Pirandello - L'Umorismo
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Title: L'umorismo
Language: Italian
L'UMORISMO
SAGGIO
FIRENZE
LUIGI BATTISTELLI — E
1920
P L
Stab. FED. SACCHETTI & C. — MILANO — Via
Zecca Vecchia, 7
INDICE
PARTE PRIMA
I.
La parola «umorismo»
Di tutte quelle tentate nei secoli XVIII e XIX parla in un suo studio già
citato, il Baldensperger, per concludere, a modo del Croce, che: «il
n'y a pas d'humour, il n'y a que des humouristes», come se per poter
dire o riconoscere che questo o quello scrittore è un umorista, non si
dovesse avere un qualche concetto dell'umorismo, e bastasse
sostenere, come fa il Cazamian, citato dallo stesso Baldensperger,
che l'umorismo sfugge alla scienza, perchè gli elementi caratteristici
e costanti di esso sono in piccolo numero e sopratutto negativi,
laddove gli elementi variabili sono in numero indeterminato. Sì.
Anche l'Addison stimava più facile dire ciò che l'humour non è, che
dire ciò che è. E tutte le fatiche che si son fatte per definirlo
ricordano veramente quelle speciosissime che si fecero nel secolo
XVII per definir l'ingegno (oh, il Cannocchiale aristotelico di
Emmanuele Tesauro!) e il gusto o buon gusto e quell'ineffabile non
so che, per cui il Bouhours scriveva: «Les Italiens, qui font mystère
de tout, emploient en toutes rencontres leur non so che: on ne voit
rien de plus commun dans leur poëtes». Gl'Italiani «qui font mystère
de tout». Ma andate a domandare ai Francesi che cosa intendano
per esprit.
Quanto all'umorismo, «certo è, — seguita il D'Ancona, — che la
definizione non è facile, perchè l'umorismo ha infinite varietà,
secondo le nazioni, i tempi, gl'ingegni, e quel di Rabelais e di Merlin
Coccajo non è una cosa coll'umorismo dello Sterne, dello Swift o di
Gian Paolo, e la vena umoristica dello Heine e del Musset non è di
egual sapore. Non vi ha poi forse alcun altro genere nel quale sia, o
dovrebbe esser più sottil differenza dalla forma prosaica alla poetica,
per quanto ciò non venga sempre avvertito dai lettori, e neanche
dagli scrittori. Ma di ciò, e delle ragioni di queste differenze, e delle
varietà fra l'umore e la satira e l'epigramma e la facezia e la parodia
e il comico d'ogni foggia e qualità, e se, come vuole il Richter, alcuni
umoristi sieno semplicemente lunatici, non è qui il luogo di discutere.
Certo è questo, che un fondo comune vi è in tutti coloro che la voce
pubblica raccoglie sotto la stessa denominazione di umoristi».
L'osservazione in fondo è giusta; ma — piano con la voce pubblica!
— vorremmo dire al D'Ancona. «Dopo la parola romanticismo, la
parola più abusata e sbagliata in Italia (in Italia soltanto?) è quella di
umorismo. Se fossero realmente umoristi gli scrittori, i libri, i giornali
battezzati con questo nome, noi non avremmo nulla da invidiare alla
patria di Sterne e di Thackeray o a quella di Gian Paolo e di Heine.
Non si potrebbe uscir di casa senza incontrar per la strada due o tre
Cervantes e una mezza dozzina di Dickens... Vogliamo solo notare
fin da principio che vi è una babilonica confusione
nell'interpretazione della voce umorismo. Per il gran numero,
scrittore umoristico è lo scrittore che fa ridere: il comico, il burlesco, il
satirico, il grottesco, il triviale: — la caricatura, la farsa, l'epigramma,
il calembour si battezzano per umorismo: come da un pezzo si
costuma di chiamare romantico tutto ciò che vi è di più arcadico e
sentimentale, di più falso e barocco. Si confonde Paul de Kock con
Dickens, e il visconte d'Arlincourt con Victor Hugo».
Questo notava Enrico Nencioni, già fin dal 1884, in un articolo su la
Nuova Antologia intitolato appunto L'Umorismo e gli Umoristi, che
fece molto rumore.
Non si può dir veramente che la voce pubblica in tutto questo lasso
di tempo, si sia ricreduta. Anche oggi, per il gran numero, scrittore
umoristico è lo scrittore che fa ridere. Ma, ripeto, perchè in Italia
soltanto? Da per tutto! Il volgo non può intendere i segreti contrasti,
le sottili finezze del vero umorismo. Si confondono anche altrove la
caricatura, la farsa bislacca, il grottesco con l'umorismo; si
confondono anche là dove al Nencioni sembrava (e non a lui
soltanto) che l'umorismo stèsse di casa: non ha forse nome
d'umorista Mark Twain, i cui racconti sono, secondo la sua stessa
definizione «una collezione di eccellenti cose, prodigiosamente
divertenti, che strappano il riso anche dai volti più ingrugniti?».
Il giornalismo, un certo giornalismo si è impadronito della parola, l'ha
adottata e, sforzandosi di far ridere più o meno sguajatamente a ogni
costo, l'ha divulgata in questo falso senso.
Cosicchè ogni vero umorista prova oggi ritegno, anzi sdegno a
qualificarsi per tale. — Umorista, sì, ma... non confondiamo, — si
sente il bisogno d'avvertire: — umorista nel vero senso della parola.
Come dire:
— Badate ch'io non mi propongo di farvi ridere facendo sgambettar
le parole.
E più d'uno, per non passar da buffone, per non esser confuso coi
centomila umoristi da strapazzo, ha voluto buttar via la parola
sciupata, abbandonarla al volgo, e adottarne un'altra: ironismo,
ironista.
Come da umore, umorismo; da ironia, ironismo.
Ma ironia, in che senso? Bisognerà distinguere, anche qui. Perchè
c'è un modo retorico e un altro filosofico d'intendere l'ironia.
L'ironia, come figura retorica, racchiude in sè un infingimento che è
assolutamente contrario alla natura dello schietto umorismo. —
Implica sì, questa figura retorica, una contradizione, ma fittizia, tra
quel che si dice e quel che si vuole sia inteso. La contraddizione
dell'umorismo non è mai, invece, fittizia ma essenziale, come
vedremo, e di ben altra natura.
Quando Dante aggrava la riprensione eccettuando dal numero dei
ripresi chi è più riprensibile, come per la brigata dei prodighi matti,
allor che esclama: ... Or fu giammai — Gente sì vana? e un dannato
risponde: — Tranne lo Stricca... E tranne le brigata; oppure là dove
dice:
Forse
Tu non pensavi ch'io loico fossi;
o quando esclama:
oppure:
Nel Cap. VIII del libro Notes sur l'Angleterre il Taine, com'è noto, si
provò a comparare l'esprit francese e quello inglese. «Non deve dirsi
che essi (gl'Inglesi) non abbiano spirito, — scrisse il Taine, — ne
hanno uno per conto loro, in verità poco gradevole, ma affatto
originale, di sapor forte e pungente e anche un po' amaro, come le
lor bevande nazionali. Lo chamano humour; e, in generale, è la
facezia di chi, scherzando, serba un'aria grave. Questa facezia
abbonda negli scritti di Swift, di Fielding, di Sterne, di Dickens, di
Thackeray, di Sidney-Smith; sotto quest'aspetto, il Libro degli Snobs
e le Lettere di Peter Plymley son capolavori. Se ne trova anche
molto, della qualità più indigena e più aspra, in Carlyle. Essa confina
ora con la caricatura buffonesca, ora col sarcasmo meditato; scuote
rudemente i nervi, o s'affonda e prende stanza nella memoria. È
un'opera dell'immaginazione stramba o dell'indignazione
concentrata. Si piace nei contrasti stridenti, nei travestimenti
impreveduti. Para la follìa con gli abiti della ragione o la ragione con
gli abiti della follìa. Arrigo Heine, Aristofane, Rabelais e talvolta
Montesquieu, fuori dell'Inghilterra, sono quelli che ne hanno in più
larga dose. Ma pur si deve in questi tre ultimi sottrarre un elemento
straniero, la estrosità francese, la gioja, la gajezza, quella specie di
buon vino che non si vendemmia se non nei paesi del sole. Nello
stato insulare e puro, essa lascia sempre, in fine, un sapor di aceto.
Chi scherza così è di raro benevolo e non è mai lieto, sente e
tradisce fortemente le dissonanze della vita. E non ne gode; in fondo
anzi ne soffre e se ne irrita. Per studiar minuziosamente un
grottesco, per prolungar freddamente un'ironia, bisogna avere un
sentimento continuo di tristezza e di collera. I saggi perfetti del
genere si devono cercare nei grandi scrittori, ma il genere è talmente
indigeno che si trova ogni giorno nella conversazione ordinaria, nella
letteratura, nelle discussioni politiche, ed è la moneta corrente del
Punch».
La citazione è un po' troppo lunga; ma opportuna per chiarir
parecchie cose.
Il Taine riesce a coglier bene la differenza generale tra la plaisanterie
inglese e la francese, o meglio, il diverso umore dei due popoli. Ogni
popolo ha il suo, con caratteri di distinzione sommaria. Ma, al solito,
non bisogna andare tropp'oltre, non bisogna cioè prender questa
distinzione sommaria come solido fondamento nel trattare
d'un'espressione d'arte specialissima come la nostra.
Che diremmo di uno il quale dal sommario accertamento che vi son
certi tratti fisionomici comuni per cui, così all'ingrosso, distinguiamo
un Inglese da uno Spagnuolo, un Tedesco da un Italiano, ecc.,
traesse la conseguenza che tutti quanti gl'inglesi, per esempio,
hanno gli stessi occhi, lo stesso naso, la stessa bocca?
Per intender bene quanto sia sommario questo modo di distinguere,
chiudiamoci per un momento nei confini del nostro paese. Noi tutti,
d'una data nazione, possiamo notar facilmente come e quanto la
fisionomia dell'uno sia diversa da quella d'un altro. Ma questa
osservazione, ovvia, facilissima per noi, riesce invece difficilissima a
uno straniero, per il quale noi tutti avremo uno stesso aspetto
generale.
Pensiamo a un gran bosco dove fossero parecchie famiglie di
piante: querci, aceri, faggi, platani, pini, ecc. Sommariamente, a
prima vista, noi distingueremo le varie famiglie dall'altezza del fusto,
dalla diversa gradazione del verde, in somma dalla configurazione
generale di ciascuna. Ma dobbiamo poi pensare che in ognuna di
quelle famiglie non solo un albero è diverso dall'altro, un tronco
dall'altro, un ramo dall'altro, una fronda dall'altra, ma che, fra tutta
quella incommensurabile moltitudine di foglie, non ve ne sono due,
due sole, identiche tra loro.
Ora, se si trattasse di giudicare di un'opera d'imaginazione collettiva,
come sarebbe appunto un'epopea genuina, sorta viva e possente
dalle leggende tradizionali primitive d'un popolo, ci potremmo in
certa guisa contentare di quella sommaria distinzione. Non possiamo
contentarcene più invece nel giudicar di opere che siano creazioni
individuali, segnatamente poi se umoristiche.
Colto astrattamente il tipo dell'umore inglese, il Taine mette prima in
un fascio Swift e Fielding e Sterne e Dickens e Thackeray e Sidney-
Smith e Carlyle, e vi accozza poi Heine, Aristofane, Rabelais,
Montesquieu. Bel fascio! Dall'umorismo inteso nel senso più largo,
come carattere comune, tipico modo di ridere di questo o di quel
popolo, saltiamo a piè pari a considerar le singole e specialissime
espressioni d'un umorismo, che non è più possibile intendere in quel
senso largo, se non a patto di rinunziare assolutatmente alla critica:
dico a quella critica che indaga e scopre tutte le singole differenze
caratteristiche per cui l'espressione, e dunque l'arte, il modo
d'essere, lo stile d'uno scrittore si distingue da quello dell'altro: lo
Swift dal Fielding, lo Sterne dallo Swift e dal Fielding, il Dickens dallo
Swift e dal Fielding e dallo Sterne e così via.
Le relazioni che questi scrittori umoristici inglesi possono avere con
l'umore nazionale sono affatto secondarie e superficiali come quelle
che essi possono aver fra loro, e non hanno per la valutazione
estetica importanza.
Quel che di comune possono aver tra loro questi scrittori non deriva
dalla qualità dell'umore nazionale inglese, ma dal solo fatto ch'essi
sono umoristi, ciascuno sì a suo modo, ma umoristi tutti veramente,
scrittori cioè nei quali avviene quello speciale processo intimo e
caratteristico da cui risulta l'espressione umoristica. E soltanto per
questo, non Arrigo Heine e il Rabelais e il Montesquieu e basta, ma
tutti i veri scrittori umoristici d'ogni tempo e d'ogni nazione possono
andare a schiera con quelli. Non però Aristofane, nel quale quel
processo non avviene affatto. In Aristofane non abbiamo veramente
il contrasto, ma soltanto l'opposizione. Egli non è mai tenuto tra il sì
e il no; egli non vede che le ragioni sue, ed è per il no,
testardamente, contro ogni novità, cioè contro la retorica, che crea
demagoghi, contro la musica nuova, che, cangiando i modi antichi e
consacrati, rimuove le basi dell'educazione e dello Stato, contro la
tragedia d'Euripide, che snerva i caratteri e corrompe i costumi,
contro la filosofia di Socrate, che non può produrre che spiriti indocili
e atei, ecc. Alcune sue commedie son come le favole che
scriverebbe la volpe, in risposta a quelle che hanno scritto gli uomini
calunniando le bestie. Gli uomini in esse ragionano e agiscono con
la logica delle bestie, mentre nelle favole le bestie ragionano e
agiscono con la logica degli uomini. Sono allegorie in un dramma
fantastico, nel quale la burla è satira iperbolica, spietata [16].
Aristofane ha uno scopo morale, e il suo non è mai dunque il mondo
della fantasia pura. Nessuno studio della verosimiglianza: egli non
se ne cura perchè si riferisce di continuo a cose e a persone vere:
astrae iperbolicamente dalla realtà contingente e non crea una realtà
fantastica, come, ad esempio, lo Swift. Umorista non è Aristofane,
ma Socrate, come acutamente osserva Teodoro Lipps [17]: Socrate
che assiste alla rappresentazione delle Nuvole e ride con gli altri
della derisione che fa di lui il poeta, Socrate che «versteht den
Standpunkt des Volksbewusstseinz, zu dessen Vertreter sich
Aristophanes gemacht hat, und sieht darin etwas relativ Gutes und
Vernünftiges. Er anerkennt eben damit das relative Recht derer, die
seinen Kampf gegen das Volksbewusstsein verlachen. Damit erst
wird sein Lache zum Mitlachen. Andererseits lacht er doch über die
Lacher. Er thut es und kann es thun, weil er des höheren Rechtes
und notwendigen Sieges seiner Anchauungen gewiss ist. Eben
dieses Bewusstsein leuchtet durch sien Lachen, und lässt es in
seiner Thorheit logisch berechtigt, in seiner Nichtigkeit sittlich
erhaben erscheinen». Socrate ha il sentimento del contrario;
Aristofane, dunque, se mai, può esser considerato umorista, soltanto
se intendiamo l'umorismo nell'altro senso molto più largo, e per noi
improprio, in cui siano compresi la burla, la baja, la facezia, la satira,
la caricatura, tutto il comico insomma nelle sue varie espressioni. Ma
in questo, senso anche tanti e tant'altri scrittori faceti, burleschi,
grotteschi, satirici, comici d'ogni tempo e d'ogni nazione dovrebbero
esser considerati umoristi.
L'errore è sempre quello: de la distinzione sommaria.
Sono innegabili le diverse qualità delle varie razze, è innegabile che
la plaisanterie francese non è l'inglese come non è l'italiana, la
spagnuola, la tedesca, la russa, e via dicendo; innegabile che ogni
popolo ha un suo proprio umore; l'errore comincia quando
quest'umore, naturalmente mutabile nelle sue manifestazioni
secondo i momenti e gli ambienti, è considerato, come
comunemente il volgo suol fare, quale umorismo; oppure quando per
considerazioni esteriori e sommarie si afferma sostanzialmente
diverso negli antichi e nei moderni; e quando in fine, per il solo fatto
che gli Inglesi chiamarono humour questo loro umore nazionale,
mentre gli altri popoli lo chiamarono altrimenti, si viene a dire che
soltanto gl'inglesi hanno il vero e proprio umorismo.
Abbiamo già veduto che, molto prima che quel gruppo di scrittori
inglesi del sec. XVIII si chiamasse degli umoristi [18], in Italia
avevamo avuto e umidi e umorosi e umoristi. Questo, se si vuol
discutere sul nome. Se si vuol poi discutere intorno alla cosa, è da
osservare innanzi tutto che, intendendo in questo senso largo
l'umorismo, tanti e tanti scrittori che noi chiamiamo burleschi o ironici
o satirici o comici ecc., sarebbero chiamati umoristi dagli Inglesi, i
quali sentirebbero in essi quel tal sapore che noi sentiamo nei loro
scrittori e non sentiamo più nei nostri per quella particolarissima
ragione, che con molto accorgimento fu messa in chiaro dal Pascoli.
«C'è, — disse il Pascoli, — in ogni lingua e letteratura un quid
speciale e intraducibile, che pochi sanno percepire nella lingua e
letteratura lor propria e avvertono, invece, senza difficoltà nelle altrui.
Ogni lingua straniera, pur da noi non intesa, vi suona all'orecchio
più, dirò, mirabilmente, che la vostra. Un racconto, una poesia,
esotici, vi sembrano più belli, anche se mediocri, di molte belle cose
nostrane; e tanto più, quanto più conservano di quell'essenza
nazionale. Ora non crediate che la vostra lingua e letteratura non
abbiano a fare il medesimo effetto negli altri che quelle altre in noi!»
Una prova di questo fatto si può avere in ciò che W. Roscoe scrisse
nel cap. XVI, § 12 della sua opera Vita e pontificato di Leon X, a
proposito del Berni. Il Roscoe, inglese, e che perciò di quel che
comunemente nel suo paese s'intende per humour doveva aver
coscienza, scrisse che le facili composizione del Berni e del Bini e
del Mauro, ecc. «non è improbabile che abbiano aperta la strada ad
una simile eccentricità di stile in altri paesi» e che «in verità può
concepirsi l'idea più caratteristica degli scritti del Berni e dei
compagni e seguaci di lui col considerare esser quelli in versi facili e
vivaci la stessa cosa, che sono le opere in prosa di Rabelais, di
Cervantes e di Sterne».
E non ci dà Antonio Panizzi, che lungamente visse in Inghilterra e
degli scrittori nostri scrisse in inglese, una definizione dello stile del
Berni, che risponde in gran parte a quella che il Nencioni poi volle
dare dell'umorismo? «I precipui elementi dello stile del Berni — dice
il Panizzi —: sono: l'ingegno che non trova somiglianza tra oggetti
distanti e la rapidità onde subitamente connette le idee più remote; il
modo solenne onde allude ad avvenimenti ridicoli e proferisce
un'assurdità: l'aria d'innocenza e d'ingenuità con che fa osservazioni
piene d'accorgimento e conoscenza del mondo, la peculiar bonarietà
con che sembra riguardare con indulgenza... gli errori e le malvagità
umane; [19] la sottile ironia che egli adopera con tanta apparenza di
semplicità e d'avversione all'acerbezza; la singolare schiettezza con
che pare desideroso di scusare uomini e opere nello stesso
momento che è tutto inteso a farne strazio». A ogni modo, è certo
che il Roscoe sentiva nel Berni e negli altri nostri poeti bajoni lo
stesso sapore che sentiva negli scrittori suoi connazionali dotati di
humour.
E non lo sentiva forse il Byron nel nostro Pulci, di cui tradusse
finanche il primo canto del Morgante? E lo stesso Sterne non lo
sentiva finanche nel nostro Gian Carlo Passeroni (Passeroni
dabben', come lo chiamava il Parini), quel buon prete nizzardo che
nel canto XVII, parte III del suo Cicerone ci fa sapere (str. 122ª):
E, d'altro canto, non risente proprio per nulla degli scrittori francesi
del grand siècle e anche da altri che non appartengono a questo,
quel gruppo di umoristi inglesi di cui abbiamo or ora fatto parola?
Il Voltaire, parlando dello Swift nelle sue Lettres sur les Anglais dice:
«Mr. Swift est Rabelais dans son bon sens et vivant en bonne
compagnie. Il n'a pas, à la veritè, la gaîté du premier, mais il a tout la
finesse, la raison, la choix, le bon goût qui manquent à nostre curé
de Meudon [21]. Ses vers sont d'un goût singulier et presque
inimitable; la bonne plaisanterie est son partage en vers et en pros;
mais pour le bien entendre, il faut faire un petit voyage dans son
pays».
Dans son pays, va bene; ma c'è anche chi vuol dire che
bisognerebbe far pure un piccolo viaggio alla luna in compagnia di
Cyrano de Bergerac.
E chi metterà in dubbio l'azione del Voltaire e del Boileau sul Pope?
E ricorderemo che il Lessing, accusando il Gottsched nelle sue
Lettere su la letteratura moderna, dice che meglio sarebbe
convenuta al gusto e al costume tedesco l'imitazione degli Inglesi, di
Shakespeare, di Jonson, di Beaumont e Fletcher, anzi che quella
dell'infranciosato Addison.
Ma una prova anche più chiara si può cavar dal fatto che, mentre
nessuno di quelli che da noi si sono occupati di umorismo e, per un
pregiudizio snobistico, lo hanno veduto soltanto in Inghilterra, si è
mai sognato di chiamare umorista il Boccaccio per quelle molte sue
novelle che ridono, umorista e anzi il primo degli umoristi è ritenuto
invece in Inghilterra pe' suoi Canterbury-Tales il Chaucer.
Han voluto vedere nel poeta inglese, non — com'era giusto — il quid
speciale della diversa lingua, un altro stile; ma, nello stile, una
maggiore intimità, e dimostrar questa maggiore intimità innanzi tutto
nell'ingegnoso pretesto de le novelle (il pellegrinaggio a Canterbury),
nei ritratti dei pellegrini novellatori, segnatamente di quella
indimenticabile, graziosissima Prioressa, Suor Eglantina, e di sir
Thopas e della donna di Bath, poi nella rispondenza de le novelle ai
caratteri di chi le racconta, o meglio, nel modo con cui le varie
novelle, che il Chaucer non inventa, prendono colore e qualità dai
pellegrini.
Ma questa che vuol parere un'osservazione profonda, è, invece,
superficialissima, perchè si arresta soltanto alla cornice del quadro.
La magnifica opulenza dello stile boccaccesco, la copia e
l'appariscenza della forma si possono forse da un canto considerare
come esteriori e implicano forse dall'altro scarsezza d'intimità
psicologica? Esaminiamo, sotto questo aspetto, a una a una le
novelle, i caratteri dei singoli personaggi, lo svolgimento delle
passioni, la dipintura minuta, spiccata, evidente della realtà, che
sottintende una sottilissima analisi, una conoscenza profonda del
cuore umano, e vedremo se il Boccaccio, segnatamente nell'arte di
render verosimili certe avventure troppo strane, non supera di gran
lunga il Chaucer.
Si è troppo abusato d'una osservazione, al solito sommaria, fatta da
coloro che han studiato con soverchio amore delle cose altrui le
relazioni tra le letterature straniere e la nostra: la osservazione cioè
che gli scrittori nostri abbiano dato sempre a tutto ciò che han tolto
dagli stranieri una così detta maggior bellezza esteriore, una linea
più composta e più armoniosa; e che gli stranieri, invece, abbiano
dato a tutto ciò che han tolto dagli scrittori nostri una maggior
bellezza interiore, un carattere più intimo e profondo.
Ora questo, se mai, può valere per certi scrittori nostri mediocri, da
cui qualche sommo scrittore straniero abbia tolto questo o
quell'argomento: può valere ad esempio per certi novellieri nostri, da
cui lo Shakespeare cavò la favola per alcuni suoi drammi possenti.
Non può valere per il Boccaccio e per il Chaucer. Bisogna invece
considerare, in questo caso, che cosa uno scheletrico fabliau
francese (ammesso che il Chaucer non abbia preso nulla
direttamente dal Boccaccio) sia diventato ne le novelle dell'uno e
dell'altro.
IV.
L'umorismo e la retorica
Segue in fatti a questi due versi una terzina, che non solo spiega
l'apparente contrasto, ma lo distrugge affatto. Cecco non prenderà
malinconia, anzi s'allegrerà del suo tormento, perchè ha udito dire a
un uomo saggio:
Sul valore della parola malinconia, tante volte ripetuta da Cecco, non
è possibile farsi, come il D'Ancona ha voluto farsi, alcuna illusione.
Cecco non s'allegra mai veramente del suo tormento, sì lo riveste
d'una forma arguta e vivace, la quale per me, spesso, più che per
intenzione burlesca o satirica, proviene dalla sua natura paesana, ed
è affatto popolare senese.
Tutto il popolo toscano, che meritamente si vanta il più arguto
d'Italia, volendo anche oggidì narrare le sue sventure e le sue
afflizioni, esprimere gli odii suoi e i suoi amori, manifestar lo sdegno
o il rimprovero o un desiderio, non usa una forma diversa. In genere,
colorir comicamente la frase è virtù nel popolo spontanea, nativa. Il
Belli, per esempio, non vuol tradurre in romanesco per Luigi Luciano
Bonaparte il vangelo di San Matteo, perchè la lingua della plebe è
buffona, e «appena riuscirebbe ad altro che ad una irriverenza verso
i sacri volumi» [26]. Qui abbiamo, in somma, l'ironia, cioè quella tal
contradizione fittizia tra quel che si dice e quel che si vuole sia
inteso. Il contrasto non è nel sentimento, è solo verbale.
Dobbiamo, dunque, da un canto tener conto di questo generale
umore del popolo, di questa lingua buffona della plebe, e dall'altro
intender l'umorismo in quel senso largo e improprio, se vogliamo
includere tra gli umoristi Cecco Angiolieri, e non Cecco Angiolieri
soltanto, allora, ma tutto quel gruppo di poeti toscani, non di scuola,
ma di popolo, pieni di naturalezza nell'arte loro non ancora ben
sicura, nel cui petto per prima si ridesta o di dolce voglia o per casi
reali, per sentimenti veri, un'anima di canto umano, tra le insulse
sconsolanti scimierie dei poeti per distrazione o per sollazzo o per
moda o per galanteria, tra i bisticci pur che siano della scuola
provenzaleggiante: di quei poeti in fine, ne' cui versi, per dirla col
Bartoli, è l'annunzio del carattere realistico che assumeranno le
nostre lettere.
Son toscani, questi poeti, e in Toscana segnatamente troveremo
queste espressioni così dette umoristiche in senso largo: in Toscana,
e nella non scarsa letteratura nostra dialettale. Perchè? Perchè
l'umorismo ha sopratutto bisogno d'intimità di stile, la quale fu
sempre da noi ostacolata dalla preoccupazione della forma, da tutte
quelle questioni retoriche che si fecero sempre da noi intorno alla
lingua. L'umorismo ha bisogno del più vivace, libero, spontaneo e
immediato movimento della lingua, movimento che si può avere sol
quando la forma a volta a volta si crea. Ora la retorica insegnava,
non a crear la forma, ma ad imitarla, a comporla esteriormente;
insegnava a cercar la lingua fuori, come un oggetto, e naturalmente
nessuno riusciva a trovarla se non nei libri, in quei libri che essa
aveva imposti come modelli, come testi. Ma che movimento si
poteva imprimere a questa lingua esteriore, fissata, mummificata, a
questa forma non creata a volta a volta, ma imitata, studiata,
composta?
Il movimento è nella lingua viva e nella forma che si crea. E
l'umorismo che non può farne a meno, (sia nel senso largo, sia nel
suo proprio senso) lo troveremo — ripeto — nelle espressioni
dialettali, nella poesia macaronica e negli scrittori ribelli alla retorica.
C'è bisogno d'intendersi su questa creazione della forma, cioè su le
reazioni tra la lingua e lo stile? Avvertiva acutamente lo
Schleiermacher nelle sue Vorles. üb. Aesth. che l'artista adopera
strumenti che di lor natura non son fatti per l'individuale, ma per
l'universale: tale il linguaggio. L'artista, il poeta, deve cavar dalla
lingua l'individuale, cioè appunto lo stile. La lingua è conoscenza, è
oggettivazione. In questo senso è creazione di forma: è, cioè, la
larva della parola in noi investita e animata dal nostro particolar
sentimento e mossa da una nostra particolar volontà. Non dunque
creazione ex nihilo. La fantasia non crea nel senso rigoroso della
parola, non produce cioè forme genuinamente nuove. Se, in fatti,
esaminiamo anche i rabeschi più capricciosi, i grotteschi più strani, i
centauri, le sfingi, i mostri alati, vi troveremo sempre, più o meno
alterate per le loro combinazioni, immagini rispondenti a sensazioni
reali.
Ebbene, una forma, press'a poco, o meglio, in un certo senso
corrispondente al grottesco nelle arti figurative troviamo nell'arte
della parola, ed è appunto lo stil macaronico: creazione arbitraria,
contaminazione mostruosa di diversi elementi del materiale
conoscitivo.
E avvertiamo che esso sorse appunto come ribellione e come
derisione, e che non fu solo, che ebbe cioè a compagni altri
linguaggi burleschi, fittizii. «Il dialetto sprezzato — notava Giovanni
Zannoni, illustrando I precursori di Merlin Cocai [27] — volle insinuarsi
malignamente nel latino per sfregiare la togata lingua dei dotti e
quello che era stato un elemento parziale della satira popolare e
gogliardica divenne elemento massimo; volle mostrare la propria
flessibilità, quando il volgare ancora accademico, grave, impacciato
non poteva piegarsi a tutte le esigenze dell'umorismo, e ad un tratto
formò una nuova maniera di sogghigno. In tal modo, da due cause
contrarie ebbe origine il linguaggio macaronico che fu la più grossa e
fragorosa risata del risorgimento, la beffa più atroce al classicismo e
che, pure involontariamente, giovò tanto al definitivo trionfo del
volgare».
Ma quanti furono questi scrittori ribelli? pochi o molti? pochi ahimè,
perchè il maggior numero è sempre dei mediocri: servum pecus. Il
Barzellotti riconosce che «un primo moto di originalità e di feconda
spontaneità creatrice» si era fatto «nella mente e nella vita degli
Italiani durante i secoli decimoterzo e decimoquarto»; ma poi dice
«tutti o quasi tutti gli umanisti avere interrotto con l'imitazione e la
ripetizione degli antichi quel primo moto d'originalità».
Ora questa a noi sembra un'altra di quelle considerazioni molto
sommarie, che abbiamo deplorato più su, considerazione che
s'accorda con altre simili su la scettica indifferenza, ad esempio, su
la pagana serenità, su la mortificazione delle energie individuali, su
la mancanza d'aspirazioni, sul riposo nelle forme e nel senso, ecc.,
ecc., del nostro grande rinascimento, come se il culto dell'antichità
non fosse stato già di per sè un'idealità grande, tanto grande che
illuminò tutto il mondo, il riacquisto d'un patrimonio che si fece
fruttare sapientemente e produsse opere immortali, e come se esso
non fosse venuto anzi a tempo a riempire il vuoto d'idealità cadute o
cadenti; come se insieme con quattro o cinque dotti aridi e vacui non
ce ne fossero stati tant'altri pieni di vita e d'ardire, nel cui latino
palpitano e vibrano le energie tutte della lingua italiana; come se per
entro al Facetiarum libellus unicus di Poggio, per esempio, non
spirassero aure nuove [28]; come se il Valla fosse soltanto autore del
trattato Elegantiarum latinae linguae; come se nel Pontano e nel
Poliziano e in tanti altri non fosse così intero e fresco il sentimento
della realtà, che il Poliziano poi, componendo in volgare, potè aver
tutte le grazie ingenue d'un poeta popolare. E sotto questo mondo
dei dotti, così sommariamente considerato, non c'era forse il popolo?
E si può dire, d'altro canto, che i nostri poeti cavallereschi, ad
esempio, diedero solamente una maggior bellezza esteriore, una
linea più composta, più armoniosa alla materia romanzesca, se da
capo a fondo la ricrearono con la fantasia? Altro che bellezza
esteriore!
Si è troppo ripetuto, e con troppa leggerezza, che nell'indole della
nostra gente predomini l'intelletto più che il sentimento e la volontà,
cioè la parte obiettiva più che la subiettiva dello spirito, donde il
carattere dell'arte nostra più intellettualistica che sentimentale, più
esteriore che interiore.
L'equivoco qui è fondato nell'ignoranza del procedimento di
quell'attività creatrice dello spirito, che si chiama fantasia: ignoranza
che era fondamentale nella Retorica. L'artista deve sentire la propria
opera com'essa si sente e volerla com'essa si vuole. Avere un fine e
una volontà esteriori, vuol dire uscire dall'arte.
E ne escono difatti quanti s'ostinano a ripetere che l'arte nostra del
rinascimento fu splendida di fuori e vuota di dentro. Vuota in che
senso? Nel senso che non ebbe volontà e fini oltre a sè stessa? Ma
questo fu un pregio e non un difetto. O, se no, bisognerebbe
dimostrare che fu arte falsa, cioè artificio. Si può dimostrar questo?
Sì, certamente, se prendiamo i mediocri, gli schiavi della retorica, la
quale insegnava appunto l'artificio, la copia! Ma perchè dobbiamo
prendere i mediocri? perchè dobbiam guardare così taineamente
all'ingrosso, senza distinguere? Arte falsa, quella dell'Ariosto?
Buttando via in un fascio i mediocri, e affrontando i veri poeti, ci
accorgeremo subito di fare una questione di contenuto e non di
forma, una questione dunque estranea all'arte. Ma questo stesso
contenuto, che fa tanto dispetto, come fu assunto dai poeti veri, da
coloro che ebbero innegabilmente uno stile, e dunque originalità e
intimità? Non c'è proprio nulla che riempia il vuoto che ci si vuol
sentire? Non c'è l'ironia di questi poeti? E perchè non si vuol
riconoscere il valore positivo, sottinteso, di questa ironia? Itali rident,
sì, ma con questo riso si cacciò il Medio-evo; e quanto fiele sotto a
questo riso! E che ha di diverso questo riso in Erasmo di Rotterdam,
in Ulrico di Hütten? Perchè si disconosce soltanto nei nostri questo
valore positivo dell'ironia e si riconosce invece negli stranieri? si
disconosce in Pulci e nel Folengo per esempio, e si riconosce in
Rabelais? Forse perchè questi ebbe l'accortezza d'invitare i lettori a
imitare il cane innanzi all'osso, e quegli altri no? «... Vites-vous
oncques chiens rencontrans quelque os médullaire? C'est, comme
Platon dit (lib. II De Rep.), la bête du monde plus philosophe. Si vû
l'avez, vous avez pû noter de quelle dévotion il le tient, de quelle
prudence il l'entomme, de quelle affection il le brise et de quelle
diligence il le succe. Qui l'induit à ce faire? Quel est l'espoir de son
éture? Quel bien prétend-il? Rien plus sinon qu'un peu de moüelle».
E l'osso gettato dal Rabelais ai critici è stato difatti spiato con
devozione, preso con cura, tenuto con fervore, scalfito con
prudenza, spezzato con affetto e succhiato con diligenza. E perchè
non così quelli del Pulci e del Folengo? [29] Ma ogni qual volta si
butta un osso a un critico si deve dunque dire: — Bada, c'è dentro il
midollo? — o far che questo midollo si mostri un tantino da qualche
parte fuori dell'osso? Ma tanto più pregevole è un'opera d'arte,
quanto maggiore è l'assorbimento della volontà e del fine nella
creazione artistica. Questo maggiore assorbimento rischia di parere
indifferenza verso gli ideali della vita a chi consideri le opere con
criterii estranei all'arte, e le opere d'arte superficialmente; ma — a
prescindere che gl'ideali della vita, per sè stessi, non hanno nulla da
vedere con l'arte, che dev'essere creazione spontanea e
indipendente — pure quell'indifferenza, in fondo, non c'è, perchè
altrimenti non ci sarebbe neppure l'ironia. Se l'ironia c'è, ed è
innegabile, non c'è l'indifferenza, di cui tanto s'è parlato.
Piuttosto dove dirsi che questa ironia non riesce se non di rado a
drammatizzarsi comicamente, come avviene nei veri umoristi: resta
quasi sempre comica senza dramma, e dunque facezia, burla,
caricatura più o men grottesca. Lo stesso però avviene in Rabelais:
e tutti gli altri sonetti contro a preti e abati, e anche quel sonetto che
comincia:
bisognava perchè:
***
Quando questa materia cavalleresca, dalle piazze ove ormai è
caduta, risale, per capriccio o per curiosità o per vaghezza che se ne
abbia, ai palagi, alle corti dei signori, che avviene?
Ma bisogna innanzi tutto avvertire all'indole, ai gusti, ai costumi di
queste corti, a cui sale!
Quale fosse la corte di Lorenzo de' Medici, quali le abitudini, i
piaceri, gl'intendimenti di lui, è ben noto; e basterebbe, anche senza
dare tutto quel peso che si deve alla diversa indole e alla diversa
educazione dei poeti, a spiegarci in gran parte perchè il Morgante
Maggiore sia così diverso dell'Innamorato del Bojardo e del Furioso
dell'Ariosto.
Il Morgante risponde perfettamente alla corte di Lorenzo, il quale si
piace della espressione popolare e per il popolo compone,
parodiando, come nella Nencia da Barberino. Egli ha il gusto della
parodia, e lo dimostra anche coi Beoni, parodia dantesca, letteraria,
qui; parodia dell'espressione popolare, nella Nencia. «Ben è vero
che il Medici, — notò il Carducci nella prefazione alle poesie di
Lorenzo de' Medici [35] — contraffece e parodiò più presto che non
ritraesse la espressione degli affetti e il modo di favellare de' nostri
campagnuoli: chè i Rispetti più volte stampati negli ultimi anni
mostrano aperto avere il popolo di Toscana più gentilezza d'affetto,
più squisitezza di fantasia, più forbitezza di favella, che non piacesse
prestargliene a Lorenzo dei Medici detto il magnifico e a Luigi Pulci
suo cortegiano. Il quale, com'è de' cortegiani, volle dar a divedere
ch'è' facea conto del poeta potente imitandolo nella Beca da
Dicomano; e com'è degli imitatori, per superarlo l'esagerò,
sfoggiando lo strano e il grottesco dove il Medici pur nella parodia
s'era tenuto al delicato».
Ma è chiaro che l'intenzione parodica comunica per forza alla forma
la caricatura, giacchè, chi voglia imitare un altro, bisogna che ne
colga i caratteri più spiccati e su questi insista: tale insistenza,
genera inevitabilmente la caricatura.
La presenza di quella pia donna che fu Lucrezia Tornabuoni
potrebbe poi anche spiegarci, almeno in parte, la mascheratura
religiosa che il Pulci volle dare al suo poema; parodia anch'essa, per
altro, a mio modo di vedere, come tutto il resto.
Basta, trattare di religione con la lingua buffona della plebe, perchè
si abbia l'irriverenza.
Ricorderò qui, a questo proposito, ancora una volta quello che il Belli
faceva rispondere a Luigi Luciano Bonaparte che gli proponeva la
traduzione in romanesco del vangelo di San Matteo. Ma questa
irriverenza che nasce dalla lingua buffona della plebe non denota
punto per sè stessa irreligiosità. E ricorderò anche l'aneddoto che si
racconta in Sicilia d'un altro grande poeta dialettale, notissimo
nell'isola e ignoto affatto nel Continente, Domenico Tempio, il quale
chiamato un giorno dal vescovo di Catania e paternamente esortato
a non più cantare cose oscene e a dare invece al popolo durante la
settimana santa un bell'esempio di contrizione sciogliendo un
cantico sacro su la passione e morte di Cristo, rispose a Monsignore
che volentieri lo avrebbe soddisfatto, essendo egli credentissimo e
divoto; e volle anzi dargliene un saggio lì per lì, scagliandosi con due
versi d'estrosa improvvisazione contro Ponzio Pilato così sconci, che
fecero subito passar la voglia a Monsignore del bell'esempio di
contrizione da offrire al popolo catanese durante la settimana santa.
Tutte le dispute che si son fatte intorno alla irriverenza verso la
religione, anzi all'empietà, all'ateismo del Pulci, non possono
veramente non apparir vane quando si intendano a dovere lo spirito
del poema, la qualità e la ragione della sua ironia e del suo riso.
Non è possibile, o è ingiustissimo, giudicare in sè e per sè
esclusivamente il Morgante Maggiore, come fece ad esempio una
prima, volta il De Santis, [36] il quale credette e volle dimostrare che
Pulci, nel comporre il suo poema, non avesse vera e profonda
coscienza del suo scopo; e però condannò come insufficienze del
poeta la puerilità delle situazioni, la rudimentalità psicologica dei
personaggi, le ripetizioni nell'ordito, ecc. ecc. Il Pulci, invece, è
coscientissimo del suo scopo, e tra i due casi che pone il De Santis
di chi dice sciocchezze con intenzione comica e fa ridere non di lui,
ma di quel che dice, e di chi all'incontro dice sciocchezze per
sciocchezza e fa rider di lui e non di quel che ha detto, l'autore del
Morgante sta certamente nel primo caso, non già nel secondo. Il
Pulci dice sciocchezze con intenzione comica o, più propriamente,
parodica, e fa ridere, non tanto però quanto vorrebbe far credere in
un suo libro recente Attilio Momigliano, [37] come vedremo appresso.
Ho ricordato più su La scoperta dell'America di Cesare Pascarella.
Ebbene, si può dire che, esteticamente, il Pulci si trovi, di fronte alla
materia cavalleresca, in certo qual modo nella stessa posizione del
poeta romanesco di fronte alla scoperta dell'America narrata da un
popolano. Il Pascarella infatti sorprende, o finge di sorprendere, in
un'osteria un popolano saputo, che racconta ad amici quella
scoperta, commovendosi della gloria e della sventura di Colombo.
Chi si sognerebbe d'attribuire al poeta romanesco le sciocchezze
che dice quel popolano? la puerilità ridicola di quei dialoghi col re di
Spagna portoghese? tutte le altre meraviglie non meno ridicole e
infantili del viaggio, dell'arrivo, del ritorno? E si noti che codeste
meraviglie suscitano anche, a un certo punto, qualche reazione
d'incredulità in chi ascolta: — «Come le sai tu codeste cose?» —
«Eh! c'è la storia». (Turpin lo dice). E, qua e là, paragoni che par
dimostrino con la massima evidenza qualche cosa e invece non
dimostrano nulla: e certe tirate calorose di sdegno o d'ammirazione;
e certe spiegazioni in cui la logica rudimentale del popolano si
compiace quando vuol farsi ragione di qualche caso o avvenimento
straordinario; e certi impeti di commozione che fanno ridere non per
intenzione comica di chi racconta, ma o per false deduzioni o per
immagini improprie e stonate o per incongrue frasi.
***
Mi sono intrattenuto così a lungo sul Morgante perchè fra i tre nostri
maggiori poemi cavallereschi è quello in cui certamente ha più
campo l'ironia: l'ironia che — secondo l'espressione dello Schlegel
— riduce la materia a una perpetua parodia e consiste nel non
perdere, neppure nel momento del patetico, la coscienza della
irrealità della propria creazione.
L'intendimento dei due altri poeti, il Bojardo e l'Ariosto, è più serio.
Ma bisogna bene intendersi su questa maggior serietà... Il Pulci è
poeta popolare, nel senso che non solleva per nulla dal popolo la
materia che tratta, anzi ve la tiene per riderne parodiandola, in una
corte borghese come quella di Lorenzo che della parodia, come ho
detto, ha il gusto. Il Bojardo è poeta cortegiano, nel senso che ha,
per usare le parole stesse del Rajna «una profonda simpatia per i
costumi e i sentimenti cavallereschi, cioè per l'amore, la gentilezza, il
valore, la cortesia» e se «non ha ritegno a scherzare col soggetto,
nè ha rimorso di esporre alla derisione i suoi personaggi, gli è che
egli intende a celebrare la prodezza, la cortesia e l'amore, non già
Orlando e Ferraguto»; cortegiano, dunque, nel senso che scrive per
dar buon tempo e gradito sollazzo a una corte che, vivendo in ozii
agiati ed eleganti, appassionandosi ai casi di Ginevra e di Isotta, alle
avventure dei cavalieri erranti, non avrebbe potuto far buon viso ai
paladini di Francia, se questi le fossero venuti innanzi senza amore
e senza cortesia. L'Ariosto, se per condizioni di vita, rispetto alla
casa d'Este, è — in un altro senso — poeta cortegiano anche lui;
rispetto però alla materia che prende a trattare, non guarda che alle
condizioni serie dell'arte.
Abbiamo veduto che nella stessa Francia già da tempo il mondo
epico e cavalleresco aveva perduto ogni serietà. Come avrebbero
potuto i poeti italiani trattare seriamente ciò che già da tempo era
cessato di esser serio? l'ironia comica era inevitabile. Ma «chi fa un
lavoro comico — osserva giustamente il De Sanctis — non è
esentato dalle condizioni serie dell'arte».
Ebbene, queste condizioni serie dell'arte rispetta più di tutti l'Ariosto,
meno di tutti il Pulci, ma non per difetto d'arte, come era parso prima
al De Sanctis, bensì — ripetiamo — per lo scopo ch'egli si prefisse.
Chi fa una parodia o una caricatura è certamente animato da un
intento o satirico o semplicemente burlesco: la satira o la burla
consistono in un'alterazione ridicola del modello, e non sono perciò
commisurabili se non in relazione con le qualità di questo e
segnatamente con quelle che spiccano di più e che già
rappresentano nel modello una esagerazione. Chi fa una parodia o
una caricatura insiste su queste qualità spiccate; dà loro maggior
rilievo; esagera un'esagerazione. Per far questo è inevitabile che si
sforzino i mezzi espressivi, si àlteri stranamente, goffamente o
anche grottescamente la linea, la voce o, comunque, l'espressione;
si faccia in somma violenza all'arte e alle condizioni serie di essa. Si
lavora su un vizio o su un difetto d'arte o di natura, e il lavoro deve
consistere nell'esagerarlo, perchè se ne rida. Ne risulta
inevitabilmente un mostro; qualcosa che, a considerarla in sè e per
sè, non può avere alcuna verità, nè, dunque alcuna bellezza; per
intenderne la verità e però la bellezza, bisogna esaminarla in
relazione col modello. Si esce così dal campo della fantasia pura.
Per ridere di quel vizio o di quel difetto o per deriderli, dobbiamo
anche scherzare con lo strumento dell'arte; esser coscienti del
nostro gioco, che può esser crudele, che può anche non aver
intenzioni maligne o averne anche di serie, come le aveva ad
esempio Aristofane nelle sue caricature.
Se dunque il Pulci nel suo lavoro comico vien meno alle condizioni
serie dell'arte, non è per insufficienza d'arte, ripeto. Lo stesso non si
può dire per il Bojardo. La maggior serietà di questo deve
considerarsi non già nell'intenzion dell'arte, che gli difetta, bensì in
quella di piacere alla sua corte, seguendo anche il suo gusto e il
piacer suo.
Si arrivò finanche a dire che il Bojardo tratta seriamente, nel suo
poema, la cavalleria. Il Rajna, che — com'è noto — nel suo libro su
Le Fonti dell'Orl. Fur. par che si sia proposto di rialzare il Bojardo a
costo del «suo continuatore», a proposito della distinzione da farsi
tra l'Innamorato o il Furioso, domanda: «La faremo noi consistere
nella cosidetta ironia ariostesca? Certo starebbe bene, se fosse
vero, come si pretende, che l'Ariosto avesse, con un sorriso
incredulo, sciolto in fumo l'edificio del Bojardo, e trasformato in
fantasmi i personaggi dell'Innamorato. Il male si è che quell'edificio,
quei personaggi, erano già una fantasmagoria anche per il Conte di
Scandiano. Se Lodovico non crede al mondo che canta e se ne fa
giuoco, non ci crede maggiormente e all'occasione non se ne fa
meno giuoco il suo predecessore e maestro; se ironia c'è nel
Furioso, non ne manca nemmeno nell'Innamorato». E, alcune
pagine innanzi: «Certo il sentir parlare di burlesco e umorismo, a
proposito dell'Innamorato, deve far meraviglia, e non poca. Si è tanto
avvezzi a sentir ripetere su tutti i toni, e da uomini autorevolissimi e
giudiziosissimi, che il Bojardo canta le guerre d'Albraccà, e le
avventure d'Orlando e di Rinaldo, con quella medesima serietà e
convinzione, colla quale il Tasso celebrava un secolo dopo le
imprese dei Cristiani in Palestina e l'acquisto di Gerusalemme! È un
errore, di cui mi par superflua la confutazione... Non ci vuol molto ad
accorgersi che tra il Bojardo ed il mondo da lui preso a
rappresentare, c'è un vero contrasto, dissimile soltanto per grado e
per tono da quello che impediva al Pulci d'immedesimarsi colla sua
materia. Chè agli occhi di ogni Italiano colto del secolo XV erano
ridicoli quei terribil colpi di lancia e di spada, che al paragone
avrebbero fatto apparir fanciulli gli eroi di Omero; ridicolo quel
frapparsi (!) le armature e le carni per le ragioni più futili, od anche
senza un motivo al mondo; ridicole le profonde meditazioni amorose,
che assorbivano tutta l'anima per ore ed ore, e sopprimevano ogni
ombra di coscienza; ridicole, insomma, tutte le esagerazioni dei
romanzi cavallereschi. O come si vuole che un uomo imbevuto fino
ai midollo di coltura classica, e dotato di un buon senso a tutta
prova, avesse a contemplare e rappresentare questo mondo senza
mai prorompere in uno scoppio di riso? E infatti il Bojardo ride, e si
studia di far ridere; anche in mezzo alle narrazioni più serie esce in
frizzi e facezie; e più d'una volta egli crea scene, che si potrebbero
credere trovate dal Cervantes per beffare la cavalleria ed i suoi
eroi».
Il Rajna crede di difendere così il Bojardo da una ingiustizia. Il suo
torto — e gli è stato rilevato alla ristampa del libro dal Cesareo [41] —
è quello di trattare la questione dei rapporti tra il Bojardo e l'Ariosto
senza una adeguata preparazione estetica. Eppure, già il De
Sanctis, trattando della poesia cavalleresca in un corso di lezioni
all'Università di Zurigo, aveva avvertito maravigliosamente: «La
facoltà poetica per eccellenza è la fantasia: ma il poeta non lavora
solo con le facoltà estetiche, tutte le facoltà cooperano: il poeta non
è solo poeta; mentre la fantasia forma il fantasma, l'intelletto e i
sensi non rimangono inerti. Un poeta può avere potente virtù
estetica ed esser povero d'immaginazione, commettere errori nel
disegno o spropositi storici e geografici: questi difetti non toccano
l'essenza della poesia. Ma se un poeta che ha in alto grado queste
alte facoltà, che ha un bel disegno ed una perfetta esecuzione
meccanica, ha debole fantasia, non saprà render vivente quanto
vede: la mancanza di fantasia è la morte del poeta. Ecco la
distinzione da farsi. Fin qui non avete diritto di mettere in quistione
l'ingegno poetico del Bojardo; i difetti, che abbiamo enumerato,
dipendono da altre facoltà. Per venire ad esaminarlo come poeta,
bisogna dunque vedere fino a qual punto abbia la potenza formativa
del fantasma. Ha una grande inventiva: è stato il poeta italiano che
ha raccolto il più vasto e vario materiale di poesia; non solo per
quantità ma anche per qualità. L'inventiva è già una prima
condizione del poeta; e per tal riguardo il Bojardo è superiore al
Pulci. — Ma, non che basti, è poca cosa: l'invenzione nell'arte è il
meno. Dumas lascia ai suoi segretarii l'incarico di raccogliere i
materiali, ne' quali si riserba d'infonder poi la vita. Raccolto il
materiale, il Bojardo lo sa lavorare? Ecco la quistione. Non lo lascia
nudo ed arido come il Pulci; ha la facoltà del concepimento, dà ad
ogni fatto e personaggio le determinazioni necessarie perchè
acquisti una fisionomia propria. Non gli basta l'abbozzare un
personaggio; e anzi, egli è uno dei principali disegnatori della poesia
italiana. Pochi sanno dar con più sicurezza i lineamenti ad un
carattere... Che resta da fare al poeta? Mostrar vivo il personaggio.
Chi ha dato tal forma e tal carattere, lo deve far vivere. Bisogna che
la concezione diventi situazione. Anche i più appassionati non sono
sempre appassionati. Volendo mettere in opera le determinazioni,
bisogna scegliere tali circostanze che, mediante di esse, possano
manifestarsi le forze interne d'un personaggio. V'è situazione
estetica quando il personaggio è posto nelle condizioni più
favorevoli, perchè possa rivelarsi. Ma il Bojardo non sa mutar la
concezione in situazione».
Il Cesareo, che svolge ampiamente e precisa nel suo studio su La
fantasia dell'Ariosto questa stupenda intuizione del De Sanctis, nota
a questo punto che, in verità «quando una creatura vive nella
fantasia d'un poeta, ella si rivelerà intera in qualunque circostanza si
trovi. Il poeta non ha da sceglier nulla, perchè quella creatura è
libera, autonoma, fuori del poeta medesimo, e non si può trovare se
non in quelle situazioni a cui la sospinge il suo carattere in contrasto
coi caratteri circostanti. Le situazioni vengon da sè, non le sceglie il
poeta; il quale deve soltanto curare che in ciascuna situazione,
anche la meno drammatica, il personaggio apparisca tutto, con tutte
le sue determinazioni interiori. E allora una sola situazione basterà a
farci conoscere quella creatura; e noi sapremo a un dipresso ciò che
ella farà in situazioni «più favorevoli». Il carattere di Farinata è già
tutto ne' primi sei versi co' quali ei si volge a Dante; quello d'Amleto è
già tutto nella scena dell'udienza a Corte; quello di don Abbondio è
già tutto nella sua passeggiata in vista de' bravi. Certo, la
successione delle situazioni accresce intensità ed evidenza al
carattere; ma qualunque situazione è una situazione estetica».
Per il Cesareo, al Bojardo manca per l'appunto la visione completa
del carattere; ed io son d'accordo con lui. Su un altro punto io
dissento dal De Sanctis, cioè là dove egli dice che il Bojardo «per
intenzioni pedantesche, ha voluto fare seriamente quanto è
sostanzialmente ridicolo». Codeste intenzioni pedantesche nel
Bojardo veramente non so vederle, come non so vedere ch'egli
abbia voluto esser serio e che soltanto «per la forza dei tempi» sia
riuscito ridicolo. Se, come dice lo stesso De Sanctis, egli «ride delle
sue invenzioni», non ha voluto esser serio. Secondo me, anzi, il torto
del Bojardo è proprio là dove il Rajna crede di difenderlo da una
ingiustizia: che egli, cioè, nobile cavaliere, animato da una profonda
simpatia per i costumi cavallereschi, cioè per l'amore, la gentilezza, il
valore, la cortesia, non ha voluto esser serio, come per il sentimento
suo poteva e come per il rispetto alle condizioni serie dell'arte
doveva. E, non volendo esser serio, egli non ha saputo ridere,
perchè a quella materia solo un riso ormai conveniva, quello de la
forma, e la forma sopra tutto manca al Bojardo. Dice bene il Rajna
che «non ci vuol molto ad accorgersi che tra il Bojardo ed il mondo
da lui preso a rappresentare, c'è un vero contrasto, dissimile soltanto
per grado e per tono da quello che impediva al Pulci
d'immedesimarsi colla sua materia». Ma l'inferiorità del Bojardo
rispetto al Pulci e all'Ariosto è appunto qui, nel grado e nel tono del
suo riso. Egli volle badar soltanto a sollazzare sè e gli altri, e non
intese che, volendo sollevar dal popolo quella materia e non volendo
più farne deliberatamente la parodia, come aveva fatto il Pulci, si
dovevano rispettare le condizioni serie dell'arte, come l'Ariosto le
rispettò.
Non è affatto vero che il poeta del Furioso con sorriso incredulo
sciolga in fumo l'edificio del Bojardo e trasformi in fantasmi i
personaggi dell'Innamorato. Al contrario! Egli dà anzi a quell'edificio
e a quei personaggi ciò che loro mancava: consistenza e
fondamento di verità fantastica e coerenza estetica.
Bisogna bene intendersi sul non credere del poeta al mondo che
canta o che, comunque, rappresenta. Ma si potrebbe dire che non
solo per l'artista, ma non esiste per nessuno una rappresentazione,
sia creata dall'arte o sia comunque quella, che tutti ci facciamo di noi
stessi e degli altri e della vita, che si possa credere una realtà. Sono,
in fondo, una medesima illusione quella dell'arte e quella che
comunemente a noi tutti viene dai nostri sensi.
Pur non di meno, noi chiamiamo vera quella dei nostri sensi, e finta
quella dell'arte. Tra l'una e l'altra illusione non è però questione di
realtà, bensì di volontà, e solo in quanto la finzione dell'arte è voluta,
voluta non nel senso che sia procacciata con la volontà per un fine
estraneo a sè stessa; ma voluta per sè e per sè amata.,
disinteressatamente; mentre quella dei sensi non sta a noi volerla o
non volerla: si ha, come e in quanto si hanno i sensi. E quella
dunque è libera, e questa no. E l'una finzione è dunque immagine o
forma di sensazioni, mentre l'altra, quella dell'arte, è creazione di
forma.
Il fatto estetico, effettivamente, comincia solo quando una
rappresentazione acquisti in noi per se stessa una volontà, cioè
quando essa in sè e per sè stessa, si voglia, provocando per questo
solo fatto, che si vuole, il movimento (tecnica) atto ad effettuarla fuori
di noi. Se la rappresentazione non ha in sè questa volontà, che è il
movimento stesso dell'immagine, essa è soltanto un fatto psichico
comune; l'immagine non voluta per sè stessa; fatto spirituale-
meccanico, in quanto non sta in noi volerla o non volerla; ma che si
ha in quanto risponde in noi a una sensazione.
Abbiamo tutti, più o meno, una volontà che provoca in noi quei
movimenti atti a creare la nostra, propria vita. Questa creazione, che
ciascuno fa a se stesso della propria vita, ha bisogno anch'essa, in
maggiore o minor grado, di tutte le funzioni e attività dello spirito,
cioè d'intelletto e di fantasia, oltre che di volontà; e chi più ne ha e
più ne mette in opera, riesce a creare a se stesso una più alta e
vasta e forte vita. La differenza tra questa creazione e quella dell'arte
è solo in questo (che fa appunto comunissima l'una e non comune
l'altra): che quella è interessata e questa disinteressata, il che vuol
dire che l'una ha un fine di pratica utilità, l'altra non ha alcun fine che
in sè stessa.; l'una è voluta per qualche cosa; l'altra si vuole per sè
stessa. E una prova di questo si può aver nella frase che ciascuno di
noi suol ripetere ogni qual volta, per disgrazia, contro ogni nostra
aspettativa, il proprio fine pratico, i proprii interessi siano stati
frustrati: «Ho lavorato per amore dell'arte». E il tono con cui si ripete
questa frase ci spiega la ragione per cui la maggioranza degli
uomini, che lavorano per fini di pratica utilità e che non intendono la
volontà disinteressata, suol chiamare matti i poeti veri, quelli cioè in
cui la rappresentazione si vuole per sè stessa senz'altro fine che in
sè medesima, e tale essi la vogliono, quale essa, si vuole. Non
ricorderò qui la domanda del cardinale Ippolito a Messer Lodovico. Il
quale però, per tutta risposta, avrebbe potuto rileggergli quell'ottava
del canto ove si narra del viaggio di Astolfo alla Luna:
Non sì pietoso Enea, nè forte Achille
Fu, com'è fama, nè sì fiero Ettorre;
E ne son stati e mille e mille e mille
Che lor si puon con verità anteporre:
Ma i donati palazzi e le gran ville
Dai discendenti lor, gli ha fatto porre
In questi senza fin sublimi onori
Dall'onorate man degli scrittori...
***
Nella lontananza del tempo e dello spazio, il poeta vede innanzi a sè
un mondo meraviglioso che in parte la leggenda, in parte le
capricciose invenzioni dei cantori han costruito attorno a Carlo
Magno. Egli vede l'Imperatore non già come quella cosa oscura del
Pulci, che passeggia per la mastra sala impaurito dei formidabili
eserciti dei Saracini o, più spesso, delle minacciate vendette dei
Paladini per i tradimenti di Gano, che lo mena per il naso a sua
posta: nè lo vede come il Bojardo, Carlone rimbambito, che s'indugia
a parlar con Angelica, affocato in volto e con gli occhi lustri, poichè si
sente toccar l'ugola anche lui. Egli comprende che è da farsa o da
teatrino di marionette un imperatore così fatto. Rida il volgo, ridano i
fanciulli dei fantocci. Il riso è facile quando con burlesca grossolanità
si sconci una figura o si faccia comunque ridicola violenza alla realtà.
Questo non può voler l'Ariosto; e questo lo pone già di gran lunga
sopra ai suoi predecessori, non solo, ma tanto alto forse, che —
quantunque egli poi si sforzi o di dissennarsi o di tirar su fino alla sua
altezza quella materia — essa, per ciò che ha in sè di irriducibile
ormai, gli resta in parte di troppo inferiore. Egli la domina da assoluto
padrone e secondo l'imprevedibile capriccio della sua meravigliosa.,
fantasia creatrice combina e separa, associa e dissocia tutti gli
elementi ch'essa gli fornisce. Con questo giuoco, che maraviglia e
incanta per la sua prodigiosa agilità, egli riesce a salvar sè e la
materia. Dov'egli può, cioè in quel che han di eterno i sentimenti
umani e le umane illusioni, egli s'immedesima tutto, fino a dar la
stessa consistenza della realtà alla sua rappresentazione; dove non
può, dove agli occhi suoi stessi si scopre le irrealità irreparabile di
quel mondo, egli dà invece alla rappresentazione una leggerezza,
quasi di sogno, che si ilara tutta d'una sottilissima ironia diffusa, che
non rompe quasi mai l'incanto nè di questa o di quell'opera di magia
rappresentata, nè quello assai più meraviglioso che opera la magia
del suo stile.
Ecco, ho detto la parola: la magia dello stile. Il poeta ha compreso
che a un solo patto si poteva dar coerenza estetica e verità
fantastica a quel mondo, ove appunto la magia ha tanta parte: a
patto che il poeta diventasse un mago a sua volta, e il suo stile dalla
magia prendesse qualità e virtù. E c'è l'illusione che il poeta crea a
noi, e talvolta anche a sè stesso, immedesimandosi nel giuoco fino
ad abbandonarvisi tutto. Ah, quel giuoco tanto gli par bello, che
bramerebbe crederlo realtà: non è, pur troppo! Tanto che, di tratto in
tratto, il velo sottilissimo si squarcia; attraverso lo squarcio la realtà
vera, del presente, si scopre, e allora l'ironia diffusa si raccoglie d'un
subito e con improvviso scoppio s'appalesa. Questo scoppio però
non stride, non urta mai troppo: si presenta sempre. E oltre alle
illusioni che il poeta crea a noi e a sè stesso, ci son quelle che i
personaggi si creano e quelle che a loro creano i maghi e le fate. È
tutto un giuoco d'illusioni, fantasmagorico. Ma la fantasmagoria non
è tanto nel mondo rappresentato, che ha sovente, ripeto, la
consistenza stessa della realtà; quanto nello stile e nella
rappresentazione del poeta, il quale con meraviglioso accorgimento
ha compreso, che così soltanto, rivaleggiando cioè con la stessa
magia, poteva salvar gli elementi irriducibili della materia e renderli
con tutto il resto coerenti. Ne vogliamo una prova? Il poeta rivaleggia
con la magia d'Atlante, nel canto XII: il mago ha innalzato un
castello, ove i cavalieri si travagliano invano a cercar le loro donne
ch'essi vi credono rapite; tre, Orlando, Ferraù e Sacripante, vi
cercano la finta immagine d'Angelica, che essi credon vera. Ebbene,
il poeta, più mago d'Atlante, fa che Angelica viva e vera entri in quel
castello, Angelica che può rendersi vana come quella vana
immagine creata da Atlante per magia.
Frate, tu vai
L'altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo.
capisce quel che il suo padrone non può capire. Ecco: il senno che
l'Amore toglie a gli uomini è dato dal poeta a una bestia. Nel c. II (s.
19) dice, a mo' d'aggiunta, «il destrier ch'avea intelletto umano».
Umano, sì, ma — intendiamoci — non d'uomo innamorato!
Non giurerei proprio che qui non ci sia una punta di satira. L'ironia
del poeta è una sottilissima sega, che ha tanti denti, e anche quello
della satira, che morde un po' tutti, fino fino, sotto sotto, a cominciar
dal cardinale Ippolito, suo padrone.
Vi par che qui l'ironia consista soltanto nel fatto che Ferraù e
Rinaldo, dopo essersi picchiati a quel modo che sapete, cavalchino
insieme, come se nulla fosse stato? Il Rajna dice che i romanzi
francesi recano in buona fede molti esempi di siffatte magnanime
cortesie, e tre ne reca dal Tristan per concludere: «Questa è la
cortesia e la lealtà dei cavalieri di Brettagna». Benissimo! Ma non già
dei due cavalieri dell'Ariosto, che non dimostrano ombra di
cavalleria. Per intenderlo, bisogna pensare a che cosa avrebbe
potuto rispondere Ferraù alla proposta di Rinaldo di smettere il
duello: «Io non combatto per una preda, io combatto per difendere
una donna che m'invoca ajuto; e se io son riuscito a difenderla, non
ho combattuto invano». Un buon cavaliere antico, veramente nobile,
avrebbe risposto così. Ma tanto Rinaldo quanto Ferraù non vedono
in Angelica che una preda da appropriarsi, e poichè questa è uscita
lor di mano, s'ajutano entrambi a rintracciarla con un criterio molto
positivo e pochissimo cavalleresco. Quella esclamazione dunque
«oh gran bontà dei cavalieri antiqui!» è veramente ironica e suona
irrisione. Tanto è vero, che poco dopo, nel c. II, ripetendosi la
medesima situazione del duello interrotto per la stessa ragione,
Rinaldo lascia Sacripante a piedi:
gli grida l'Argalia emerso dalle onde con l'elmo in mano, l'elmo
caduto a Ferraù giusto dove il cadavere dell'Argalia era stato gittato.
Un tratto che a noi non suona comicamente, ma che forse poteva
sonar comico a coloro che avevan dimestichezza col poema e i
personaggi del Bojardo, è nei versi che dipingono l'orrore di Ferraù
all'apparir dell'ombra d'Argalia:
Il Rajna qua si compiace nel notare che «mai un barone del ciclo di
Carlo Magno fu convertito così espressamente in Cavaliere Errante
come in questo caso», ma non può non avvertire che «le parole
degli ospiti dànno tuttavia a conoscere come lo spirito della
cavalleria romanzesca sia ormai svanito» poichè sempre per i
principali tra gli Erranti la modestia è uno dei primissimi doveri, tal
che nulla è tanto difficile, quanto indurli a confessarsi autori di
qualche opera gloriosa, e anche quando essi si provano dinanzi a
migliaia di spettatori, procurano di celarsi con ignote divise;
cavalcano quasi sempre sconosciuti, mutando spesso di insegne, e
nascondendosi molte volte anche a gli amici più cari e più fidi.
E allora? Non dobbiamo arguire che qui ci sia un'intenzione satirica,
e che anzi questa intenzione sia stata così forte nel poeta, da farlo
venir meno una volta tanto alle condizioni serie dell'arte, che pure
egli più di tutti suol rispettare? L'incoerenza estetica, di fatti, nella
condotta di Rinaldo è lampantissima e inescusabile, il personaggio
non apparisce libero, ma soggetto all'intenzione dell'autore.
Ho voluto notar questo perchè mi sembra che troppo si tenda, da
qualche tempo in qua, a sforzare i termini dell'immedesimazione del
poeta con la sua materia. Certo è difficilissimo vederli netti e precisi,
questi termini. Ma non li vede affatto, secondo me, o ha ben poco
chiaro il lume del discorso, chi, riconoscendo — com'è giusto —
l'immedesimazione del poeta col suo mondo, nega l'ironia o in gran
parte la esclude o gli dà poca importanza. Bisogna riconoscere l'una
cosa e l'altra — l'immedesimazione e l'ironia — poichè nell'accordo,
se non sempre perfetto quasi sempre però raggiunto, d'entrambe
queste cose a prima vista contrarie, sta, ripeto, il segreto dello stile
ariostesco.
L'immedesimazione del poeta col suo mondo, consiste in questo,
che egli con la fantasia potente vede, digrossato, finito anzi in ogni
contorno, preciso, limpido, ordinato e vivo, quel mondo che altri
aveva messo insieme grossolanamente e aveva popolato di esseri,
che, o per la loro goffaggine o per la loro sciocchezza o per la
puerile loro incoerenza, ecc. non poteano in alcun modo esser presi
sul serio neppure dai loro stessi autori; e poi di maghi e di fate e di
mostri che, naturalmente, ne accrescevano la irrealità e la
inverosimiglianza. Il poeta toglie questi esseri dal loro stato di
fantocci o di fantasmi, dà loro consistenza e coerenza, vita e
carattere. Obbedisce fin qui alla propria fantasia, istintivamente. Poi
subentra la speculazione. C'è, ho detto, un elemento irriducibile in
quel modo, un elemento cioè che il poeta non riesce a oggettivar
seriamente, senza mostrar coscienza della irrealità di esso. Con quel
meraviglioso accorgimento, di cui ho fatto parola più su, egli però
s'industria di renderlo coerente con tutto il resto. Ma non sempre in
questo giuoco la fantasia lo assiste. E allora egli s'ajuta con la
speculazione: la vita perde il movimento spontaneo, diventa
macchina, allegoria. È uno sforzo. Il poeta intende di dare una certa
consistenza a quelle costruzioni fantastiche, di cui sente la irrealità
irriducibile, per mezzo di una — dirò così — impalcatura morale.
Sforzo vano e malinteso, perchè il solo fatto di dar senso allegorico a
una rappresentazione dà a veder chiaramente che già si tien questa
in conto di favola che non ha alcuna verità nè fantastica nè effettiva,
ed è fatta per la dimostrazione di una verità morale. C'è da giurare
che al poeta non prema affatto la dimostrazione d'alcuna verità
morale, e che quelle allegorie siano nel poema suggerite dalla
riflessione, per rimedio. Quello era il mondo; quelli, gli elementi,
ch'esso offriva. L'elemento della magia, del meraviglioso
cavalleresco non si poteva in alcun modo eliminare senza snaturare
al tutto quel mondo. E allora il poeta o cerca di ridurlo a simbolo, o
senz'altro lo accoglie, ma — naturalmente — con un sentimento
ironico.
Un poeta può, non credendo alla realtà della propria creazione,
rappresentarla come se ci credesse, cioè non mostrare affatto
coscienza della irrealità di essa; può rappresentar come vero un suo
mondo affatto fantastico, di sogno, regolato da leggi sue proprie, e,
secondo queste leggi, perfettamente logico o coerente. Quando un
poeta si mette in codeste condizioni, il critico non deve più vedere se
quel che il poeta gli ha posto innanzi è vero o è sogno, ma se come
sogno è vero; poichè il poeta non ha voluto rappresentare una realtà
effettiva, ma un sogno che avesse apparenza di realtà, s'intende di
sogno, fantastica, non effettiva.
Ora questo non è il caso dell'Ariosto. In più d'un punto, come
abbiamo già notato, egli mostra apertamente coscienza della irrealtà
della sua creazione, la mostra anche dove all'elemento meraviglioso
di quel mondo dà valore morale e consistenza logica, non fantastica.
Il poeta non vuol creare e rappresentare come vero un sogno; non è
preoccupato soltanto della verità fantastica del suo mondo, è
preoccupato anche della realtà effettiva; non vuole che quel suo
mondo sia popolato di larve o di fantocci, ma di uomini vivi e veri,
mossi e agitati dalle nostre stesse passioni; il poeta insomma vede,
non le condizioni di quel passato leggendario divenute realtà
fantastica nella sua visione, ma le ragioni del presente, trasportate e
investite in quel mondo lontano. Ora naturalmente, allorchè esse vi
trovano elementi capaci di accoglierle, la realtà fantastica si salva;
ma allorchè non li trovano, per la irriducibilità stessa di quegli
elementi, l'ironia scoppia, inevitabile, e quella realtà si frange.
Quali sono queste ragioni del presente? Sono le ragioni del buon
senso, di cui il poeta è dotato; sono le ragioni della vita entro i limiti
della possibilità naturale: limiti che in parte la leggenda, in gran parte
il capriccioso arbitrio di rozzi e volgari cantatori aveva balordamente,
goffamente o grottescamente violati; sono le ragioni del tempo, in
fine, in cui il poeta vive.
Abbiamo veduto Ferraù e Rinaldo a cavallo insieme, guidati —
com'ho detto — da un criterio molto positivo e pochissimo
cavalleresco; abbiamo ascoltato il consiglio dell'abbate a Rinaldo in
cerca d'avventure; tant'altri esempii potremmo recare; ma basterà
senz'altro quello de la volata di Ruggero su l'ippogrifo. Anche
quando il poeta con la magia dello stile riesce a dar consistenza di
realtà a quell'elemento meraviglioso, levandosi poi a un volo troppo
alto in questa realtà fantastica, tutt'a un tratto, quasi temesse
d'averne lui stesso o chi l'ascolta il capogiro, precipita a posarsi su la
realtà effettiva, rompendo così l'incanto della fantastica. Ruggero
vola sublime su l'ippogrifo; ma anche dalla sublimità di quel volo il
poeta avvista in terra le ragioni del presente, che gli gridano: —
Cala! cala!
Qui «aver chiaro il lume del discorso» significa «saper leggere sotto
il velame dei versi». Siamo nel canto d'Alcina: e il poeta ci
suggerisce: «S'io dico Alcina, s'io dico Melissa, s'io dico Erifilla, s'io
dico l'iniqua frotta, o Logistilla, Andronica o Fronesia o Dicilla o
Sofrosina, voi intendete bene a che cosa io voglia alludere». È un
altro espediente (non felice) per stabilir l'accordo, ma che pure,
come tutti gli altri, scopre l'ironia del poeta, cioè la coscienza della
irrealità della sua creazione. Dove l'accordo non si può stabilire,
quest'ironia però non scoppia mai stridula o stonata, appunto perchè
l'accordo è sempre nell'intenzione del poeta, e quest'intenzione
d'accordo è per sè stessa ironica.
L'ironia è nella visione che il poeta ha, non solo di quel mondo
fantastico, ma della vita stessa e degli uomini. Tutto è favola e tutto è
vero, poichè è fatale che noi crediamo vere le vane parvenze che
spirano dalle nostre illusioni e dalle passioni nostre; illudersi può
esser bello, ma del troppo immaginare si piange poi sempre la frode:
e questa frode ci appare comica o tragica secondo il grado della
partecipazione nostra ai casi di chi la subisce, secondo l'interesse o
la simpatia che quella passione o quell'illusione ci suscitano,
secondo gli effetti che quella frode produce. Così avviene che noi
vediamo il sentimento ironico del poeta mostrarsi anche sotto un
altro aspetto nel poema, non più spiccato ed evidente, ma attraverso
la rappresentazione stessa, in cui è riuscito a trasfondersi per modo
che essa così si senta e così si voglia. Il sentimento ironico, in
somma, oggettivato, spira dalla rappresentazione stessa anche là
dove il poeta non mostra apertamente coscienza della irrealità di
essa.
Ecco qua Bradamante in cerca del suo Ruggiero: per salvarlo, ha
corso rischio di perire per mano del maganzese Pinabello; il poeta le
fa soffrire insieme coi lettori il supplizio di sentirsi predire e di vedersi
mostrare a dito dalla maga Melissa tutti gl'illustri suoi discendenti; e
poi va, va per monti inaccessibili, sale balze, traversa torrenti, arriva
al mare, trova l'albergo ov'è Brunello (e qui non dice se ella vi
mangia); riprende la via
II
la dolcezza amara
Dei canti uditi da fanciullo: il core
Che da voce domestica gl'impara,
Ce li ripete i giorni del dolore.
Un pensier mesto della madre cara,
Un desiderio di pace e d'amore,
Uno sgomento di lontano esilio...
III
Teniamoci a questo; seguiamo questa attività speciale della
riflessione, e vediamo se essa non ci spiega, a una a una le varie
caratteristiche, che si possono riscontrare in ogni opera umoristica.
Abbiamo detto che, ordinariamente, nella concezione d'un'opera
d'arte, la riflessione è quasi una forma del sentimento, quasi uno
specchio in cui il sentimento si rimira. Volendo seguitar
quest'imagine, si potrebbe dire che, nella concezione umoristica, la
riflessione è, sì, come uno specchio, ma d'acqua diaccia, in cui la
fiamma del sentimento non si rimira soltanto, ma si tuffa e si smorza:
il friggere dell'acqua è il riso che suscita l'umorista; il vapore che
n'esala è la fantasia spesso un po' fumosa dell'opera umoristica.
— A questo mondo c'è giustizia finalmente! — grida Renzo, il
promesso sposo, appassionato e rivoltato.
— Tant'è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel
che si dica, — commenta il Manzoni.
Ecco la fiamma là del sentimento, che si tuffa qua e si smorza
nell'acqua diaccia della riflessione.
La riflessione, assumendo quella sua speciale attività, viene a
turbare, a interrompere il movimento spontaneo che organa le idee e
le immagini in una forma armoniosa. È stato tante volte notato che le
opere umoristiche sono scomposte, interrotte, intramezzate di
continue digressioni. Anche in un'opera così armonica nel suo
complesso come I Promessi Sposi, è stato notato qualche difetto di
composizione, una soverchia minuzia qua e là e il frequente
interrompersi della rappresentazione o per richiami al famoso
Anonimo o per l'arguta intrusione dell'autore stesso. Questo, che ai
critici nostri è sembrato un eccesso per un verso, un difetto per
l'altro, è poi la caratteristica più evidente di tutti i libri umoristici.
Basta citare il Tristram Shandy dello Sterne, che è tutto quanto un
viluppo di variazioni e digressioni, non ostante che l'autobiografo si
proponga di narrar tutto ab ovo, punto per punto, e cominci dall'alvo
di sua madre e dalla pendola che il signor Shandy padre soleva
puntualmente caricare.
Ma se questa caratteristica è stata notata, non se ne son vedute
chiaramente le ragioni. Questa scompostezza, queste digressioni,
queste variazioni non derivano già dal bizzarro arbitrio o dal
capriccio degli scrittori, ma sono appunto necessaria e inovviabile
conseguenza del turbamento e delle interruzioni del movimento
organatore delle immagini per opera della riflessione attiva, la quale
suscita un'associazione per contrarii: le immagini cioè, anzichè
associate per similazione o per contiguità, si presentano in
contrasto: ogni immagine, ogni gruppo d'immagini desta e richiama
le contrarie, che naturalmente dividono lo spirito, il quale, irrequieto,
s'ostina a trovare o a stabilir tra loro le relazioni più impensate.
Ogni vero umorista non è soltanto poeta, è anche critico, ma — si
badi — un critico sui generis, un critico fantastico: e dico fantastico
non solamente nel senso di bizzarro o di capriccioso, ma anche nel
senso estetico della parola, quantunque possa sembrare a prima
giunta una contraddizione in termini. Ma è proprio così; e però ho
sempre parlato di una speciale attività della riflessione.
Questo apparirà chiaro quando si pensi che se, indubbiamente, una
innata o ereditata malinconia, le tristi vicende, un'amara esperienza
della vita, o anche un pessimismo o uno scetticismo acquisito con lo
studio e con la considerazione su le sorti dell'umana esistenza, sul
destino degli uomini, ecc. possono determinare quella particolar
disposizione d'animo che si suol chiamare umoristica, questa
disposizione poi, da sola, non basta a creare un'opera d'arte. Essa
non è altro che il terreno preparato: l'opera d'arte è il germe che
cadrà in questo terreno, e sorgerà, e si svilupperà nutrendosi
dell'umore di esso, togliendo cioè da esso condizione e qualità. Ma
la nascita e lo sviluppo di questa pianta debbono essere spontanei.
Apposta il germe non cade se non nel terreno preparato a riceverlo,
ove meglio cioè può germogliare. La creazione dell'arte è
spontanea: non è composizione esteriore, per addizione d'elementi
di cui si siano studiati i rapporti: di membra sparse non si compone
un corpo vivo, innestando, combinando. Un'opera d'arte, in somma,
è, in quanto è «ingenua»; non può essere il risultato della riflessione
cosciente.
La riflessione, dunque, di cui io parlo, non è un'opposizione del
cosciente verso lo spontaneo; è una specie di proiezione della
stessa attività fantastica: nasce dal fantasma, come l'ombra dal
corpo; ha tutti i caratteri della «ingenuità» o natività spontanea; è nel
germe stesso della creazione, e spira in fatti da essa ciò che ho
chiamato il sentimento del contrario.
Ben per questo ho soggiunto che l'umorismo potrebbe dirsi un
fenomeno di sdoppiamento nell'atto della concezione. La concezione
dell'opera d'arte non è altro, in fondo, che una forma
dell'organamento delle immagini. L'idea dell'artista non è un'idea
astratta; è un sentimento, che divien centro della vita interiore, si
impadronisce dello spirito, l'agita e, agitandolo, tende a crearsi un
corpo d'immagini. Quando un sentimento scuote violentemente lo
spirito, d'ordinario, si svegliano tutte le idee, tutte le immagini che
son con esso in accordo: qui, invece, per la riflessione inserta nel
germe del sentimento, come un vischio maligno, si sveglian le idee e
le immagini in contrasto. E la condizione, è la qualità che prende il
germe, cadendo nel terreno che abbiamo più su descritto: gli
s'inserisce il vischio della riflessione; e la pianta sorge e si veste d'un
verde estraneo e pur con essa connaturato.
A questo punto si fa avanti il Croce con tutta la forza della sua logica
raccolta in un cosicchè, per inferire da quanto ho detto più su, ch'io
contrappongo arte e umorismo. E si domanda: — «Vuol egli dire che
l'umorismo non è arte, o che esso è più che arte? E, in questo caso,
che cosa è mai? Riflessione su l'arte, e cioè critica d'arte?
Riflessione sulla vita, e cioè filosofia della vita? O una forma sui
generis dello spirito, che i filosofi, finora, non hanno conosciuta? Il P.,
se l'ha scoperta lui, avrebbe dovuto, a ogni modo, dimostrarla,
assegnarle un posto, dedurla e farne intendere la connessione con
le altre forme dello spirito. Il che non ha fatto, limitandosi ad
affermare che l'umorismo è l'opposto dell'arte».
Io mi guardo attorno sbalordito. Ma dove, ma quando mai ho
affermato questo? Qui sta tra due: o io non so scrivere, o il Croce
non sa leggere. Come c'entra la riflessione sull'arte che è critica
d'arte, e la riflessione sulla vita che è filosofia della vita? Io ho detto
che ordinariamente, in generale, nella concezione d'un'opera d'arte,
cioè mentre uno scrittore la concepisce, la riflessione ha un ufficio
che ho cercato di determinare, per poi venire a determinare quale
speciale attività essa assuma, non già sull'opera d'arte, ma in quella
speciale opera d'arte che si chiama umoristica. Ebbene, perciò
l'umorismo non è arte, o è più che alte? Chi lo dice? Lo dice lui, il
Croce, perchè vuol dirlo, non perchè io non mi sia espresso
chiaramente, dimostrando che è arte con questo particolar carattere,
e chiarendo da che cosa le provenga, cioè da questa speciale
attività della riflessione, la quale scompone l'immagine creata da un
primo sentimento per far sorgere da questa scomposizione e
presentarne un altro contrario, come appunto s'è veduto dagli
esempii recati e da tutti gli altri che avrei potuto recare, esaminando
a una a una le più celebrate opere umoristiche.
Non vorrei ammettere un'ipotesi quanto mai ingiuriosa per il Croce,
che cioè egli creda che un'opera d'arte si componga come un
qualunque pasticcio con tanto d'uova, tanto di farina, tanto di questo
o di quell'altro ingrediente, che si potrebbe anche mettere o lasciar
fuori. Ma purtroppo mi vedo costretto da lui stesso ad ammettere
una siffatta ipotesi, quand'egli «per farmi toccare con mano che
l'umorismo come arte non si può distinguere dalla restante arte»
pone questi due casi circa alla riflessione, di cui io — secondo lui —
vorrei fare carattere distintivo dell'arte umoristica, quasi che fosse lo
stesso dire così, in generale, la riflessione e parlare com'io faccio,
d'una speciale attività della riflessione, più come processo intimo,
immancabile nell'atto della concezione o della creazione di tali
opere, che come carattere distintivo che per forza debba mostrarsi.
Ma lasciamo andare. Pone, dicevo, questi due casi: che cioè, la
riflessione «o entra, come componente nella materia dell'opera
dell'arte e, in questo caso, tra l'umorismo e la commedia (o la
tragedia o la lirica, e via dicendo), non vi ha differenza alcuna,
giacchè in tutte le opere d'arte entra, o può entrare, il pensiero e la
riflessione; ovvero rimane estrinseca, all'opera d'arte, e allora si avrà
critica e non mai arte, e neppure arte umoristica».
È chiaro. Il pasticcio! Recipe: tanto di fantasia, tanto di sentimento,
tanto di riflessione; impasta e avrai una qualunque opera d'arte,
perchè nella composizione di una qualunque opera d'arte possono
entrare tutti quegli ingredienti, e anche altri.
Ma domando io: come c'entra questo pasticcio, questa
composizione d'elementi come materia dell'opera d'arte, qualunque
e comunque sia, con quello che io ho detto più su e che ho fatto
vedere, punto per punto, parlando per esempio del Sant'Ambrogio
del Giusti, quando ho mostrato come la riflessione, inserendosi
come un vischio nel primo sentimento del poeta, che è d'odio verso
quei soldatacci stranieri, generò a poco a poco il contrario del
sentimento di prima? E forse perchè questa riflessione, sempre
vigile e specchiante in ogni artista durante la creazione, non segue
qua il primo sentimento, ma a un certo punto gli s'oppone, diventa
perciò estrinseca all'opera d'arte, diventa perciò critica? Io parlo
d'una attività intrinseca della riflessione, e non della riflessione come
materia componente dell'opera d'arte. È chiaro! E non è credibile
che il Croce non l'intenda. Non vuole intenderlo. E ne è prova quel
suo voler far credere che siano imprecise le mie distinzioni e che io
le ripeta e le modifichi e le temperi di continuo e che, quando altro
non sappia, ricorra alle immagini; mentre invece negli esempii ch'egli
cita di queste mie pretese ripetizioni e modificazioni e soccorrevoli
immagini, sfido chiunque a scoprire il minimo disaccordo, la minima
modificazione, il minimo temperamento della prima asserzione, e
non piuttosto una più chiara spiegazione, una più precisa immagine;
sfido chiunque a riconoscere con lui il mio imbarazzo, poichè i
concetti, a suo dire, mi si sformano tra mano quando li prendo per
porgerli altrui.
Tutto questo è veramente pietoso. Ma tanto può sul Croce ciò che
una volta egli s'è lasciato dire: che cioè dell'umorismo non si debba,
nè si possa parlare.
Andiamo avanti.
IV
VI
FINE
INDICE
P P
1. La parola «umorismo 7
2. Questioni preliminari 21
3. Distinzioni sommarie 43
4. L'umorismo e la retorica 57
5. L'ironia comica nella poesia
cavalleresca 77
6. Umoristi italiani 141
P S
2. Pag. 179.
3. E anche a Napoli (Arch. stor. p.le prov. nap. V. 608). E perchè non citare
anche quella degli Umidi di Firenze di cui il Lasca disse (Lett. a Mes.
Lorenzo Scala, premessa al primo libro delle opere burlesche, ed. Bern.
Giunta 1548): «la quale (Accademia degli Umidi) principalmente fa
professione, essendovi tutte persone dentro allegre e spensierate, dello
stil burlesco, giocondo, lieto, amorevole e, per dir così, buon
compagno?». Si vedano, per altro, a proposito, delle parole umore e
umorismo, il Baldensperger (Les définitions de l'humour in Êtudes
d'histoires littéraire, Paris, Hachette, 1907) e lo Spingarn
nell'introduzione del primo volume della sua raccolta Critical Essays of
the Seventeenth Century, Oxford, Clarendon Press, 1908; non che ciò
ne dice il Croce in Critica, vol. VII, pagine 219-20.
4. Cecco Angiolieri in uno dei suoi sonetti, parlando della madre che gli
vuol male, dopo avere enumerato alcuni cibi dannosi ch'ella gli consiglia,
dice:
5. Lettera XV.
8. Vedi G. Muoni Note per una poetica storica pel romanticismo (Milano,
Società Ed. Libr., 1906).
9. L'Umorismo nell'arte moderna. Due conferenze al Circolo filologico di
Napoli, (Napoli, Detken ed., 1885).
12. A. Biese, Die Entwicklung der Naturgefühls bei den Griechen, (Kiel
1882). Abbiamo su l'argomento lavori più recenti.
13. Vedi H. Taine, Notes sur l'Angleterre (Paris, Hachette et Cie, douzieme
édition, 1903) — ch. VIII, De l'esprit anglais, pag. 339.
14. Vedi su lui il mio saggio Un critico fantastico nel vol. Arte e scienza
(Roma, W. Modes ed. 1908).
15. Il Cantoni chiama propriamente questo suo lavoro grottesco, forse per la
contaminazione dell'elemento fantastico con la critica.
16. Vedi Jacques Denis, La comedie greque, vol I, chap. VI, Paris, Hachette
et Cie. 1886, e la bella e dotta prefazione di Ettore Romagnoli alla sua
impareggiabile traduzione delle commedie di A. (Torino, Bocca 1908).
18. Vedi su esse le sei letture del Thackeray, The English Humourists, of the
eighteenth century (Leipzig, Taucknitz, 1853). Sono: Swift Congreve
Addison, Steele, Prior, Gay, Pope, Hogarth, Smollett, Fielding, Sterne,
Goldsmith.
21. Come suonano curiose queste lodi a uno scrittore inglese raffrontato
con uno scrittore francese, dopo aver letto nel Taine la pagina su l'esprit
francese e su l'inglese!
23. «La retorica corrisponde alla logica» — aveva già detto Aristotile (Ret.
lib. I, c. 1).
24. Il Croce, in una recensione sulla prima edizione di questo mio saggio,
nel VII volume di Critica, ha voluto credere ch'io, dicendo così,
contrapponessi arte e umorismo e affermassi che umorismo è l'opposto
dell'arte, perchè questa compone e quello scompone. Veda il lettore
intelligente se è lecito e giusto argomentare dalle mie parole una così
recisa e assoluta contrapposizione o opposizione; se è lecito e giusto,
dopo aver con molta leggerezza e senz'alcun fondamento argomentato
così, aggiungere come fa il Croce: «Ma, forse, la parola è andata di là
dal pensiero del P., il quale non voleva già dire che l'umorismo non sia
arte, ma piuttosto che sia un genere d'arte, che si distingue dagli altri
generi d'arte o dal complesso di essi». Ritornerò su questo appunto più
oltre, quando tratterò della speciale attività della riflessione nella
concezione dell'opera umoristica. Mi contenterò qui per ora di
rispondere al Croce, ch'egli fa — non so se volutamente o no — una
confusione tra i così detti «generi letterarii» come li intendeva la retorica,
la cui eliminazione è da accettare, con quelle distinzioni, che non solo
sono legittime, ma anche necessarie tra le varie espressioni, quando
non si voglia confondere l'una con l'altra, abolendo ogni critica, per
concludere filosoficamente che tutte sono arte e che ciascuna come arte
non si può distinguere dalla restante arte. L'umorismo non è un «genere
letterario», come poema, commedia, romanzo, novella, e via dicendo;
tanto vero che ognuno di questi componimenti letterarii può essere o
non essere umoristico. L'umorismo è qualità d'espressione, che non è
possibile negare per il solo fatto che ogni espressione è arte e come
arte non distinguibile dalla restante arte. La molta preparazione filosofica
(la mia, si sa, è pochissima) ha condotto il Croce a questa edificante
conclusione. Si può sì parlare di questo o di quell'umorista; egli,
filosoficamente, non ha nulla in contrario; ma guai a parlar
dell'umorismo! Subito la filosofia del Croce diventa un formidabile
cancello di ferro, che è vano scrollare. Non si passa! Ma che c'è dietro
quel cancello? Niente. Questa sola equazione: intuizione = espressione,
e l'affermazione che è impossibile distinguere arte da non arte,
l'intuizione artistica da intuizione comune. Ah, va bene! Non vi pare che
si possa benissimo passar davanti a questo cancello chiuso, senza
neanche voltarci a guardarlo?
25. Vedi il mio volume Arte e Scienza (Roma W. Modes ed. 1908) I sonetti
di Cecco Angiolieri.
26. Vedi Morandi, Prefaz. ai sonetti romaneschi del Belli (Città di Castello,
Lapi, Vol. I, 1889).
29. Vedi sul Pulci il libro di Attilio Momigliano L'indole e il riso di L. P. (Rocca
S. Casciano, Cappelli, 1907), da cui però in gran parte io dissento, come
dirò appresso; e quel che dicono del Folengo il De Sanctis nella sua
Storia d. lett, ital. cap. XVI, il Canello nel suo Cinquecento e gli studii
dello Zumbini e dello Zannoni.
30. Si legga a questo proposito quel che dice il Graf nel suo aureo libro
Attraverso il Cinquecento su le condizioni del letterato nel sec. XVI.
33. Trad. del Gorra (Torino, Loescher, 1888). Vedi Lib. III cap. III (Valore
dell'Epopea).
34. I cavalieri si permettono anche, e questo accade negli stessi poemi della
crociata, di farsi beffe dei cerimonieri. Così nell'Antioche accade una
scena piacevole e caratteristica, quando i cavalieri francesi escono dalla
città per combattere contro Kerboga. Enguerrant de Saint-Pol sta loro
alla testa e il suo lucido elmo forbito e la sua corazza splendente
scintillano ai raggi del sole. Quando sono usciti dalla città, si fermano e
un arcivescovo implora la benedizione dal cielo sopra di loro e vuole
aspergerli con acqua benedetta, ma Enguerrant fa qualche obiezione e
lo prega di non macchiargli l'elmo: «Anqui le vourrai bel a Sarrasins
mostrer» (vedi Pigeonneau, Cycle de la Croisade, p. 90-91).
36. Vedi Scritti varii inediti o rari, a cura di B. Croce, vol. I, Napoli, Morano e
figlio, 1898. Il De Santis poi nella sua Storia della letteratura it. corresse
il suo giudizio sul Pulci e sul poema. Qui ho citato il suo primo giudizio
solo perchè anche da un errore (del resto riparato) del sommo critico, si
può trarre profitto, ponendo in giusta evidenza, in questa facile
confutazione, tra i due casi di cui egli parla, quale veramente sia quello
del Pulci.
37. Vedi il vol. già citato L'indole e il riso di L. P., Rocca S. Casciano,
Cappelli, 1907.
38. Pag. 120-121 del vol. cit.
40. Vedi Introduzione alle Fonti dell'Orl. Fur., seconda ed. pag. 20 (Firenze,
Sansoni, 1900).
Ecco tutto.
43. Applico qui la formula del Lipps che definisce appunto l'umorismo:
«Erhabenheit in der Komik und durch dieselbe» (vedi Op. cit., pag. 243).
Ma come si spiega questo superamento del comico attraverso il comico
stesso? La spiegazione che dà il Lipps non mi sembra accettabile per
quelle stesse ragioni che infirmano tutta la sua teoria estetica. Vedi su
questa la critica del Croce nella seconda parte della sua Estetica, pag.
434.
46. Certe tropologie del Bruno sono di un'efficacia senza pari; così, quando
di un inetto ragionatore dice che è venuto armato di parole e scommi
che si muojono di fame e di freddo. Certe comparazioni scolpiscono,
come là dove di due presuntuosi sapienti dice che l'uno parea il
conestabile de la gigantessa dell'orco, l'altro l'amostante de la dea
riputazione. Nella Cabala del Cavallo pegaseo così è descritto Don
Cocchiarone, mistiriarca filosofo: «Don Cocchiarone pien d'infinita e
nobil meraviglia sen va per il largo de la sua sala, dove rimosso dal rude
ed ignobil volgo, se la spasseggia, e rimenando or quinci or quindi de la
litteraria sua toga le fimbrie, rimenando or questo or quell'altro piede,
rigettando or verso il destro or verso il sinistro fianco il petto, con il testo
commento sotto l'ascella, e con gesto di voler buttar quel pulce ch'ha tra
le due prime dita, in terra, con la rugata fronte cogitabondo, con erte
ciglia et occhi arrotondati, in gesto d'un uomo fortemente meravigliato,
conchiudendola con un grave et enfatico sospiro, farà pervenire a
l'orecchio de' circostanti questa sentenza: Hucusque alii Philosophi non
pervenerunt.
49. Del Richter si possono citare parecchie definizioni. Egli chiama anche
l'umorismo «sublime a rovescio». La descrizione migliore, secondo il
suo modo d'intenderlo, è quella a cui già abbiamo accennato altrove,
parlando della diversità del riso antico dal riso moderno: «L'umore
romantico è l'atteggiamento grave di chi compari il piccolo mondo finito
con l'idea infinita: ne risulta un riso filosofico che è misto di dolore e di
grandezza. È un comico universale, pieno di tolleranza cioè e di
simpatia per tutti coloro che, partecipando della nostra natura, ecc.
ecc.». Altrove parla di quella certa «idea che annienta», che ha avuto
molta fortuna presso i critici tedeschi, anche applicata in un senso meno
filosofico. Der Humor kann, dice il Lipps, schliesslich ein vollbewusster
sein. Er ist ein solcher, wenn der Träger desselben sich sowohl des
Rechtes, als auch der Beschränktheit seines Standpunktes, sowohl
seiner Erhabenheit als auch relativen Nichtigkeit bewusst ist.»
51. Vedi nei mio volume già citato Arte e Scienza il saggio Un critico
fantastico.
52. Mi avvalgo qui di alcune acute considerazioni contenute nel libro di
Giovanni Marchesini, Le finzioni dell'anima (Bari, Gius. Laterza e figli,
1905).
55. Vedi nel libro di Alfredo Binet Les altérations de la personalité quella
rassegna di meravigliosi esperimenti psico-fisiologici, da cui queste e
tant'altre considerazioni si possono trarre, come notava già G. Negri nel
libro Segni dei tempi.
Nota del Trascrittore
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