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Introduzione
Poiché, per i Greci, la musica non è stata solo la più bella fra le arti ma
anche l’oggetto di continue e ricche riflessioni filosofiche (parafrasando
Platone, si può affermare che, nell’Ellade, quando cambiava la
musica, tremavano le mura della città), si è cercato di individuare
alcuni elementi significativi tra “la grande quantità di testimonianze
letterarie, papirologiche ed epigrafiche, di rappresentazioni figurative su
ceramiche o bassorilievi”2, per ricostruire la ricordata “situazione” da
dove sono giunti fino a noi gli strumenti cordofoni, alcuni dei quali chi
scrive, peraltro, suona. La musica, arte molto praticata, è, per i Greci,
anche, e, forse, soprattutto, un sapere e una scienza su cui riflettere,
sicché non risulti fuori luogo, prima di riferire i principali temi relativi
ala loro problematica origine mitologica, la riflessione su alcune tesi dei
principali pensatori.
1 A. LOMAX, L’anno più felice della mia vita. Un viaggio in Italia (1954-55), a cura di G.
Plastino, Il Saggiatore, Milano, 2008.
2 A. BELIS, Armonica, in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, 11, Il sapere greco: filosofia,
politica, scienza e religione, Einaudi, Torino, 2005, Edizione speciale «Il sole 24 ORE», 2008, p.
315.
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In realtà, quando si parla di musica greca, più che alla musica in sé, di
cui non ci rimane nulla o quasi, si intende parlare di cosa pensassero a
riguardo i Greci. Orfeo trascina pietre, piante e animali con la dynamis
del suo canto, Anfione costruisce le mura di Tebe con una sorta di colonna
sonora, Arione, col suo canto, invoca i delfini a salvarlo dai pirati. Il
mito sottolinea la forza fascinatrice della musica, quella medesima forza
che ancora siamo in grado di ritrovare in talune manifestazioni rituali
dei territori della Magna Grecia3. E, tuttavia, di questa musica non ci
resta, paradossalmente, quasi nulla: sette canti e alcuni frammenti. Ad
analizzare tali frammenti appare evidente – e il paradosso si fa ancora
più grande – che la musica greca non dovesse essere nemmeno “molto
progredita”. La musica greca è priva di strutture armoniche, la melodia
si muove lungo piccoli intervalli, ritornando frequentemente sulla nota
centrale, il ritmo è legato strettamente alla recitazione, seguendo di fatto
gli schemi metrici della poesia.
3 Si pensi, ovviamente, al fenomeno del tarantismo, studiato da Ernesto De Martino nel
celeberrimo La terra del rimorso, in cui si ritrova un notevole e preziosissimo contributo di
Diego Carpitella. Vedi: E. DE MARTINO, La terra del rimorso, Il Saggiatore, Milano, 1961, pp.
335-373.
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I filosofi
4 In merito a questa scoperta, come abbiamo più sopra detto, non vi sono fonti antiche. E
siccome tutti i pitagorici e neopitagorici erano soliti attribuire ogni scoperta al padre fondatore
della scuola, sarebbe necessaria un’indubbia, buona dose di prudenza. Ovviamente ciò
non significa che quanto riportato da Diogene Laerzio sia infondato, ma per ricostruirne la
plausibilità, forse sarebbe opportuno partire dalle fonti tardo-antiche e risalire a ritroso verso il
mitico Pitagora di Samo. Ippaso di Metaponto avrebbe fuso dischi in bronzo, individuando gli
spessori tali secondo cui i suoni avrebbero rispettivamente dato l’ottava, la quinta e la quarta.
5 In DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, a cura di M. Gigante, TEA, Milano, 1993, p. 324.
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10 Vedere, a questo proposito, ARISTOTELE, L’anima, a cura di G. Movia, Bompiani, Milano,
2001, p. 163 e sgg.
11 ARISTOTELE, Problemi, a cura di M.F. Ferrini, Bompiani Testi a Fronte, Milano, 2002,
passim.
12 Perché sia nella sofferenza che nella gioia si ricorre alla musica dell’aulòs? Perché piace
sentire canti già noti piuttosto che ignoti? Perché il recitativo ha un carattere tragico nei canti?
Perché gli antichi nel creare la scala di sette note hanno lasciato l’hypate e non la nete? Perché
ascoltiamo con più piacere una monodia accompagnata da un aulos o da una lira? Perché, se
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la voce umana si ascolta più piacevolmente degli strumenti, non è così per la voce di chi canta
senza parole? Queste domande si collegano con altre di respiro più tecnico: Perché è sempre la
nota grave che determina la melodia? Perché nell’ottava il grave è in accordo con l’acuto mentre
l’acuto non lo è con il grave? Perché l’accordo di ottava non si avverte e sembra unisono, per
esempio sulla lira fenicia e nella voce umana? Perché i nomoi non venivano disposti in antistrofe?
Perché l’antiphonia è più gradita della simphonia? Perché non si ha antiphonia nell’accordo di
quinta? Perché se uno di noi altera la mese, regolate le altre corde, e poi suona lo strumento, il
suono dà fastidio all’orecchio e sembra stonato? Perché le stonature dei cantanti si notano di più
nei toni gravi che nei toni acuti?
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13 Figlio di un allievo di Socrate, Spintaro, fu da questi e dal padre avviato alla musica e alla
filosofia. S'interessò alle dottrine dei pitagorici, per poi diventare discepolo di Lampo Eritreo,
Senofilo, e, infine, uno dei principali allievi di Aristotele: ebbe infatti il compito di tenere nella
sua scuola lezioni di musicologia. Aspirò alla successione del maestro e la nomina di Teofrasto
alla direzione della scuola peripatetica, alla morte di Aristotele, fu la profonda delusione della sua
vita. Si trasferì a Mantinea, una città dove, come abbiamo già detto, la musica era molto diffusa,
dove visse per molti anni e dove ebbe molti discepoli, detti Aristosseni. Qui scrisse due opere,
Il carattere dei Mantinei e l'Elogio dei Mantinei. Secondo Suda, Aristosseno scrisse 453 opere,
molte delle quali sulla musica, per la quale divenne autorità indiscussa. In base ai frammenti,
le opere aristosseniche possono essere divise in vari gruppi. In primo luogo, Aristosseno si
dedicò, sulle orme di Aristotele, allo studio delle teorie pitagoriche, con opere come la Vita di
Pitagora, Su Pitagora e i suoi allievi, La vita pitagorica, Massime pitagoriche. L'attenzione alla
dimensione educativo-pedagogica è testimoniata dalle Leggi educative e dalle Leggi politiche.
Numerose furono anche le sue biografie: Vita di Archita, Vita di Socrate, Vita di Platone. Dove,
però, Aristosseno lasciò una duratura impronta fu la teoria della musica, con opere come Sui
toni, di cui resta una breve citazione nel commentario di Porfirio, Sulla musica, Ascolto della
musica, Su Prassidamante, Sulla melica, Sugli strumenti, Sugli auloi, Sui flautisti, Sui fori degli
auloi, Sui cori, Sulla danza della tragedia, Comparazioni, Sui poeti tragici. A noi sono giunti gli
Elementi di armonia, divisi in tre libri.
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14 C. SACHS, Storia degli strumenti musicali, Edizione italiana a cura di Paolo Isotta e Maurizio
Papini, Oscar Mondadori, Milano, 2013, p. 144.
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15 Fig. 1. La Tomba del Tuffatore, Museo Archeologico di Paestum. Cfr. M. NAPOLI, La sco-
perta della grande pittura greca, De Donato, Bari, 1970.
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Le lyrai sono citate già nell’Iliade. Da ciò si deduce che, nel IX secolo
a.C., esse già avessero una specifica funzione nella vita dei Greci,
accompagnando i giovani che danzavano in cerchio e gli aedi che,
in musica, raccontavano le gesta degli eroi. Omero chiama la lyra
a volte phorminx e a volte kitharis. Molti interpretano questi nomi
come sinonimi del successivo lyra che designerebbe uno strumento
con struttura composita, leggera e semplice. Secondo Kurt Sachs
l’interpretazione non è accettabile poiché non ci sarebbero prove
sufficienti ad attestare la presenza di uno strumento simile nel IX secolo
a.C. La descrizione di Omero, viceversa, fa riferimento esplicito alla
forma convessa della lyra. L’aggettivo usato è glaphyros, ossia cavo.
Sicché bisognerà concludere che la lira omerica fu senza dubbio una
kithara, cioè uno strumento piccolo, arrotondato e impugnato in
posizione obliqua. Per il musicologo tedesco, una lira siriaca: quella
che tanto spesso si incontra nei rilievi degli Aramei, degli Ittiti e dei
Fenici. In realtà i Greci attribuivano l’invenzione della lyra ad Hermes.
Nell’omerico Inno a Hermes se ne ritrova la testimonianza più antica16.
Siamo tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C. Nel giorno stesso della
sua nascita, Hermes, uscendo dalla grotta del monte Cillene alla ricerca
della mandria di Apollo, vede una testuggine brucare davanti all’antro.
Intuendone le potenzialità musicali, Hermes porta l’animale nella grotta
e lo uccide. Poi fissa degli steli di canna dentro a fori fatti attraverso il
guscio, vi tende sopra una pelle di bue e aggiunge due bracci, una traversa
e sette corde di minugia di pecora. Costruitosi lo strumento, Hermes
inizia a suonarlo, pizzicando le corde con un plettro. Ma, ben presto, la
sua attenzione si rivolge ad altro, nasconde la lyra nella sua culla e parte
alla ricerca della mandria di Apollo. Successivamente il tema della lyra
viene ripreso. Apollo è arrabbiato per il furto delle vacche. Hermes lo
placa cantando e suonando. Alla fine cede al fratello, come risarcimento
per il furto degli animali, la lyra.
Ma sull’invenzione della lyra esiste un’altra versione, riportata nel
dramma satiresco di Sofocle Ichneutae17. Di tale dramma ci sono
e mito nella Grecia antica, a cura di D. Restani, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 209-234.
18 T. HAGGS, Hermes e l’invenzione della lyra: una versione non ortodossa, op. cit. È interessante,
a questo punto, ricordare come dall’altra parte del mondo, in America latina, si ritrova uno
strumento, il charango, che discende dalla spagnola vihuela de mano, introdotta in quelle zone
dai conquistatori. Gli indios lo realizzarono, a somiglianza della vihuela, utilizzando quale cassa
armonica la corazza del quirquincho, ossia l’armadillo. Uno strumento frutto del mestizaje, cioè
dell'unione tra la cultura europea e quella degli indios. Il suo bacino di utilizzazione è esteso ai
paesi delle Ande e in Bolivia e in Perù è utilizzato come mezzo di corteggiamento, ed i giovani
provvedono, attraverso un rituale, a sirenare il charango per migliorarne la voce ed avere quindi
più possibilità di far breccia nel cuore della fanciulla amata. La forma dello strumento è quella
di una piccola chitarra, a tastiera non libera e con cinque corde doppie da suonarsi a pizzico
(tecnica punteada) o eseguendo ritmiche con accordi (tecnica rasgueada).
19 T. HAGGS, op. cit.
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20 “Ed ecco la piccola testuggine, Hermes, quando ancora era accanto alla sua culla, la trafisse
e la chiamò lyra”.
21 ERATOSTENE, Epitome dei catasterismi: origine delle costellazioni e disposizione delle
stelle, a cura di A. Santoni, Edizioni ETS, Pisa 2009.
22 Avieno Rufo Festo, un poeta didattico latino, di Bolsena, del IV sec. d.C.) scrisse una
traduzione dei Fenomeni di Arato, già tradotti, come abbiamo visto da Cicerone e da
Germanico. Egli spiega, con maggiore precisione, che per le corde si usarono dei nervi (curva
religans testudine chordas, formaret nervis). Altri due trattati astronomici – forse di età
augustea – alludono all’invenzione in termini generali: Caio Giulio Igino, I secolo, bibliotecario
dell’imperatore Augusto - che compose un’opera di astronomia con lo scopo dichiarato di
rendere più comprensibili i Fenomeni di Arato di cui notevole fortuna ebbero, in particolare, i
capitoli dedicati alla mitologia celeste e alla descrizione delle stelle delle singole costellazioni – si
limita a spiegare che Hermes costruì la lyra con una testuggine, mentre Manilio, un poeta latino
dell'età augustea nella sua Astronomica, parla della “forma del guscio della testuggine (testudinis
forma) che sotto le dita del suo erede emetteva un suono solo dopo la morte, traducendo nel suo
stile il paradosso che già conosciamo dall’inno e dal dramma satiresco.
Nell’Alexipharmaka di Nicandro, un poeta greco d’età ellenistica della seconda metà del II secolo
d.C. dove vengono elencati ventidue veleni di origine animale, vegetale e minerale, e gli effetti
che sortiscono e gli antidoti da impiegare in ciascun caso, le zampe della testuggine sono uno
dei possibili ingredienti di un farmaco contro il veleno di salamandra: la testuggine cui Hermes
diede un voce benché fosse muta, poiché separò il guscio chiazzato della carne e aggiunse due
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bracci alle sue estremità. Anche nella Biblioteca, attribuita inizialmente ad Apollodoro di Atene
- attualmente il suo autore è convenzionalmente indicato con il nome di Pseudo-Apollodoro
- ; essa è l’unica opera di questo tipo a essere giunta fino a noi dall'antichità classica, guida
fondamentale allo studio della mitologia greca, che tratta, a partire dalle leggende sull'origine
del mondo, fino alla guerra di Troia, compilata nel I o nel II secolo d.C. – i primi giorni di vita di
Hermes vengono descritti seguendo con fedeltà l’inno omerico. E, come nel dramma satiresco,
il furto delle vacche sembra precedere l’invenzione dello strumento: e davanti alla caverna egli
trovò una testuggine che brucava. La pulì, munì il guscio di corde ricavate dalle vacche che aveva
sacrificato, e, avendo costruito una lyra, inventò anche un plettro.
Nicomaco, matematico e musicologo del I/II secolo, non ci dice nulla di più rispetto a quanto
riportato dagli scrittori di astronomia. Pausania offre indicazioni geografiche più precise (il
monte Cillene Chelydorea). Un solo particolare, ma estremamente significativo, è il termine
ekdero per “togliere il guscio dal corpo”. Un nome scelto per spiegare il significato del toponimo.
Filostrato, il cosiddetto Filostrato Maggiore, autore delle Immagini, nato forse verso la fine del
II sec. d.C., oltre le consuete notizie, aggiunge che Hermes usò due corna per fare i bracci,
una traversa e un guscio di testuggine. In seguito risulta che le corna sono di capra e che nella
costruzione fu usato anche legno di bosso. L’uso del corno di capra è un’ipotesi ragionevole.
Mentre l’archeologia e l’arte antica sembrano privilegiare l’uso del legno, il mito predilige ancora
un materiale animale.
23 La fonte principale cui attinge Hagg è un frammento papiraceo, pubblicato da H. Maehler:
Der Metiochos-Parthenope-Roman, in Zeitschrift fur Papyrologie und Epigraphik, XXIII, 1976,
pp. 1-20.
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24 Il saggio Hurmuz, narra Vamiq, un giorno sale su un monte per adorare l’Onnipotente. Qui
trova la carcassa di una testuggine morta con tutta la carne putrida; i nervi tuttavia erano ancora
al loro posto, essiccati e tesi, e quando il vento passava attraverso di essi, si poteva ascoltare un
suono all’interno del guscio. Il suono rallegrò il cuore di Hurmuz che comprese come la sua gioia
venisse proprio da quel suono. Allora prese il guscio, lo portò con sé, lo appese al vento sì da
far emettere il suono gioioso. A questo punto egli decise di costruire uno strumento simile alla
testuggine, attorcigliando ed essiccando del budello da tendere su di esso. E di nuovo il suono del
vento rese dolce il suo cuore. Ma come far continuare questo suono? Il mio strumento è inutile
senza che il vento soffi. Allora cominciò ad armeggiare, a spostare tasti dall’interno all’esterno e
pensò lungamente a come costruire un pirolo per fissarvi le corde, ma inutilmente. Un giorno,
passeggiando, incontrò un vecchio dall’espressione triste. Hurmuz gli chiede quale fosse la causa
della sua tristezza, di sicuro, aggiunse, “non superiore alla motivazione della tristezza della mia
vita. Infatti non riesco a completare il mio strumento”. Il vecchio, che si chiamava Hazrah-man,
gli spiegò come doveva fare. Hurmuz obbedì e attaccò molte corde, e le ordinò secondo la loro
somiglianza con i diversi caratteri degli uomini. Toccare le corde, gli spiegò il vecchio, è come un
movimento del nostro corpo. Stringerle e allentarle è come se respirassimo. Il barbat era finito.
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25 Hagg cita a questo proposito due passi letterari, uno di Alceo (inno a Hermes (fr. 308 LP) e
l’altro di Orazio (carm. 1, 10, 9-12), concludendo però con l’ipotesi che dovrebbe esserci stata
una tradizione parallela ugualmente forte, sia nella letteratura che nell’arte, che riteneva il dio
già adulto.
26 Negli scoliasti si ritrovano testimonianze letterarie relative a un Hermes adulto. Uno scolio
a Dionisio Trace, un filologo e grammatico greco del II secolo a.C., nel tentativo di spiegare la
relazione tra lyra e lytra (da lytron, prezzo pagato, riscatto) la lyra come risarcimento per il furto
delle vacche, dice che Hermes scorse la testuggine in Arcadia: nessuna relazione tra questi eventi
e la nascita del dio.
27 CAVA TESTUDINE, periphrasis citharae, cuiu usus repertus est hoc modo: cum regrediens
Nilus in suos maetus varia in terris reliquisset animalia, relicta etiam testudo est. Quae cum
putrefacta esset et neri eius remansissent estenti intra corium, percussa a Mercurio sonitum
dedit. Ex cuius imitazione cithara est composita.
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ed Atena. La kithara è nera, ad eccezione della parte superiore dei bracci, la spirale e l’animale
che sono bianchi. Attraverso un’analisi, estremamente dettagliata delle varie stilizzazioni (sia
quella in bianco che quella scura) e un passaggio dedicato alla deformazione del motivo, si
giunge all’invenzione, verso il 530, del nuovo procedimento in cui le figure sono risparmiate in
rosso. Nell’anfora del Metropolitan Museum, opera del “pittore di Berlino”, databile circa al 500,
il contorno sui due bracci dello strumento è quasi perfettamente simmetrico e la piccola fascia
di tre linee verticali diventa più importante, così come il collegamento per mezzo della doppia
asta trasversale dalla testa alla spirale. Oltre a quest’anfora, la Duchesne-Guillemin riporta, nel
suo studio, la descrizione di altre esemplificazioni: un frammento del Museo dell’Acropoli, una
foto che decora il libro di J. Chailley dedicato alla musica greca antica, il vaso 37 della Collezione
Ludwig a Aix-la-Chapelle, l’anfora 2661 di Boston, del pittore Byrgos e un’anfora ad anse dei
Musei Vaticani.
35 M. DUCHESNE-GUILLEMIN, op. cit.
36 M. DUCHESNE-GUILLEMIN, op. cit.
37 Ma forse sarebbe possibile spiegare la scelta del bue e del cervide se pensassimo al suono grave
dello strumento associato a quello di un suo discendente attuale, la grande beganna etiopica, che
richiama, presso un popolo di allevatori, il muggito del bue. Lo stambecco, viceversa, con il
fischio acuto che emette dal naso, dovrebbe evocare le corde più sottili della kithara.
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38 Tale elemento si basava sulla diversa lunghezza della cetra di Filadelfia, la cui traversa è
obliqua: più alta in avanti. In Grecia, la traversa è di solito perpendicolare ai bracci sicché si
è lungamente discusso sulla posizione delle corde gravi e di quelle acute. M. DUCHESNE-
GUILLEMIN, op. cit.
39 La questione, posta, negli anni Sessanta del Novecento, in modo prudentemente
interrogativo, potrebbe ora sparire, in seguito ad ulteriori scoperte, tra cui la principale è una
tavoletta cuneiforme del British Museum che l’assirologo O. Gurney e il musicologo D. Wulstan
hanno interpretato. D. WULSTAN, The Tuning of the Babylonian Harp in Iraq 30, 1968, pp.
215–28. La tavoletta proverebbe l’esistenza, dal XVIII sec. a.C. di sette modi diatonici e mostra
come passare dall’uno all’altro. Sebbene la scala di do fosse alla base dell’accordo, è possibile
constatare che per descrivere le modulazioni di passaggio, le metabolai, la kithara dovesse
essere accordata con una scala diatonica ascendente, a partire dal mi, cioè in un modo detto
“normale”: mi, fa, sol, la (ovviamente la scala non va confusa con la nostra scala di mi maggiore:
che porta quattro diesis in chiave: Mi, Fa#, Sol#, La…). Questa scala diatonica è quella che i
Greci chiamavano dorica, nella quale, come abbiamo detto già, la 4° corda è chiamata mese,
la corda di mezzo, quella preminente, la stessa corda del dio Ea, ossia la corda principale nella
teoria babilonese.
40 M. DUCHESNE-GUILLEMIN, op. cit.
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delle anse della propria kylix e appoggiato il piede del vaso all’interno
del polso, lo facessero roteare con destrezza per gettare le ultime gocce
di vino contro un piattello di bronzo al centro della sala. Al di sopra di
uno zoccolo rosso, le figure sono dipinte a fresco sulla sottile scialbatura
in calce che riveste la superficie delle lastre. L’incrocio degli sguardi è un
artificio tecnico compositivo che svela la volontà di cogliere i personaggi
nel loro tratto psicologico dominante, cercando, nel contempo, di
svelarne i sentimenti. Il significato delle raffigurazioni è strettamente
connesso al tema della morte. L’esperienza del “simposio” l’estasi e
l’abbandono causati dal vino, dalla musica e dall’amore, conducono
a un mondo altro, il medesimo che il giovane tuffatore ha raggiunto,
librandosi nell’aria. Un salto che simboleggia il passaggio dalla vita al
mare nero della morte.
41 A tale riguardo non posso non citare (e, ovviamente, ringraziare) il prof. Vincenzo Franciosi,
relatore della mia tesi di laurea, per il prezioso consiglio di muovermi in tale direzione.
I cordofoni nell'antica Grecia: una riflessione tra mito e tecnica
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BIBLIOGRAFIA
a) Autori antichi
b) Autori moderni
Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, 6. La cultura dei Greci, le forme
della comunicazione e del sapere, Einaudi, Torino, 2005.
Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, 11. Il sapere greco: filosofia,
politica, scienza e religione, Einaudi, Torino, 2005.
K. KERENYI, Gli dei e gli eroi della Grecia, Garzanti, Milano, 1984.
S.G. KIRK, La natura dei miti greci, Universale Laterza, Bari, 1980.
A. LOMAX, L’anno più felice della mia vita, Un viaggio in Italia (1954-
55), a cura di G. Plastino, Il Saggiatore, Milano, 2008.