è già
tutto ne' primi sei versi co' quali ei si volge a Dante; quello d'Amleto è
già tutto nella scena dell'udienza a Corte; quello di don Abbondio è
già tutto nella sua passeggiata in vista de' bravi. Certo, la
successione delle situazioni accresce intensità ed evidenza al
carattere; ma qualunque situazione è una situazione estetica».
Per il Cesareo, al Bojardo manca per l'appunto la visione completa
del carattere; ed io son d'accordo con lui. Su un altro punto io
dissento dal De Sanctis, cioè là dove egli dice che il Bojardo «per
intenzioni pedantesche, ha voluto fare seriamente quanto è
sostanzialmente ridicolo». Codeste intenzioni pedantesche nel
Bojardo veramente non so vederle, come non so vedere ch'egli
abbia voluto esser serio e che soltanto «per la forza dei tempi» sia
riuscito ridicolo. Se, come dice lo stesso De Sanctis, egli «ride delle
sue invenzioni», non ha voluto esser serio. Secondo me, anzi, il torto
del Bojardo è proprio là dove il Rajna crede di difenderlo da una
ingiustizia: che egli, cioè, nobile cavaliere, animato da una profonda
simpatia per i costumi cavallereschi, cioè per l'amore, la gentilezza, il
valore, la cortesia, non ha voluto esser serio, come per il sentimento
suo poteva e come per il rispetto alle condizioni serie dell'arte
doveva. E, non volendo esser serio, egli non ha saputo ridere,
perchè a quella materia solo un riso ormai conveniva, quello de la
forma, e la forma sopra tutto manca al Bojardo. Dice bene il Rajna
che «non ci vuol molto ad accorgersi che tra il Bojardo ed il mondo
da lui preso a rappresentare, c'è un vero contrasto, dissimile soltanto
per grado e per tono da quello che impediva al Pulci
d'immedesimarsi colla sua materia». Ma l'inferiorità del Bojardo
rispetto al Pulci e all'Ariosto è appunto qui, nel grado e nel tono del
suo riso. Egli volle badar soltanto a sollazzare sè e gli altri, e non
intese che, volendo sollevar dal popolo quella materia e non volendo
più farne deliberatamente la parodia, come aveva fatto il Pulci, si
dovevano rispettare le condizioni serie dell'arte, come l'Ariosto le
rispettò.
Non è affatto vero che il poeta del Furioso con sorriso incredulo
sciolga in fumo l'edificio del Bojardo e trasformi in fantasmi i
personaggi dell'Innamorato. Al contrario! Egli dà anzi a quell'edificio
e a quei personaggi ciò che loro mancava: consistenza e
fondamento di verità fantastica e coerenza estetica.
Bisogna bene intendersi sul non credere del poeta al mondo che
canta o che, comunque, rappresenta. Ma si potrebbe dire che non
solo per l'artista, ma non esiste per nessuno una rappresentazione,
sia creata dall'arte o sia comunque quella, che tutti ci facciamo di noi
stessi e degli altri e della vita, che si possa credere una realtà. Sono,
in fondo, una medesima illusione quella dell'arte e quella che
comunemente a noi tutti viene dai nostri sensi.
Pur non di meno, noi chiamiamo vera quella dei nostri sensi, e finta
quella dell'arte. Tra l'una e l'altra illusione non è però questione di
realtà, bensì di volontà, e solo in quanto la finzione dell'arte è voluta,
voluta non nel senso che sia procacciata con la volontà per un fine
estraneo a sè stessa; ma voluta per sè e per sè amata.,
disinteressatamente; mentre quella dei sensi non sta a noi volerla o
non volerla: si ha, come e in quanto si hanno i sensi. E quella
dunque è libera, e questa no. E l'una finzione è dunque immagine o
forma di sensazioni, mentre l'altra, quella dell'arte, è creazione di
forma.
Il fatto estetico, effettivamente, comincia solo quando una
rappresentazione acquisti in noi per se stessa una volontà, cioè
quando essa in sè e per sè stessa, si voglia, provocando per questo
solo fatto, che si vuole, il movimento (tecnica) atto ad effettuarla fuori
di noi. Se la rappresentazione non ha in sè questa volontà, che è il
movimento stesso dell'immagine, essa è soltanto un fatto psichico
comune; l'immagine non voluta per sè stessa; fatto spirituale-
meccanico, in quanto non sta in noi volerla o non volerla; ma che si
ha in quanto risponde in noi a una sensazione.
Abbiamo tutti, più o meno, una volontà che provoca in noi quei
movimenti atti a creare la nostra, propria vita. Questa creazione, che
ciascuno fa a se stesso della propria vita, ha bisogno anch'essa, in
maggiore o minor grado, di tutte le funzioni e attività dello spirito,
cioè d'intelletto e di fantasia, oltre che di volontà; e chi più ne ha e
più ne mette in opera, riesce a creare a se stesso una più alta e
vasta e forte vita. La differenza tra questa creazione e quella dell'arte
è solo in questo (che fa appunto comunissima l'una e non comune
l'altra): che quella è interessata e questa disinteressata, il che vuol
dire che l'una ha un fine di pratica utilità, l'altra non ha alcun fine che
in sè stessa.; l'una è voluta per qualche cosa; l'altra si vuole per sè
stessa. E una prova di questo si può aver nella frase che ciascuno di
noi suol ripetere ogni qual volta, per disgrazia, contro ogni nostra
aspettativa, il proprio fine pratico, i proprii interessi siano stati
frustrati: «Ho lavorato per amore dell'arte». E il tono con cui si ripete
questa frase ci spiega la ragione per cui la maggioranza degli
uomini, che lavorano per fini di pratica utilità e che non intendono la
volontà disinteressata, suol chiamare matti i poeti veri, quelli cioè in
cui la rappresentazione si vuole per sè stessa senz'altro fine che in
sè medesima, e tale essi la vogliono, quale essa, si vuole. Non
ricorderò qui la domanda del cardinale Ippolito a Messer Lodovico. Il
quale però, per tutta risposta, avrebbe potuto rileggergli quell'ottava
del canto ove si narra del viaggio di Astolfo alla Luna:
Non sì pietoso Enea, nè forte Achille
Fu, com'è fama, nè sì fiero Ettorre;
E ne son stati e mille e mille e mille
Che lor si puon con verità anteporre:
Ma i donati palazzi e le gran ville
Dai discendenti lor, gli ha fatto porre
In questi senza fin sublimi onori
Dall'onorate man degli scrittori...

Dal che si può vedere come anche in un grandissimo poeta un


sentimento almeno in parte non disinteressato potè macchiar l'opera
e mortificarla.
Fortunatamente questo avvenne per una parte soltanto del poema.
In qualche altro punto si può notare che la riflessione più che il
sentimento, muova la rappresentazione; la quale allora perde
l'azione spontanea, d'essere organico e vivente, e acquista un
movimento rigido e quasi meccanico. È là dove il poeta dimostra
d'essersi proposto a freddo il rispetto delle condizioni serie dell'arte,
là cioè dove non le rispetta più istintivamente, ma per intenzione
preconcetta. Citerò per esempio le personificazioni di Melissa e di
Logistilla.
Ma là dove il poeta rispetta istintivamente le condizioni serie
dell'arte, cessa l'ironia? riesce il poeta a perder la coscienza della
irrealità della sua creazione? e come s'immedesima egli con la sua
materia?
Questo è il punto da chiarire e che richiede l'analisi più sottile. È qui
il segreto dello stile dell'Ariosto.

***
Nella lontananza del tempo e dello spazio, il poeta vede innanzi a sè
un mondo meraviglioso che in parte la leggenda, in parte le
capricciose invenzioni dei cantori han costruito attorno a Carlo
Magno. Egli vede l'Imperatore non già come quella cosa oscura del
Pulci, che passeggia per la mastra sala impaurito dei formidabili
eserciti dei Saracini o, più spesso, delle minacciate vendette dei
Paladini per i tradimenti di Gano, che lo mena per il naso a sua
posta: nè lo vede come il Bojardo, Carlone rimbambito, che s'indugia
a parlar con Angelica, affocato in volto e con gli occhi lustri, poichè si
sente toccar l'ugola anche lui. Egli comprende che è da farsa o da
teatrino di marionette un imperatore così fatto. Rida il volgo, ridano i
fanciulli dei fantocci. Il riso è facile quando con burlesca grossolanità
si sconci una figura o si faccia comunque ridicola violenza alla realtà.
Questo non può voler l'Ariosto; e questo lo pone già di gran lunga
sopra ai suoi predecessori, non solo, ma tanto alto forse, che —
quantunque egli poi si sforzi o di dissennarsi o di tirar su fino alla sua
altezza quella materia — essa, per ciò che ha in sè di irriducibile
ormai, gli resta in parte di troppo inferiore. Egli la domina da assoluto
padrone e secondo l'imprevedibile capriccio della sua meravigliosa.,
fantasia creatrice combina e separa, associa e dissocia tutti gli
elementi ch'essa gli fornisce. Con questo giuoco, che maraviglia e
incanta per la sua prodigiosa agilità, egli riesce a salvar sè e la
materia. Dov'egli può, cioè in quel che han di eterno i sentimenti
umani e le umane illusioni, egli s'immedesima tutto, fino a dar la
stessa consistenza della realtà alla sua rappresentazione; dove non
può, dove agli occhi suoi stessi si scopre le irrealità irreparabile di
quel mondo, egli dà invece alla rappresentazione una leggerezza,
quasi di sogno, che si ilara tutta d'una sottilissima ironia diffusa, che
non rompe quasi mai l'incanto nè di questa o di quell'opera di magia
rappresentata, nè quello assai più meraviglioso che opera la magia
del suo stile.
Ecco, ho detto la parola: la magia dello stile. Il poeta ha compreso
che a un solo patto si poteva dar coerenza estetica e verità
fantastica a quel mondo, ove appunto la magia ha tanta parte: a
patto che il poeta diventasse un mago a sua volta, e il suo stile dalla
magia prendesse qualità e virtù. E c'è l'illusione che il poeta crea a
noi, e talvolta anche a sè stesso, immedesimandosi nel giuoco fino
ad abbandonarvisi tutto. Ah, quel giuoco tanto gli par bello, che
bramerebbe crederlo realtà: non è, pur troppo! Tanto che, di tratto in
tratto, il velo sottilissimo si squarcia; attraverso lo squarcio la realtà
vera, del presente, si scopre, e allora l'ironia diffusa si raccoglie d'un
subito e con improvviso scoppio s'appalesa. Questo scoppio però
non stride, non urta mai troppo: si presenta sempre. E oltre alle
illusioni che il poeta crea a noi e a sè stesso, ci son quelle che i
personaggi si creano e quelle che a loro creano i maghi e le fate. È
tutto un giuoco d'illusioni, fantasmagorico. Ma la fantasmagoria non
è tanto nel mondo rappresentato, che ha sovente, ripeto, la
consistenza stessa della realtà; quanto nello stile e nella
rappresentazione del poeta, il quale con meraviglioso accorgimento
ha compreso, che così soltanto, rivaleggiando cioè con la stessa
magia, poteva salvar gli elementi irriducibili della materia e renderli
con tutto il resto coerenti. Ne vogliamo una prova? Il poeta rivaleggia
con la magia d'Atlante, nel canto XII: il mago ha innalzato un
castello, ove i cavalieri si travagliano invano a cercar le loro donne
ch'essi vi credono rapite; tre, Orlando, Ferraù e Sacripante, vi
cercano la finta immagine d'Angelica, che essi credon vera. Ebbene,
il poeta, più mago d'Atlante, fa che Angelica viva e vera entri in quel
castello, Angelica che può rendersi vana come quella vana
immagine creata da Atlante per magia.

Quivi entra, che veder non la può il Mago;


E cerca il tutto, ascosa dal suo anello;
E trova Orlando e Sacripante vago
Di lei cercar invan per quello ostello.
Vede come fingendo la sua immago
Atlante usa gran fraude a questo e a quello.
Chi tor debba di lor molto rivolve
Nel suo pensier, nè ben se ne risolve.
. . . . . . . . . . . . . . .
L'anel trasse di bocca, e di sua faccia
Levò dagli occhi a Sacripante il velo.
Credette a lui sol dimostrarsi, e avvenne
Ch'Orlando e Ferraù le sopravvenne.
. . . . . . . . . . . . . . .
Corser di par tutti alla donna, quando
Nessun incantamento gl'impediva;
Perchè l'anel ch'ella si pose in mano
Fece d'Atlante ogni disegno vano.

È una magia che entra in un'altra. Il poeta si avvale di


quest'elemento, lo fa anzi siffattamente suo, che in un momento
innanzi a gli occhi nostri illusi la realtà diventa magia e la magia
realtà: appena Angelica si scopre, la realtà d'un subito avventa e
crolla l'incanto; sparisce mercè l'anello, ed ecco il castello d'Atlante
assumer quasi consistenza reale innanzi a noi. Che stupenda
finezza, in questo giuoco! È giuoco di magia; ma la magia vera è
quella de lo stile ariostesco.
Che ne volete più di quei poveri cavalieri?

Volgon pel bosco or quinci or quindi in fretta


Quelli scherniti la stupida faccia.

Chi li fa andare incontro a questi scherni e a guai anche peggiori?


Ma l'amore, signori miei, che se non è proprio proprio una pazzia,
tante pur ne fa fare, jeri come oggi, e tante ne farà fare domani e
sempre!

Chi mette il piè su l'amorosa pania,


Cerchi ritrarlo, e non v'inveschi l'ale;
Chè non è in somma Amor se non insania
A giudizio de' savi universale:
E sebben come Orlando ognun non smania,
Suo furor mostra a qualch'altro segnale.
E quale è di pazzia segno più espresso,
Che, per altri voler, perder sè stesso?

Vari gli effetti son; ma la pazzia


È tutt'una però, che li fa uscire.
Gli è come una gran selva, ove la via
Conviene a forza, a chi vi va, fallire.
In questi due ultimi versi il poeta dà una perfetta immagine del suo
poema, che poggia per tanta parte su quest'amore che dissenna.
Fontane, giardini, castelli incantati? Ma sì! Se sono oggi per noi larve
inconsistenti, furono come realtà per le pazzie che l'Amore fece far
jeri, là in quel mondo lontano; ridetene, se vi piace; ma pensate che
altre fallaci immagini crea oggi e creerà domani con l'eterna magia
delle sue illusioni l'Amore, a scherno e a tormento degli uomini. Se
voi ridete di quelli, potreste ugualmente ridere di voi.

Frate, tu vai
L'altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo.

Sotto la favola è la verità. Vedete: il poeta non ha che a gravare un


tantino la mano, perchè la favola gli si muti in allegoria. E la
tentazione è forte, e qua e là egli difatti vi casca; la fantasia però
subito lo risolleva, per fortuna, e lo richiama al giusto grado e al
giusto tono, in cui fin da principio s'era messo: «Dirò d'Orlando,

Che per amor venne in furore e matto


D'uom che sì saggio era stimato prima;
Se da colei che tal quasi m'ha fatto,
Che 'l poco ingegno ad ora ad or mi lima,
Me ne sarà però tanto concesso
Che mi basti a finir quanto ho promesso.

E fin da principio lo stile ha virtù magica. Tutto il primo canto è, nella


rappresentazione, fantasmagorico, corso da lampi, d'apparizioni
fugaci. E questi lampi non sprazzano per abbagliar soltanto i lettori,
ma anche gli attori della scena. Ecco: ad Angelica balza innanzi
Rinaldo; a Ferraù, che cerca l'elmo, l'Argalia; a Rinaldo, Bajardo; a
Sacripante, Angelica; a tutt'e due, Bradamante, e poi il messaggero,
e poi Bajardo di nuovo e poi di nuovo Rinaldo. E questi lampi, dopo il
rapidissimo guizzo, si estinguono comicamente, con la frode
dell'illusione improvvisa. Il poeta esercita, cosciente, questa sua
magia; non dà mai tempo; lascia questo e prende quello; sbalordisce
e sorride dello sbalordimento altrui e de' suoi stessi personaggi.
Non va molto Rinaldo che si vede
Saltare innanzi il suo destrier feroce:
Ferma, Bajardo mio, deh ferma il piede!
Chè l'esser senza te troppo mi nuoce.
Per questo il destrier sordo a lui non riede.
Anzi più se ne va sempre veloce.
Segue Rinaldo, e d'ira si distrugge,
Ma seguitiamo Angelica che fugge.

Figurarsi se Bajardo voleva fermarsi! Il suo padrone è innamorato,


dunque è matto. E

Quel destrier, ch'avea ingegno a meraviglia,

capisce quel che il suo padrone non può capire. Ecco: il senno che
l'Amore toglie a gli uomini è dato dal poeta a una bestia. Nel c. II (s.
19) dice, a mo' d'aggiunta, «il destrier ch'avea intelletto umano».
Umano, sì, ma — intendiamoci — non d'uomo innamorato!
Non giurerei proprio che qui non ci sia una punta di satira. L'ironia
del poeta è una sottilissima sega, che ha tanti denti, e anche quello
della satira, che morde un po' tutti, fino fino, sotto sotto, a cominciar
dal cardinale Ippolito, suo padrone.

Oh gran bontà de' cavalieri antiqui!

Vi par che qui l'ironia consista soltanto nel fatto che Ferraù e
Rinaldo, dopo essersi picchiati a quel modo che sapete, cavalchino
insieme, come se nulla fosse stato? Il Rajna dice che i romanzi
francesi recano in buona fede molti esempi di siffatte magnanime
cortesie, e tre ne reca dal Tristan per concludere: «Questa è la
cortesia e la lealtà dei cavalieri di Brettagna». Benissimo! Ma non già
dei due cavalieri dell'Ariosto, che non dimostrano ombra di
cavalleria. Per intenderlo, bisogna pensare a che cosa avrebbe
potuto rispondere Ferraù alla proposta di Rinaldo di smettere il
duello: «Io non combatto per una preda, io combatto per difendere
una donna che m'invoca ajuto; e se io son riuscito a difenderla, non
ho combattuto invano». Un buon cavaliere antico, veramente nobile,
avrebbe risposto così. Ma tanto Rinaldo quanto Ferraù non vedono
in Angelica che una preda da appropriarsi, e poichè questa è uscita
lor di mano, s'ajutano entrambi a rintracciarla con un criterio molto
positivo e pochissimo cavalleresco. Quella esclamazione dunque
«oh gran bontà dei cavalieri antiqui!» è veramente ironica e suona
irrisione. Tanto è vero, che poco dopo, nel c. II, ripetendosi la
medesima situazione del duello interrotto per la stessa ragione,
Rinaldo lascia Sacripante a piedi:

E dove aspetta il suo Bajardo, passa,


E sopra vi si lancia, e via galoppa;
Nè al cavalier, ch'a piè nel bosco lassa,
Pur dice addio, non che lo 'nviti in groppa.

Ripetete sul serio, se vi riesce, dopo questo:

Oh gran bontà dei cavalieri antiqui!

Il poeta scherza, e con quel povero re di Circassia, «quel d'amor


travagliato Sacripante», lo scherzo del poeta è veramente crudele e
passa la parte. Già, come lo dipinge: «Un ruscello. Parean le
guance, e 'l petto un Mongibello!» Gli pone accanto, benigna, colei
per cui si duole; [42] poi, sotto gli occhi di Angelica, lo fa buttare in
terra miseramente da un cavaliere che passa di corsa; e Angelica
non ha ancor finito di confortarlo con fine ironia, attribuendo cioè, al
solito, la colpa della caduta al cavallo, che gli fa dare il calcio
dell'asino da quel messaggero che sopravviene afflitto e stanco su
un ronzino:

Tu dêi saper che ti levò di sella


L'alto valor d'una gentil donzella.

C'è da morirne! Ma non basta: ecco Rinaldo; Angelica fugge; e il


povero Sacripante, re di Circassia, resta scornato, bastonato e a
piedi.
Ma alla fin fine può consolarsi, che non avvengono soltanto a lui
simili disgrazie. Ad altri ne occorrono anche di peggiori. Ce n'è per
tutti! Il poeta si spassa a rappresentar la frode delle varie illusioni e a
frodar anche i maghi che le frodi ordiscono. È un mondo in balia
dell'amore, della magia, della fortuna; che ne volete? E come
dell'amore le pazzie e della magia gl'inganni, egli rappresenta della
fortuna la mutabilità.
Ferraù, staccatosi al bivio da Rinaldo, gira gira, si ritrova «onde si
tolse», e poichè non spera di ritrovar la donna, si scorda le botte
date e ricevute, la tenzone differita, e si rimette a cercar l'elmo che
gli era caduto nell'acqua.

Or se fortuna (quel che non volesti


Far tu) pone ad effetto il voler mio,
Non ti turbar,

gli grida l'Argalia emerso dalle onde con l'elmo in mano, l'elmo
caduto a Ferraù giusto dove il cadavere dell'Argalia era stato gittato.
Un tratto che a noi non suona comicamente, ma che forse poteva
sonar comico a coloro che avevan dimestichezza col poema e i
personaggi del Bojardo, è nei versi che dipingono l'orrore di Ferraù
all'apparir dell'ombra d'Argalia:

Ogni pelo arricciosse


E scolorosse al Saracino il viso.

Ora Ferraguto era stato raffigurato dal Bojardo.

Tutto ricciuto e ner come carbone.

Gli si poteva arricciare il pelo e scolorir il viso?


L'altro contendente, Rinaldo, spedito da Carlo in Bretagna per ajuti e
distolto così d'andar cercando Angelica.

Che gli avea il cor di mezzo il petto tolto,


arrivato a Calesse, lo stesso giorno,

Contro la volontà d'ogni nocchiero,


Pel gran desir che di tornare avea,
Entrò nel mar ch'era turbato e fiero;

ma, sissignori, spinto dal vento nella Scozia, si scorda di Angelica, si


scorda di Carlo e della gran fretta che avea di ritornare, e s'affonda
solo nella gran Selva Caledonia, facendo ora una, ora un'altra via.

Dove più aver strane avventure pensa.

E capitato a una badia, prima mangia, poi domanda all'abbate come


si possano ritrovare queste avventure per dimostrarsi valente. E «i
monachi e l'Abbate»:

Risposongli, ch'errando in quelli boschi,


Trovar potria strane avventure e molte:
Ma come i luoghi, i fati ancor son foschi;
Chè non se n'ha notizia le più volte.
Cerca, diceano, andar dove conoschi
Che l'opre tue non restino sepolte,
Acciò dietro al periglio e alla fatica
Segua la fama, e il debito ne dica.

Il Rajna qua si compiace nel notare che «mai un barone del ciclo di
Carlo Magno fu convertito così espressamente in Cavaliere Errante
come in questo caso», ma non può non avvertire che «le parole
degli ospiti dànno tuttavia a conoscere come lo spirito della
cavalleria romanzesca sia ormai svanito» poichè sempre per i
principali tra gli Erranti la modestia è uno dei primissimi doveri, tal
che nulla è tanto difficile, quanto indurli a confessarsi autori di
qualche opera gloriosa, e anche quando essi si provano dinanzi a
migliaia di spettatori, procurano di celarsi con ignote divise;
cavalcano quasi sempre sconosciuti, mutando spesso di insegne, e
nascondendosi molte volte anche a gli amici più cari e più fidi.
E allora? Non dobbiamo arguire che qui ci sia un'intenzione satirica,
e che anzi questa intenzione sia stata così forte nel poeta, da farlo
venir meno una volta tanto alle condizioni serie dell'arte, che pure
egli più di tutti suol rispettare? L'incoerenza estetica, di fatti, nella
condotta di Rinaldo è lampantissima e inescusabile, il personaggio
non apparisce libero, ma soggetto all'intenzione dell'autore.
Ho voluto notar questo perchè mi sembra che troppo si tenda, da
qualche tempo in qua, a sforzare i termini dell'immedesimazione del
poeta con la sua materia. Certo è difficilissimo vederli netti e precisi,
questi termini. Ma non li vede affatto, secondo me, o ha ben poco
chiaro il lume del discorso, chi, riconoscendo — com'è giusto —
l'immedesimazione del poeta col suo mondo, nega l'ironia o in gran
parte la esclude o gli dà poca importanza. Bisogna riconoscere l'una
cosa e l'altra — l'immedesimazione e l'ironia — poichè nell'accordo,
se non sempre perfetto quasi sempre però raggiunto, d'entrambe
queste cose a prima vista contrarie, sta, ripeto, il segreto dello stile
ariostesco.
L'immedesimazione del poeta col suo mondo, consiste in questo,
che egli con la fantasia potente vede, digrossato, finito anzi in ogni
contorno, preciso, limpido, ordinato e vivo, quel mondo che altri
aveva messo insieme grossolanamente e aveva popolato di esseri,
che, o per la loro goffaggine o per la loro sciocchezza o per la
puerile loro incoerenza, ecc. non poteano in alcun modo esser presi
sul serio neppure dai loro stessi autori; e poi di maghi e di fate e di
mostri che, naturalmente, ne accrescevano la irrealità e la
inverosimiglianza. Il poeta toglie questi esseri dal loro stato di
fantocci o di fantasmi, dà loro consistenza e coerenza, vita e
carattere. Obbedisce fin qui alla propria fantasia, istintivamente. Poi
subentra la speculazione. C'è, ho detto, un elemento irriducibile in
quel modo, un elemento cioè che il poeta non riesce a oggettivar
seriamente, senza mostrar coscienza della irrealità di esso. Con quel
meraviglioso accorgimento, di cui ho fatto parola più su, egli però
s'industria di renderlo coerente con tutto il resto. Ma non sempre in
questo giuoco la fantasia lo assiste. E allora egli s'ajuta con la
speculazione: la vita perde il movimento spontaneo, diventa
macchina, allegoria. È uno sforzo. Il poeta intende di dare una certa
consistenza a quelle costruzioni fantastiche, di cui sente la irrealità
irriducibile, per mezzo di una — dirò così — impalcatura morale.
Sforzo vano e malinteso, perchè il solo fatto di dar senso allegorico a
una rappresentazione dà a veder chiaramente che già si tien questa
in conto di favola che non ha alcuna verità nè fantastica nè effettiva,
ed è fatta per la dimostrazione di una verità morale. C'è da giurare
che al poeta non prema affatto la dimostrazione d'alcuna verità
morale, e che quelle allegorie siano nel poema suggerite dalla
riflessione, per rimedio. Quello era il mondo; quelli, gli elementi,
ch'esso offriva. L'elemento della magia, del meraviglioso
cavalleresco non si poteva in alcun modo eliminare senza snaturare
al tutto quel mondo. E allora il poeta o cerca di ridurlo a simbolo, o
senz'altro lo accoglie, ma — naturalmente — con un sentimento
ironico.
Un poeta può, non credendo alla realtà della propria creazione,
rappresentarla come se ci credesse, cioè non mostrare affatto
coscienza della irrealità di essa; può rappresentar come vero un suo
mondo affatto fantastico, di sogno, regolato da leggi sue proprie, e,
secondo queste leggi, perfettamente logico o coerente. Quando un
poeta si mette in codeste condizioni, il critico non deve più vedere se
quel che il poeta gli ha posto innanzi è vero o è sogno, ma se come
sogno è vero; poichè il poeta non ha voluto rappresentare una realtà
effettiva, ma un sogno che avesse apparenza di realtà, s'intende di
sogno, fantastica, non effettiva.
Ora questo non è il caso dell'Ariosto. In più d'un punto, come
abbiamo già notato, egli mostra apertamente coscienza della irrealtà
della sua creazione, la mostra anche dove all'elemento meraviglioso
di quel mondo dà valore morale e consistenza logica, non fantastica.
Il poeta non vuol creare e rappresentare come vero un sogno; non è
preoccupato soltanto della verità fantastica del suo mondo, è
preoccupato anche della realtà effettiva; non vuole che quel suo
mondo sia popolato di larve o di fantocci, ma di uomini vivi e veri,
mossi e agitati dalle nostre stesse passioni; il poeta insomma vede,
non le condizioni di quel passato leggendario divenute realtà
fantastica nella sua visione, ma le ragioni del presente, trasportate e
investite in quel mondo lontano. Ora naturalmente, allorchè esse vi
trovano elementi capaci di accoglierle, la realtà fantastica si salva;
ma allorchè non li trovano, per la irriducibilità stessa di quegli
elementi, l'ironia scoppia, inevitabile, e quella realtà si frange.
Quali sono queste ragioni del presente? Sono le ragioni del buon
senso, di cui il poeta è dotato; sono le ragioni della vita entro i limiti
della possibilità naturale: limiti che in parte la leggenda, in gran parte
il capriccioso arbitrio di rozzi e volgari cantatori aveva balordamente,
goffamente o grottescamente violati; sono le ragioni del tempo, in
fine, in cui il poeta vive.
Abbiamo veduto Ferraù e Rinaldo a cavallo insieme, guidati —
com'ho detto — da un criterio molto positivo e pochissimo
cavalleresco; abbiamo ascoltato il consiglio dell'abbate a Rinaldo in
cerca d'avventure; tant'altri esempii potremmo recare; ma basterà
senz'altro quello de la volata di Ruggero su l'ippogrifo. Anche
quando il poeta con la magia dello stile riesce a dar consistenza di
realtà a quell'elemento meraviglioso, levandosi poi a un volo troppo
alto in questa realtà fantastica, tutt'a un tratto, quasi temesse
d'averne lui stesso o chi l'ascolta il capogiro, precipita a posarsi su la
realtà effettiva, rompendo così l'incanto della fantastica. Ruggero
vola sublime su l'ippogrifo; ma anche dalla sublimità di quel volo il
poeta avvista in terra le ragioni del presente, che gli gridano: —
Cala! cala!

Non crediate, Signor, che però stia


Per sì lungo cammin sempre su l'ale;
Ogni sera all'albergo se ne gìa
Schivando a suo poter d'alloggiar male.

E quest'ippogrifo è vero? proprio vero? Lo rappresenta cioè il poeta


senza mostrare affatto coscienza dell'irrealità di esso? Lo vede la
prima volta calar dal castello d'Atlante sui Pirenei, con in groppa il
mago, e dice che — sì — il castello, come castello, non era vero, era
finto, opera di magia; ma l'ippogrifo no, l'ippogrifo era vero e
naturale. Proprio vero? proprio naturale? Ma sì, generato da un grifo
e da una giumenta. Sono animali che vengono nei monti Rifei.
— Ah sì? proprio proprio? e come va che non se ne vedono mai? —
Oh Dio; ne vengono, ma rari... — Quest'attenuazione, prettamente
ironica, mi fa pensare a quella farsa napoletana, ove un impostore si
lagna delle sue sciagure e, tra le altre, di quella del padre, che,
prima di morire, penò tanto, ridotto a vivere, poveretto, non so per
quanti mesi senza fegato: all'osservazione, che senza fegato non si
può vivere, concede che sì, ne aveva, ma poco, ecco! Così
gl'ippogrifi; ne vengono; ma rari! Proprio da impostore, il poeta non
vuol passare. Ha l'aria di dirvi: — Signori miei, di codeste fole io non
posso farne a meno; bisogna pure che c'entrino, nel mio poema; e
bisogna che io, fin dove posso, mostri di crederci. — Ecco qua la
gran muraglia che cinge la città d'Alcina:

... Par che la sua altezza a ciel s'aggiunga


E d'oro sia dall'alta cima a terra.

Ma come? Una muraglia di tal fatta, tutta d'oro?

Alcun dal mio parer qui si dilunga


E dice ch'ella è alchimia; e forse ch'erra,
Ed anco forse meglio di me intende:
A me par oro, poichè sì risplende.

Come ve lo deve dir meglio il poeta? Sa come voi che «non è


tutt'oro, quel che luce»; ma a lui oro deve parere, «poichè sì
risplende...». Per intonarsi quanto più può con quel mondo, fin da
principio s'è dichiarato matto come il suo eroe. È tutto un giuoco di
continui accomodamenti per stabilir l'accordo tra sè e la materia, tra
le condizioni inverosimili di quel passato leggendario e le ragioni del
presente. Dice:

Chi va lontan dalla sua patria, vede


Cose da quel che già credea, lontane;
Che narrandole poi, non se gli crede,
E stimato bugiardo ne rimane;
Chè 'l sciocco vulgo non gli vuol dar fede
Se non le vede e tocca chiare e piane.
Per questo io so che l'inesperienza
Farà al mio Canto dar poca credenza.

Poca o molta ch'io ci abbia non bisogna


Ch'io ponga mente al vulgo sciocco e ignaro!
A voi so ben che non parrà menzogna
Che 'l lume del discorso avete chiaro.

Qui «aver chiaro il lume del discorso» significa «saper leggere sotto
il velame dei versi». Siamo nel canto d'Alcina: e il poeta ci
suggerisce: «S'io dico Alcina, s'io dico Melissa, s'io dico Erifilla, s'io
dico l'iniqua frotta, o Logistilla, Andronica o Fronesia o Dicilla o
Sofrosina, voi intendete bene a che cosa io voglia alludere». È un
altro espediente (non felice) per stabilir l'accordo, ma che pure,
come tutti gli altri, scopre l'ironia del poeta, cioè la coscienza della
irrealità della sua creazione. Dove l'accordo non si può stabilire,
quest'ironia però non scoppia mai stridula o stonata, appunto perchè
l'accordo è sempre nell'intenzione del poeta, e quest'intenzione
d'accordo è per sè stessa ironica.
L'ironia è nella visione che il poeta ha, non solo di quel mondo
fantastico, ma della vita stessa e degli uomini. Tutto è favola e tutto è
vero, poichè è fatale che noi crediamo vere le vane parvenze che
spirano dalle nostre illusioni e dalle passioni nostre; illudersi può
esser bello, ma del troppo immaginare si piange poi sempre la frode:
e questa frode ci appare comica o tragica secondo il grado della
partecipazione nostra ai casi di chi la subisce, secondo l'interesse o
la simpatia che quella passione o quell'illusione ci suscitano,
secondo gli effetti che quella frode produce. Così avviene che noi
vediamo il sentimento ironico del poeta mostrarsi anche sotto un
altro aspetto nel poema, non più spiccato ed evidente, ma attraverso
la rappresentazione stessa, in cui è riuscito a trasfondersi per modo
che essa così si senta e così si voglia. Il sentimento ironico, in
somma, oggettivato, spira dalla rappresentazione stessa anche là
dove il poeta non mostra apertamente coscienza della irrealità di
essa.
Ecco qua Bradamante in cerca del suo Ruggiero: per salvarlo, ha
corso rischio di perire per mano del maganzese Pinabello; il poeta le
fa soffrire insieme coi lettori il supplizio di sentirsi predire e di vedersi
mostrare a dito dalla maga Melissa tutti gl'illustri suoi discendenti; e
poi va, va per monti inaccessibili, sale balze, traversa torrenti, arriva
al mare, trova l'albergo ov'è Brunello (e qui non dice se ella vi
mangia); riprende la via

Di monte in monte e d'uno in altro bosco,

e si riduce fin sui Pirenei; s'impadronisce de l'anello; lotta con


Atlante; riesce a romper l'incanto; scioglie in fumo il castello del
mago; e, sissignori, dopo aver corso tanto, dopo essersi tanto
affannata e travagliata, si vede portar via dall'ippogrifo il suo
Ruggero liberato. Non le resta che di ricevere le congratulazioni di
coloro ch'ella non s'era curata di liberare! Ma neanche queste,
perchè:

Le donne e i cavalier si trovâr fuora


Delle superbe stanze alla campagna
E furon di lor molte a cui ne dolse;
Che tal franchezza un gran piacer lor tolse.

L'Ariosto non aggiunge altro. Un vero umorista non si sarebbe


lasciata sfuggire la stupenda occasione di descrivere gli effetti nelle
donne e nei cavalieri dell'improvviso sciogliersi dell'incanto, del
ritrovarsi alla campagna, e il dolore del perduto bene della schiavitù
per una libertà che dal bel sogno li faceva piombare nella realtà
nuda e cruda. La descrizione manca affatto. Il poeta si compiace in
un'altra descrizione, invece, come già Atlante si compiaceva di
scherzare coi cavalieri che venivano a sfidarlo; voglio dire nella
descrizione comica di tutti quei liberati, che vorrebbero impadronirsi
dell'ippogrifo, il quale li mena per la campagna:
Come fa la cornacchia in secca arena
Che seco il cane or qua or là si mena.

Perchè manca quell'altra descrizione? Ma perchè il poeta si è posto


fin da principio, rispetto alla sua materia, in condizioni del tutto
opposte a quelle in cui si sarebbe messo un umorista. Egli schiva il
contrasto e cerca l'accordo tra le ragioni del presente e le condizioni
favolose di quel mondo passato: lo ottiene sì, ironicamente, perchè,
com'ho detto, è per sè stessa ironica quell'intenzione d'accordo; ma
l'effetto è che quelle condizioni non si affermano come realtà nella
rappresentazione, si sciolgono, per dirla col De Sanctis, nell'ironia, la
quale, distruggendo il contrasto, non può più drammatizzarsi
comicamente, ma resta comica, senza dramma.
Si affermano invece le ragioni del presente trasportate e investite
negli elementi di quel mondo lontano capaci d'accogliere, e allora
possiamo anche avere il dramma, ma seriamente e finanche
tragicamente rappresentato: Ginevra, Olimpia, la pazzia d'Orlando. I
due elementi — comico e tragico — non si fondono mai.
Si fonderanno in un'opera, nella quale il poeta, ben lungi dal mostrar
coscienza della irrealità di quel mondo fantastico; ben lungi dal
cercar con esso l'accordo, che di necessità non è possibile se non
ironicamente, palesata in tanti modi la coscienza di quella irrealità;
ben lungi dal trasportare in quel mondo fantastico le ragione del
presente per investirne gli elementi capaci d'accoglierle; darà a
questo mondo fantastico del passato consistenza di persona viva,
corpo, e lo chiamerà Don Quijote, e gli porrà in mente e gli darà per
anima tutte quelle fole e lo porrà in contrasto, in urto continuo e
doloroso col presente. Doloroso, perchè il poeta sentirà viva e vera
entro di sè questa sua creatura e soffrirà con essa dei contrasti e
degli urti.
A chi cerca contatti e somiglianze tra l'Ariosto e il Cervantes, basterà
semplicemente pôr bene in chiaro in due parole le condizioni in cui
fin da principio il Cervantes ha messo il suo eroe e quelle in cui s'è
messo l'Ariosto. Don Quijote non finge di credere, come l'Ariosto, a
quel mondo meraviglioso delle leggende cavalleresche: ci crede sul
serio; lo porta, lo ha in sè quel mondo, che è la sua realtà, la sua
ragion d'essere. La realtà che porta e sente in sè l'Ariosto è ben
altra; e con questa realtà in sè, egli è come sperduto nella leggenda.
Don Quijote, invece, che ha in sè la leggenda, è come sperduto nella
realtà. Tanto è vero che, per non vaneggiar del tutto, per ritrovarsi in
qualche modo, così sperduti come sono, l'uno si mette a cercar la
realtà nella leggenda; l'altro, la leggenda nella realtà.
Come si vede, son due condizioni al tutto opposte.
Sì: vi dice Don Quijote, i molini a vento son molini a vento, ma sono
anche giganti: non io, Don Quijote, ho scambiato per giganti i molini
a vento; ma il mago Freston ha cangiato in molini a vento i giganti.
Ecco la leggenda nella realtà evidente.
Sì: vi dice l'Ariosto, Ruggero vola su l'ippogrifo: il mago Freston, cioè
la stramba immaginazione dei miei antecessori, ha cacciato dentro a
questo mondo anche bestie siffatte, e bisogna ch'io ci faccia volar su
il mio Ruggero: però vi dico che ogni sera egli se ne va all'albergo e
schiva a suo potere d'alloggiar male.
Ecco nella leggenda evidente la realtà.
Ma intanto, altro è fingere di credere, altro è credere sul serio. Quella
finzione, per sè stessa ironica, può condurre a un accordo con la
leggenda, la quale, o si scioglie facilmente nell'ironia, come abbiamo
veduto, o con un procedimento inverso a quello fantastico, cioè con
una impalcatura logica, si lascia ridurre a parvenza di realtà. La
realtà vera, invece, se per un momento si lascia alterare in forme
inverosimili dalla contemplazione fantastica d'un maniaco, resiste e
rompe il naso, se questo maniaco non si contenta più di
contemplarla a suo modo da lontano, ma viene a darvi di cozzo.
Altro è abbattersi a un castello finto, che si lascia a un tratto
sciogliere in fumo, altro a un molino a vento vero, che non si lascia
atterrare come un gigante immaginario.
— Mire vuestra merced, grida Sancho al suo padrone, que aquellos
que allì se parecen, no son gigantes, sino molinos de viento, y lo
que en ellos parecen brazos son las aspas, que volteadas del viento
hacen andar la piedra del molino.
Ma Don Quijote volge uno sguardo compassionevole al suo panciuto
scudiero, e grida ai molini:
— Pues aunque moveis mas brazos que los del gigante Briareo, me
lo habeis de pagar.
La paga lui, ohimè. E noi ridiamo. Ma il riso che qua scoppia per
quest'urto con la realtà è ben diverso di quello che nasce là per
l'accordo che il poeta cerca con quel mondo fantastico per mezzo
dell'ironia, che nega appunto la realtà di quel mondo. L'uno è il riso
dell'ironia, l'altro il riso dell'umorismo.
Allorchè Orlando urta anche lui contro la realtà e smarrisce del tutto
il senno, getta via le armi, si smaschera, si spoglia d'ogni apparato
leggendario, e precipita, uomo nudo, nella realtà. Scoppia la
tragedia. Nessuno può ridere del suo aspetto e de' suoi atti; quanto
vi può esser di comico in essi è superato dal tragico del suo furore.
Don Quijote è matto anche lui; ma è un matto che non si spoglia; è
un matto anzi che si veste, si maschera di quell'apparato
leggendario e, così mascherato, muove con la massima serietà
verso le sue ridicole avventure.
Quella nudità e questa mascheratura sono i segni più manifesti della
loro follia. Quella, nella sua tragicità, ha del comico; questa ha del
tragico nella sua comicità. Noi però non ridiamo dei furori di quel
nudo; ridiamo delle prodezze di questo mascherato, ma pur
sentiamo che quanto vi è di tragico in lui non è del tutto annientato
dal comico della sua mascheratura, così come il comico di quella
nudità è annientato dal tragico della furibonda passione. Sentiamo
insomma che qui il comico è anche superato, non però dal tragico,
ma attraverso il comico stesso. [43] Noi commiseriamo ridendo, o
ridiamo commiserando.
Come è riuscito il poeta a ottenere questo effetto?
***
Per conto mio, non so proprio capacitarmi che l'ingegnoso
gentiluomo Don Quijote sia nato en un lugar de la Mancha, e non
piuttosto in Alcalà de Henáres nell'anno 1547. Non so capacitarmi
che la famosa battaglia di Lepanto, che doveva, come tante
magnanime imprese della cavalleria, strepitosamente apparecchiate,
cader nel vuoto, così che l'arguto Gran Visir di Selim potè dire ai
cristiani: — «Noi vi abbiamo tagliato un braccio prendendovi l'isola di
Cipro; ma voi che ci avete fatto, distruggendoci tante navi subito
ricostruite? La barba, che ci è rinata il giorno dopo!» — non so
capacitarmi, dicevo, che la famosa battaglia di Lepanto, di cui i
confederati cristiani non seppero trarre alcun profitto, non sia
qualcosa come la espantable y jamas imaginada aventura de los
molinos de viento.
— Questa è, — dice Don Quijote al suo fido scudiero, — questa è,
Sancho, buona guerra, e gran servizio a Dio toglier tanto mal seme
dalla faccia della terra!
Non vedeva dunque il turbante turco Don Quijote in capo a quei
giganti, che al buon Sancho parevano molini a vento?
Forse erano, per la Spagna.
L'isola di Cipro poteva premere ai signori veneziani, una guerra
contro i Turchi poteva premere a Pio V, fiero papa domenicano, nelle
cui vecchie vene fremeva ancor saldo il sangue della giovinezza. Ma
a que' bei dì di primavera, quando il Torres giunse in Ispagna, inviato
dal Papa a patrocinar la causa de' Veneziani, Filippo II moveva
verso i festeggiamenti sontuosi di Cordova e di Siviglia: molini a
vento, le navi del Gran Visir!
Non per Don Quijote, però: dico per il Don Quijote, non della
Mancha, ma di Alcalà. Eran giganti veri per lui, e con che cuore di
gigante mosse incontro a loro.
Gli avvenne male, ahimè! Ma all'evidenza, come ad alcun nemico,
come alla sorte ingrata, egli non volle arrendersi mai! E disse allora
che le cose della guerra van soggette più delle altre a continui
mutamenti: pensò, e gli parve la verità, che il tristo incantatore suo
nemico, il mago Freston, colui che gli aveva tolto i libri e la casa,
aveva cangiato i giganti in molini per togliergli anche il vanto della
vittoria.
Questo soltanto? Anche una mano gli tolse, il tristo mago. Una
mano, e poi la libertà.
Molti han voluto cercar la ragione per cui Miguel Cervantes de
Saavedra, prode soldato, reduce di Lepanto e di Terceira, piuttosto
che cantare epicamente, come alla sua natura eroica sarebbe
meglio convenuto, le gesta del Cid o i trionfi di Carlo V, o la stessa
giornata di Lepanto o la spedizione delle Azzorre, potè concepire un
tipo come il Cavaliere dalla Trista Figura e comporre un libro come il
Don Quijote. E si è voluto finanche supporre che il Cervantes
creasse il suo eroe per la stessa ragione per cui più tardi il nostro
buon Tassoni il suo Conte di Culagna. Qualcuno, è vero, si è spinto
fino a dire che la vera ragione del lavoro sta nel contrasto, costante
in noi, fra le tendenze poetiche e quelle prosaiche della nostra
natura, fra le illusioni della generosità e dell'eroismo e le dure
esperienze della realtà. Ma questa che, se mai, vorrebbe essere una
spiegazione astratta del libro, non ci dà la ragione per cui fu
composto.
Scartate come inammissibili le vedute del Sismondi e del Bouterwek,
tutti, o più o meno, si sono attenuti a ciò che lo stesso Cervantes
dichiara nel prologo della prima parte del suo capolavoro e nella
chiusa del secondo volume: che il libro cioè non ha altro fine che
quello d'arrestare e di distruggere l'importanza che hanno nel mondo
e presso il volgo i libri di cavalleria, e che il desiderio dell'autore altro
non è stato che quello di abbandonare all'esecrazione degli uomini
le false e stravaganti storie della cavalleria, le quali, colpite a morte
da quella del suo vero Don Quijote, non camminano più se non
traballando e hanno indubbiamente a cadere del tutto.
Ora noi ci guarderemo bene dal contraddire allo stesso autore; tanto
più che è noto a tutti qual potere avessero a quei dì in Ispagna i libri
di cavalleria e come il gusto per siffatta letteratura avesse assunto il
grado della follia. Ci avvarremo anzi anche noi di queste parole e ci
serviremo dell'autore stesso e della stessa storia della sua vita per
dimostrare la vera ragione del libro e quella, più profonda,
dell'umorismo di esso.
Come nasce al Cervantes l'idea di coglier vivo e vero nel suo paese
e nel tempo suo, anzichè lontano, in Francia, al tempo di
Carlomagno, l'eroe da celebrare con quell'intento espresso nelle
parole del prologo? Quando e dove gli nasce questa idea e perchè?
Non è senza ragione il favore straordinario per la letteratura epica e
cavalleresca in quel tempo: è l'incubo del secolo del poeta la lotta fra
Cristianità e Islamismo. E il poeta, fin dall'infanzia anche lui sotto il
fascino dello spirito cavalleresco, povero, ma altero discendente
d'una nobile famiglia da più secoli devota alla monarchia e alle armi,
fu per tutta la vita uno strenuo difensore della sua fede. Non aveva
dunque bisogno d'andarlo a cercar lontano, nella leggenda, l'eroe,
cavaliere della fede e della giustizia: lo aveva presente, in sè. E
quest'eroe combatte a Lepanto; quest'eroe tien testa per cinque
anni, schiavo in Algeri, ad Hassan, il feroce re berbero; quest'eroe
combatte in tre altre campagne per il suo re contro a Francesi e
Inglesi.
Come mai, tutt'a un tratto, gli si mutano in molini a vento queste
campagne, e l'elmo che ha in testa in un vil piatto da barbiere?
Ha avuto molta fortuna una considerazione del Sainte-Beuve, che
cioè nei capolavori del genio umano viva nascosta una plusvalenza
futura, la quale si svolge di per sè sola, indipendentemente dagli
autori medesimi, come dal germe si svolgono il fiore ed il frutto
senza che il giardiniere abbia fatto altro se non avere zappato bene,
rastrellato, innaffiato il terreno, e dato ad esso tutte quelle cure e
conferito quegli elementi che meglio valessero a fecondarlo. Di
questa considerazione avrebbero potuto farsi forti tutti coloro che nel
medio evo scoprivano non so che allegorie nei poeti greci e latini.
Era anche questo un modo di sciogliere in rapporti logici le creazioni
della fantasia. Certo, quando un poeta riesce veramente a dar vita a
una sua creatura, questa vive indipendentemente dal suo autore,
tanto che noi possiamo immaginarla in altre situazioni in cui l'autore
non pensò di collocarla, e vederla agire secondo le intime leggi della
sua propria vita, leggi che neanche l'autore avrebbe potuto violare;
certo, questa creatura, in cui il poeta riuscì a raccogliere
instintivamente, ad assommare e a far vivere tanti particolari
caratteristici e tanti elementi sparsi qua e là, può divenir poi quel che
suol dirsi un tipo, ciò che non era nell'intenzione dell'autore nell'atto
della creazione.
Ma si può dir questo veramente del Don Quijote del Cervantes? Si
può dire e sostenere sul serio che l'intenzione del poeta nel
comporre il suo libro era solamente quella di toglier con l'arma del
ridicolo ogni autorità e prestigio che avevan nel mondo e presso il
volgo i libri di cavalleria, a fine di distruggerne i mali effetti, e che il
poeta non si sognò mai di porre in quel suo capolavoro tutto quello
che ci vediamo noi?
Chi è Don Quijote, e perchè è ritenuto pazzo?
Egli in fondo non ha — e tutti lo riconoscono — che una sola e santa
aspirazione: la giustizia. Vuol proteggere i deboli e atterrare i
prepotenti, recar rimedio a gli oltraggi della sorte, far vendetta delle
violenze della malvagità. Quanto più bella e più nobile sarebbe la
vita, più giusto il mondo, se i propositi dell'ingegnoso gentiluomo
potessero sortire il loro effetto! Don Quijote è mite, di squisiti
sentimenti, prodigo e non curante di sè, tutto per gli altri. E come
parla bene! Quanta franchezza e quanta generosità in tutto ciò che
dice! Egli considera il sacrificio come un dovere, e tutti i suoi atti,
almeno nelle intenzioni, son meritevoli d'encomio e di gratitudine.
E allora la satira dov'è? Noi tutti amiamo questo virtuoso cavaliere; e
le sue disgrazie se da un canto ci fanno ridere, dall'altro ci
commuovono profondamente.
Se il Cervantes voleva far dunque strazio dei libri di cavalleria, per i
mali effetti che essi producevano negli animi de' suoi contemporanei,
l'esempio ch'egli reca con Don Quijote non è calzante. L'effetto che
quei libri producono in Don Quijote non è disastroso se non per lui,
per il povero Hidalgo. Ed è così disastroso, solo perchè l'idealità
cavalleresca non poteva più accordarsi con la realtà dei nuovi tempi.
Orbene, questo appunto, a sue spese, aveva imparato don Miguel
Cervantes de Saavedra. Com'era stato egli rimeritato del suo
eroismo, delle due archibugiate e della perdita della mano nella
battaglia di Lepanto, della schiavitù sofferta per cinque anni in Algeri,
del valore dimostrato nell'assalto di Terceira, della nobiltà dell'animo,
della grandezza dell'ingegno, della modestia paziente? che sorte
avevano avuto i sogni generosi, che lo avevan tratto a combattere
sui campi di battaglia e a scrivere pagine immortali? che sorte le
illusioni luminose? S'era armato cavaliere come il suo Don Quijote,
aveva combattuto, affrontando nemici e rischi d'ogni sorta per cause
giuste e sante, s'era nutrito sempre delle più alte e nobili idealità, e
qual compenso ne aveva avuto? Dopo aver miseramente stentato la
vita in impieghi indegni di lui; prima scomunicato, da commissario di
proviande militari in Andalusia; poi, da esattore, truffato, non va forse
a finire in prigione? E dov'è questa prigione? Ma lì, proprio lì nella
Mancha! In un'oscura e rovinosa carcere della Mancha, nasce il Don
Quijote.
Ma era già nato prima il vero Don Quijote: era nato in Alcalà de
Henàres nel 1547. Non s'era ancora riconosciuto, non s'era veduto
ancor bene: aveva creduto di combattere contro i giganti e di avere
in capo l'elmo di Mambrino. Lì, nell'oscura carcere della Mancha, egli
si riconosce, egli si vede finalmente; si accorge che i giganti eran
molini a vento e l'elmo di Mambrino un vil piatto da barbiere. Si vede,
e ride di sè stesso. Ridono tutti i suoi dolori. Ah, folle! folle! folle! Via,
al rogo, tutti i libri di cavalleria!
Altro che plusvalenza futura! Leggete nello stesso prologo alla prima
parte ciò che il Cervantes dice all'ozioso lettore: «Io non ho potuto
contravvenire all'ordine naturale che vuole che ogni cosa generi ciò
che le somiglia. E così, che cosa poteva mai generare lo sterile e
mal coltivato ingegno mio, se non la storia d'un figlio rinsecchito,
ingiallito e capriccioso, pieno di pensieri varii non mai finora da alcun
altro immaginati; generato com'ei fu in una carcere, dove ogni
angustia siede ed ha stanza ogni tristo umore?».
Ma come si spiegherebbe altrimenti la profonda amarezza che è
come l'ombra seguace d'ogni passo, d'ogni atto ridicolo, d'ogni folle
impresa di quel povero gentiluomo della Mancha? È il sentimento di
pena che ispira l'immagine stessa nell'autore, quando, materiata
com'è del dolore di lui, si vuole ridicola. E si vuole così, perchè la
riflessione, frutto d'amarissima esperienza, ha suggerito all'autore il
sentimento del contrario, per cui riconosce il suo torto e vuol punirsi
con la derisione che gli altri faranno di lui.
Perchè Cervantes non cantò il Cid Campeador? Ma chi sa se
nell'oscura e rovinosa carcere l'immagine di quest'eroe non gli
s'affacciò veramente, a destargli un'angosciosa invidia!
Tra Don Quijote, che nel suo tempo volle vivere come, non già nel
loro, ma fuori del tempo e fuori del mondo, nella leggenda o nel
sogno dei poeti avevano vissuto i cavalieri erranti, e il Cid
Campeador che, ajutando il tempo, potè facilmente far leggenda
della sua storia, non avvenne in quella carcere, alla presenza del
poeta, un dialogo?
Presso le altre genti il romanzo cavalleresco aveva creato a sè
stesso personaggi fittizi, o meglio, il romanzo cavalleresco era sorto
dalla leggenda che si era formata intorno ai cavalieri. Ora la
leggenda che fa? Accresce, trasforma, idealizza, astrae dalla realtà
comune, dalla materialità della vita, da tutte quelle vicende ordinarie,
che creano appunto le maggiori difficoltà nell'esistenza. Perchè un
personaggio non più fittizio, ma un uomo che prenda a modello le
smisurate immagini ideali messe su dall'immaginazione collettiva o
dalla fantasia d'un poeta, riesca a riempir di sè queste grandiose
maschere leggendarie, ci vuole non solo una grandezza d'animo
straordinaria, ma anche il tempo che ajuti. Questo avvenne al Cid
Campeador.
Ma Don Quijote? Coraggio a tutta prova, animo nobilissimo, fiamma
di fede; ma quel coraggio non gli frutta che volgari bastonate; quella
nobiltà d'animo è una follia; quella fiamma di fede è un misero
stoppaccio ch'egli si ostina a tenere acceso, povero pallone mal fatto
e rappezzato, che non riesce a pigliar vento, che sogna di lanciarsi a
combattere con le nuvole, nelle quali vede giganti e mostri, e va
intanto terra terra, incespicando in tutti gli sterpi e gli stecchi e gli
spuntoni, che ne fanno straziò, miseramente.
VI.
Umoristi italiani

Non è mia intenzione tracciare, neppure per sommi capi, la storia


dell'umorismo presso le genti latine e segnatamente in Italia. Ho
voluto soltanto, in questa prima parte del mio lavoro, oppormi a
quanti han voluto sostenere che esso sia un fenomeno
esclusivamente moderno e quasi una prerogativa delle genti anglo-
germaniche, in base a certi preconcetti, a certe divisioni e
considerazioni, arbitrarie le une, sommarie le altre, come mi sembra
di aver dimostrato.
La discussione intorno a queste divisioni arbitrarie e considerazioni
sommarie, se forse mi ha fatto ritardare alquanto il cammino, che mi
ero proposto più spedito, trattenendomi a osservar da presso certi
particolari aspetti, certe particolari condizioni nella storia della nostra
letteratura; tuttavia non mi ha disviato mai dall'argomento principale,
che del resto vuol essere trattato con sottile penetrazione e minuta
analisi. Vi ho girato attorno, ma per circuirlo sempre più e penetrarlo
meglio da ogni parte.
A qualcuno che forse avrà creduto di trovare una contradizione tra il
mio assunto e gli esempii finora recati di scrittori italiani, nei quali
non ho riconosciuto la nota del vero umorismo, ricorderò che io ho
parlato in principio di due maniere d'intenderlo, e ho detto che il vero
nodo della questione è appunto qui: cioè, se l'umorismo debba
essere inteso nel senso largo con cui comunemente si suole
intendere, e non in Italia soltanto; o in un senso più stretto e
particolare, con peculiari caratteri ben definiti, che è per me il giusto
modo d'intenderlo. Inteso in quel senso largo — ho detto — se ne
può trovare in gran copia nella letteratura così antica come moderna
d'ogni paese; inteso in questo senso stretto e per me proprio, se ne
troverà parimenti, ma in molto minor copia, anzi in pochissime
espressioni eccezionali, così presso gli antichi come presso i
moderni d'ogni paese, non essendo prerogativa di questa o di quella
razza, di questo o di quel tempo, ma frutto di una specialissima
disposizione naturale, d'un intimo processo psicologico, che può
avvenire tanto in un savio dell'antica Grecia, come Socrate, quanto
in poeta dell'Italia moderna, come Alessandro Manzoni.
Non è lecito però assumere a capriccio questo o quel modo
d'intendere e applicar l'uno a una letteratura, per concludere che
essa non ha umorismo, e applicar l'altro a un'altra per dimostrare
che l'umorismo vi sta di casa. Non è lecito sentir soltanto negli
stranieri, a causa della lingua diversa, quel particolar sapore, che per
la familiarità dello stesso strumento espressivo non si avverte più nei
nostri, ma nei quali intanto gli stranieri a lor volta lo avvertono. Così
facendo, noi saremo i soli a non riconoscer traccia d'umorismo nella
nostra letteratura, mentre vedremo gl'inglesi, ad esempio, porre a
capo della loro un umorista, il Chaucer, il quale, se mai, può esser
considerato per tale, ove si assuma l'umorismo sul senso più largo,
in quel senso cioè per cui può esser considerato quale umorista
anche il Boccaccio e tanti altri scrittori nostri con lui.
Nessuna contradizione, dunque, da parte nostra. La contradizione
invece è in coloro che, dopo aver affermato che l'umorismo è un
fenomeno nordico e una prerogativa delle genti anglo-germaniche,
quando poi vogliono recare due esempii mirabili del più schietto e
compiuto umorismo, citano Rabelais e Cervantes, un francese e uno
spagnuolo; oppure il Rabelais e il Montaigne; e citando il Rabelais
non hanno occhi per vedere in casa loro il Pulci, il Folengo, il Berni;
e, citando il Montaigne, che è il tipo dello scetticismo sereno, non
avido di lotte, sorridente, senza impeti, senza ideali da difendere,
senza virtù da seguire, lo scettico che tollera tutto senza aver fede in
nulla, che non ha nè entusiasmi nè aspirazioni, che si serve del
dubbio per giustificare l'inerzia con la tolleranza, che dimostra una
percezione della vita serena, ma sterile, indice di egoismo e di
decadenza di razza, giacchè il libero esame che non spinge
all'azione può meglio che salvare dalla schiavitù, accettare, o
rendersi complice del dispotismo, non s'accorgono, dico, che le
ragioni per cui han negato a tanti scrittori italiani non solo la nota
umoristica, ma anche la possibilità d'averla, sono appunto queste
che dicono d'aver prodotto l'umorismo del Montaigne.
Un peso, come si vede, e due misure.
Noi vedremo che, in realtà, l'avere una fede profonda, un ideale
innanzi a sè, l'aspirare a qualche cosa e il lottare per raggiungerla,
lungi dall'essere condizioni necessarie all'umorismo, sono anzi
opposte; e che tuttavia può benissimo essere umorista anche chi
abbia una fede, un ideale innanzi a sè, un'aspirazione, e lotti a suo
modo per raggiungerla. Un ideale qualsiasi, in somma, per sè
stesso, non dispone affatto all'umorismo, anzi ostacola questa
disposizione. Ma l'ideale può ben esserci; e se c'è, l'umorismo, che
deriva da altre cause, certamente prenderà qualità da esso, come
del resto da tutti gli altri elementi costitutivi dello spirito di questo o di
quell'umorista. In altre parole: l'umorismo non ha affatto bisogno d'un
fondo etico, può averlo o non averlo: questo dipende dalla
personalità, dall'indole dello scrittore; ma, naturalmente, dall'esserci
o dal non esserci, l'umorismo prende qualità e muta d'effetto, riesce
cioè più o meno amaro, più o meno aspro, pende più o meno o
verso il tragico o verso il comico, o verso la satira, o verso la burla,
ecc.
Chi crede che sia tutto un giuoco di contrasto tra l'ideale del poeta e
la realtà, e dice che si ha l'invettiva, l'ironia, la satira, se l'ideale del
poeta resta offeso acerbamente e sdegnato dalla realtà; la
commedia, la farsa, la beffa, la caricatura, il grottesco, se poco se ne
sdegna e delle apparenze della realtà in contrasto con sè è piuttosto
indotto a ridere più o meno fortemente; e che infine si ha l'umorismo,
se l'ideale del poeta non resta offeso e non si sdegna, ma transige
bonariamente, con indulgenza un po' dolente, mostra d'avere
dell'umorismo una veduta troppo unilaterale e anche un po'
superficiale. Certo molto dipende dalla disposizione d'animo del
poeta; certo l'ideale di questo in contrasto con la realtà può o
sdegnarsi o ridere o transigere; ma un ideale che transige non
dimostra in verità d'esser molto sicuro di sè e profondamente
radicato. E consisterà l'umorismo in questa limitazione dell'ideale?
No. La limitazione dell'ideale sarà, se mai, non causa, ma
conseguenza di quel particolar processo psicologico che si chiama
umorismo.
Lasciamo star dunque una buona volta gl'ideali, la fede, le
aspirazioni e via dicendo: lo scetticismo, la tolleranza, il carattere
realistico, che le nostre lettere assunsero fin quasi dal loro inizio,
furon bene disposizioni e condizioni favorevoli all'umorismo;
l'ostacolo maggiore fu la retorica imperante, che impose leggi e
norme astratte di composizione, una letteratura di testa, quasi
meccanicamente costruita, in cui gli elementi soggettivi dello spirito
eran soffocati. Infranto il giogo, abbiamo detto, di questa poetica
intellettualistica dalla ribellione appunto degli elementi soggettivi
dello spirito, che caratterizza il movimento romantico, l'umorismo si
affermò liberamente, massime in Lombardia che del romanticismo
italiano fu il campo. Ma questo così detto romanticismo fu l'ultima e
clamorosa levata di scudi della volontà e del sentimento ribelli
all'intelletto; in tanti altri periodi, in tanti altri momenti della storia
letteraria d'ogni nazione avvennero di tali ribellioni, e ci furon sempre
solitarie anime ribelli, e ci fu sempre il popolo che si espresse nei
varii dialetti senza imparare a scuola regole e leggi.
Fra questi scrittori solitarii ribelli alla retorica, fra i dialettali bisogna
cercar gli umoristi e, in senso largo, ne troveremo in gran copia, fin
dagli inizi della nostra letteratura, segnatamente in Toscana; nel
senso vero e proprio pochi ne troveremo, ma non se ne trovano di
più certo nelle letterature degli altri paesi, nè questi pochi nostri son
da meno dei pochi stranieri, che a confusione nostra ci son messi
innanzi di continuo, e son sempre quelli, se ben s'avverte, da contarli
su le dita d'una mano. Solo che il valore e il sapor dei nostri, noi non
lo abbiamo saputo mai nè metter bene in rilievo, e pregiare, nè
avvertire e distinguere a dovere, perchè alle loro singole e
specialissime individualità la critica, guidata nella maggior parte delle
nostre storie letterarie da pregiudizii che non hanno nulla che vedere
con l'estetica o, comunque, da criterii generali, non ha saputo a volta
a volta adattarsi e piegarsi, e ha giudicato come errori, eccessi o
difetti quelli che eran caratteri peculiari. Dico questo soltanto: chi sa
che giudizio troveremmo nelle nostre storie letterarie d'un libro come
la Vita e opinioni di Tristram Shandy, se scritto in italiano, da uno
scrittore italiano, chi sa che capolavoro d'umorismo sarebbero, ad
esempio, la Circe o I capricci di Giusto Bottajo, se scritti in inglese,
da uno scrittore inglese, o magari la stessa Vita di Cicerone di Gian
Carlo Passeroni!
Discorrevo, qualche anno fa, appunto di questo, con un cultissimo
signore inglese, conoscitore profondo della letteratura italiana.
— Neanche nel Machiavelli? — mi domandava egli con meraviglia
quasi incredula. — I vostri critici non riconoscono umorismo neanche
nel Machiavelli? neanche nella novella di Belfagor?
Ed io pensavo alla grandezza nuda di questo Sommo nostro, che
non andò mai a vestirsi nel guardaroba della retorica; che come
pochi comprese la forza delle cose; a cui la logica venne sempre dai
fatti; che contro ogni sintesi confusa reagì con l'analisi più arguta e
più sottile; che ogni macchina ideale smontò coi due strumenti
dell'esperienza e del discorso; che ogni esagerazione di forma
distrusse col riso; pensavo che nessuno ebbe maggiore intimità di
stile di lui e più acuto spirito d'osservazione; che poche anime furono
come la sua disposte all'apprensione dei contrasti, a ricevere più
profondamente l'impressione delle incongruenze della vita; pensavo
che, parendo a molti un carattere dell'umorismo quella certa cura
delle minuzie e una — come dice il D'Ancona — «a giudicarla
astrattamente e a prima vista, trivialità e volgarità», anche egli, il
Machiavelli, alla moltitudine talvolta si mescolò fino alla volgarità,
tanto che scrisse: «Così involto tra questi pidocchi, traggo il cervello
di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorte, sendo
contento mi calpesti per questa via per vedere se la se ne
vergognassi»; ma anche:

Però se alcuna volta io rido o canto


Facciol perchè non ho se non quest'una
Via da sfogare il mi' angoscioso pianto;

pensavo anche a un'acuta osservazione del De Sanctis, che cioè: «il


Machiavelli adopera la tolleranza che comprende e assolve: non già
la tolleranza indifferente dello scettico, dell'ebete, dello sciocco; ma
la tolleranza dello scienziato, che non sente odio contro la materia
ch'egli analizza e studia, e la tratta coll'ironia dell'uomo superiore alle
passioni e dice: — ti tollero, non perchè ti approvi, ma perchè ti
comprendo» — pensavo a tutti questi elementi che, a farlo apposta,
se li mettiamo in fila, son proprio quelli che gl'intenditori delle
letterature straniere riconoscono proprii dei veri e più celebrati
umoristi (s'intende, inglesi o tedeschi), e — Dio me lo perdoni — non
sapevo più se piangere o ridere di tutte le meraviglie che questi
intenditori han sempre detto... che so? delle Lettere d'un drappiere e
degli altri scritti politici del decano Gionata Swift!
A questi intenditori, che delle letterature straniere ci pongono innanzi
i soliti cinque o sei scrittori umoristi, basta dare della letteratura
nostra un giudizio così fatto: «L'opera d'arte è scherzo geniale di
fantasia, è riso fugace d'impressione destato dalle immagini, non
dalle cose, gajezza accademica di ricordi, erudita ilarità; manca il
sentimento profondo della famiglia (e ne aveva tanto lo Swift,
difatti!), della natura, della patria; o meglio manca in quella forma
gaja e ne assume un'altra, acre e violenta (e che miele, difatti, nello
Swift), che ricorda Persio e Giovenale. Non fo nomi; basti accennare
che le tradizioni classiche, lo spirito d'imitazione, la lingua ristretta
nel vocabolario, schiva del popolo, impedirono nell'arte la libertà di
atteggiamenti, di forma, di stile indispensabile all'humour: come altri
ostacoli, il Papato, la dominazione straniera, le discordie intestine, la
boria regionale e le accademie e le scuole impedirono la libertà
politica, religiosa, scientifica. Ne affligge antico male; in scienza
pedanti, in arte retori, nella vita attori, solenni sempre o gravi,
insofferenti di analisi, corrivi alle grandi idee, sdegnosi delle modeste
e lente esperienze, cercatori di tesi e di antitesi, vaporosi o empirici,
atei o mistici, manierati o barbari. La nostra coltura è a strati, e non
sempre nazionale; lo straniero persiste dentro a noi; le forme
letterarie hanno tipi fissi; una generazione fa il testo, altre parecchie
fanno le note; così si pensa e sente per riflesso, per reminiscenza o
per fantasia; così ne sfugge il senso reale della vita, si ottunde quella
libertà di percezione e di attitudini che crea l'umorismo: e si
riproduce il circolo vizioso; gli scrittori umoristi non sorgono perchè
mancano le condizioni adatte, e queste non mutano perchè
mancano gli scrittori. Il difetto è alla radice; poco sviluppato lo spirito
di curiosità; fioca la nota intima. L'humour vuole l'uno e l'altra; vuole il
pensatore e l'artista; ma l'arte e la scienza presso noi son divise tra
loro e divise dalla vita». [44]
Ho citato il Machiavelli. Citerò, a questo proposito, un altro piccolo
nostro che non ebbe quella «libertà di atteggiamenti, di forma, di
stile, indispensabile all'humour», a cui «il Papato... le accademie e le
scuole impedirono la libertà politica, religiosa e scientifica», un
insofferente d'analisi, pedante in iscienza e retore in arte, uno che
ebbe poco sviluppato lo spirito di curiosità, ecc.: Giordano Bruno, se
permettete, academico di nulla academia, autore, tra l'altro, dello
Spaccio de la Bestia trionfante, della Cabala del Cavallo Pegaseo,
dell'Asino Cillenico e del Candelajo; colui che ebbe per motto, come
tutti sanno: In tristitia hilaris, in hilaritate tristis, che pare il motto dello
stesso umorismo.
E la candela di quel suo candelajo «potrà chiarir alquanto certe
ombre dell'idee, le quali invero spaventano le bestie», — dice egli
stesso; e dice anche: — «Considerate chi va, chi viene, che si fa,
che si dice, come s'intende, come si può intendere; chè certo,
contemplando quest'azioni e discorsi umani col senso d'Eraclito, o di
Democrito, avrete occasion di molto o ridere o piangere».
Per conto suo, l'autore le ha contemplate col senso di Eraclito e di
Democrito a un tempo.
«Qua Giordano parla per volgare, nomina liberamente, dona il
proprio nome a chi la natura dona il proprio essere; non dice
vergognoso quel che fa degno la natura; non copre quel ch'ella
mostra aperto, chiama il pane pane, il vino vino, il piede piede, et
altre parti di proprio nome; dice il mangiare mangiare, il dormire
dormire, il bere bere, e così gli altri atti naturali significa con proprio
titolo».
Questo, nella Epistola esplicatoria che precede lo Spaccio della
Bestia trionfante. Apriamo un po' questo Spaccio e sentiamo che
cosa Mercurio dice di Giove. Ecco qua: «Ha ordinato che oggi a
mezzogiorno doi meloni tra gli altri, nel melonajo di Fronzino, sieno
perfettamente maturi: ma che non sieno colti se non tre giorni a
presso, quando non saran giudicati buoni a mangiare. Vuole che al
medesimo tempo de la iviuma che sta a le radici del monte di Cicala,
in casa di Gioan Bruno, trenta iviomi sieno perfetti colti, e diecesette
cadano scalmati in terra, quindici siano rosi da' vermi; che Nasta,
moglie d'Albenzio, mentre si vuole increspar li capegli de le tempie,
vegna, per aver troppo scaldato il ferro, a bruciarsene
cinquantasette, ma che non si scotte la testa, o per questa volta non
biastemi quando sentirà il puzzo, ma con pazienza la passe; che dal
sterco del suo bove nascano dugento cinquanta doi scarafoni, de'
quali quattordici sieno calpestati e uccisi per il pie' di Albenzio, vinti
sei muojano di rinversato, vinti doi vivano in caverna, ottanta vadano
in peregrinaggio per il cortile, quaranta doi si retirino a vivere sotto
quel ceppo vicino a la porta, sedici vadano isvoltando le pallottole
per dove meglio li vien comodo, il resto corra a la fortuna... Che
Ambrogio ne la centesima e duodecima spinta abbia spaccio et
ispedito il negozio con la mogliera, e che non la ingravide per questa
volta, ma ne l'altra volta, con quel seme in cui si convertisce quel
porro cotto che mangia al presente con sapa e pane miglio».
E questo per dimostrare a Sofia che s'inganna se pensa che ai
celesti non sieno a cura così le cose minime, come le più grandi.
Come si chiama questo?
Dice di sè Giordano nell'Antiprologo del Candelajo: «L'autore, se voi
lo conoscete, direste ch'have una fisionomia smarrita; par che
sempre sia in contemplazione de le pene de l'inferno; par sia stato a
la pressa, come le barrette; un che ride, sol per far come fan gli altri.
Per il più lo vedrete fastidito, restio e bizzarro: non si contenta di
nulla, ritroso come un vecchio d'ottant'anni, fantastico come un
cane». E Dedalo si chiama «circa gli abiti dell'intelletto» nella
proemiale epistola al Dell'infinito Universo e Mondi, e come Moro,
dio del riso, s'introduce nello Spaccio.
«Lo stile del Bruno, — osserva nel suo studio mirabile su Tre
commedie italiane nel Cinquecento il Graf [45] — lo stile del Bruno è
l'immagine viva della mente onde muove. Ad un'amplissima varietà
di forme, di figurazioni e di processi, s'accoppia in esso un'efficacia
impareggiabile. Pien di vitale fervore esso non si adagia ne'
simmetrici spartimenti retorici, ma si devolve per effluente, organica
funzione. Di natura proteiforme, con pari agevolezza s'adegua al più
arduo pensiero della mente disquisitiva, e al più volgar sentimento di
un'anima abjetta. Le parole vi si affrontano in riscontri impensati, e
dal cozzar loro erompe sfavillando nuova luce d'idee. Esso è un vivo
fermento di peregrini concetti, d'immagini epifaniche, di clausole
feconde. La lingua copiosa, proporzionata alla varietà e al numero
delle cose che per essa si debbono significare, non conosce, o
disprezza, i ritegni e le leggi dell'accademica purità, e s'impingua di
elementi tratti così da' ripositorii più augusti dell'eloquenza classica,
come dagli ultimi fondi della parlata vernacola. Un istrumento sì fatto
era necessario ad un ingegno che, senza smarrire mai l'equilibrio,
trascorre tutti i gradi dell'essere, dagli imi termini del reale ai supremi
dell'ideale. Sia che raffronti, e associi o sceveri i termini del pensiero,
sia che narri o descriva, la virtù sua rimane sempre uguale a sè
stessa». [46]
Le contraddizioni innegabili che il Graf in questo suo studio scopre
nella mente del filosofo panteista, per cui confessa di non intendere
«come si generi in essa il momento del riso» si spiegano, secondo
me, perfettamente con quell'intimo e particolar processo psicologico
in cui consiste appunto l'umorismo e che implica per sè stesso
queste e tant'altre contraddizioni.
Del resto, il Graf stesso soggiunge: «Può darsi che la contraddizione
tragga la origine da una certa disformità preesistente fra l'intelletto e
l'indole da una parte, e fra la virtù apprensiva e la raziocinativa da
un'altra».
Ma io non posso indugiarmi a discorrere su ogni scrittore che mi
avvenga di nominare in questa rapida corsa. Debbo limitarmi a
fuggevoli accenni, rimandando a miglior tempo uno studio compiuto
e un'antologia degli umoristi italiani, che qui, dato il mio compito,
sarebbe fuor di luogo. Basterà porre in vista alcuni pochi nomi; e due
ne abbiamo già citati di sommi, e un terzo di più modesto scrittore,
che fu di popolo e artigiano, uso, come disse egli stesso «tutto il
giorno a combattere con la forbice e con l'ago: cose che se bene
sono strumenti da donne, e le muse son donne, non si legge però
ch'elle fussino mai adoperate da loro»: Giambattista Gelli, voglio
dire, che nei giardini del Ruccellai si pascolò di filosofia e diede fuori
quella Circe e quei Capricci di Giusto Bottajo, che — ripeto — chi sa
che capolavori d'umorismo sembrerebbero, se scritti in inglese, da
scrittore inglese»
Ma sul serio, se son considerati umoristi in Inghilterra il Congreve, lo
Steele, il Prior, il Gay, non troveremo noi nella letteratura nostra da
contrapporre altri nomi di scrittori, che noi, per conto nostro, non ci
siamo mai sognati di chiamare umoristi, anche del settecento, e
anche di due e di tre secoli innanzi? Ma quanti bizzarri a gaj ingegni
tra quei bajoni nostri del Cinquecento! E il Cellini? Sul serio, se ci
vediamo porre innanzi The Dunciade del Pope, non abbiamo da
prendere a piene mani, per seppellirla, tutta una letteratura, di cui
sogliamo vergognarci, a cominciar dai Mattaccini del Caro?
Mancassero guerre d'inchiostro tra i letterati nostri d'ogni tempo, giù
giù dai sonetti di Cecco Angiolieri contro Dante, all'Atlantide di Mario
Rapisardi! Riso anche questo, sicuro, gajezza mala, umore, cioè
fiele, collera fredda e secca, come la chiama Brunetto Latini, o
malinconia nel senso originario della parola: la malinconia appunto
dello Swift libellista. Penso al Franco, all'Aretino e, più qua, a quel
terribile monsignor Lodovico Sergardi. A questi soltanto? Ma a ben
più d'uno

è forza ch'io riguardi,


Il qual mi grida e di lontano accenna
E priega ch'io nol lasci nella penna,
vedendo con quanta larghezza gli altri imbarchino scrittori su questo
Narrenschiff dell'umorismo! Ma sì, perchè no? anche tu, Ortensio
Lando, se pur volontariamente non pazzeggi come Bruto per aver
diritto di vivere e di parlare con libertà, come disse Carlo Tenca;
monta anche tu, autore dei Paradossi e del Commentario delle cose
mostruose d'Italia e d'altri luoghi, tu che, non foss'altro, avesti il
coraggio di dare ai tuoi dì dell'animalaccio ad Aristotile. Io, per me, ti
lascerei a terra con tutti gli altri, a terra col Doni, a terra col Boccalini,
Tacito proconsolo nell'isola di Lesbo, a terra col Dotti, a terra con
tanti prima e dopo di te, il Caporali e il Lippi e il Passeroni; ma non
vorrei essere io solo così rigoroso, massime quando vedo dalla
barca uno che ha il diritto di starvi, incontestabile, Lorenzo Sterne,
far cenni e invitar quell'ultimo dei nostri che ho nominati, a montarvi.
E Alessandro Tassoni? si deve lasciare a terra anche lui? Nelle
recenti feste in suo onore, parecchi han voluto veder stoffa
d'umorista vero in questo acuto e acerbo derisore, anzi
disprezzatore del suo tempo. Se fosse inglese o tedesco, sarebbe
già da un pezzo nella barca anche lui e degno di starvi.

a giudizio de' savi universale.

Siamo sempre lì: in che senso si deve intendere l'umorismo?


L'Arcoleo, su la fine della sua seconda conferenza, dichiara di non
essere incline a quella critica che, rispetto a forme letterarie,
dispensa facilmente scomuniche e ostracismi; e dice che sono molto
complesse le ragioni per le quali in Italia ebbe poca vita la forma
umoristica, e che egli non vuol profanare quest'argomento che
merita studio speciale. Quali sieno queste ragioni molto complesse,
che al lume degli stessi esempii recati dall'Arcoleo appajono qua e là
contraddittorie, abbiamo già veduto: da noi non c'è spirito
d'osservazione nè intimità di stile, siamo pedanti e accademici,
siamo scettici e indifferenti, non aspiriamo a nulla. Contro queste
accuse, noi abbiamo citato parecchi nomi, che mai, neppure in un
lampo, sono sorti in mente all'Arcoleo. Una sola volta, parlando del
Heine in fin di vita, che ride del suo dolore, pensa, per
combinazione, al Leopardi che si sentiva anche lui «un tronco che
pena e vive» e al Brighenti scriveva: «Io sto qui deriso, sputacchiato,
preso a calci da tutti, di maniera che se vi penso mi fa
raccapricciare. Tuttavia mi avvezzo a ridere e ci riesco». Sì, ma
«restò lirico», osserva, «l'educazione classica non gli permise di
essere umorista!» Ma scrisse anche certi dialoghi se non
c'inganniamo, e certe altre prosette... Restò lirico anche lì?
L'educazione classica... Ma almeno la tendenza romantica avrà
permesso al Manzoni di essere umorista? Che! Il suo don Abbondio
«non aspira a nulla, litiga tra il dovere e la paura; è ridicolo
senz'altro». Non è questo un modo abbastanza spiccio di giudicare e
mandare? Ma questo modo, veramente, tiene l'Arcoleo dal principio
alla fine delle due conferenze: l'argomento è trattato così, a sprazzi,
per sentenze inappellabili. Umorismo: fuoco d'artifizio di
scoppiettanti definizioni; poi, prima fase: dubbio e scetticismo —
«ridere del proprio pensiero» — Amleto; seconda fase, lotta e
adattamento — «ridere del proprio dolore» — Don Giovanni. E tra gli
umoristi della prima fase son citati due francesi, Rabelais e
Montaigne, e due inglesi, Swift e Sterne; tra gli umoristi della
seconda, due tedeschi, Richter e Heine, tre inglesi, Carlyle, Dickens,
Thackeray e poi... Marco Twain. Come si vede, nessun italiano. E
dire che arriviamo fino a Marco Twain!
L'Arcoleo conclude così: «Lo spirito comico rimase avviluppato
nell'embrione della commedia dell'arte o nella poesia dialettale; e
molto e ricco sviluppo ebbero invece e in poesia e in prosa, in
poemi, novelle, romanzi e saggi, l'ironia e la satira. Basta confondere
con queste forme l'humour, perchè n'esca giudizio opposto al mio, o
perchè io sembri esagerato e ingiusto. Non intendo parlare di
tentativi o abbozzi; si trovano facilmente in ogni storia artistica e di
ogni forma: ma io non so vedere fra noi una letteratura umoristica e
all'uopo non avrei che a fare un paragone tra l'Ariosto e Cervantes».
Questo paragone l'abbiamo fatto noi, e con un giudizio non opposto
a quello ch'egli avrebbe dato, se avesse fatto il paragone. Tra
parentesi però, Cervantes — come Rabelais, come Montaigne — è
un latino; e non crediamo che la Riforma propriamente in Spagna...
Lasciamo andare! Veniamo in Italia. Noi non vogliamo affatto
confondere lo spirito comico, l'ironia, la satira con l'umorismo:
tutt'altro! Ma non si deve neanche confondere l'umorismo vero e
proprio con l'humour inglese, cioè con quel tipico modo di ridere o
umore che, come tutti gli altri popoli, hanno anche gl'Inglesi. Non si
pretenderà, che gl'italiani o i Francesi abbiano l'humour inglese;
come non si può pretendere che gl'Inglesi ridano a modo nostro o
facciano dello spirito come i Francesi. L'avranno magari fatto,
qualche volta; ma ciò non vuol dire. L'umorismo vero e proprio è
un'altra cosa, ed è anche per gl'inglesi un'eccentricità di stile. Basta
confondere l'una cosa e l'altra — diciamo anche noi a nostra volta —
perchè si venga a riconoscere una letteratura umoristica a un popolo
e a negarla a un altro. Ma una letteratura umoristica si può avere a
questo solo patto, cioè di far questa confusione; e allora ogni popolo
avrà la sua, assommando tutte le opere in cui questo tipico umore si
esprime nei più bizzarri modi; e noi potremmo cominciar la nostra,
ad esempio, con Cecco Angiolieri, come gl'Inglesi la cominciano col
Chaucer, e non direi che la comincino bene, non per il valore del
poeta, ma perchè egli mostra di aver mescolato alla bevanda
nazionale un po' del vino che si vendemmia nel paese del sole.
Altrimenti, una letteratura umoristica vera e propria non è possibile,
presso nessun popolo: si possono avere umoristi, cioè pochi e rari
scrittori in cui per natural disposizione avviene quel complicato e
speciosissimo processo psicologico che si chiama umorismo. Quanti
ne cita l'Arcoleo?
Certamente, l'umorismo nasce da uno speciale stato d'animo, che
può, più o meno, diffondersi. Quando un'espressione d'arte riesce a
conquistare l'attenzione del pubblico, questo si dà subito a pensare
e a parlare e a scrivere secondo le impressioni che ne ha ricevuto; di
modo che quella espressione, sorta dapprima dalla particolare
intuizione d'uno scrittore, penetrata rapidamente nel pubblico, è poi
da questo variamente trasformata e diretta. Così avvenne per il
romanticismo, così per il naturalismo: diventarono le idee del tempo,
quasi un'atmosfera ideale; e molti fecero per moda i romantici o i
naturalisti, come molti per moda fecero gli umoristi in Inghilterra nel
sec. XVIII, e molti furon degli umidi nel Cinquecento in Italia, e degli
arcadi nel settecento. Uno stato d'animo si può creare in noi e
divenir coerente o rimaner fittizio, secondo che risponda o no alla
speciale fisionomia dell'organismo psichico. Ma poi le idee del tempo
mutano, cangia la moda, i pòmpili seguaci si mettono appresso ad
altre navi. Chi resta? Restano quei pochi, da contar su le dita, quei
pochi che ebbero, primi, l'intuizione straordinaria, o in cui quello
speciale stato d'animo divenne così coerente, che poteron creare
un'opera organica, resistente al tempo e alla moda.
Sul serio poi l'Arcoleo crede che nella nostra letteratura dialettale
non ci sia altro che spirito comico? Egli è siciliano, e certamente ha
letto il Meli, e sa quanto sia ingiusto il giudizio di arcadia superiore
dato della poesia di lui, che non fu sonata soltanto su la zampogna
pastorale, ma ebbe anche tutte le corde della lira e si espresse in
tutte le forme. Non c'è vero e proprio umorismo in tanta parte della
poesia del Meli? Ma basterebbe citar soltanto La cutuliata per
dimostrarlo!

Tic tic... chi fu? Cutuliata.

E non c'è umorismo, vero e proprio umorismo, in tanti e tanti sonetti


del Belli? E senza parlare delle figure del Maggi, il Giovannin Bongè,
il Marchionn di gamb avert di Carlo Porta non son due capolavori
d'umorismo? E, poichè si parla di tipi rimasti imperituri, il Monsù
Travet del Bersezio, il Nobilomo Vidal del Gallina? E un altro scrittore
dialettale abbiamo, finora quasi del tutto ignoto, grandissimo:
umorista vero, se mai ce ne fu, e — a farlo apposta —
meridionalissimo, di Reggio Calabria: Giovanni Merlino, rivelato or
son parecchi anni, in una conferenza [47] da Giuseppe Mantica, suo
conterraneo, che sarebbe stato anche lui un forte scrittore umorista
se, nel breve corso della sua esistenza, la politica non lo avesse
troppo presto distratto dalle lettere. Scrisse il Merlino i suoi libri per
55 lettori, che nomina uno per uno e divide in quattro categorie,
imponendo a ciascuna di esse alcuni speciali obblighi in ricompensa
del piacere loro procurato. Uno de' suoi volumi, ancora tutti inediti, è
detto: Miscellanea di varie cose sconnesse e piacevoli, «fatta per
coloro che, avendo poco cervello, vogliono istruirsi sul modo più
acconcio per perderlo interamente»; gli altri sono Memorie utili ed
inutili ai posteri, ossia la vita di Giovanni Merlino del quondam
Antonio di Reggio, principiata a 27 decembre 1789 e proseguita fino
al 1850, composta di sette volumi. Vorrei poter citare per disteso il
lungo Dialogo alla calabrese tra Domine Dio e Giovanni Merlino o il
Conto con Domine Dio per dimostrare che umorista fosse il Merlino.
Nell'attesa che gli eredi lo rendano a tutti noto pubblicando i volumi,
rimando alla pubblicazione che il Mantica fece di questi due
impareggiabili Dialoghi, con la traduzione a fronte.
Questo, per la letteratura dialettale. Non scopre poi sul serio altro
che ironia e satira l'Arcoleo negli scrittori italiani? Io penso a un certo
Socrate immaginario d'un certo abbate del settecento; penso al
Didimo chierico del Foscolo: ad alcune volate in prosa del Baretti;
penso ai Promessi Sposi del Manzoni, tutto infuso di genuino
umorismo; [48] penso al Sant'Ambrogio del Giusti, vera poesia
umoristica, unica forse tra le tante satiriche o sentimentali; penso a
quei certi dialoghi e a quelle certe prosette del Leopardi; penso
all'Asino e al Buco nel muro del Guerrazzi; penso al Fanfulla del
D'Azeglio; penso a Carlo Bini; penso a quella tal cucina nel castello
di Fratta delle Confessioni d'un ottuagenario del Nievo; penso a
Camillo De Meis, al Revere; e, poichè l'Arcoleo arriva fino a Marco
Twain, penso al Re umorista, al Demonio dello stile, all'Altalena delle
antipatie, al Pietro e Paola, a Scaricalasino, all'Illustrissimo del
Cantoni; al Demetrio Pianelli del De Marchi; penso ai poeti della
scapigliatura lombarda e a tante note di schietto e profondo
umorismo nelle liriche del Carducci e del Graf; penso ai tanti
personaggi umoristici che popolano i romanzi e le novelle del
Fogazzaro, del Farina, del Capuana, del Fucini, e anche ad alcune
opere di più giovani scrittori, da Luigi Antonio Villari all'Albertazzi, al
Panzini... ed ecco, la Lanterna di Diogene di quest'ultimo vorrei
porre in una mano all'Arcoleo e nell'altra la candela del Candelaio
del Bruno: son sicuro che parecchi scrittori umoristi scoprirebbe nella
letteratura italiana antica e nuova.
PARTE SECONDA
Essenza, caratteri e materia dell'umorismo

Che cosa è l'umorismo?


Se volessimo tener conto di tutte le risposte che si son date a questa
domanda, di tutte le definizioni che autori e critici han tentato,
potremmo riempire parecchie e parecchie pagine, e probabilmente
alla fine, confusi tra tanti pareri e dispareri, non riusciremmo ad altro
che a ripetere la domanda: — Ma, in somma, che cos'è l'umorismo?
Abbiamo già detto che tutti coloro, i quali, o di proposito o per
incidenza, ne han parlato, in una cosa sola si accordano, nel
dichiarare che è difficilissimo dire che cosa sia veramente, perchè
esso ha infinite varietà e tante caratteristiche che, a volerlo
descrivere in generale, si rischia sempre di dimenticarne qualcuna.
Questo è vero; ma è vero altresì che da un pezzo ormai avrebbe
dovuto capirsi che partire da queste caratteristiche non è la via
migliore per arrivare a intendere la vera essenza dell'umorismo,
poichè sempre avviene che una se ne assuma per fondamentale,
quella che si è riscontrata comune a parecchie opere o a parecchi
scrittori studiati con predilezione; di modo che tante definizioni si
vengono infine ad avere dell'umorismo, quante sono le
caratteristiche riscontrate, e tutte naturalmente hanno una parte di
vero, e nessuna è la vera.
Certamente, dalla somma di tutte queste varie caratteristiche e delle
conseguenti definizioni si può arrivare a comprendere, così, in
generale, che cosa sia l'umorismo; ma se ne avrà sempre una
conoscenza sommaria ed esteriore, appunto perchè fondata su
queste sommarie ed esteriori determinazioni.
La caratteristica, ad esempio, di quella tale peculiar bonarietà o
benevola indulgenza che scoprono alcuni nell'umorismo, già definito
del Richter «malinconia d'un animo superiore che giunge a divertirsi
finanche di ciò che lo rattrista», [49] quel «tranquillo, giocondo e
riflesso sguardo su le cose», quel «modo d'accogliere gli spettacoli
divertenti, che sembra, nella sua moderazione, soddisfare il senso
del ridicolo e domandar perdono di ciò che v'è di poco delicato in tal
compiacimento», quella tale «espansione degli spiriti dall'interno
all'esterno incontrata e ritardata dalla corrente contraria d'una specie
di benevolenza pensosa», di cui parla il Sully nel suo Essai sur le
rire, [50] non si trovano in tutti gli umoristi. Alcuni di questi tratti, che al
critico francese, e non a lui soltanto, pajono principali dell'umorismo,
si troveranno in alcuni, in altri no; e in certuni anzi si troverà il
contrario, come ad esempio nello Swift, che è malinconico nel senso
originario della parola, cioè pieno di fiele; e del resto noi vedremo un
po' più innanzi, parlando del don Abbondio del Manzoni, a che cosa
in fondo si riduca quella peculiar bonarietà o simpatica indulgenza.
Al contrario, quella «acre disposizione a scoprire ed esprimere il
ridicolo del serio e il serio del ridicolo umano», di cui parla il Bonghi,
calzerà allo Swift e a umoristi al pari di lui beffardi e mordaci; non
calzerà ad altri; nè del resto, come osserva il Lipps, opponendosi
alla teoria del Lazzarus, che considera anch'esso l'umorismo
soltanto come una disposizione d'animo, questo modo di
considerarlo è compiuto. Nè compiuto sarà quello del Hegel che lo
dice «attitudine speciale d'intelletto e di animo onde l'artista si pone
lui stesso al posto delle cose», definizione che, a non porsi bene a
guardare da quel solo lato da cui l'Hegel lo guarda, ha tutta l'aria
d'un rebus.
Caratteristiche più comuni, e però più generalmente osservate, sono
la «contradizione» fondamentale, a cui si suol dare per causa
principale il disaccordo che il sentimento e la meditazione scoprono
o fra la vita reale e l'ideale umano o fra le nostre aspirazioni e le
nostre debolezze e miserie, e per principale effetto quella tal
perplessità tra il pianto e il riso; poi lo scetticismo, di cui si colora
ogni osservazione, ogni pittura umoristica, e in fine il suo procedere
minuziosamente e anche maliziosamente analitico.
Dalla somma, ripeto, di tutte queste caratteristiche e conseguenti
definizioni si può arrivare a comprendere, così, in generale, che cosa
sia l'umorismo, ma nessuno negherà che non ne risulti una
conoscenza troppo sommaria. Che se accanto ad alcune
determinazioni affatto incompiute, come abbiamo veduto, altre ve ne
sono indubbiamente più comuni, l'intima ragione di esse non è poi
veduta affatto con precisione nè spiegata.
Rinunzieremo noi a vederla con precisione e a spiegarla, accettando
l'opinione di Benedetto Croce che nel Journal of comparative
Literature (fasc. III, 1903) dichiarò indefinibile l'umorismo come tutti
gli stati psicologici, e nel libro dell'Estetica lo annoverò tra i tanti
concetti dell'estetica del simpatico? «L'indagine dei filosofi — egli
dice — si è a lungo travagliata intorno a questi fatti, e specialmente
intorno ad alcuni di essi, come, in prima linea, il comico, e poi il
sublime, il tragico, l'umoristico e il grazioso. Ma bisogna evitar
l'errore di considerarli come sentimenti speciali, note del sentimento,
ammettendo così delle distinzioni e classi di sentimenti, laddove il
sentimento organico per sè stesso non può dar luogo a classi; e
bisogna chiarire in che senso possano dirsi fatti misti. Essi dan luogo
a concetti complessi, ossia di complessi di fatti, nei quali entrano
sentimenti organici di piacere e dispiacere (o anche sentimenti
spirituali-organici), e date circostanze esterne che forniscono a quei
sentimenti meramente organici o spirituali-organici un determinato
contenuto. Il modo di definizione di questi concetti è il genetico:
Posto l'organismo nella situazione a, sopravvenendo la circostanza
b, si ha il fatto c. Questo e simili processi non hanno col fatto
estetico nessun contatto: salvo quello generale che tutti essi, in
quanto costituiscono la materia o la realtà, possono essere
rappresentati dall'arte; e l'altro, accidentale, che in questi processi
entrino talvolta dei fatti estetici, come nel caso dell'impressione di
sublime che può produrre l'opera di un artista titano, di un Dante o di
uno Shakespeare, o di quella comica del conato di un imbrattatele o
di un imbrattacarte. Anche in questi casi il processo è estrinseco al
fatto estetico: al quale non si lega se non il sentimento del piacere e
dispiacere, del valore e disvalore estetico, del bello e del brutto».
Innanzi tutto, perchè sono indefinibili gli stati psicologici? Saranno
forse indefinibili per un filosofo, ma l'artista, in fondo, non fa altro che
definire e rappresentare stati psicologici. E poi se l'umorismo è un
processo o un fatto che dà luogo a concetti complessi, ossia di
complessi di fatti, come diventa poi esso un concetto? Concetto sarà
quello a cui l'umorismo dà luogo, non l'umorismo. Certamente se per
fatto estetico deve intendersi quel che intende il Croce, tutto diviene
estrinseco ad esso, non che questo processo. Ma noi abbiamo
dimostrato altrove e anche nel corso di questo lavoro, che il fatto
estetico non è nè può essere quel che il Croce intende. E, del resto,
che significa la concessione che «questo e simili processi non hanno
col fatto estetico nessun contatto, salvo quello generale che tutti
essi, in quanto costituiscono la materia o la realtà possono essere
rappresentati dall'arte?». L'arte può rappresentare questo processo
che dà luogo al concetto di umorismo. Ora, come potrò io, critico,
rendermi conto di questa rappresentazione artistica, se non mi rendo
conto del processo da cui risulta? E in che consisterebbe allora la
critica estetica? «Se un'opera d'arte, — osserva il Cesareo nel suo
saggio su La critica estetica appunto, — ha da provocare uno stato
d'animo, appar manifesto che tanto più pieno sarà l'effetto finale,
quanto più intense e concordi vi coopereranno tutte le singole
determinazioni. Anche in estetica la somma è in ragion delle poste.
L'esame di tutte a una a una le particolari espressioni ci darà la
misura dell'espressione totale. Or come la perfetta riproduzione
d'uno stato d'animo, in cui per l'appunto consiste la bellezza estetica,
è un fatto emozionale che può risultare soltanto dalla somma
d'alcune rappresentazioni sentimentali, così l'analisi psicologica
d'un'opera di poesia è il necessario fondamento di qualsiasi
valutazione estetica».
Parlando di questo mio saggio sulla sua rivista La Critica (vol. VII, a.
1909, pagg. 219-23), il Croce, a proposito dello studio del
Baldensperger Les définitions de l'humour (in Études d'histoire
littéraire, Paris, Hachette, 1907), si compiace di dire che il
Baldensperger ricorda anche le ricerche del Cazamian, edite nella
Revue germanique del 1906: Pourquoi nous ne pouvons définir
l'humour, in cui l'autore, seguace del Bergson, sostiene che
l'umorismo sfugge alla scienza, perchè gli elementi caratteristici e
costanti di esso sono in piccolo numero e sopratutto negativi,
laddove gli elementi variabili sono in numero indeterminato. Per cui,
il compito della critica è di studiare il contenuto e il tono di ogni
umore e, cioè, la personalità di ciascun umorista.
— Il n'y a pas d'humour, il n'y a que des humouristes, — dice il
signor Baldensperger.
E il Croce s'affretta a concludere:
— La questione è così esaurita.
Esaurita? Torniamo e torneremo sempre a domandare come mai, se
l'umorismo non c'è, nè si sa, nè si può dire che cosa sia, ci sieno poi
scrittori, di cui si possa sapere e dire che sono umoristi. In base a
che cosa si saprà e si potrà dire?
L'umorismo non c'è; ci sono scrittori umoristi. Il comico non c'è; ci
sono scrittori comici.
Benissimo! E se un tale, sbagliando, afferma che un tale scrittore
umorista è un comico, come farò io a chiarirgli lo sbaglio, a
dimostrargli che è un umorista e non un comico?
Il Croce pone innanzi la pregiudiziale metodica circa la possibilità di
definire un concetto. Io gli pongo innanzi questo caso, e gli domando
come potrebbe egli dimostrare, per esempio, all'Arcoleo, il quale
afferma che il personaggio di don Abbondio è comico, che invece
no, quel personaggio è umoristico, se non avesse ben chiaro in
mente che cosa sia e che debba intendersi per umorismo.
Ma egli dice, in fondo, di non muover guerra alle definizioni, e che
anzi il suo modo di rifiutarle tutte, filosocamente, è l'accettarle tutte,
empiricamente. Anche la mia; che del resto non è, nè vuol essere
una definizione, ma piuttosto la spiegazione di quell'intimo processo
che avviene, e che non può non avvenire, in tutti quegli scrittori che
si dicono umoristi.
L'Estetica del Croce è così astratta e negativa, che applicarla alla
critica non è assolutamente possibile, se non a patto di negarla di
continuo, com'egli stesso fa, accettando questi così detti concetti
empirici che, cacciati dalla porta, gli rientrano dalla finestra.
Ah, una bella soddisfazione, la filosofia!

II

Vediamo dunque, senz'altro, qual è il processo da cui risulta quella


particolar rappresentazione che si suol chiamare umoristica; se
questa ha peculiari caratteri che la distinguono, e da che derivano:
se vi è un particolar modo di considerare il mondo, che costituisce
appunto la materia e la ragione dell'umorismo.
Ordinariamente, — ho già detto altrove, [51] e qui m'è forza ripetere
— l'opera d'arte è creata dal libero movimento della vita interiore che
organa le idee e le imagini in una forma armoniosa, di cui tutti gli
elementi han corrispondenza tra loro e con l'idea-madre che le
coordina. La riflessione, durante la concezione, come durante
l'esecuzione dell'opera d'arte, non resta certamente inattiva: assiste
al nascere e al crescere dell'opera, ne segue le fasi progressive e ne
gode, raccosta i varii elementi, li coordina, li compara. La coscienza
non rischiara tutto lo spirito; segnatamente per l'artista, essa non è
un lume distinto dal pensiero, che permetta alla volontà di attingere
in lei come in un tesoro d'immagini e d'idee. La coscienza, in
somma, non è una potenza creatrice; ma lo specchio interiore in cui
il pensiero si rimira; si può dire anzi ch'essa sia il pensiero che vede
sè stesso, assistendo a quello che esso fa spontaneamente. E,
d'ordinario, nell'artista, nel momento della concezione, la riflessione
si nasconde, resta, per così dire, invisibile: è, quasi, per l'artista una
forma del sentimento. Man mano che l'opera si fa, essa la critica,
non freddamente, come farebbe un giudice spassionato,
analizzandola; ma d'un tratto, mercè l'impressione che ne riceve.
Questo, ordinariamente. Vediamo adesso se, per la natural
disposizione d'animo di quegli scrittori che si chiamano umoristi e
per il particolar modo che essi hanno di intuire e di considerar gli
uomini e la vita, questo stesso procedimento avviene nella
concezione delle loro opere; se cioè la riflessione vi tenga la parte
che abbiamo or ora descritto, o non vi assuma piuttosto una speciale
attività.
Ebbene, noi vedremo che nella concezione di ogni opera umoristica,
la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè
quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il
sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi; lo analizza,
spassionandosene; ne scompone l'imagine; da questa analisi però,
da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello
che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del
contrario.
Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di
quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata, e parata
d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora
è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe
essere. Posso così, a prima, giunta e superficialmente, arrestarmi a
questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del
contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce
che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi
così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto
perchè pietosamente s'inganna che, parata così, nascondendo così
le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sè l'amore del marito
molto più giovine di lei, ecco che io non posso più riderne come
prima, perchè appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto
andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da
quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo
sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza, tra il comico e
l'umoristico.
— «Signore, signore! oh! signore, forse, come gli altri, voi stimate
ridicolo tutto questo; forse vi annojo raccontandovi questi stupidi e
miserabili particolari della mia vita domestica; ma per me non è
ridicolo, perchè io sento tutto ciò...» — Così grida Marmeladoff
nell'osteria, in Delitto e Castigo del Dostojevski, a Raskolnikoff tra le
risate degli avventori ubriachi. E questo grido è appunto la protesta
dolorosa ed esasperata d'un personaggio umoristico contro chi, di
fronte a lui, si ferma a un primo avvertimento superficiale e non
riesce a vederne altro che la comicità.
Ed ecco qua un terzo esempio, che per la sua lampante chiarezza,
si potrebbe dir tipico. Un poeta, il Giusti, entra un giorno nella chiesa
di Sant'Ambrogio a Milano, e vi trova un pieno di soldati,

Di que' soldati settentrionali,


Come sarebbe boemi e croati,
Messi qui nella vigna a far da pali....

Il suo primo sentimento è d'odio: quei soldatacci ispidi e duri son lì a


ricordargli la patria schiava. Ma ecco levarsi nel tempio il suono
dell'organo: poi quel cantico tedesco lento lento,

D'un suono grave, flebile, solenne

che è preghiera e pare lamento. Ebbene, questo suono determina a


un tratto una disposizione insolita nel poeta, avvezzo a usare il
flagello della satira politica e civile: determina in lui la disposizione
propriamente umoristica: cioè, lo dispone a quella particolar
riflessione che, spassionandosi del primo sentimento, dell'odio
suscitato dalla vista di quei soldati, genera appunto il sentimento del
contrario. Il poeta ha sentito nell'inno

la dolcezza amara
Dei canti uditi da fanciullo: il core
Che da voce domestica gl'impara,
Ce li ripete i giorni del dolore.
Un pensier mesto della madre cara,
Un desiderio di pace e d'amore,
Uno sgomento di lontano esilio...

E riflette che quei soldati, strappati ai loro tetti da un re pauroso,

A dura vita, a dura disciplina


Muti, derisi, solitari stanno,
Strumenti ciechi d'occhiuta rapina
Che lor non tocca e che forse non sanno.

Ed ecco il contrario dell'odio di prima:

Povera gente! lontana da' suoi


In un paese qui che le vuol male...

Il poeta è costretto a fuggir dalla chiesa perchè

Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale,


Colla su' brava mazza di nocciuolo
Duro e piantato lì come un piuolo.

Notando questo, avvertendo cioè questo sentimento del contrario


che nasce da una speciale attività della riflessione, io non esco
affatto dal campo della critica estetica e psicologica. L'analisi
psicologica di questa poesia è il necessario fondamento della
valutazione estetica di essa. Io non posso intenderne la bellezza, se
non intendo il processo psicologico da cui risulta la perfetta
riproduzione di quello stato d'animo che il poeta voleva suscitare,
nella quale consiste appunto la bellezza estetica.
Vediamo ora un esempio più complesso, nel quale la speciale attività
della riflessione non si scopre così a prima giunta; prendiamo un
libro di cui abbiamo già discorso: il Don Quijote del Cervantes.
Vogliamo giudicarne il valore estetico. Che faremo? Dopo la prima
lettura e la prima impressione che ne avremo ricevuto, terremo conto
anche qui dello stato d'animo che l'autore ha voluto suscitare. Qual'è
questo stato d'animo? Noi vorremmo ridere di tutto quanto c'è di
comico nella rappresentazione di questo povero alienato che
maschera della sua follia sè stesso e gli altri e tutte le cose;
vorremmo ridere, ma il riso non ci viene alle labbra schietto e facile;
sentiamo che qualcosa ce lo turba e ce l'ostacola; è un senso di
commiserazione, di pena e anche d'ammirazione, sì, perchè se le
eroiche avventure di questo povero hidalgo sono ridicolissime, pur
non v'ha dubbio che egli nella sua ridicolaggine è veramente eroico.
Noi abbiamo una rappresentazione comica, ma spira da questa un
sentimento che ci impedisce di ridere o ci turba il riso della comicità
rappresentata; ce lo rende amaro. Attraverso il comico stesso,
abbiamo anche qui il sentimento del contrario. L'autore l'ha destato
in noi perchè s'è destato in lui, e noi ne abbiamo già veduto le
ragioni. Ebbene, perchè non si scopre qui la speciale attività della
riflessione? Ma perchè essa — frutto della tristissima esperienza
della vita, esperienza che ha determinato la disposizione umoristica
nel poeta — si era già esercitata sul sentimento di lui, su quel
sentimento che lo aveva armato cavaliere della fede a Lepanto.
Spassionandosi di questo sentimento e ponendovisi contro, da
giudice, nella oscura carcere della Mancha, ed analizzandolo con
amara freddezza, la riflessione aveva già destato nel poeta il
sentimento del contrario, e frutto di esso è appunto il Don Quijote: è
questo sentimento del contrario oggettivato. Il poeta non ha
rappresentato la causa del processo — come il Giusti nella sua
poesia — ne ha rappresentato soltanto l'effetto, e però il sentimento
del contrario spira attraverso la comicità della rappresentazione;
questa comicità è frutto del sentimento del contrario generato nel
poeta dalla speciale attività della riflessione sul primo sentimento
tenuto nascosto.
Ora, che bisogno ho io d'assegnare un qualsiasi valore etico a
questo sentimento del contrario, come fa Theodor Lipps nel suo libro
Komik und Humor?
Cioè — intendiamoci bene — al Lipps veramente non si affaccia mai
questo sentimento del contrario. Egli, da un canto, non vede che una
specie di meccanismo così del comico come dell'umore: quello
stesso che il Croce nella sua Estetica cita come un esempio di
spiegazione accettabile di siffatti «concetti»: — «Posto l'organismo
nella situazione a, sopravvenendo la circostanza b, si ha il fatto c.»
— E, dall'altro canto, s'impaccia di continuo di valori etici, poichè per
lui ogni godimento artistico ed estetico in genere è godimento di
qualcosa che ha valore etico: non già come elemento di un
complesso, ma come oggetto dell'intuizione estetica. E tira
continuamente in ballo il valore etico della personalità umana, e
parla di positivo umano e di negazione di esso. Egli dice: «Dass
durch die Negation, die am positiv Menschlichen geschieht, dies
positiv Menschliche uns näher gebracht, in seinen Wert offenbarer
und fühlbarer gemacht wird, darin besteht, wie wir sahen, das
allgemeinste Wesen der Tragik. Ebendarin besteht auch das
allgemeinste Wesen des Humors. Nur dass hier die Negation
anderer Art ist als dort, nämlich komische Negation. Ich sagte vom
Naivkomischen, dass es auf dem Wege liege von der Komik zum
Humor. Dies heisst nicht: die naive Komik ist Humor. Vielmehr ist
auch hier die Komik als solche das Gegenteil des Humors. Die naive
Komik entsteht aus Berechtigte, Gute, Kluge, von unserem
Standpunkte aus in gegenteiligen Lichte erscheint. Der Humor
entseht umgekhert, indem jenes relativ Berechtigte, Gute, Kluge aus
dem Prozess der komischen Vernichtung wiederum emportaucht,
und nun erst recht in seinem Werte einleuchtet und genossen wird».
E poco più oltre: «Der eigentliche Grund und Kern des Humors ist
überall und jederzeit das relativ Gute, Schöne, Vernünftige, das auch
da sich findet, wo es nach unserem gewönlichen Begriffen nicht
vorhanden, ja geflissentlich negiert erscheint». Dice anche: «in der
Komik nicht nur das Komische in nichts zergeht, sondern auch wir in
gewisser Weise, mit unserer Erwartung, unserem Glauben an eine
Erhabenheit oder Grösse, den Regeln oder Gewohnheiten unseres
Denkens u. s. w. «zu nichte» werden. Über dieses eigene
Zunichtewerden erhebt sich der Humor. Dieser Humor, der Humor,
den wir angesichts des Komischen haben, besteht schliesslich
ebenso wie derjenige, den der Träger des bewusst humoristischen
Geschehens hat, in der Geistesfreiheit, der Gewissheit des eigenen
Selbst und des Vernünftigen, Guten und Erhabenen in der Welt, die
bei aller objektiven und eigenen Nichtigkeit bestehen bleit, oder eben
darin zur Geltung kommt». Ma è poi costretto a riconoscere egli
stesso che «nicht jeder Humor diese höchste Stufe erreicht» e che vi
ha «neben dem versöhnten, einen entzweiten Humor».
Ma che bisogno ho io, ripeto, di dare un qualsiasi valore etico a
quello che ho chiamato il sentimento del contrario, o di determinarlo
a priori in alcun modo? Esso si determinerà da sè, volta per volta,
secondo la personalità del poeta o l'oggetto della rappresentazione.
Che importa a me, critico estetico, di sapere in chi o dove stia la
ragion relativa e il giusto e il bene? Io non voglio nè debbo uscire dal
campo della fantasia pura. Io mi pongo dinanzi qualunque
rappresentazione artistica, e mi propongo soltanto di giudicarne il
valore estetico. Per questo giudizio, ho bisogno innanzi tutto di
sapere lo stato d'animo che quella rappresentazione artistica vuol
suscitare: lo saprò dall'impressione che ne ho ricevuto. Questo stato
d'animo, ogni qual volta mi trovo innanzi a una rappresentazione
veramente umoristica, è di perplessità: io mi sento come tenuto tra
due: vorrei ridere, rido, ma il riso mi è turbato e ostacolato da
qualcosa che spira dalla rappresentazione stessa. Ne cerco la
ragione. Per trovarla, non ho affatto bisogno di sciogliere
l'espressione fantastica in un rapporto etico, di tirare in ballo il valore
etico della personalità umana e via dicendo.
Trovo questo sentimento del contrario, qualunque esso sia, che
spira in tanti modi dalla rappresentazione stessa, costantemente in
tutte le rappresentazioni che soglio chiamare umoristiche. Perchè
limitarne eticamente la causa, oppure astrattamente, attribuendola,
ad esempio, al disaccordo che il sentimento e la meditazione
scoprono fra la vita reale e l'ideale umano o fra le nostre aspirazioni
e le nostre debolezze e miserie? Nascerà anche da questo, come da
tantissime altre cause indeterminabili a priori. A noi preme soltanto
accertare che questo sentimento del contrario nasce, e che nasce
da una speciale attività che assume nella concezione di siffatte
opere d'arte la riflessione.

III
Teniamoci a questo; seguiamo questa attività speciale della
riflessione, e vediamo se essa non ci spiega, a una a una le varie
caratteristiche, che si possono riscontrare in ogni opera umoristica.
Abbiamo detto che, ordinariamente, nella concezione d'un'opera
d'arte, la riflessione è quasi una forma del sentimento, quasi uno
specchio in cui il sentimento si rimira. Volendo seguitar
quest'imagine, si potrebbe dire che, nella concezione umoristica, la
riflessione è, sì, come uno specchio, ma d'acqua diaccia, in cui la
fiamma del sentimento non si rimira soltanto, ma si tuffa e si smorza:
il friggere dell'acqua è il riso che suscita l'umorista; il vapore che
n'esala è la fantasia spesso un po' fumosa dell'opera umoristica.
— A questo mondo c'è giustizia finalmente! — grida Renzo, il
promesso sposo, appassionato e rivoltato.
— Tant'è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel
che si dica, — commenta il Manzoni.
Ecco la fiamma là del sentimento, che si tuffa qua e si smorza
nell'acqua diaccia della riflessione.
La riflessione, assumendo quella sua speciale attività, viene a
turbare, a interrompere il movimento spontaneo che organa le idee e
le immagini in una forma armoniosa. È stato tante volte notato che le
opere umoristiche sono scomposte, interrotte, intramezzate di
continue digressioni. Anche in un'opera così armonica nel suo
complesso come I Promessi Sposi, è stato notato qualche difetto di
composizione, una soverchia minuzia qua e là e il frequente
interrompersi della rappresentazione o per richiami al famoso
Anonimo o per l'arguta intrusione dell'autore stesso. Questo, che ai
critici nostri è sembrato un eccesso per un verso, un difetto per
l'altro, è poi la caratteristica più evidente di tutti i libri umoristici.
Basta citare il Tristram Shandy dello Sterne, che è tutto quanto un
viluppo di variazioni e digressioni, non ostante che l'autobiografo si
proponga di narrar tutto ab ovo, punto per punto, e cominci dall'alvo
di sua madre e dalla pendola che il signor Shandy padre soleva
puntualmente caricare.
Ma se questa caratteristica è stata notata, non se ne son vedute
chiaramente le ragioni. Questa scompostezza, queste digressioni,
queste variazioni non derivano già dal bizzarro arbitrio o dal
capriccio degli scrittori, ma sono appunto necessaria e inovviabile
conseguenza del turbamento e delle interruzioni del movimento
organatore delle immagini per opera della riflessione attiva, la quale
suscita un'associazione per contrarii: le immagini cioè, anzichè
associate per similazione o per contiguità, si presentano in
contrasto: ogni immagine, ogni gruppo d'immagini desta e richiama
le contrarie, che naturalmente dividono lo spirito, il quale, irrequieto,
s'ostina a trovare o a stabilir tra loro le relazioni più impensate.
Ogni vero umorista non è soltanto poeta, è anche critico, ma — si
badi — un critico sui generis, un critico fantastico: e dico fantastico
non solamente nel senso di bizzarro o di capriccioso, ma anche nel
senso estetico della parola, quantunque possa sembrare a prima
giunta una contraddizione in termini. Ma è proprio così; e però ho
sempre parlato di una speciale attività della riflessione.
Questo apparirà chiaro quando si pensi che se, indubbiamente, una
innata o ereditata malinconia, le tristi vicende, un'amara esperienza
della vita, o anche un pessimismo o uno scetticismo acquisito con lo
studio e con la considerazione su le sorti dell'umana esistenza, sul
destino degli uomini, ecc. possono determinare quella particolar
disposizione d'animo che si suol chiamare umoristica, questa
disposizione poi, da sola, non basta a creare un'opera d'arte. Essa
non è altro che il terreno preparato: l'opera d'arte è il germe che
cadrà in questo terreno, e sorgerà, e si svilupperà nutrendosi
dell'umore di esso, togliendo cioè da esso condizione e qualità. Ma
la nascita e lo sviluppo di questa pianta debbono essere spontanei.
Apposta il germe non cade se non nel terreno preparato a riceverlo,
ove meglio cioè può germogliare. La creazione dell'arte è
spontanea: non è composizione esteriore, per addizione d'elementi
di cui si siano studiati i rapporti: di membra sparse non si compone
un corpo vivo, innestando, combinando. Un'opera d'arte, in somma,
è, in quanto è «ingenua»; non può essere il risultato della riflessione
cosciente.
La riflessione, dunque, di cui io parlo, non è un'opposizione del
cosciente verso lo spontaneo; è una specie di proiezione della
stessa attività fantastica: nasce dal fantasma, come l'ombra dal
corpo; ha tutti i caratteri della «ingenuità» o natività spontanea; è nel
germe stesso della creazione, e spira in fatti da essa ciò che ho
chiamato il sentimento del contrario.
Ben per questo ho soggiunto che l'umorismo potrebbe dirsi un
fenomeno di sdoppiamento nell'atto della concezione. La concezione
dell'opera d'arte non è altro, in fondo, che una forma
dell'organamento delle immagini. L'idea dell'artista non è un'idea
astratta; è un sentimento, che divien centro della vita interiore, si
impadronisce dello spirito, l'agita e, agitandolo, tende a crearsi un
corpo d'immagini. Quando un sentimento scuote violentemente lo
spirito, d'ordinario, si svegliano tutte le idee, tutte le immagini che
son con esso in accordo: qui, invece, per la riflessione inserta nel
germe del sentimento, come un vischio maligno, si sveglian le idee e
le immagini in contrasto. E la condizione, è la qualità che prende il
germe, cadendo nel terreno che abbiamo più su descritto: gli
s'inserisce il vischio della riflessione; e la pianta sorge e si veste d'un
verde estraneo e pur con essa connaturato.
A questo punto si fa avanti il Croce con tutta la forza della sua logica
raccolta in un cosicchè, per inferire da quanto ho detto più su, ch'io
contrappongo arte e umorismo. E si domanda: — «Vuol egli dire che
l'umorismo non è arte, o che esso è più che arte? E, in questo caso,
che cosa è mai? Riflessione su l'arte, e cioè critica d'arte?
Riflessione sulla vita, e cioè filosofia della vita? O una forma sui
generis dello spirito, che i filosofi, finora, non hanno conosciuta? Il P.,
se l'ha scoperta lui, avrebbe dovuto, a ogni modo, dimostrarla,
assegnarle un posto, dedurla e farne intendere la connessione con
le altre forme dello spirito. Il che non ha fatto, limitandosi ad
affermare che l'umorismo è l'opposto dell'arte».
Io mi guardo attorno sbalordito. Ma dove, ma quando mai ho
affermato questo? Qui sta tra due: o io non so scrivere, o il Croce
non sa leggere. Come c'entra la riflessione sull'arte che è critica
d'arte, e la riflessione sulla vita che è filosofia della vita? Io ho detto
che ordinariamente, in generale, nella concezione d'un'opera d'arte,
cioè mentre uno scrittore la concepisce, la riflessione ha un ufficio
che ho cercato di determinare, per poi venire a determinare quale
speciale attività essa assuma, non già sull'opera d'arte, ma in quella
speciale opera d'arte che si chiama umoristica. Ebbene, perciò
l'umorismo non è arte, o è più che alte? Chi lo dice? Lo dice lui, il
Croce, perchè vuol dirlo, non perchè io non mi sia espresso
chiaramente, dimostrando che è arte con questo particolar carattere,
e chiarendo da che cosa le provenga, cioè da questa speciale
attività della riflessione, la quale scompone l'immagine creata da un
primo sentimento per far sorgere da questa scomposizione e
presentarne un altro contrario, come appunto s'è veduto dagli
esempii recati e da tutti gli altri che avrei potuto recare, esaminando
a una a una le più celebrate opere umoristiche.
Non vorrei ammettere un'ipotesi quanto mai ingiuriosa per il Croce,
che cioè egli creda che un'opera d'arte si componga come un
qualunque pasticcio con tanto d'uova, tanto di farina, tanto di questo
o di quell'altro ingrediente, che si potrebbe anche mettere o lasciar
fuori. Ma purtroppo mi vedo costretto da lui stesso ad ammettere
una siffatta ipotesi, quand'egli «per farmi toccare con mano che
l'umorismo come arte non si può distinguere dalla restante arte»
pone questi due casi circa alla riflessione, di cui io — secondo lui —
vorrei fare carattere distintivo dell'arte umoristica, quasi che fosse lo
stesso dire così, in generale, la riflessione e parlare com'io faccio,
d'una speciale attività della riflessione, più come processo intimo,
immancabile nell'atto della concezione o della creazione di tali
opere, che come carattere distintivo che per forza debba mostrarsi.
Ma lasciamo andare. Pone, dicevo, questi due casi: che cioè, la
riflessione «o entra, come componente nella materia dell'opera
dell'arte e, in questo caso, tra l'umorismo e la commedia (o la
tragedia o la lirica, e via dicendo), non vi ha differenza alcuna,
giacchè in tutte le opere d'arte entra, o può entrare, il pensiero e la
riflessione; ovvero rimane estrinseca, all'opera d'arte, e allora si avrà
critica e non mai arte, e neppure arte umoristica».
È chiaro. Il pasticcio! Recipe: tanto di fantasia, tanto di sentimento,
tanto di riflessione; impasta e avrai una qualunque opera d'arte,
perchè nella composizione di una qualunque opera d'arte possono
entrare tutti quegli ingredienti, e anche altri.
Ma domando io: come c'entra questo pasticcio, questa
composizione d'elementi come materia dell'opera d'arte, qualunque
e comunque sia, con quello che io ho detto più su e che ho fatto
vedere, punto per punto, parlando per esempio del Sant'Ambrogio
del Giusti, quando ho mostrato come la riflessione, inserendosi
come un vischio nel primo sentimento del poeta, che è d'odio verso
quei soldatacci stranieri, generò a poco a poco il contrario del
sentimento di prima? E forse perchè questa riflessione, sempre
vigile e specchiante in ogni artista durante la creazione, non segue
qua il primo sentimento, ma a un certo punto gli s'oppone, diventa
perciò estrinseca all'opera d'arte, diventa perciò critica? Io parlo
d'una attività intrinseca della riflessione, e non della riflessione come
materia componente dell'opera d'arte. È chiaro! E non è credibile
che il Croce non l'intenda. Non vuole intenderlo. E ne è prova quel
suo voler far credere che siano imprecise le mie distinzioni e che io
le ripeta e le modifichi e le temperi di continuo e che, quando altro
non sappia, ricorra alle immagini; mentre invece negli esempii ch'egli
cita di queste mie pretese ripetizioni e modificazioni e soccorrevoli
immagini, sfido chiunque a scoprire il minimo disaccordo, la minima
modificazione, il minimo temperamento della prima asserzione, e
non piuttosto una più chiara spiegazione, una più precisa immagine;
sfido chiunque a riconoscere con lui il mio imbarazzo, poichè i
concetti, a suo dire, mi si sformano tra mano quando li prendo per
porgerli altrui.
Tutto questo è veramente pietoso. Ma tanto può sul Croce ciò che
una volta egli s'è lasciato dire: che cioè dell'umorismo non si debba,
nè si possa parlare.
Andiamo avanti.
IV

Per spiegarci la ragione del contrasto tra la riflessione e il


sentimento, dobbiamo penetrar nel terreno in cui il germe cade,
voglio dire nello spirito dello scrittore umorista. Che se la
disposizione umoristica per sè sola non basta, perchè ci vuole il
germe della creazione, questo germe poi si nutre dell'umore che
trova. Lo stesso Lipps che vede tre modi d'essere dell'umore, cioè:
a) l'umore, come disposizione, o modo di considerar le cose;
b) l'umore, come rappresentazione;
c) l'umore obiettivo; conclude poi che in verità l'umore è soltanto in
chi lo ha: soggettivismo e oggettivismo non sono altro che un diverso
atteggiamento dello spirito nell'atto della rappresentazione. La
rappresentazione cioè dell'umore, che è sempre in chi lo ha, può
essere atteggiata in due modi: subiettivamente od obiettivamente.
Quei tre modi d'essere si presentano al Lipps perchè egli limita e
determina eticamente la ragione dell'umorismo, il quale è per lui,
come abbiamo già veduto, superamento del comico attraverso il
comico stesso. Sappiamo che cosa egli intenda per superamento.
Io, secondo lui, ho umore, quando: «ich selbst bin der Erhabene, der
sich Behauptende, der Träger des Vernünftigen Oder Sittlichen. Als
dieser Erhabene, oder im Lichte dieses Erhabenen betrachte ich die
Welt. Ich finde in ihr Komisches und gehe betrachtend in die Komick
ein. Ich gewinne aber schliesslich mich selbst, oder des Erhabene in
mir, erhöht, befestigt, gesteigert wieder».
Ora questa per noi è una considerazione assolutamente estranea,
prima di tutto, e poi anche unilaterale. Togliendo alla formula il valore
etico, l'umorismo poi con essa riman considerato, se mai, nel suo
effetto, non nella causa.
Per noi tanto il comico quanto il suo contrario sono nella
disposizione d'animo stessa ed insiti nel processo che ne risulta.
Nella sua anormalità, non può esser che amaramente comica la
condizione d'un uomo che si trova ad esser sempre quasi fuori di
chiave, ad essere a un tempo violino e contrabbasso; d'un uomo a
cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un
altro opposto, contrario; a cui per una ragione ch'egli abbia di dir sì,
subito un'altra e due e tre non ne sorgano che lo costringono a dir
no; e tra il sì e il no lo tengan sospeso, perplesso, per tutta la vita;
d'un uomo che non può abbandonarsi a un sentimento, senza
avvertir subito qualcosa dentro che gli fa una smorfia e lo turba e lo
sconcerta e lo indispettisce.
Questo stesso contrasto, che è nella disposizione dell'animo, si
scorge nelle cose e passa nella rappresentazione.
È una speciale fisionomia psichica, a cui è assolutamente arbitrario
attribuire una causa determinante; può esser frutto d'una esperienza
amara della vita e degli uomini, d'una esperienza che se, da un
canto, non permette più al sentimento ingenuo di metter le ali e di
levarsi come un'allodola perchè lanci un trillo nel sole, senza ch'essa
la trattenga per la coda nell'atto di spiccare il volo; dall'altro induce a
riflettere che la tristizia degli uomini si deve spesso alla tristezza
della vita, ai mali di cui essa è piena e che non tutti sanno o possono
sopportare; induce a riflettere che la vita, non avendo fatalmente per
la ragione umana un fine chiaro e determinato, bisogna che, per non
brancolar nel vuoto, ne abbia uno particolare, fittizio, illusorio, per
ciascun uomo, o basso o alto; poco importa, giacchè non è, nè può
essere il fine vero, che tutti cercano affannosamente e nessuno
trova, forse perchè non esiste. Quel che importa è che si dia
importanza a qualche cosa, e sia pur vana: varrà quanto un'altra
stimata seria, perchè in fondo nè l'una nè l'altra daranno
soddisfazione: tanto è vero che durerà sempre ardentissima la sete
di sapere, non si estinguerà mai la facoltà di desiderare, e non è
detto pur troppo che nel progresso consista la felicità degli uomini.
Tutte le finzioni dell'anima, tutte le creazioni del sentimento vedremo
esser materia dell'umorismo, vedremo cioè la riflessione diventar
come un demonietto che smonta il congegno d'ogni immagine,
d'ogni fantasma messo su dal sentimento; smontarlo per veder
com'è fatto; scaricarne la molla, e tutto il congegno striderne,
convulso. Può darsi che questo faccia talvolta con quella simpatica
indulgenza di cui parlan coloro che vedono soltanto un umorismo
bonario. Ma non c'è da fidarsene, perchè se la disposizione
umoristica ha talvolta questo di particolare, cioè questa indulgenza,
questo compatimento o anche questa pietà, bisogna pensare che
esse son frutto della riflessione che si è esercitata sul sentimento
opposto; sono un sentimento del contrario nato dalla riflessione su
quei casi, su quei sentimenti, su quegli uomini, che provocano nello
stesso tempo lo sdegno, il dispetto, l'irrisione dell'umorista, il quale è
tanto sincero in questo dispetto, in questa irrisione, in questo
sdegno, quanto in quell'indulgenza, in quel compatimento, in quella
pietà. Se così non fosse, si avrebbe non più l'umorismo vero e
proprio, ma l'ironia, che deriva — come abbiamo veduto — da una
contraddizione soltanto verbale, da un infingimento retorico, affatto
contrario alla natura dello schietto umorismo.
Ogni sentimento, ogni pensiero, ogni moto che sorga nell'umorista si
sdoppia subito nel suo contrario: ogni sì in un no, che viene in fine
ad assumere lo stesso valore del sì. Magari può fingere talvolta
l'umorista di tenere soltanto da una parte: dentro intanto gli parla
l'altro sentimento che pare non abbia il coraggio di rivelarsi in prima,
gli parla e comincia a muovere ora una timida scusa, ora
un'attenuante, che smorzano il calore del primo sentimento, ora
un'arguta riflessione che ne smonta le serietà e induce a ridere.
Così avviene che noi dovremmo tutti provar disprezzo e
indignazione per don Abbondio, per esempio, e stimar ridicolissimo e
spesso un matto da legare Don Quijote; eppure siamo indotti al
compatimento, finanche alla simpatia per quello, e ad ammirare con
infinita tenerezza le ridicolaggini di questo, nobilitate da un ideale
così alto e puro.
Dove sta il sentimento del poeta? Nel disprezzo o nel compatimento
per don Abbondio? Il Manzoni ha un ideale astratto, nobilissimo della
missione del sacerdote su la terra, e incarna questo ideale in
Federigo Borromeo. Ma ecco la riflessione, frutto della disposizione
umoristica, suggerire al poeta che questo ideale astratto soltanto per
una rarissima eccezione può incarnarsi, e che le debolezze umane
sono pur tante. Se il Manzoni avesse ascoltato solamente la voce di
quell'ideale astratto, avrebbe rappresentato don Abbondio in modo
che tutti avrebbero dovuto provar per lui odio e disprezzo, ma egli
ascolta entro di sè anche la voce delle debolezze umane. Per la
naturale disposizione dello spirito, per l'esperienza della vita, che
gliel'ha determinata, il Manzoni non può non sdoppiare in germe la
concezione di quell'idealità religiosa, sacerdotale: e tra le due
fiamme accese di Fra Cristoforo e del Cardinal Federigo vede, terra
terra, guardinga e mogia, allungarsi l'ombra di don Abbondio. E si
compiace a un certo punto di porre a fronte, in contrasto, il
sentimento attivo, positivo, e la riflessione negativa; la fiaccola
accesa del sentimento e l'acqua diaccia della riflessione; la
predicazione alata, astratta, dell'altruismo, per veder come si smorzi
nelle ragioni pedestri e concrete dell'egoismo.
Federigo Borromeo domanda a don Abbondio: — «E quando vi siete
presentato alla Chiesa per addossarvi codesto ministero, v'ha essa
fatto sicurtà della vita? V'ha detto che i doveri annessi al ministero
fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v'ha
detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il
dovere? O non v'ha espressamente detto il contrario? Non v'ha
avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate
voi che c'eran de' violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che vi
sarebbe comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l'esempio,
ad imitazione di Cui si lasciam nominare e ci nominiamo pastori,
venendo in terra a esercitarne l'ufizio, mise forse per condizione
d'aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche
giorno di più su la terra, a spese della carità e del dovere, c'era
bisogno dell'unzione santa, della imposizion delle mani, della grazia
del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa
dottrina. Che dico, oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo
fa anch'esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il
suo vangelo anch'esso, un vangelo di superbia e d'odio; e non vuol
che si dica che l'amore della vita sia una ragione per trasgredirne i
comandamenti. Non lo vuole ed è ubbidito! E noi! noi figli e
annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa se codesto
vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri fratelli? Dove sarebbe,
se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine?».
Don Abbondio ascolta questa lunga e animosa predica a capo
basso. Il Manzoni dice che lo spirito di lui «si trovava tra quegli
argomenti come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono
sollevato in una regione sconosciuta, in un'aria che non ha mai
respirata». Il paragone è bello, quantunque a qualcuno l'idea di
rapacità e di fierezza che è nel falco sia sembrata poco conveniente
al Cardinal Federigo. L'errore, secondo me, non è tanto nella
maggiore o minor convenienza del paragone, quanto nel paragone
stesso, per amore del quale il Manzoni, volendo rifar la favoletta
d'Esiodo, s'è forse lasciato andare a dir quello che non doveva. Si
trovava don Abbondio veramente sollevato in una regione
sconosciuta tra quegli argomenti del Cardinal Borromeo? Ma il
paragone dell'agnello tra i lupi si legge nel Vangelo di Luca, dove
Cristo dice appunto a gli apostoli: «Ecco, io mando voi come agnelli
tra i lupi». E chi sa quante volte dunque don Abbondio lo aveva letto;
come in altri libri chi sa quante volte aveva letto quegli ammonimenti
austeri; quelle considerazioni elevate. E diciamo di più: forse lo
stesso don Abbondio, in astratto, parlando, predicando della
missione del sacerdote, avrebbe detto su per giù le stesse cose.
Tanto vero che, in astratto, egli le intende benissimo:
— Monsignore illustrissimo, avrò torto, — risponde infatti; ma
s'affretta a soggiungere: — Quando la vita non si deve contare, non
so cosa mi dire.
E allorchè il Cardinale insiste:
— E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vivere? E
se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro?
qual'è la buona nuova che annunziate ai poveri? Chi pretende da voi
che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un
giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; chè a questo
non vi fu dato nè missione, nè modo. Ma vi sarà ben domandato se
avrete adoperati i mezzi ch'erano in vostra mano per far ciò che
v'era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo».
— Anche questi santi son curiosi, — pensa don Abbondio: — in
sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due
giovani, che la vita d'un povero sacerdote.
E poichè il cardinale è rimasto in atto di chi aspetti una risposta,
risponde:
— Torno a dire, monsignore, che avrò torto io... Il coraggio, uno non
se lo può dare.
Il che significa appunto: — Sissignore, ragionando astrattamente, la
ragione è dalla parte di Vossignoria Illustrissima; il torto sarà mio.
Però Vossignoria Illustrissima parla bene, ma quelle facce le ho viste
io, le ho sentite io quelle parole.
— Ma perchè dunque, — gli domanda in fine il Cardinale, — vi siete
voi impegnato in un ministero che v'impone di stare in guerra con le
passioni del secolo?
Oh, il perchè noi lo sappiamo bene: il Manzoni stesso ce l'ha detto
fin da principio; ce l'ha voluto dire e poteva anche farne a meno: Don
Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era
accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in
quella società, come un vaso di terra cotta costretto a viaggiare in
compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado,
ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva
gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si
dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio e mettersi in
una classe privilegiata e forte, gli eran sembrate due ragioni più che
sufficienti per una tale scelta.
In lotta dunque con le passioni del secolo? Ma se egli s'è fatto prete
per guardarsi appunto dagli urti di quelle passioni e col suo sistema
particolare di scansar tutti i contrasti!
Bisogna pure ascoltare, signori miei, le ragioni del coniglio! Io
immaginai una volta che alla tana della volpe, o di Messer Renardo,
com'essa si suol chiamare nel mondo delle favole, accorressero a
una a una tutte le bestie per la notizia che tra loro s'era sparsa di
certe controfavole che la volpe avesse in animo di comporre in
risposta a tutte quelle che da tempo immemorabile gli uomini
compongono, e da cui esse bestie han forse motivo di sentirsi
calunniate. E tra le altre alla tana di Messer Renardo veniva il
coniglio a protestare contro gli uomini che lo chiamano pauroso, e
diceva: «Ma ben vi so dire per conto mio, Messer Renardo, che topi
e lucertole e uccelli e grilli e tant'altre bestiole ho sempre messo in
fuga, le quali, se voi domandaste loro che concetto abbiano di me,
chi sa che cosa vi risponderebbero, non certo che io sia una bestia
paurosa. O che forse pretenderebbero gli uomini che al loro cospetto
io mi rizzassi su due piedi e movessi loro incontro per farmi prendere
e uccidere? Io credo veramente, Messer Renardo, che per gli uomini
non debba correre alcuna differenza tra eroismo e imbecillità!».
Ora, io non nego, don Abbondio è un coniglio. Ma noi sappiamo che
Don Rodrigo, se minacciava, non minacciava invano, sappiamo che
pur di spuntare l'impegno egli era veramente capace di tutto;
sappiamo che tempi eran quelli, e possiamo benissimo immaginare
che a don Abbondio, se avesse sposato Renzo e Lucia, una
schioppettata non gliel'avrebbe di certo levata nessuno, e che forse
Lucia, sposa soltanto di nome, sarebbe stata rapita, uscendo dalla
chiesa, e Renzo anch'egli ucciso. A che giovano l'intervento, il
suggerimento di Fra Cristoforo? Non è rapita Lucia dal monastero di
Monza? C'è la lega dei birboni, come dice Renzo. Per scioglier
quella matassa ci vuol la mano di Dio; non per modo di dire, la mano
di Dio propriamente. Che poteva fare un povero prete?
Pauroso, sissignori, don Abbondio; e il De Sanctis ha dettato alcune
pagine meravigliose esaminando il sentimento della paura nel
povero curato; ma non ha tenuto conto di questo, perbacco: che il
pauroso è ridicolo, è comico, quando si crea rischi e pericoli
immaginarii: ma quando un pauroso ha veramente ragione d'aver
paura, quando vediamo preso, impigliato in un contrasto terribile,
uno che per natura e per sistema vuole scansar tutti i contrasti,
anche i più lievi, e che in quel contrasto terribile per suo dovere
sacrosanto dovrebbe starci, questo pauroso non è più comico
soltanto. Per quella situazione non basta neanche un eroe come Fra
Cristoforo, che va ad affrontare il nemico nel suo stesso palazzotto!
Don Abbondio non ha il coraggio del proprio dovere; ma questo
dovere, dalla nequizia altrui, è reso difficilissimo, e però quel
coraggio è tutt'altro che facile; per compierlo ci vorrebbe un eroe. Al
posto d'un eroe troviamo Don Abbondio. Noi non possiamo, se non
astrattamente, sdegnarci di lui, cioè se in astratto consideriamo il
ministero del sacerdote. Avremmo certamente ammirato un
sacerdote eroe che, al posto di don Abbondio, non avesse tenuto
conto della minaccia e del pericolo e avesse adempiuto il dovere del
suo ministero. Ma non possiamo non compatire don Abbondio, che
non è l'eroe che ci sarebbe voluto al suo posto, che non solo non ha
il grandissimo coraggio che ci voleva; ma non ne ha nè punto nè
poco; e il coraggio, uno non se lo può dare!
Un osservatore superficiale terrà conto del riso che nasce dalla
comicità esteriore degli atti, dei gesti, delle frasi reticenti ecc. di don
Abbondio, e lo chiamerà ridicolo senz'altro, o una figura
semplicemente comica. Ma chi non si contenta di queste
superficialità e sa veder più a fondo, sente che il riso qui scaturisce
da ben altro, e non è soltanto quello della comicità.
Don Abbondio è quel che si trova in luogo di quello che ci sarebbe
voluto. Ma il poeta non si sdegna di questa realtà che trova, perchè,
pur avendo, come abbiamo detto, un ideale altissimo della missione
del sacerdote su la terra, ha pure in sè la riflessione che gli
suggerisce che quest'ideale non si incarna se non per rarissima
eccezione, e però lo obbliga a limitare quell'ideale, come osserva il
De Sanctis. Ma questa limitazione dell'ideale che cos'è? è l'effetto
appunto della riflessione che, esercitandosi su quest'ideale, ha
suggerito al poeta il sentimento del contrario. E don Abbondio è
appunto questo sentimento del contrario oggettivato e vivente; e
però non è comico soltanto, ma schiettamente e profondamente
umoristico.
Bonarietà? Simpatica indulgenza? Andiamo adagio: lasciamo star
codeste considerazioni, che sono in fondo estranee e superficiali, e
che, a volerle approfondire, c'è il rischio che ci facciano anche qui
scoprire il contrario. Vogliamo vederlo? Sì, ha compatimento il
Manzoni per questo poveruomo di don Abbondio; ma è un
compatimento, signori miei, che nello stesso tempo ne fa strazio,
necessariamente. Infatti, solo a patto di riderne e di far rider di lui,
egli può compatirlo e farlo compatire, commiserarlo e farlo
commiserare. Ma, ridendo di lui e compatendolo nello stesso tempo,
il poeta viene anche a ridere amaramente di questa povera natura
umana inferma di tante debolezze; e quanto più le considerazioni
pietose si stringono a proteggere il povero curato, tanto più attorno a
lui s'allarga il discredito del valore umano. Il poeta, in somma, ci
induce ad aver compatimento del povero curato, facendosi
riconoscere che è pur umano, di tutti noi, quel che costui sente e
prova, a passarci bene la mano su la coscienza. E che ne segue?
Ne segue che se, per sua stessa virtù, questo particolare divien
generale, se questo sentimento misto di riso o di pianto, quanto più
si stringe e determina in don Abbondio, tanto più si allarga e quasi
vapora in una tristezza infinita, ne segue, dicevamo, che a voler
considerare da questo lato la rappresentazione del curato
manzoniano, noi non sappiamo più riderne. Quella pietà, in fondo, è
spietata: la simpatica indulgenza non è così bonaria come sembra a
tutta prima.
Gran cosa come si vede, avere un ideale — religioso, come il
Manzoni; cavalleresco, come il Cervantes — per vederselo poi
ridurre dalla riflessione in don Abbondio e in Don Quijote! Il Manzoni
se ne consola, creando accanto al curato di villaggio Fra Cristoforo e
il Cardinal Borromeo; ma è pur vero che, essendo egli sopra tutto
umorista, la creatura sua più viva è quell'altra, quella cioè in cui il
sentimento del contrario s'è incarnato. Il Cervantes non può
consolarsi in alcun modo perchè, nella carcere della Mancha, con
Don Quijote — come egli stesso dice — genera qualcuno che gli
somiglia.
V

È un considerar superficialmente, abbiamo detto, e da un lato solo


l'umorismo, il vedere in esso un particolar contrasto tra l'ideale e la
realtà. Un ideale può esserci, ripetiamo; questo dipende dalla
personalità del poeta; ma se c'è, ecco, è per vedersi decomposto,
limitato, rappresentato a questo modo. Certamente, come tutti gli
altri elementi costitutivi dello spirito d'un poeta, esso entra e si fa
sentire nell'opera umoristica, le dà un particolar carattere, un
particolar sapore; ma non è condizione imprescindibile: tutt'altro! chè
anzi è proprio dell'umorista, per la speciale attività che assume in lui
la riflessione, generando il sentimento del contrario, il non saper più
da qual parte tenere, la perplessità, lo stato irresoluto della
coscienza.
E quest'appunto distingue nettamente l'umorista dal comico,
dall'ironico, dal satirico. Non nasce in questi altri il sentimento del
contrario; se nascesse, sarebbe reso amaro, cioè non più comico, il
riso provocato nel primo dall'avvertimento di una qualsiasi
anormalità; la contraddizione che nel secondo è soltanto verbale, tra
quel che si dice e quel che si vuole sia inteso, diventerebbe effettiva,
sostanziale, e dunque non più ironica; e cesserebbe lo sdegno o,
comunque, l'avversione della realtà che è ragione d'ogni satira.
Non che all'umorista però piaccia la realtà! Basterebbe questo
soltanto, che per poco gli piacesse, perchè, esercitandosi la
riflessione su questo suo piacere, glielo guastasse.
Questa riflessione s'insinua acuta e sottile da per tutto e tutto
scompone: ogni immagine del sentimento, ogni finzione ideale, ogni
apparenza della realtà, ogni illusione.
Il pensiero dell'uomo, diceva Guy de Maupassant, «tourne comme
une mouche dans une bouteille». Tutti i fenomeni, o sono illusorii, o
la ragione di essi ci sfugge, inesplicabile. Manca affatto alla nostra
conoscenza del mondo e di noi stessi quel valore obiettivo che
comunemente presumiamo di attribuirle. È una costruzione illusoria
continua.
Vogliamo assistere alla lotta tra l'illusione, che s'insinua anch'essa
da per tutto e costruisce a suo modo; e la riflessione umoristica che
scompone a una a una queste costruzioni?
Cominciamo da quella che l'illusione fa a ciascuno di noi, dalla
costruzione cioè che ciascuno per opera dell'illusione si fa di sè
stesso. Ci vediamo noi nella nostra vera e schietta realtà, quali
siamo, o non piuttosto quali vorremmo essere? Per uno spontaneo
artificio interiore, frutto di segrete tendenze o d'incosciente
imitazione, non ci crediamo noi in buona fede diversi da quel che
sostanzialmente siamo? E pensiamo, operiamo, viviamo secondo
questa interpretazione fittizia e pur sincera di noi stessi.
Ora la riflessione, sì, può scoprire tanto al comico e al satirico
quanto all'umorista questa costruzione illusoria. Ma il comico ne
riderà solamente, contentandosi di sgonfiar questa metafora di noi
stessi messa su dall'illusione spontanea; il satirico se ne sdegnerà;
l'umorista, no: attraverso il ridicolo di questa scoperta vedrà il lato
serio e doloroso; smonterà questa costruzione ideale, ma non per
riderne solamente; e in luogo di sdegnarsene, magari, ridendo,
compatirà.
Il comico e il satirico sanno dalla riflessione quanta bava tragga dalla
vita sociale il ragno dell'esperienza per comporre la ragna della
mentalità in questo e in quell'individuo, e come in questa ragna resti
spesso avviluppato ciò che si chiama il senso morale. Che cosa
sono, in fondo, i rapporti sociali della così detta convenienza?
Considerazioni di calcolo, nelle quali la moralità è quasi sempre
sacrificata. L'umorista va più addentro, e ride senza sdegnarsi
scoprendo come, anche ingenuamente, con la massima buona fede,
per opera d'una finzione spontanea, noi siamo indotti a interpretar
come vero riguardo, come vero sentimento morale, in sè, ciò che
non è altro, in realtà, se non riguardo o sentimento di convenienza,
cioè di calcolo. E va anche più in là, e scopre che può diventar
convenzionale finanche il bisogno d'apparir peggiori di quello che si
è realmente, se l'essere aggregati a un qualsiasi gruppo sociale
importi che si manifestino idealità e sentimenti che sono proprii a
quel gruppo, e che tuttavia a chi vi partecipa appariscono contrarii e
inferiori al proprio intimo sentimento. [52]
La conciliazione delle tendenze stridenti, dei sentimenti ripugnanti,
delle opinioni contrarie, sembra più attuabile su le basi d'una
comune menzogna, che non su la esplicita e dichiarata tolleranza
del dissenso e del contrasto; sembra, in somma, che la menzogna
debba ritenersi più vantaggiosa della veracità, in quanto quella può
unire, laddove questa divide; il che non impedisce che, mentre la
menzogna è tacitamente scoperta e riconosciuta, si assuma poi a
garanzia della sua efficacia associatrice la veracità stessa, facendosi
apparire come sincerità l'ipocrisia.
La ritenutezza, il riserbo, il lasciar credere più di quanto si dica o si
faccia, il silenzio stesso non scompagnato dalla sapienza dei segni
che lo giustifichi — oh, indimenticabile Conte Zio del Consiglio
segreto, [53] — sono arti che si usano di frequente nella pratica della
vita; e così pure il non dare occasione che si osservi ciò che si
pensa, il lasciar credere che si pensi meno di quanto si pensa
effettivamente, il pretendere di essere creduti differenti da ciò che in
fondo si è.
Notava il Rousseau nel Émile: «Si può fare ciò che si è fatto e non si
doveva fare. Poichè un interesse maggiore può far sì che si violi una
promessa che si era fatta per un interesse minore, ciò che importa è
che la violazione avvenga impunemente. Il mezzo a questo fine è la
menzogna, che può essere di due specie, potendo riguardare il
passato, onde ci si dichiara autori di ciò che in realtà non facemmo,
o essendone autori dichiariamo di non essere; — e potendo
riguardare il futuro, come avviene quando ci facciamo promesse che
si ha in animo di non mantenere. È evidente che la menzogna,
nell'uno e nell'altro caso, sorge dai rapporti della convenienza, come
mezzo a conservar l'altrui benevolenza e ad accaparrarsi l'altrui
soccorso».
Quanto più difficile è la lotta per la vita, e più è sentita in questa lotta
la propria debolezza, tanto maggiore si fa poi il bisogno del reciproco
inganno. La simulazione della forza, dell'onestà, della simpatia, della
prudenza, in somma, d'ogni virtù, e della virtù massima della
veracità, è una forma d'adattamento, un abile strumento di lotta.
L'umorista coglie subito queste varie simulazioni per la lotta della
vita; si diverte a smascherarle: non se n'indigna: — è così!
E mentre il sociologo descrive la vita sociale qual'essa risulta dalle
osservazioni esterne, l'umorista armato del suo arguto intuito
dimostra, rivela come le apparenze siano profondamente diverse
dall'essere intimo della coscienza degli associati. Eppure si mentisce
psicologicamente come si mentisce socialmente. E il mentire a noi
stessi, vivendo coscientemente solo la superficie del nostro essere
psichico, è un effetto del mentire sociale. L'anima che riflette sè
stessa è un'anima solitaria; ma non è mai tanta la solitudine interiore
che non penetrino nella coscienza le suggestioni della vita comune,
con gl'infliggimenti e le arti trasfigurative che la caratterizzano.
Vive nell'anima nostra l'anima della razza o della collettività di cui
siamo parte; e la pressione dell'altrui modo di giudicare, dell'altrui
modo di sentire e di operare, è risentita da noi inconsciamente: e
come dominano nel mondo sociale la simulazione e la
dissimulazione, tanto meno avvertite quanto più sono divenute
abituali, così simuliamo e dissimuliamo con noi medesimi,
sdoppiandoci e spesso anche moltiplicandoci. Risentiamo noi stessi
quella vanità di parer diversi da ciò che si è, che è forma
consustanziata nella vita sociale; e rifuggiamo da quell'analisi che,
svelando la vanità, ecciterebbe il morso della coscienza e ci
umilierebbe di fronte a noi stessi. Ma quest'analisi la fa per noi
l'umorista, che si può dar pure l'ufficio di smascherare tutte le vanità,
e di rappresentar la società, come fa appunto il Thackeray, quale
una Vanity Fair. [54]
E l'umorista sa bene che anche la pretesa della logicità supera
spesso di gran lunga in noi la reale coerenza logica, e che se ci
fingiamo logici teoreticamente, la logica dell'azione può smentire
quella del pensiero, dimostrando che è una finzione il credere alla
sua sincerità assoluta. L'abitudine, l'imitazione incosciente, la pigrizia
mentale concorrono a crear l'equivoco. E quand'anche poi alla
ragione rigorosamente logica si aderisca, poniamo, col rispetto e
l'amore verso determinati ideali, è sempre sincero il riferimento che
facciamo di essi alla ragione? È sempre nella ragione pura,
disinteressata, la sorgente vera e unica della scelta; degli ideali e
della perseveranza nel coltivarli? O invece non è più conforme alla
realtà il sospettare che essi siano talora giudicati non già con un
criterio obiettivo e razionale, ma piuttosto a seconda di speciali
impulsi affettivi e di oscure tendenze?
Le barriere, i limiti che noi poniamo alla nostra coscienza, sono
anch'essi illusioni, sono le condizioni dell'apparir della nostra
individualità relativa; ma, nella realtà, quei limiti non esistono punto.
Non soltanto noi, quali ora siamo, viviamo in noi stessi, ma anche
noi, quali fummo in altro tempo, viviamo tuttora e sentiamo e
ragioniamo con pensieri e affetti già da un lungo oblìo oscurati,
cancellati, spenti nella nostra coscienza presente, ma che a un urto,
a un tumulto improvviso dello spirito, possono ancora dar prova di
vita, mostrando vivo in noi un altro essere insospettato. I limiti della
nostra memoria personale e cosciente non sono limiti assoluti. Di là
da quella linea vi sono memorie, vi sono percezioni e ragionamenti.
Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una
piccolissima parte di quello che noi siamo. [55] E tante e tante cose,
in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi,
percezioni, ragionamenti, stati di coscienza, che son veramente oltre
i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente. Certi ideali
che crediamo ormai tramontati in noi e non più capaci d'alcuna
azione nel nostro pensiero, su i nostri affetti, su i nostri atti, forse
persistono tuttavia, se non più nella forma intellettuale, pura, nel
sostrato loro, costituito dalle tendenze affettive e pratiche. E possono
essere motivi reali di azione certe tendenze da cui ci crediamo
liberati, e non aver per l'opposto efficacia pratica in noi, se non
illusoria, credenze nuove che riteniamo di possedere veramente,
intimamente.
E appunto le varie tendenze che contrassegnano la personalità
fanno pensare sul serio che non sia una l'anima individuale. Come
affermarla una, difatti, se passione e ragione, istinto e volontà,
tendenze e idealità, costituiscono in certo modo altrettanti sistemi
distinti e mobili, che fanno sì che l'individuo, vivendo ora l'uno ora
l'altro di essi, ora qualche compromesso fra due o più orientamenti
psichici, apparisca come se veramente in lui fossero più anime
diverse e perfino opposte, più e opposte personalità?
Non c'è uomo, osservò il Pascal, che differisca più da un altro che da
sè stesso nella successione del tempo.
La semplicità dell'anima contradice al concetto storico dell'anima
umana. La sua vita è equilibrio mobile; è un risorgere e un assopirsi
continuo di affetti, di tendenze, di idee; un fluttuare incessante fra
termini contradditorii, e un oscillare fra poli opposti, come la
speranza e la paura, il vero e il falso, il bello e il brutto, il giusto e
l'ingiusto e via dicendo. Se d'un tratto si disegna nell'immagine
oscura dell'avvenire un luminoso disegno d'azione, o vagamente
brilla il fiore del godimento, non tarda ad apparire, vindice dei diritti
dell'esperienza, il pensiero del passato, non di rado cupo e triste; o
interviene a infrenare la briosa fantasia il senso riottoso del presente.
Questa lotta di ricordi, di speranze, di presentimenti, di percezioni,
d'idealità, può raffigurarsi come una lotta d'anime fra loro, che si
contrastino il dominio definitivo e pieno della personalità.
Ecco un alto funzionario, che si crede, ed è, poveretto, in verità, un
galantuomo. Domina in lui l'anima morale. Ma un bel giorno, l'anima
istintiva, che è come la bestia originaria acquattata in fondo a
ciascuno di noi, spara un calcio all'anima morale, e quel galantuomo
ruba. Oh, egli stesso, poveretto, egli per il primo, poco dopo, ne
prova stupore, piange, domanda a sè stesso, disperato: — Come,
come mai ho potuto far questo? — Ma, sissignori, ha rubato. E
quell'altro là? Uomo dabbene, anzi dabbenissimo: sissignori, ha
ucciso. L'idealità morale costituiva nella personalità di lui un'anima
che contrastava con l'anima istintiva e pure in parte con quella
affettiva o passionale; costituiva un'anima acquisita che lottava con
l'anima ereditaria, la quale, lasciata per un po' libera a sè stessa, è
riuscita d'improvviso al furto, al delitto.
La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d'arrestare, di fissare
in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perchè noi già
siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre
immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto
che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco
rallentato, non cessi. Le forme, in cui cerchiamo d'arrestare, di
fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a
cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le
condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi
stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso
continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo,
componendoci una coscienza, costruendoci una personalità. In certi
momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme
fittizie crollano miseramente; e anche quello che non scorre sotto gli
argini e oltre i limiti, ma che si scopre a noi distinto e che noi
abbiamo con cura incanalato nei nostri affetti, nei doveri che ci
siamo imposti, nelle abitudini che ci siamo tracciate, in certi momenti
di piena straripa e sconvolge tutto.
Vi sono anime irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che
sdegnano di rapprendersi, d'irrigidirsi in questa o in quella forma di
personalità. Ma anche per quelle più quiete, che si sono adagiate in
una o in un'altra forma, la fusione è sempre possibile: il flusso della
vita è in tutti.
E per tutti però può rappresentare talvolta una tortura, rispetto
all'anima che si muove e si fonde, il nostro stesso corpo fissato per
sempre in fattezze immutabili. Oh perchè proprio dobbiamo essere
così, noi? — ci domandiamo talvolta allo specchio, — con questa
faccia, con questo corpo? — Alziamo una mano, nell'incoscienza; e
il gesto ci resta sospeso. Ci pare strano che l'abbiamo fatto noi. Ci
vediamo vivere. Con quel gesto sospeso possiamo assomigliarci a
una statua; a quella statua d'antico oratore, per esempio, che si
vede in una nicchia, salendo per la scalinata del Quirinale. Con un
rotolo di carta in mano, e l'altra mano protesa a un sobrio gesto,
come pare afflitto e meravigliato quell'oratore antico d'esser rimasto
lì, di pietra, per tutti i secoli, sospeso in quell'atteggiamento, dinanzi
a tanta gente che è salita, che sale e salirà per quella scalinata!
In certi momenti di silenzio interiore, in cui l'anima nostra si spoglia
di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più
penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in sè stessa la vita,
quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una
strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà
diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente
oltre la vista umana, fuori delle forme dell'umana ragione.
Lucidissimamente allora la compagine dell'esistenza quotidiana,
quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare
priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida
nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poichè tutte le nostre
fittizie relazioni consuete di sentimenti e d'immagini si sono scisse e
disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro
corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto
del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si
sprofondasse negli abissi del mistero. Con uno sforzo supremo
cerchiamo allora di riacquistar la coscienza normale delle cose, di
riallacciar con esse le consuete relazioni, di riconnetter le idee, di
risentirci vivi come per l'innanzi, al modo solito. Ma a questa
coscienza normale, a queste idee riconnesse, a questo sentimento
solito della vita non possiamo più prestar fede, perchè sappiamo
ormai che sono un nostro inganno per vivere e che sotto c'è
qualcos'altro, a cui l'uomo non può affacciarsi, se non a costo di
morire o d'impazzire. È stato un attimo; ma dura a lungo in noi
l'impressione di esso, come di vertigine, con la quale contrasta la
stabilità, pur così vana, delle cose: ambiziose o misere apparenze.
La vita, allora, che s'aggira piccola, solita, fra queste apparenze ci
sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una
fantasmagoria meccanica. E come darle importanza? come portarle
rispetto?
Oggi siamo, domani no. Che faccia ci hanno dato per rappresentar
la parte del vivo? Un brutto naso? Che pena doversi portare a
spasso un brutto naso per tutta la vita... Fortuna che, a lungo
andare, non ce n'accorgiamo più. Se ne accorgono gli altri, è vero,
quando noi siamo finanche arrivati a credere d'avere un bel naso; e
allora non sappiamo più spiegarci perchè gli altri ridano,
guardandoci. Sono tanti sciocchi! Consoliamoci guardando che
orecchi ha quello e che labbra quell'altro; i quali non se n'accorgono
nemmeno e hanno il coraggio di ridere di noi. Maschere, maschere...
Un soffio e passano, per dar posto ad altre. Quel povero zoppetto
là... Chi è? Correre alla morte con la stampella... La vita, qua,
schiaccia il piede a uno; cava là un occhio a un altro... Gamba di
legno, occhio di vetro, e avanti! Ciascuno si racconcia la maschera
come può — la maschera esteriore. Perchè dentro poi c'è l'altra, che
spesso non s'accorda con quella di fuori. E niente è vero! Vero il
mare, sì, vera la montagna; vero il sasso; vero un filo d'erba; ma
l'uomo? Sempre mascherato, senza volerlo, senza saperlo, di quella
tal cosa ch'egli in buona fede si figura d'essere: bello, buono,
grazioso, generoso, infelice, ecc. ecc. E questo fa tanto ridere, a
pensarci. Sì, perchè un cane, poniamo, quando gli sia passata la
prima febbre della vita, che fa? mangia e dorme: vive come può
vivere, come deve vivere; chiude gli occhi, paziente, e lascia che il
tempo passi, freddo se freddo, caldo se caldo; e se gli dànno un
calcio se lo prende, perchè è segno che gli tocca anche questo. Ma
l'uomo? Anche da vecchio, sempre con la febbre: delira e non se
n'avvede: non può fare a meno d'atteggiarsi, anche davanti a sè
stesso, in qualche modo, e si figura tante cose che ha bisogno di
creder vere e di prendere sul serio.
L'ajuta in questo una certa macchinetta infernale che la natura volle
regalargli, aggiustandogliela dentro, per dargli una prova segnalata
della sua benevolenza. Gli uomini, per la loro salute, avrebbero
dovuto tutti lasciarla irrugginire, non muoverla, non toccarla mai. Ma
sì! Certuni si sono mostrati così orgogliosi e stimati così felici di
possederla, che si son messi subito a perfezionarla, con zelo
accanito. E Aristotile ci scrisse sopra finanche un libro, un leggiadro
trattatello che si adotta ancora nelle scuole, perchè i fanciulli
imparino presto e bene a baloccarcisi. È una specie di pompa a filtro
che mette in comunicazione il cervello col cuore.
La chiamano L i signori filosofi.
Il cervello pompa con essa i sentimenti dal cuore, e ne cava idee.
Attraverso il filtro, il sentimento lascia quanto ha in sè di caldo, di
torbido: si refrigera, si purifica, si i-de-a-liz-za. Un povero sentimento,
così, destato da un caso particolare, da una contingenza qualsiasi,
spesso dolorosa, pompato e filtrato dal cervello per mezzo di quella
macchinetta, diviene idea astratta generale; e che ne segue? Ne
segue che noi non dobbiamo affliggerci soltanto di quel caso
particolare, di quella contingenza passeggera; ma dobbiamo anche
attossicarci la vita con l'estratto concentrato, col sublimato corrosivo
della deduzione logica. E molti disgraziati credono di guarire così di
tutti i mali di cui il mondo è pieno, e pompano e filtrano, pompano e
filtrano, finchè il loro cuore non resti arido come un pezzo di sughero
e il loro cervello non sia come uno stipetto di farmacia pieno di quei
barattolini che portano su l'etichetta nera un teschio fra due stinchi in
croce e la leggenda: Veleno.
L'uomo non ha della vita un'idea, una nozione assoluta, bensì un
sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi, la fortuna. Ora
la logica, astraendo dai sentimenti le idee, tende appunto a fissare
quel che è mobile, mutabile, fluido; tende a dare un valore assoluto a
ciò che è relativo. E aggrava un male già grave per sè stesso.
Perchè la prima radice del nostro male è appunto in questo
sentimento che noi abbiamo della vita. L'albero vive e non si sente:
per lui la terra, il sole, l'aria, la luce, il vento, la pioggia, non sono
cose che esso non sia. All'uomo, invece, nascendo è toccato questo
triste privilegio di sentirsi vivere, con la bella illusione che ne risulta:
di prendere cioè come una realtà fuori di sè questo suo interno
sentimento della vita, mutabile e vario.
Gli antichi favoleggiarono che Prometeo rapì una favilla al sole per
farne dono a gli uomini. Orbene, il sentimento che noi abbiamo della
vita è appunto questa favilla prometèa favoleggiata. Essa ci fa
vedere sperduti su la terra; essa proietta tutt'intorno a noi un cerchio
più o meno ampio di luce, di là dal quale è l'ombra nera, l'ombra
paurosa che non esisterebbe, se la favilla non fosse accesa in noi;
ombra che noi però dobbiamo purtroppo creder vera, fintanto che
quella ci si mantiene viva in petto. Spenta alla fine dal soffio della
morte, ci accoglierà davvero quell'ombra fittizia, ci accoglierà la notte
perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non
rimarremo noi piuttosto alla mercè dell'Essere, che avrà rotto
soltanto le vane forme della ragione umana? Tutta quell'ombra,
l'enorme mistero, che tanti e tanti filosofi hanno invano speculato e
che ora la scienza, pur rinunziando all'indagine di esso, non esclude,
non sarà forse in fondo un inganno come un altro, un inganno della
nostra mente, una fantasia che non si colora? Se tutto questo
mistero, in somma, non esistesse fuori di noi, ma soltanto in noi, e
necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi
abbiamo della vita? Se la morte fosse soltanto il soffio che spegne in
noi questo sentimento penoso, pauroso, perchè limitato, definito da
questo cerchio d'ombra fittizia oltre il breve àmbito dello scarso lume
che ci proiettiamo attorno, e in cui la vita nostra rimane come
imprigionata, come esclusa per alcun tempo dalla vita universale,
eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare,
mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma senza più questo
sentimento di esilio che ci angoscia? Non è anche qui illusorio il
limite, e relativo al poco lume nostro, della nostra individualità?
Forse abbiamo sempre vissuto, sempre vivremo con l'universo;
anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le
manifestazioni dell'universo; non lo sappiamo, non lo vediamo,
perchè purtroppo quella favilla che Prometeo ci volle donare ci fa
vedere soltanto quel poco a cui essa arriva.
E domani un umorista potrebbe raffigurar Prometeo sul Caucaso in
atto di considerare malinconicamente la sua fiaccola accesa e di
scorgere in essa alla fine la causa fatale del suo supplizio infinito.
Egli s'è finalmente accorto che Giove non è altro che un suo vano
fantasima, un miserevole inganno, l'ombra del suo stesso corpo che
si proietta gigantesca nel cielo, a causa appunto della fiaccola ch'egli
tiene accesa in mano. A un solo patto Giove potrebbe sparire, a
patto che Prometeo spegnesse la candela, cioè la sua fiaccola. Ma
egli non sa, non vuole, non può; e quell'ombra rimane, paurosa e
tiranna, per tutti gli uomini che non riescono a rendersi conto del
fatale inganno.
Così il contrasto ci si dimostra inovviabile, inscindibile, come l'ombra
dal corpo. Noi l'abbiamo veduto, in questa rapida visione allargarsi
man mano, varcare i limiti del nostro essere individuale, ov'ha
radice, ed estendersi intorno. Lo ha scoperto la riflessione, che vede
in tutto una costruzione o illusoria o finta o fittizia del sentimento e
con arguta, sottile e minuta analisi la smonta e la scompone.
Uno dei più grandi umoristi, senza saperlo, fu Copernico, che
smontò non propriamente la macchina dell'universo, ma l'orgogliosa
immagine che ce n'eravamo fatta. Si legga quel dialogo del Leopardi
che s'intitola appunto dal canonico polacco.
Ci diede il colpo di grazia la scoperta del telescopio: altra
macchinetta infernale, che può fare il pajo con quella che volle
regalarci la natura. Ma questa l'abbiamo inventata noi, per non esser
da meno. Mentre l'occhio guarda di sotto, dalla lente più piccola, e
vede grande ciò che la natura provvidenzialmente aveva voluto farci
veder piccolo, l'anima nostra, che fa? salta a guardar di sopra, dalla
lente più grande, e il telescopio allora diventa un terribile strumento,
che subissa la terra e l'uomo e tutte le nostre glorie e grandezze.
Fortuna che è proprio della riflessione umoristica il provocare il
sentimento del contrario; il quale, in questo caso, dice: — Ma è poi
veramente così piccolo l'uomo, come il telescopio rivoltato ce lo fa
vedere? Se egli può intendere e concepire l'infinita sua piccolezza,
vuol dire ch'egli intende e concepisce l'infinita grandezza
dell'universo. E come si può dir piccolo dunque l'uomo?
Ma è anche vero che se poi egli si sente grande e un umorista viene
a saperlo, gli può capitare come a Gulliver, gigante a Lilliput e
balocco tra le mani dei giganti di Brobdignac.

VI

Da quanto abbiamo detto finora intorno alla speciale attività della


riflessione nell'umorista, appare chiaramente quale dell'arte
umoristica necessariamente sia l'intimo processo.
Anch'essa l'arte, come tutte le costruzioni ideali o illusorie, tende a
fissar la vita: la fissa in un momento o in varii momenti determinati: la
statua in un gesto, il paesaggio in un aspetto temporaneo,
immutabile. Ma, e la perpetua mobilità degli aspetti successivi? e la
fusione continua in cui le anime si trovano?
L'arte in genere astrae e concentra, coglie cioè e rappresenta così
degli individui come delle cose, l'idealità essenziale e caratteristica.
Ora pare all'umorista che tutto ciò semplifichi troppo la natura e
tenda a rendere troppo ragionevole o almeno troppo coerente la vita.
Gli pare che delle cause, delle cause vere che muovono spesso
questa povera anima umana a gli atti più inconsulti, assolutamente
imprevedibili, l'arte in genere non tenga quel conto che secondo lui
dovrebbe. Per l'umorista le cause, nella vita, non sono mai così
logiche, così ordinate, come nelle nostre comuni opere d'arte, in cui
tutto è, in fondo, combinato, congegnato, ordinato ai fini che lo
scrittore s'è proposto. L'ordine? la coerenza? Ma se noi abbiamo
dentro quattro, cinque anime in lotta fra loro: l'anima istintiva, l'anima
morale, l'anima affettiva, l'anima sociale? E secondo che domina
questa o quella, s'atteggia la nostra coscienza; e noi riteniamo valida
e sincera quella interpretazione fittizia di noi medesimi, del nostro
essere interiore che ignoriamo, perchè non si manifesta mai
tutt'intero, ma ora in un modo, ora in un altro, come volgano i casi
della vita.
Sì, un poeta epico o drammatico può rappresentare un suo eroe, in
cui si mostrino in lotta elementi opposti e repugnanti; ma egli di
questi elementi comporrà un carattere, e vorrà coglierlo coerente in
ogni suo atto. Ebbene, l'umorista fa proprio l'inverso: egli scompone
il carattere nei suoi elementi; e mentre quegli cura di coglierlo
coerente in ogni atto, questi si diverte a rappresentarlo nelle sue
incongruenze.
L'umorista non riconosce eroi; o meglio, lascia che li rappresentino
gli altri, gli eroi; egli, per suo conto sa che cosa è la leggenda e
come si forma, che cosa è la storia e come si forma: composizioni
tutte, più o meno ideali, e tanto più ideali forse, quanto più mostran
pretesa di realtà: composizioni ch'egli si diverte a scomporre; nè si
può dir che sia un divertimento piacevole.
Il mondo, lui, se non propriamente nudo, lo vede, per così dire, in
camicia; in camicia il re, che vi fa così bella impressione a vederlo
composto nella maestà d'un trono con lo scettro e la corona e il
manto di porpora e d'ermellino; e non componete con troppa pompa
nelle camere ardenti su catafalchi i morti, perchè egli è capace di
non rispettar neppure questa composizione, tutto questo apparato; è
capace di sorprendere, per esempio, in mezzo alla compunzione
degli astanti, in quel morto lì, freddo e duro, ma decorato e in
marsina, un qualche borboglìo lugubre nel ventre, e d'esclamare
(poichè certe cose si dicono meglio in latino):
— Digestio post mortem.
Anche quei soldatacci austriaci della poesia del Giusti, di cui ci
siamo occupati in principio, son veduti in fine dal poeta come tanti
poveri uomini in camicia: sono spogliati cioè di quelle loro uniformi
odiose, nelle quali il poeta vede un simbolo della schiavitù della
patria. Quelle uniformi compongono nell'animo del poeta una
rappresentazione ideale, della patria schiava; la riflessione
scompone questa rappresentazione, spoglia quei soldati e vede in
essi una torma di poveretti addogliati e derisi.
«L'uomo è un animale vestito, — dice il Carlyle nel suo Sartor
Resartus, — la società ha per base il vestiario». E il vestiario
compone anch'esso, compone e nasconde: due cose che
l'umorismo non può soffrire.
La vita nuda, la natura senz'ordine almeno apparente, irta di
contraddizioni, pare all'umorista lontanissima dal congegno ideale
delle comuni concezioni artistiche, in cui tutti gli elementi,
visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano.
Nella realtà vera le azioni che mettono in rilievo un carattere si
stagliano su un fondo di vicende ordinarie, di particolari comuni.
Ebbene, gli scrittori, in genere, non se n'avvalgono, o poco se ne
curano, come se queste vicende, questi particolari non abbiano
alcun valore e siano inutili e trascurabili. Ne fa tesoro invece
l'umorista. L'oro, in natura, non si trova frammisto alla terra?
Ebbene, gli scrittori ordinariamente buttano via la terra e presentano
l'oro in zecchini nuovi, ben colato, ben fuso, ben pesato e con la loro
marca e il loro stemma bene impressi. Ma l'umorista sa che le
vicende ordinarie, i particolari comuni, la materialità della vita
insomma, così varia e complessa, contraddicono poi aspramente
quelle semplificazioni ideali, costringono ad azioni, ispirano pensieri
e sentimenti contrarii a tutta quella logica armoniosa dei fatti e dei
caratteri concepiti dagli scrittori ordinarii. E l'impreveduto che è nella
vita? E l'abisso che è nelle anime? Non ci sentiamo guizzar dentro,
spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri inconseguenti,
inconfessabili finanche a noi stessi, come sorti davvero da un'anima
diversa da quella che normalmente ci riconosciamo? Di qui,
nell'umorismo, tutta quella ricerca dei particolari più intimi e minuti,
che possono anche parer volgari e triviali se si raffrontano con le
sintesi idealizzatrici dell'arte in genere, e quella ricerca dei contrasti
e delle contraddizioni, su cui l'opera sua si fonda, in opposizione alla
coerenza cercata dagli altri; di qui quel che di scomposto, di slegato,
di capriccioso, tutte quelle digressioni che si notano nell'opera
umoristica, in opposizione al congegno ordinato, alla composizione
dell'opera d'arte in genere.
Sono il frutto della riflessione che scompone. «Se il naso di
Cleopatra fosse stato più lungo, chi sa quali altre vicende avrebbe
avuto il mondo». E questo se, questa minuscola particella, che si
può appuntare, inserire come un cuneo in tutte le vicende, quante e
quali disgregazioni può produrre, di quanta scomposizione può esser
causa, in mano d'un umorista come, ad esempio, lo Sterne, che
dall'infinitamente piccolo vede regolato tutto il mondo!
Riassumendo: l'umorismo consiste nel sentimento del contrario,
provocato dalla speciale attività della riflessione che non si cela, che
non diventa, come ordinariamente nell'arte, una forma del
sentimento, ma il suo contrario, pur seguendo passo passo il
sentimento come l'ombra segue il corpo. L'artista ordinario bada al
corpo solamente: l'umorista bada al corpo e all'ombra, e talvolta più
all'ombra che al corpo; nota tutti gli scherzi di quest'ombra, com'essa
ora s'allunghi ed ora s'intozzi, quasi a far le smorfie al corpo, che
intanto non la calcola e non se ne cura.
Nelle rappresentazioni comiche medievali del diavolo, troviamo uno
scolare che per farsi beffe di lui gli dà ad acchiappare la propria
ombra sul muro. Chi rappresentò questo diavolo non era certamente
un umorista. Quanto valga un'ombra l'umorista sa bene: il Peter
Schlemihl di Chamisso informi.

FINE
INDICE

P P

1. La parola «umorismo 7
2. Questioni preliminari 21
3. Distinzioni sommarie 43
4. L'umorismo e la retorica 57
5. L'ironia comica nella poesia
cavalleresca 77
6. Umoristi italiani 141

P S

Essenza, caratteri e materia


dell'umorismo 168
NOTE:

1. In Studi di Critica e Storia Letteraria (Bologna, Zanichelli ed., 1880).

2. Pag. 179.

3. E anche a Napoli (Arch. stor. p.le prov. nap. V. 608). E perchè non citare
anche quella degli Umidi di Firenze di cui il Lasca disse (Lett. a Mes.
Lorenzo Scala, premessa al primo libro delle opere burlesche, ed. Bern.
Giunta 1548): «la quale (Accademia degli Umidi) principalmente fa
professione, essendovi tutte persone dentro allegre e spensierate, dello
stil burlesco, giocondo, lieto, amorevole e, per dir così, buon
compagno?». Si vedano, per altro, a proposito, delle parole umore e
umorismo, il Baldensperger (Les définitions de l'humour in Êtudes
d'histoires littéraire, Paris, Hachette, 1907) e lo Spingarn
nell'introduzione del primo volume della sua raccolta Critical Essays of
the Seventeenth Century, Oxford, Clarendon Press, 1908; non che ciò
ne dice il Croce in Critica, vol. VII, pagine 219-20.

4. Cecco Angiolieri in uno dei suoi sonetti, parlando della madre che gli
vuol male, dopo avere enumerato alcuni cibi dannosi ch'ella gli consiglia,
dice:

E se di questo non avessi voglia


e stessi quasimente su la colla
molto mi loda porri con la foglia.

5. Lettera XV.

6. Vedi Victor Basch, La poëtique di F. Schiller (Paris, Alcan, 1902).

7. Zur Naturwissenschaft in Allgemeinen. Tomo XXXIV delle Opere, ed.


Hempel, pag. 96-97. Ma il Goethe non tenne conto che prima dello
Schiller lo Herder aveva distinto Natur-poesie da Kunst-poesie. Vedi
anche V. Basch, Op. cit.

8. Vedi G. Muoni Note per una poetica storica pel romanticismo (Milano,
Società Ed. Libr., 1906).
9. L'Umorismo nell'arte moderna. Due conferenze al Circolo filologico di
Napoli, (Napoli, Detken ed., 1885).

10. Verona, 1885.

11. La coltura, 15 gennaio 1886.

12. A. Biese, Die Entwicklung der Naturgefühls bei den Griechen, (Kiel
1882). Abbiamo su l'argomento lavori più recenti.

13. Vedi H. Taine, Notes sur l'Angleterre (Paris, Hachette et Cie, douzieme
édition, 1903) — ch. VIII, De l'esprit anglais, pag. 339.

14. Vedi su lui il mio saggio Un critico fantastico nel vol. Arte e scienza
(Roma, W. Modes ed. 1908).

15. Il Cantoni chiama propriamente questo suo lavoro grottesco, forse per la
contaminazione dell'elemento fantastico con la critica.

16. Vedi Jacques Denis, La comedie greque, vol I, chap. VI, Paris, Hachette
et Cie. 1886, e la bella e dotta prefazione di Ettore Romagnoli alla sua
impareggiabile traduzione delle commedie di A. (Torino, Bocca 1908).

17. Teodor Lipps, Komik und Humor, eine psychologisch-ästhetische


Untersuchung (Hamburg u. Leipzig, Voss 1898).

18. Vedi su esse le sei letture del Thackeray, The English Humourists, of the
eighteenth century (Leipzig, Taucknitz, 1853). Sono: Swift Congreve
Addison, Steele, Prior, Gay, Pope, Hogarth, Smollett, Fielding, Sterne,
Goldsmith.

19. Il Nencioni definisce l'umorismo «una naturale disposizione del cuore e


della mente a osservare con simpatica indulgenza le contradizioni e le
assurdità della vita».

20. Allude alla Vita e opinioni di Tristram Shandy.

21. Come suonano curiose queste lodi a uno scrittore inglese raffrontato
con uno scrittore francese, dopo aver letto nel Taine la pagina su l'esprit
francese e su l'inglese!

22. Palermo, R. Sandron ed. 1904.

23. «La retorica corrisponde alla logica» — aveva già detto Aristotile (Ret.
lib. I, c. 1).
24. Il Croce, in una recensione sulla prima edizione di questo mio saggio,
nel VII volume di Critica, ha voluto credere ch'io, dicendo così,
contrapponessi arte e umorismo e affermassi che umorismo è l'opposto
dell'arte, perchè questa compone e quello scompone. Veda il lettore
intelligente se è lecito e giusto argomentare dalle mie parole una così
recisa e assoluta contrapposizione o opposizione; se è lecito e giusto,
dopo aver con molta leggerezza e senz'alcun fondamento argomentato
così, aggiungere come fa il Croce: «Ma, forse, la parola è andata di là
dal pensiero del P., il quale non voleva già dire che l'umorismo non sia
arte, ma piuttosto che sia un genere d'arte, che si distingue dagli altri
generi d'arte o dal complesso di essi». Ritornerò su questo appunto più
oltre, quando tratterò della speciale attività della riflessione nella
concezione dell'opera umoristica. Mi contenterò qui per ora di
rispondere al Croce, ch'egli fa — non so se volutamente o no — una
confusione tra i così detti «generi letterarii» come li intendeva la retorica,
la cui eliminazione è da accettare, con quelle distinzioni, che non solo
sono legittime, ma anche necessarie tra le varie espressioni, quando
non si voglia confondere l'una con l'altra, abolendo ogni critica, per
concludere filosoficamente che tutte sono arte e che ciascuna come arte
non si può distinguere dalla restante arte. L'umorismo non è un «genere
letterario», come poema, commedia, romanzo, novella, e via dicendo;
tanto vero che ognuno di questi componimenti letterarii può essere o
non essere umoristico. L'umorismo è qualità d'espressione, che non è
possibile negare per il solo fatto che ogni espressione è arte e come
arte non distinguibile dalla restante arte. La molta preparazione filosofica
(la mia, si sa, è pochissima) ha condotto il Croce a questa edificante
conclusione. Si può sì parlare di questo o di quell'umorista; egli,
filosoficamente, non ha nulla in contrario; ma guai a parlar
dell'umorismo! Subito la filosofia del Croce diventa un formidabile
cancello di ferro, che è vano scrollare. Non si passa! Ma che c'è dietro
quel cancello? Niente. Questa sola equazione: intuizione = espressione,
e l'affermazione che è impossibile distinguere arte da non arte,
l'intuizione artistica da intuizione comune. Ah, va bene! Non vi pare che
si possa benissimo passar davanti a questo cancello chiuso, senza
neanche voltarci a guardarlo?

25. Vedi il mio volume Arte e Scienza (Roma W. Modes ed. 1908) I sonetti
di Cecco Angiolieri.

26. Vedi Morandi, Prefaz. ai sonetti romaneschi del Belli (Città di Castello,
Lapi, Vol. I, 1889).

27. Città di Castello, Lapi ed., 1888.


28. Quanti spunti di vero e proprio umorismo in Poggio! Basterà ricordare il
patto di quel buon'uomo col cantastorie di piazza per differir la morte di
Ettore, che tanto lo addolorava; la risposta di quel cardinal di Spagna ai
soldati della Santa Sede: «Ancora non ho fame»; la disperazione di quel
bandito per la goccia di latte venutagli in gola durante la quaresima, ecc.
ecc.

29. Vedi sul Pulci il libro di Attilio Momigliano L'indole e il riso di L. P. (Rocca
S. Casciano, Cappelli, 1907), da cui però in gran parte io dissento, come
dirò appresso; e quel che dicono del Folengo il De Sanctis nella sua
Storia d. lett, ital. cap. XVI, il Canello nel suo Cinquecento e gli studii
dello Zumbini e dello Zannoni.

30. Si legga a questo proposito quel che dice il Graf nel suo aureo libro
Attraverso il Cinquecento su le condizioni del letterato nel sec. XVI.

31. 1879, III, p. 620 e segg.

32. Paris, 1880.

33. Trad. del Gorra (Torino, Loescher, 1888). Vedi Lib. III cap. III (Valore
dell'Epopea).

34. I cavalieri si permettono anche, e questo accade negli stessi poemi della
crociata, di farsi beffe dei cerimonieri. Così nell'Antioche accade una
scena piacevole e caratteristica, quando i cavalieri francesi escono dalla
città per combattere contro Kerboga. Enguerrant de Saint-Pol sta loro
alla testa e il suo lucido elmo forbito e la sua corazza splendente
scintillano ai raggi del sole. Quando sono usciti dalla città, si fermano e
un arcivescovo implora la benedizione dal cielo sopra di loro e vuole
aspergerli con acqua benedetta, ma Enguerrant fa qualche obiezione e
lo prega di non macchiargli l'elmo: «Anqui le vourrai bel a Sarrasins
mostrer» (vedi Pigeonneau, Cycle de la Croisade, p. 90-91).

35. Firenze, Barbéra, 1859.

36. Vedi Scritti varii inediti o rari, a cura di B. Croce, vol. I, Napoli, Morano e
figlio, 1898. Il De Santis poi nella sua Storia della letteratura it. corresse
il suo giudizio sul Pulci e sul poema. Qui ho citato il suo primo giudizio
solo perchè anche da un errore (del resto riparato) del sommo critico, si
può trarre profitto, ponendo in giusta evidenza, in questa facile
confutazione, tra i due casi di cui egli parla, quale veramente sia quello
del Pulci.

37. Vedi il vol. già citato L'indole e il riso di L. P., Rocca S. Casciano,
Cappelli, 1907.
38. Pag. 120-121 del vol. cit.

39. Pag. 113.

40. Vedi Introduzione alle Fonti dell'Orl. Fur., seconda ed. pag. 20 (Firenze,
Sansoni, 1900).

41. Vedi in Critica militare (Messina, Trimarchi, 1907) lo studio La fantasia


dell'Ariosto (pubbl. prima su la Nuova Antologia).

42. È curioso veramente il notare a quali aberrazioni potè essere condotto il


Rajna dalla smania di sorprendere a ogni costo il poeta del Furioso con
le mani nel sacco altrui. A proposito di questo episodio di Sacripante e
Angelica, cita nientemeno che 12 esemplari, che l'Ariosto avrebbe
dovuto aver presenti. E non si accorge ch'è stupido senz'altro il
ravvicinamento di queste pretese fonti, poichè nell'Ariosto, invece del
solito cavaliere che ascolta furtivo i lamenti, abbiamo Angelica, proprio
lei in persona. Ma questo, — ha il coraggio di notare il Rajna, — «è una
differenza di sommo momento per Sacripante, ma secondaria per noi.»
Già! come dire che, se veramente il Tasso ebbe presente il battesimo di
Sorgalis nei Chetif a proposito del battesimo di Clorinda, è differenza
secondaria che Tancredi battezzi Clorinda in luogo di un'altro cavaliere
qualsiasi! Sapete quali sono invece le parti sostanziali? Erba, alberi,
acqua, se è giorno o notte, e simili altre amenità. Come se Angelica non
fosse nel bosco fin dal principio del canto! Avrebbe potuto risparmiarsi il
Rajna tanto sfoggio di erudizione e venir senz'altro all'episodio di
Prasildo nel Bojardo. La differenza però rimane sempre sostanziale.
L'Ariosto prende un verso al Bojardo:

Che avria spezzato un sasso di pietade;

ma glielo corregge così:

Che avrebbe di pietà spezzato un sasso.

Ecco tutto.

43. Applico qui la formula del Lipps che definisce appunto l'umorismo:
«Erhabenheit in der Komik und durch dieselbe» (vedi Op. cit., pag. 243).
Ma come si spiega questo superamento del comico attraverso il comico
stesso? La spiegazione che dà il Lipps non mi sembra accettabile per
quelle stesse ragioni che infirmano tutta la sua teoria estetica. Vedi su
questa la critica del Croce nella seconda parte della sua Estetica, pag.
434.

44. Vedi Arcoleo, op. cit., pag. 94-95.


45. Vedi in Studii drammatici (Torino, Loescher, 1878). Le tre commedie
sono La Calandria, La Mandragola, Il Candelajo.

46. Certe tropologie del Bruno sono di un'efficacia senza pari; così, quando
di un inetto ragionatore dice che è venuto armato di parole e scommi
che si muojono di fame e di freddo. Certe comparazioni scolpiscono,
come là dove di due presuntuosi sapienti dice che l'uno parea il
conestabile de la gigantessa dell'orco, l'altro l'amostante de la dea
riputazione. Nella Cabala del Cavallo pegaseo così è descritto Don
Cocchiarone, mistiriarca filosofo: «Don Cocchiarone pien d'infinita e
nobil meraviglia sen va per il largo de la sua sala, dove rimosso dal rude
ed ignobil volgo, se la spasseggia, e rimenando or quinci or quindi de la
litteraria sua toga le fimbrie, rimenando or questo or quell'altro piede,
rigettando or verso il destro or verso il sinistro fianco il petto, con il testo
commento sotto l'ascella, e con gesto di voler buttar quel pulce ch'ha tra
le due prime dita, in terra, con la rugata fronte cogitabondo, con erte
ciglia et occhi arrotondati, in gesto d'un uomo fortemente meravigliato,
conchiudendola con un grave et enfatico sospiro, farà pervenire a
l'orecchio de' circostanti questa sentenza: Hucusque alii Philosophi non
pervenerunt.

47. Vedi Giovanni Merlino, umorista, Napoli, Pierro, 1898.

48. Vedi nella seconda parte la dimostrazione dell'umorismo di don


Abbondio, che all'Arcoleo sembra una figura ridicola o comica senz'altro.

49. Del Richter si possono citare parecchie definizioni. Egli chiama anche
l'umorismo «sublime a rovescio». La descrizione migliore, secondo il
suo modo d'intenderlo, è quella a cui già abbiamo accennato altrove,
parlando della diversità del riso antico dal riso moderno: «L'umore
romantico è l'atteggiamento grave di chi compari il piccolo mondo finito
con l'idea infinita: ne risulta un riso filosofico che è misto di dolore e di
grandezza. È un comico universale, pieno di tolleranza cioè e di
simpatia per tutti coloro che, partecipando della nostra natura, ecc.
ecc.». Altrove parla di quella certa «idea che annienta», che ha avuto
molta fortuna presso i critici tedeschi, anche applicata in un senso meno
filosofico. Der Humor kann, dice il Lipps, schliesslich ein vollbewusster
sein. Er ist ein solcher, wenn der Träger desselben sich sowohl des
Rechtes, als auch der Beschränktheit seines Standpunktes, sowohl
seiner Erhabenheit als auch relativen Nichtigkeit bewusst ist.»

50. Paris, Alcan, 1904, pag. 276.

51. Vedi nei mio volume già citato Arte e Scienza il saggio Un critico
fantastico.
52. Mi avvalgo qui di alcune acute considerazioni contenute nel libro di
Giovanni Marchesini, Le finzioni dell'anima (Bari, Gius. Laterza e figli,
1905).

53. «Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno


stringere d'occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza
promettere, un minacciar in cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e
tutto, o più o meno, tornava in prò. A segno che fino un: io non posso
niente in questo affare, detto talvolta per la pura verità, ma detto in
modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi
la realtà, del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in
qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c'è
nulla: ma servono per mantenere il credito alla bottega».

54. Lo stesso ufficio si dà il Thackeray anche nel Libro degli Snobs e in


quella «Novella senza eroi, o vanità illuminate con le candele stesse
dell'autore».

55. Vedi nel libro di Alfredo Binet Les altérations de la personalité quella
rassegna di meravigliosi esperimenti psico-fisiologici, da cui queste e
tant'altre considerazioni si possono trarre, come notava già G. Negri nel
libro Segni dei tempi.
Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state


mantenute, correggendo senza annotazione minimi
errori tipografici.

End of the Project Gutenberg EBook of L'umorismo, by Luigi Pirandello

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