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Anna Visone Matr.

M06003027
LA POLITICA ECONOMICA DELL’UNIONE MONETARIA
EUROPEA:
IDEOLOGIA, CRITICITÀ E FUTURO DELLA MONETA UNICA.

PROBLEMI E CRITICITA’ DELLA MONETA UNICA.


È L’UNIONE MONETARIA EUROPEA
UN’AREA VALUTARIA OTTIMALE?

L'idea della creazione di un'area monetaria unica è da ricondurre a


Mundell (1961). La teoria delle Aree Valutarie Ottimali parte dell'ipotesi
che una moneta unica porta ad un miglioramento delle condizioni di vita
dei cittadini dei paesi partecipanti se questi paesi hanno condizioni
economiche simili. In caso di condizioni strutturali divergenti, l’Unione
porta dei danni a tutti i paesi. La teoria delle aree monetarie ottimali, per
valutare i benefici delle unioni monetarie, si concentra soprattutto sui costi
macroeconomici indotti dalla creazione di un'unione monetaria. In
particolar modo, cerca di equilibrare i costi e i benefici determinati
dall'abbandono del tasso di cambio come strumento di politica economica.
Se i costi sono minori dei benifici, allora è possibile creare
un'area monetaria tra due o più paesi. I costi macroeconomici associati
all'abbandono del tasso di cambio sono ridotti se gli shock esogeni abituali
investono in modo simmetrico tutte le economie dei paesi coinvolti nel
processo di integrazione monetaria (shock simmetrici). In tal caso la
necessità di una politica monetaria indipendente è ridotto. Ad ogni modo, i
costi potrebbero essere ridotti anche in caso di shock asimmetrici se
esistono particolari condizioni e cioè in presenza di manodopera mobile,
salari e prezzi flessibili, grado di integrazione commerciali tra i paesi,
integrazione politica, integrazione fiscale.
Un'area valutaria ottimale è costituita da un gruppo di regioni con
economie fortemente integrate e con piena mobilità dei fattori. Molti
economisti, si chiedono se l’EMU sia un'area valutaria ottimale. Le
difficoltà che attualmente attraversano molte economie europee, a seguito
della crisi del 2008, sono in parte riconducibili proprio all'adozione di una
moneta unica all'interno di un'area monetaria non ottimale.
Molti economisti ritengono che l'EMU non sia un'area valutaria ottimale
per i seguenti motivi: i tassi di cambio fissi non permettono ai paesi in crisi
di utilizzare la svalutazione monetaria per rilanciare l'economia, la perdita
della possibilità di usare la politica monetaria è un altro strumento di
politica economica che è stato abbandonato, i patti di stabilità impediscono
alla politica fiscale di essere usata in misura anticiclica,la politica
monetaria centralizzata porta a danni in caso di shock asimmetrici,la
combinazione di tutte queste misure ha comportato una crescita della
disoccupazione durante la crisi economica.
Di conseguenza, eventi economici asimmetrici in paese diversi dell'area
Euro, che potrebbero richiedere tassi di interesse saranno difficili da
gestire attraverso la politica monetaria comune.
PL'introduzione dell'Euro ha rappresentato il tentativo più ambizioso, mai
effettuato, di trarre vantaggio dall'utilizzo di una moneta comune. La
recente crisi economica ha messo però in evidenza i rischi e le difficoltà
che un simile esperimento comporta. Se tali difficoltà non verranno
superate, il fallimento del
progetto della moneta unica potrebbe far naufragare anche il sogno
dell'integrazione politica. Tra i problemi più rilevanti bisogna considerarne
almeno tre: 1) l’Europa non costituisce un'area valutaria ottimane, quindi,
shock macroeconomici asimmetrici (che colpiscono solo uno o pochi paesi
dell'area-Euro) risultano difficilmente gestibili attraverso una politica
monetaria centralizzata. Tali crisi, per potere essere adeguatamente
fronteggiate, necessiterebbero di tassi di interessi interni differenziati.
Inoltre, mentre la politica monetaria è gestita centralmente dalla Banca
Centrale Europea, le politiche fiscali sono ancora regolare in modo
decentrato, dai singoli paesi. A fronte di una politica monetaria su scala
europea, continuano dunque a sussistere molteplici politiche fiscali, una
per ogni Stati membro. Ciò crea evidenti discrasie e oggettive difficoltà di
coordinamento.
2) La regolamentazione dei mercati del lavoro, su scala europea, resta
fortemente differenziata. La mobilità interna dei lavoratori, inoltre, è
frenata da
molteplici ostacoli (barriere linguistiche, legislative, ecc.) che impediscono
la formazione di un mercato del lavoro effettivamente integrato a livello
continentale. L’assenza di una reale integrazione impedisce di assorbire
shock
economici asimmetrici, cristallizzando differenziali notevoli nei tassi di
disoccupazione tra regioni e nazioni interne all'Unione.3) I vincoli imposti
dal Patto di Stabilità alla politica fiscale dei singoli paesi ostacolano il
ricorso alle tradizionali politiche di stabilizzazione macroeconomica in
caso di crisi.
I vincoli di bilancio risultano così stringenti da impedire agli Stati di
utilizzare la leva della spesa pubblica per ridare slancio all'economia anche
in caso di deflazione persistente e di inefficacia della politica monetaria.
Non potendo ricorrere alle politiche fiscali, gli Stati colpiti da shock
asimmetrici non hanno la possibilità di fronteggiare adeguatamente tali
situazioni congiunturali avverse.
La teoria delle Aree Valutarie Ottimale evidenzia che per creare una
unione monetaria tra più paesi è necessario rispettare certi criteri. L’EMU
non rispetta tali criteri e quindi non permette una convergenza tra i paesi
membri.
La crisi del 2008 ha evidenziato l'inconsistenza di questa Unione e
l'impossibilità di creare un miglioramento delle condizioni di vita delle
popolazioni.
Il dibattito sulle aree monetarie ottimali trova le sue origini nella
controversa discussione sui “regimi di cambio ottimali”. Nel 1953
Friedman sosteneva che un paese che presentasse una rigidità sia dei salari
che dei prezzi dovesse adottare tassi di cambio flessibili per essere in
grado di realizzare contemporaneamente gli obiettivi di equilibrio
interno( piena occupazione,stabilità dei prezzi) e di equilibrio
esterno( pareggio della bilancia dei pagamenti).La questione delle “Aree
Valutarie Ottimali” si ripresenta ogni qualvolta si pensa all’integrazione
economica dei paesi come una delle possibili soluzioni ai problemi di
equilibrio della bilancia dei pagamenti ed ogni volta essa si arricchisce di
nuovi contenuti. La letteratura sulle Aree Valutarie Ottimali viene
nuovamente rivalutata a partire dalla metà degli anni ‘ 70.Sul piano
macroeconomico internazionale la fase di crescente instabilità aperta dal
tramonto del sistema di Bretton Woods ed il dibattito politico sul progetto
del rapporto Werner di un’Unione Monetaria Europea riaccendono
l’interesse sulla appropriata definizione dei confini di un’area valutaria.Tre
sono gli approcci delineati sul tema delle “Optimum Currency Areas”:
Approccio Tradizionale, Approccio Costi-Benefici, “Nuova teoria” delle
Aree Monetarie Ottimali. Robert Mundell nel 1961 è stato il primo a
definire le caratteristiche fondamentali dell’area valutaria ottimale.
L’Approccio Tradizionale delle OCAs, fondato sul lavoro pioneristico di
Mundell, oltre a definire queste caratteristiche tenta di individuare le
condizioni nelle quali i paesi trovano conveniente partecipare ad un’area
valutaria ottimale. Questo approccio mira ad individuare le condizioni in
cui gli strumenti di politica monetaria si rivelano inefficaci e, dunque, la
rinuncia ad una politica monetaria indipendente non comporta una perdita
eccessivamente onerosa. I limiti di questo approccio possono essere
rappresentati dal mancato approfondimento dei possibili benefici di cui i
paesi avrebbero potuto godere in virtù dell’appartenenza ad un’area
valutaria. Un ulteriore limite è dato dalla mancaza di un vero e proprio
modello che permettesse di valutare adeguatamente i costi di
aggiustamento.
Con il lavoro di Ishiyama (1975) prende corpo un filone di ricerca
alternativo che contrappone all’astrattezza dei criteri elaborati della
letteratura precedente una puntuale analisi dei costi e benefici di una
unione valutaria. Nonostante la maggiore complessità formale, il nuovo
approccio ha comunque il merito di offrire una visione
“multidimensionale” unitaria ed esaustiva de vari aspetti connessi alla
delimitazione di un’area valutaria ottimale, nel tentativo di superare la
parzialità dell’analisi di singoli criteri.
Sia l’approccio “Tradizionale” che quello “Costi-Benefici” delle aree
valutarie ottimali non consentirono di individuare dei criteri obiettivi in
grado di dare risposte univoche ai quesiti riguardanti la desiderabilità e la
possibilità di sopravvivenza delle OCAs.Verso la fine degli anni ’80 nuovi
stimoli di dibattito sono forniti dai fautori della “Nuova Teoria” delle
OCAs. Due sono i temi di discussione principali di questa “nuova” linea
della teoria delle OCAs: l’effetto degli shocks e la
reputazione/credibilità.Entrambi possono considerarsi come la naturale
conseguenza di un più esatto approfondimento rispettivamente
dell’approccio tradizionale e di quello costi-benefici.Il primosegue dalla
considerazione che paesi con caratteristiche simili(mobilità dei
fattori,strutture produttive) dovrebbero reagire allo stesso modo ai disturbi
esterni.L’uso del tasso di cambio come strumento di aggiustamento,
dunque, potrebbe perdere gran parte della sua importanza. Il criterio della
credibilità, invece, discende da un’analisi più estesa dei benefici di cui può
godere il paese che aderisce ad un’area monetaria ottimale; l’idea guida è
che paesi che godono a livello internazionale di poca credibilità possano
beneficiare della buona reputazione dei paesi ai quali si agganciano.
La teoria delle aree valutarie ottimali nasce nel 1961 grazie a Robert
Mundell ed il suo scritto “A Theory of Optimum Currency Areas”,
ottenendo subito un grande riscontro in campo accademico. Molti altri
autori, tra cui spiccano McKinnon e Kenen che sono considerati insieme al
premio Nobel canadese la “triade delle AVO”, hanno cercato di apportare
nei decenni successivi i loro contributi a questo argomento. La domanda a
cui gli studiosi cercano di rispondere sembra essere relativamente
semplice: quando conviene ad una serie di regioni o Stati adottare un
sistema di cambi fissi (o una moneta comune) e quando, invece, conviene
far fluttuare tra loro le diverse valute? Nei primi decenni di studio, i vari
economisti hanno cercato di evidenziare una serie di caratteristiche (le
quali in alcuni casi entrano in conflitto tra di loro o possono addirittura
creare dei paradossi) ideali che due o più regioni dovrebbero possedere per
ambire alla creazione di un’area valutaria. La fine di Bretton Woods negli
anni ’70 e la mancanza, all’epoca, di unioni monetarie ridusse in maniera
drastica l’interesse accademico ed anche politico verso il tema. Solo negli
anni ’90 con la concretizzazione del progetto europeo di creare una moneta
unica, il dibattito si è riacceso creando nuove linee di analisi
fondamentalmente diverse da quelle precedenti. Oggi infatti, piuttosto che
cercare di stabilire quali siano le caratteristiche migliori che i paesi
dovrebbero possedere per creare un’efficace unione monetaria, ci si
concentra sugli effetti positivi e negativi che la realizzazione della stessa
implicherebbe (analisi di costi e benefici. Milton Friedman, uno dei
maggiori esponenti della scuola di Chicago, è stato fondatore del pensiero
monetarista e premio Nobel per l’economia nel 1976. Negli anni ’50, in un
capitolo del suo libro 13 “Essays in Positive Economics”, descrive la sua
visione riguardo i sistemi di cambi flessibili. Pur non parlando ancora di
aree valutarie ottimali, è considerato per la qualità dei suoi studi come un
precursore alla teoria AVO; lo stesso Mundell successivamente riprenderà
alcune delle sue analisi per descrivere importanti caratteristiche che dei
paesi dovrebbero possedere per partecipare ad un’unione monetaria.
L’autore inizia sostenendo che un sistema di cambi flessibili sia il miglior
mezzo per ottenere un sistema di scambi multilaterali senza restrizioni
evidenziando, però, due possibili “misunderstanding” da evitare. In primis
per cambi flessibili Friedman non intende cambi instabili (dovuti ad
un’economia di base non solida), ma cambi liberi di variare; definisce,
inoltre, scambi multilaterali non ristretti un sistema in cui non ci sono
controlli quantitativi diretti su import e export, dove tariffe e dazi sono
ragionevoli e non discriminatori (non imposti per, ad esempio, manipolare
la bilancia dei pagamenti). Le argomentazioni a favore dei cambi flessibili
sono basate su 3 elementi: 1) Prezzi e salari non sono in grado di
aggiustarsi nel breve periodo ma, attraverso un regime di cambi flessibili,
l’aggiustamento dei tassi di cambio permette di raggiungere in
contemporanea sia obiettivi interni (piena occupazione, stabilità prezzi)
che esterni (pareggio bilancia pagamenti). In un’economia dove i prezzi
sono fissati, uno shock esogeno che colpisca, ad esempio, la produttività
condurrà ad un’allocazione inefficiente delle risorse quando i tassi di
cambio con altre nazioni sono fissi. Supponendo che lo shock sia positivo,
la quantità di beni venduta dagli agenti del mercato sarà inferiore a quella
ottimale poiché i prezzi non potranno essere abbassati nonostante
l’aumento di produttività. Con un sistema di cambi flessibili, supponendo
sia valida la legge del prezzo unico, il mercato si sarebbe adattato a questo
nuovo shock con una variazione dei prezzi relativi dei produttori nazionali
rispetto a quelli esteri, permettendo il raggiungimento di una massima
allocazione. 2) L’indipendenza della banca centrale garantita dai tassi di
cambio flessibili protegge il paese da eventuali errori di politica monetaria
che potrebbero essere commessi a livello centrale quando si fa parte di
un’unione monetaria o quando si adotta un sistema di cambi fissi.
Friedman conclude il secondo punto evidenziando l’importanza, in caso di
partecipazione ad un’area valutaria, di avere un’autorità fiscale unica
(tema che svilupperà poi Kenen nel 1969) e poche restrizioni ai movimenti
di beni, capitali e persone: queste condizioni infatti permettono, in linea
teorica, di combinare i vantaggi di elasticità (classici dei cambi flessibili)
con quelli della stabilità (classici dei cambi fissi). 3) Un sistema di cambi
flessibili stimola il commercio internazionale poiché favorisce
l’eliminazione dei controlli e ostacoli imposti nei confronti dei beni e
capitali tra le nazioni. Robert Mundell, economista e professore alla
Columbia University e all’Università Cinese di Hong Kong, è stato il
vincitore del premio Nobel per l’economia nel 1999 «per la sua analisi
della politica fiscale e monetaria in presenza di diversi regimi di cambio e
per la sua analisi delle aree valutarie ottimali». Nel suo lavoro del 1961 “A
Theory of Optimum Currency Areas” iniziò a chiedersi quali
caratteristiche potessero essere desiderabili da diverse regioni affinché non
fosse costoso rinunciare a cambi flessibili e all’indipendenza monetaria per
istituire una moneta comune o un sistema di tassi di cambi fissi.
Nonostante lo stesso autore cominci con il presupporre che la domanda a
cui cerca di dare risposta sia puramente accademica, gli avvenimenti
storico-economici degli ultimi decenni, dalla caduta di Bretton Woods alla
formazione di svariate unioni monetarie, tra cui ovviamente la controversa
Eurozona, hanno dimostrato la contemporaneità dell’idea. Il premio Nobel
propone 3 esempi per esporre le criticità che possono sorgere tra due
regioni o stati con tassi di cambio fissi o flessibili. Nel primo si supponga
l’esistenza di due paesi, A e B con diverse monete, inizialmente in
equilibrio (con pieno impiego e con bilance di pagamento equilibrate) ma
successivamente soggetti ad un trasferimento di domanda dei beni prodotti
in B ai beni di A. L’effetto del cambio di preferenza dei consumatori
genererà una spinta inflazionistica in A e disoccupazione in B; se i prezzi
potessero aumentare in A allora i beni prodotti nel paese risulterebbero
meno appetibili all’estero tornando, nella migliore delle ipotesi,
all’equilibrio iniziale. Nel caso A attuasse una politica monetaria restrittiva
e impedisse ai prezzi di lievitare, allora B dovrà affrontare interamente la
disoccupazione creatasi e sarà necessaria una riduzione dei salari reali per
restituire competitività alle imprese operanti nel paese. Ciò significa che
una politica deflazionistica in A di difesa del surplus generatosi, si riflette
su altri paesi facenti parte di una stessa area valutaria (o con regimi di
cambio fissi) in maniera negativa causando una recessione. Mundell, con
questo primo modello, cerca di evidenziare come la mancanza di mobilità
dei fattori (soprattutto del lavoro) e di flessibilità dei prezzi possano
danneggiare economie con cambi fissi che si trovano, per una qualsiasi
causa legata o alla domanda o allo sviluppo tecnologico, improvvisamente
in deficit. Nel caso i prezzi fossero però flessibili, il paese in surplus
subirebbe una spinta inflazionistica che peggiorerebbe il suo settore
dell’export favorendo il ripristino dell’equilibrio degli scambi; nel caso
fosse presente mobilità dei fattori, e nello specifico del lavoro, la
popolazione migrerebbe dal paese in deficit verso quello in surplus con il
duplice effetto di ridurre la disoccupazione nella prima regione e fermare
l’inflazione nella seconda poiché il livello medio dei salari si abbasserebbe
(grazie ad un’offerta di lavoro più elevata). L’assenza di questi criteri
giustificherebbe l’utilizzo di cambi flessibili fra le due monete.
Supponiamo invece che A e B facciano parte di una stessa nazione con
un’unica moneta, e che il governo segua l’obiettivo di pieno impiego. Il
cambio di preferenze dei consumatori, uguale al caso precedente, causa
disoccupazione in B e inflazione in A. Per ripristinare l’impiego sarà
necessario aumentare l’offerta di moneta e stimolare l’economia, ma
essendo A e B soggette ad un’unica autorità monetaria l’espansione
monetaria aggraverà l’inflazione in A. Perseguire obiettivi occupazionali
aggrava la spinta inflazionaria nell’economia multiregionale. In un’area
valutaria che comprende diverse nazioni con monete diverse si può
ristabilire l’occupazione nei paesi in deficit se quelli in surplus sono
disposti ad accettare l’inflazione. In un’area valutaria che comprende più
regioni con un’unica moneta si può tenere a bada l’inflazione solo
accettando disoccupazione nelle aree in deficit, e viceversa. Nell’ultimo
modello, l’autore, ipotizza invece che il mondo consista di soli due paesi
(Canada e USA con valute che fluttuano tra loro) e che esistano due
regioni, Est e Ovest, non corrispondenti ai confini nazionali specializzate
nella produzione di, rispettivamente, automobili e materie di base come la
plastica o il legname. Nel caso si verificasse un aumento di produttività nel
settore automobilistico, questo causerebbe un aumento (e quindi eccesso)
di domanda per i beni usati per costruire macchine, come la plastica, e un
eccesso di offerta di automobili. Come nel primo modello, la regione ad
Est subirà un aumento della disoccupazione mentre quella ad Ovest una
pressione inflazionistica. Poiché i due paesi hanno monete diverse, e
quindi anche banche centrali separate, potrà essere risolto solo uno dei due
problemi: se entrambe le autorità monetarie espandessero la base
monetaria si potrebbe migliorare l’occupazione a discapito dell’inflazione,
di contro per abbassare l’inflazione bisognerebbe attuare una politica
restrittiva a discapito dell’impiego. Si potrebbe anche dividere il fardello
dell’aggiustamento tra le due aree ed accettare un po' di disoccupazione e
inflazione nell’Est e nell’Ovest. Il sistema di cambio flessibile non serve a
correggere la situazione della bilancia dei pagamenti tra le due regioni
anche se lo farà tra USA e Canada; non è quindi necessariamente
preferibile a una valuta comune o monete nazionali collegate da tassi di
cambio fissi. Mundell con quest’argomentazione non ha voluto criticare a
priori un sistema a cambi flessibili, piuttosto evidenziare che in molti casi
sarebbe più logico, da un punto di vista economico, adottare delle monete
su base regionale piuttosto che nazionale. Successivamente si dovrebbe
stabilire la convenienza di un tasso fisso o meno (a seconda dei criteri
stabiliti precedentemente). L’area valutaria ottimale, conclude, è la regione
che può non coincidere con i confini politici di uno Stato. Un altro criterio
per definire un’AVO che è possibile sintetizzare dal terzo modello, è il
livello di similarità delle industrie operanti sul territorio: con la presenza di
dollari statunitensi e canadesi, lo shock di produttività , nel settore
automobilistico, causa inflazione e disoccupazione nelle due regioni, se ai
primi si sostituissero dollari dell’Est e dell’Ovest le banche centrali
potrebbero comportarsi come nel primo esempio e gestire sia l’aumento
dei prezzi che la diminuzione dei posti di lavoro (invece che solo una delle
due problematiche) L’autore continua con un’analisi per supportare
l’esistenza di aree valutaria di ampia estensione. In primis, osserva che
l’efficienza della moneta come strumento di pagamento e unità di conto
diminuisce all’aumentare del numero delle valute esistenti a causa dei costi
di conversione, transazione e informazione. Questo può facilitare
l’arbitraggio e rendere inefficaci le politiche monetarie poiché non si
trasferirebbero ai livelli più bassi dell’economia. Ipoteticamente, infatti, in
un mondo con tante valute quanti sono i beni prodotti, l’utilità della
moneta scomparirebbe. Inoltre un sistema di cambi flessibili trae beneficio
dal fatto che i consumatori accettano molto più facilmente un
cambiamento nel loro salario reale attraverso la variazione del tasso di
cambio piuttosto che a causa di una diminuzione del salario nominale o
aumento dei prezzi. Il fenomeno è chiamato illusione della moneta: se però
le aree valutarie diventassero più piccole, aumenterebbe la quantità di beni
da importare e l’assunzione della “money illusion” perderebbe di valore.
Dato che il livello necessario di illusione monetaria aumenterebbe al
rimpicciolirsi delle aree valutarie, è realistico concludere che debba
esistere un limite superiore al numero di aree valutarie esistenti. Mundell
conclude il suo paper dividendo la questione dei tassi flessibili in due
domande. 1) Può un sistema di tassi flessibili essere efficiente e effettivo
nell’economia moderna? 2) Come dovrebbe essere diviso il mondo in aree
valutarie? Per rispondere al primo quesito Mundell elenca delle condizioni
necessarie, che ▪ Un sistema di prezzi internazionali stabile. ▪ Le variazioni
del tasso di cambio necessarie per eliminare i normali disturbi all'equilibrio
dinamico non devono essere così grandi da causare violenti e reversibili
spostamenti tra le industrie che si occupano di export tra quelle che
importano (questo è non escluso dalla stabilità). ▪ I rischi creati dai tassi di
cambio variabili possono essere coperti a costi ragionevoli nei mercati a
termine. ▪ Le banche centrali devono astenersi dalla speculazione
monopolistica. ▪ La disciplina monetaria sarà mantenuta dalle sfavorevoli
conseguenze politiche del continuo deprezzamento. ▪ Deve essere
assicurata una protezione ragionevole dei debitori e dei creditori per
mantenere un flusso crescente di movimenti di capitali a lungo termine. ▪
Le retribuzioni e gli utili non devono essere legati a un indice dei prezzi in
cui le merci importate sono fortemente ponderate. Per rispondere alla
seconda incognita, Mundell afferma che un sistema di cambi flessibili
lavorerebbe al meglio se il mondo fosse diviso in aree valutarie basate su
regioni e non su nazioni. Nel miglior scenario possibile, ogni regione
dovrebbe possedere un alto valore di mobilità dei fattori interno e uno
basso a livello esterno. Ogni regione coinciderebbe con un’AVO con
moneta propria che oscillerebbe verso tutte le altre. Essendo però le
regioni solo unità economiche e i confini politici realtà esistenti
espressione della sovranità nazionale, l’economista realizza che
riorganizzare gli Stati non sia fattibile e dunque afferma che la validità
dell’argomento dei tassi di cambio flessibili è legata al grado di similarità
delle nazioni rispetto alle regioni descritte precedentemente. Chiaramente
se lavoro e capitale non fossero sufficientemente mobili dentro il paese, un
sistema a cambi flessibili non riuscirebbe a mantenere la stabilità
desiderata e ci si potrebbe aspettare tassi di disoccupazione e inflazione
variabili nelle diverse regioni facenti parte del paese stesso; in maniera
analoga se i fattori citati sopra fossero mobili anche al di fuori dei confini
nazionali, un regime a cambi flessibili risulterebbe non necessario o
addirittura dannoso.Ronald McKinnon è, cronologicamente, il secondo
studioso della “triade” degli economisti che hanno lanciato le prime teorie
riguardanti le aree valutarie ottimali. Citando brevemente i concetti che
Mundell qualche anno prima aveva espresso nel suo scritto “A Theory of
Optimum Currency Areas”, cerca di ampliare la discussione introducendo
e discutendo l’influenza dell’apertura di un’economia, definita come il
rapporto tra beni commerciabili e non commerciabili, nella determinazione
di un’AVO enfatizzando l’importanza della stabilità interna del livello dei
prezzi. Il rapporto prima citato è un espediente per rendere il modello di
analisi il più semplice possibile poiché non è realistico dividere la totalità
dei prodotti in queste due strette categorie. I beni commerciabili si
dividono ulteriormente in due macro-categorie: beni esportabili che sono
prodotti internamente e in parte esportati; la differenza tra queste due
varianti è dipendente esclusivamente dal consumo interno, verosimilmente
basso se la produzione di esportabili è altamente specializzata. beni
importabili che sono sia prodotti internamente sia importati; in maniera
analoga la differenza tra le due classi è direttamente collegata al grado di
specializzazione delle importazioni. La somma degli esportabili prodotti,
quindi, non deve essere necessariamente uguale alla somma degli
importabili consumati anche se nella bilancia degli scambi è verificata
l’uguaglianza tra beni esportati e importati. Per adattare questa analisi alla
realtà potrebbe essere possibile creare una media ponderata per calcolare il
valore totale di tutte le categorie di produzione esistenti tra le due sopra
menzionate. L’autore definisce con “ottimale” un’area valutaria all’interno
della quale le politiche monetarie e fiscali sono utilizzate per ottenere la
combinazione migliore di 3 obiettivi, spesso in contrasto tra loro: - Pieno
impiego. - Mantenimento dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti. -
Contenimento dell’inflazione per assicurare un livello di prezzi interno
stabile. McKinnon, come precedentemente aveva fatto Mundell, divide il
mondo in due regioni da considerarsi aree valutarie che devono decidere se
adottare tra loro un sistema di cambi flessibili o fisso descrivendo due
modelli. La seconda regione è il mondo, si assume quindi essere molto più
estesa della prima; questo comporta che il prezzo dei beni commerciabili
espresso nella moneta estera non è influenzato da variazioni del tasso di
cambio domestico o movimenti dei prezzi interni. Essendo i prezzi in
moneta estera fissi, gli scambi saranno necessariamente immuni alle
politiche economiche della piccola regione. Nel primo caso, l’economista
ipotizza che i beni esportabili e importabili (che sommati formano i beni
commerciabili) rappresentino una grande parte dei beni consumati
internamente, inoltre viene utilizzato un sistema di cambi flessibili per
mantenere l’equilibrio verso l’esterno. Il prezzo delle merci non
commerciabili è tenuto costante relativamente alla moneta domestica. La
grande apertura economica comporta una notevole correlazione tra
variazioni del tasso di cambio e oscillazioni dei prezzi domestici. Infatti, in
caso di deprezzamento della propria valuta a causa ad esempio di uno
shock esterno, i prezzi dei beni commerciabili aumenterebbero in maniera
proporzionale costringendo le autorità che cercano di perseguire l’obiettivo
di bassa inflazione/stabilità dei prezzi interni ad attuare politiche monetarie
e fiscali restrittive per raffreddare la domanda di beni non commerciabili
riducendone il prezzo. Chiaramente minore è la percentuale di beni non
commerciabili rispetto ai beni “tradable” (e quindi più elevato il grado di
apertura degli scambi), maggiore dovrà essere l’intervento centrale. Un
sistema di cambi flessibili non è quindi efficace quando il peso dei settori
import-export è elevato. Nel secondo caso l’ipotesi è ribaltata e la
produzione di beni non commerciabili è largamente superiore a quella dei
beni importabili ed esportabili; l’economia in questione è quindi definibile
come relativamente chiusa. Supponendo sempre una svalutazione del tasso
di cambio, e quindi un aumento dei prezzi dei beni commerciabili, la
variazione dell’indice dei prezzi generali interno sarà molto modesta
essendo esportabili e importabili presenti in quantità inferiore nel sistema
economico. Un tasso di cambio flessibile potrebbe, in questo esempio,
trovare un’applicazione migliore. Il criterio di definizione di un’AVO per
McKinnon può essere riassunto prendendo in considerazione il grado di
apertura di un’economia e la sua grandezza: piccole economie aperte
hanno più convenienza ad utilizzare un sistema di cambi fissi o un’unica
valuta con altre nazioni o regioni con le quali i volumi di interscambio
sono elevati. L’area valutaria che si creerebbe risulterebbe chiusa verso
l’esterno e quindi assicurata dai rischi dovuti a deprezzamenti o
apprezzamenti della valuta. Al contrario i paesi caratterizzati da
un’economia chiusa riescono a sfruttare i benefici di un sistema di cambi
flessibili. L’autore conclude il suo scritto ricalcando anche l’importanza
della mobilità dei fattori. Secondo McKinnon questi ultimi si dividono in
due aree: fattori di mobilità geografica tra regioni, che Mundell due anni
prima aveva descritto, e fattori di mobilità tra industrie. L’economista
considera il caso, a suo dire comune, di immobilità fattoriale tra regioni
con industrie specializzate, che coincide con il caso in cui è difficile
analizzare separatamente l’immobilità regionale e interindustriale e
suppone l’esistenza di due regioni A e B: la prima osserva un aumento
della domanda per i suoi prodotti mentre la seconda un calo. Se esistesse la
possibilità per la regione B di produrre i beni della regione A, non ci
sarebbe necessità di un elevato grado di mobilità dei fattori tra le regioni;
se al contrario questa soluzione non fosse realizzabile allora la mobilità dei
fattori, e le politiche volte ad aumentarla, potrebbero essere l’unico mezzo
in grado di evitare il crollo degli stipendi e dell’occupazione in B. In
questo senso anche McKinnon sostiene la tesi di Mundell di creare aree
valutarie con regioni con le quali si condividono i suddetti fattori di
mobilità, evidenziandone l’importanza per piccole economie che cercano
di sviluppare industrie con economie di scala o elementi di indivisibilità.
Peter Kenen, professore di Economia e Finanza Internazionale
dell’università di Priceton, è considerato con il suo scritto del 1969 “The
Theory Of Optimum Currency Areas: An Eclcetic View” come uno dei
principali contribuenti e studiosi della teoria delle aree valutarie ottimali.
Nel suo lavoro riprende le argomentazioni precedentemente presentate da
Robert Mundell e Ronald McKinnon evidenziando però come l’approccio
del primo autore non fosse pienamente convincente e adeguato a definire
un’AVO, proponendo ulteriori criteri di identificazione. 1) Livello di
diversificazione di un’economia. 2) Integrazione fiscale. Un’economia
diversificata, con vari beni esportati, può essere, come ogni altra
economia, soggetta a disturbi della domanda estera o tecnologici: se queste
variazioni sono isolate, e non caratterizzano l’intero settore export, la
bilancia commerciale non peggiorerà in maniera particolarmente rilevante
dato che saranno colpiti un numero ristretto di filiere produttive. La
diversificazione funge quindi da isolante contro lo shock negativo
diminuendo il rischio di trovarsi in difficoltà. Il livello di diversificazione
(che si riflette nella diversificazione dell’export) può essere usato come
mezzo per stimare quanto sostenibili per determinati livelli di impiego e
per la bilancia commerciale possano essere dei cambi fissi. Kenen
continua evidenziando che la mobilità dei fattori interindustriale è
fondamentale per assicurare la reintegrazione dei lavoratori che operano (e
presumibilmente sono stati licenziati) nei settori colpiti dai disturbi e
ipotizza due situazioni diverse: - Se gli shock sono realmente indipendenti
tra di loro poiché i prodotti sono diversi, allora è probabile che il livello di
mobilità dei fattori sia basso ma i guadagni derivanti dalle vendite
rimangano pressoché stabili poiché la maggioranza del settore export non è
colpito negativamente. - Quando i prodotti sono buoni sostituti tra di loro,
è realistico considerare non perfettamente indipendenti gli shock, questo
comporterà una situazione opposta alla prima dove il livello di mobilità dei
fattori sarà più alto mentre i ricavi potenzialmente più bassi a causa di un
livello di “effettiva diversificazione” inferiore. Il secondo criterio
ipotizzato dall’autore per valutare la fattibilità e l’efficacia di un’AVO, è il
livello di integrazione fiscale esistente tra i vari paesi. Risultati migliori si
otterranno tra Stati che hanno fra di loro un elevato livello di
coordinamento che permetterebbe di attenuare gli effetti di uno shock
negativo, su un paese o regione, attraverso un trasferimento di risorse
fiscali. Le aree impoverite e con una disoccupazione in aumento
potrebbero quindi usare queste ulteriori finanze per contrastare le
conseguenze della perturbazione negativa. Inoltre, Kenen aggiunge, il
dominio dell’autorità fiscale dovrebbe coincidere con l’area valutaria o
comunque non essere più ampio. Se la seconda ipotesi non si verificasse si
creerebbero dei problemi ricollegati alla raccolta di tasse in paesi che
possono indipendentemente decidere la propria politica monetaria, la
propria offerta di moneta e tassi di cambio. Supponiamo che la regione A
stampi moneta più velocemente della regione B (entrambe assoggettate ad
un’unica autorità fiscale), la prima sarà sia soggetta ad un’inflazione più
alta sia ad una crescita di salari più veloce. A meno che la sua moneta non
si deprezzi allo stesso ritmo con cui aumentano gli stipendi, allora la
regione A sosterrà un fardello tributario più elevato. Il cuore della teoria
AVO deriva principalmente dal lavoro di Mundell, McKinnon e Kenen
che hanno dato vita ad un framework successivamente ampliato e anche
criticato. Sinteticamente le caratteristiche evidenziate per la costituzione di
un’area valutaria tra due o più economie sono: - Livello di mobilità del
lavoro e flessibilità di prezzi e stipendi (Mundell) - Incidenza di shock
asimmetrici e livello di similarità delle strutture produttive (Mundell) -
Livello di apertura economica (McKinnon) - Ampiezza di un’economia
(McKinnon) - Livello di diversificazione dei prodotti (Kenen) - Livello di
integrazione fiscale (Kenen) Alcuni problemi possono però sorgere quando
due o più criteri entrano in contrasto tra di loro, a questo proposito Dallas e
Tavlas (2009) analizzano alcuni possibili conflitti. 1) Un’economia aperta
e piccola dovrebbe preferire un tasso di cambio fisso anche se è probabile
che, per caratteristiche strutturali legati all’ampiezza, abbia un livello di
mobilità del lavoro basso con le regioni adiacenti. 2) Un’economia piccola
è probabilmente aperta ma anche poco diversificata e specializzata in
poche produzioni, evidenziando una chiara discordia tra le teorie
principali. 3) Consideriamo due paesi, il primo di grandi dimensioni e
rilevanza economica (A) mentre il secondo più modesto in entrambi i
parametri (B). Uno sviluppo economico nel paese B avrà poche
ripercussioni su aggregati economici, come il PIL, di A; viceversa uno
sviluppo in A creerà delle esternalità positive molto più rilevanti. Se le due
regioni fossero assoggettate ad un’unica autorità nazionale, quest’ultima
sarà molto più interessata a sviluppi economici nella prima area. Seguendo
questo ragionamento le economie più influenti e grandi dovrebbero essere
le migliori candidate per un sistema di cambi fissi, contrariamente a quanto
affermato da McKinnon. 4) Paradosso della diversificazione: due
economie non/poco diversificate dovrebbero far fluttuare tra di loro le
valute, nel caso però creassero un sistema di cambi fissi, l’area valutaria
nascente avrebbe un livello di diversificazione superiore a quello delle
singole regioni. La diversificazione può fungere allo stesso tempo da
incentivo e disincentivo alla realizzazione di una moneta unica. 5) La tesi
della diversificazione può anche essere rigirata, economie che posseggono
questa caratteristica possono meglio gestire dei cambi flessibili rispetto a
economie poco diversificate. 6) Economie che si aprono agli scambi
tendono a specializzarsi, grazie allo sfruttamento di economie di scale, in
alcune produzioni e diventare meno diversificate. Le teorie create da
Mundell, McKinnon e Kenen, erano figlie di un periodo in cui, grazie agli
accordi di Bretton Woords, esistevano sistemi di cambi fissi aggiustabili e
la mobilità dei capitali a livello internazionale era limitata. Nei decenni
successivi, a causa di cambiamenti macroeconomici e politici, sono stati
aggiunti ulteriori framework di analisi che complicano ulteriormente la
scelta del sistema di cambi da adottare. In uno degli esempi di Mundell in
cui il mondo è diviso in due regioni, Est e Ovest, la prima specializzata
nella produzione di automobili e la seconda nella produzione di legname,
uno shock positivo nell’Est aumenterà la domanda di beni prodotti
dell’Ovest causando nelle due aree, rispettivamente, un eccesso di offerta
di lavoro e una spinta inflazionistica. Un problema che nasce è il perché
uno shock positivo della produttività nell’Est porti ad una variazione della
domanda da prodotti domestici a merci dell’Ovest. Il suddetto shock
dovrebbe avere i seguenti effetti sull’economia che lo subisce: 1) Aumento
della produttività marginale del lavoro (aumento positivo della domanda di
lavoro). 2) Movimento verso l’alto della funzione di produzione aggregata.
3) Dati i due punti precedenti si osserverà anche un movimento verso
destra dell’offerta aggregata. Se lo shock fosse permanente, allora il
prodotto marginale del capitale aumenterebbe nell’Est causando anche un
aumento della domanda aggregata. L’effetto netto sul reddito reale,
impiego e scambi con l’altra regione, dipenderà esclusivamente
dall’intensità dei parametri evidenziati e l’effetto finale potrebbe essere
potenzialmente diverso da quello previsto da Mundell. I movimenti di
capitali tra regioni non erano stati considerati nelle teorie iniziali.
Assumendo sia un aumento di produttività dell’economia di un paese, sia
una crescita veloce, è plausibile ipotizzare un deficit della bilancia dei
pagamenti verso il resto del mondo. Uno shock positivo indurrà,
probabilmente, agenti stranieri ad investire all’interno del paese
permettendo di evitare di svalutare la moneta per aumentare le esportazioni
e controbilanciare il deficit che precedentemente si era creato.
Quest’ultimo sarà sostenibile se: il Tasso di rendimento dell’investimento
è superiore al costo del prestito,gli aumenti in consumo associati con il
disequilibrio sono temporari e desiderabili per livellare il consumo inter-
temporale, la spesa pubblica non è eccessiva e la posizione fiscale dello
Stato è, in generale, solida. Contrariamente a quanto evidenziato con le
prime teorie, un Paese con un deficit nella bilancia dei pagamenti non deve
necessariamente svalutare la sua moneta per drogare le esportazioni e
ripristinare l’equilibrio. Inoltre, la mobilità dei capitali influenza i tassi di
cambio aumentando incertezza e variabilità; la stessa è quindi
considerabile come una fonte di shock asimmetrici. I trasferimenti fiscali
da una regione all’altra per combattere gli effetti negativi di shock
asimmetrici possono condurre a tre problematiche. In primis, il debito che
si genera potrebbe non essere sostenibile nel lungo periodo. Secondo, i
trasferimenti fiscali causati da shock permanenti posso bloccare risorse in
alcune aree bloccando i meccanismi di aggiustamento naturali. In ultima
istanza, un paese facente parte di un’area valutaria con un rapporto
debito/PIL elevato, può creare esternalità negative nell’intera unione,
specialmente nel caso in cui l’integrazione tra regioni sia elevata. Due
paesi, A sviluppato e B in via di sviluppo, otterranno effetti diversi da una
politica monetaria comune. Se l’obiettivo dell’autorità è quello di
mantenere i prezzi stabili, B potrebbe osservare alcuni fenomeni. 1)
Profitti sugli investimenti alti. 2) Tassi di interesse reali e nominali bassi
poiché l’inflazione nell’area è mantenuta stabile 3) Con liberi movimenti
di capitali i fenomeni 1) e 2) potrebbero generare delle aspettative troppo
positive deviando gli investimenti su progetti troppo rischiosi che, in
condizioni normali, non sarebbero stati finanziati. 4) Nel lungo periodo
l’economia più debole potrebbe dover affrontare un periodo di deflazione
per recuperare competitività. La differenza di sviluppo dovrebbe quindi
essere considerata come un fattore molto importante per la determinazione
di un’area valutaria ottimale. Le teorie iniziali si basano tutte su un mondo
che è composto di sole due regioni, senza una funzione di benessere che
possa essere massimizzata. Quando, ad esempio, McKinnon fa riferimento
agli obiettivi di pieno impiego, mantenimento dell’equilibrio della bilancia
e mantenimento dei livelli interni di prezzo, utilizza termini vaghi che non
sono analiticamente quantificati. L’utilizzo di modelli matematici potrebbe
rendere le varie dottrine più concrete ed applicabili. Anche negli anni ’70
diversi economisti contribuiscono ad arricchire la teoria AVO sviluppatasi.
Corden (1972), ad esempio, ribadisce l’importanza della flessibilità di
prezzi e salari per contrastare gli effetti di uno shock asimmetrico, non
potendo, il singolo paese, più fare affidamento su una politica monetaria
indipendente. Friedman (1973) ritorna sul tema evidenziando come sia
importante, per le regioni partecipanti ad un’unione monetaria, condividere
il rischio internazionale attraverso la diversificazione non solo di attività
reali, ma anche finanziarie (poiché i capitali finanziari si muovono molto
più velocemente e facilmente di quelli fisici e del lavoro). Tower e Willet
(1976) suggeriscono un approccio che si concentra sui costi e benefici
derivanti dalla partecipazione ad un’area valutaria basato su diverse teorie
precedenti e, conseguenzialmente, diversi criteri di valutazione. Tra questi
spicca quello della similarità dei tassi d’inflazione: Fleming (1971) elenca
3 elementi che favoriscono questa condizione. Somiglianza negli obiettivi
di impiego nazionale. Somiglianza nella crescita della produttività.
Somiglianza nel livello di influenza sindacale. La suddetta similarità non
deve caratterizzare tutte le condizioni contemporaneamente, eventuali
differenze, ad esempio, nella crescita della produttività possono essere
compensate da una volontà politica di tollerare una disoccupazione
superiore o inferiore. La teoria AVO, dopo gli impulsi iniziali, ha
osservato un declino dovuto alla mancanza di esempi reali di unioni
monetarie venendo definita, citando Ishiyama (1975), come una
discussione scolastica che contribuiva in maniera poco rilevante alle
problematiche connesse ai tassi di cambio e alle politiche monetarie.
L’esperienza dell’Unione Monetaria Europea è stata, negli anni ’90, uno
dei motivi principali della ripresa dell’interesse verso la materia. La
“nuova scuola” muove la propria attenzione verso i temi dell’efficacia
della politica monetaria, della sua credibilità, endogenità dei criteri, fattori
politici e benefici che si concretizzano solo expost la creazione di un
sistema di cambi fissi. Il tema della discrezionalità, introdotto alla fine
degli anni ’70, descrive come un’autorità di politica monetaria che
promette di mantenere un certo livello di inflazione è tentata, una volta che
gli agenti privati incorporano l’annuncio della banca centrale adattando
stipendi e prezzi in relazione alle suddette aspettative, ad “imbrogliare” ed
espandere l’inflazione inaspettatamente per ridurre la disoccupazione ed
aumentare il reddito nel breve periodo. Questo gioco è plausibile una sola
volta poiché, nel periodo successivo gli operatori del mercato non
crederanno più agli annunci effettuati ed incorporeranno nelle aspettative
di inflazione il comportamento passato dell’autority. È facilmente
dimostrabile che l’equilibrio discrezionale così creatosi comporta delle
perdite superiori ad un equilibrio di “regola” dove la credibilità della banca
centrale è consistente.
Un altro punto importante degli studi moderni, riguarda la teoria endogena
delle AVO che si basa sui seguenti principi. In primis i confini sono una
restrizione ai commerci internazionali, rimuoverli significa incentivare gli
agenti a intraprendere scambi all’interno dell’unione monetaria poiché
vengono meno i rischi di cambio dovuti alle diverse valute (quindi il costo
di copertura) e diminuiscono i costi di diffusione delle notizie con una
conseguente informazione, trasparenza e concorrenza superiore (Skudenly
2003). In secondo luogo, diversi economisti, hanno osservato un legame
positivo tra aumento del reddito e integrazione commerciale: questa, in
particolare, porta alla creazione di cicli economici più correlati a causa di
shock della domanda comune e aumenta il commercio intra-industriale che
diminuisce la necessità di politiche monetarie da attuare per il singolo
paese; complessivamente il costo di abbandonare l’indipendenza
monetaria non è quindi così elevato. È chiaro come la teoria originale delle
AVO si concentrasse sulla quantità o intensità degli shock asimmetrici tra
regioni come criterio di scelta per potenziali partecipanti ad un’area
valutaria, la teoria moderna sottolinea invece come l’adesione ad un’area
valutaria riduca di per sé gli shock asimmetrici tra i diversi paesi. Alesina,
Barro e Tenreyro (2003) sviluppano il tema analizzando, per paesi con un
elevato livello di inflazione, il livello di scambi, co-movimento di prezzi e
reddito con 3 possibili “ancore” (Eurozona, USA, Giappone). I risultati
suggeriscono la concreta possibilità, per alcune delle nazioni prese in
esame, di trovare beneficio o creando un sistema di cambi fissi con una
delle valute in esame (Euro, Dollaro, Yen) o creando un’unione monetaria
con uno dei paesi ancora. Nel dare una risposta lo studio prende in
considerazione anche variabili geografiche; quello che non viene invece
valutato è la concreta volontà politica (di entrambe le parti) di muoversi in
questo senso. Un altro importantissimo filone di analisi moderno è quello
del rapporto tra costi e benefici che la partecipazione ad un’area valutaria
comporta. I primi sono principalmente di tipo macroeconomico, i secondi
di tipo microeconomico. Il costo principale di un’unione valutaria è
sicuramente la perdita di autonomia della politica monetaria, si perde
quindi la possibilità di gestire indipendentemente i tassi d’interesse e gli
aggregati monetari (quindi, per esempio, non è più possibile svalutare il
tasso di cambio a piacimento per stimolare un’economia in difficoltà). I
costi complessivi sono tanto più alti quanto più sono efficaci gli strumenti
di politica monetaria indipendente. Vi sono alcuni tipi di elementi che
possono rendere onerosa la partecipazione ad un’area valutaria. Bruno e
Sachs evidenziano come le differenze istituzionali e di centralizzazione dei
sindacati possano comportare alti costi per un’unione monetaria poiché
possono creare delle alterazioni nell’andamento di prezzi e salari. Un
sindacato centralizzato tende infatti a considerare, durante una
rivendicazione salariale, gli effetti inflazionistici di richieste di stipendi
nominali troppo elevati che potrebbero causare un mancato aumento (o
addirittura un calo) dei salari reali. Tutto ciò comporta delle richieste che
sono generalmente moderate e ponderate rispetto alle previsioni
inflazionistiche. Al contrario una serie di sindacati che non formano alcun
tipo di unione tra di loro agiranno come “free rider” e quindi con
comportamenti opportunistici per cercare di aumentare il salario nominale
della propria classe di lavoratori il più possibile: si genera più facilmente
una spinta inflazionistica che tende ad annullare o diminuire i benefici
derivanti dall’aumento dello stipendio nominale. Un altro punto di vista
sulla questione è stato sviluppato da Calmfors e Driffils. Un sistema
estremamente decentralizzato, con contrattazione a livello di singola
azienda o gruppo, permette di detenere un elevato grado di controllo sulle
richieste salariali facilmente adattabile ad eventuali shock dell’offerta.
L’impresa in questione riesce a mantenere, almeno in parte, la propria
competitività se le richieste non sono eccessive (poco probabile poiché a
pagarne le conseguenze in termini occupazionali nel medio/lungo periodo,
sarebbero gli stessi partecipanti del sindacato). I paesi con una forte
centralizzazione o decentralizzazione sindacale sono meglio attrezzati a
rispondere a shock dell’offerta poiché, in pratica, esiste una flessibilità di
stipendi (e quindi di prezzi) superiore; quelli con una centralizzazione
intermedia possono avere più difficoltà. In conclusione, paesi con diversi
tipi di sindacati osserveranno andamenti di salari e prezzi diversi; questo
rappresenta un costo quando esiste una moneta unica e quindi tassi di
cambio fissi poiché diventa difficile correggere le differenze, soprattutto
quando l’obiettivo dell’autorità monetaria centrale è quello di mantenere
l’inflazione contenuta in tutta l’unione monetaria. Nei paesi anglosassoni
le imprese ottengono liquidità principalmente attraverso i mercati dei
capitali (capitale di credito e di rischio), in quelli continentali, anche a
causa di caratteristiche comportamentali dei consumatori diverse, le
aziende si finanziano principalmente sfruttando i prestiti bancari. Se la
Banca Centrale dovesse aumentare il tasso di interesse, i consumatori che
detengono azioni e obbligazioni, molto diffuse nel primo tipo di regioni,
osserverebbero un calo di prezzi e di valore delle stesse; nelle aree
bancocentriche, questo effetto sarebbe inferiore e l’aumento del tasso
d’interesse influenzerà il consumo attraverso il sistema bancario (quindi
con modi e tempistiche diverse). In conclusione, un consumatore di un
sistema marked-based che mediamente investe in azioni in maniera più
marcata rispetto ad uno italiano, sosterrà un costo superiore a causa di una
politica monetaria comune. Supponiamo che il mondo sia composta da due
paesi, A che cresce più velocemente di B e che l’elasticità delle
importazioni di A da B e viceversa sia uguale ad uno. Le importazioni di A
cresceranno più velocemente (a causa del tasso di crescita superiore)
causando un disavanzo nella bilancia commerciale. Per tentare di
ripristinare l’equilibrio, A può rendere più competitive le proprie
esportazioni verso B attraverso un deprezzamento della moneta oppure
mantenendo un’inflazione dei prezzi interni più bassa rispetto a B. Se i due
Stati hanno un accordo di cambi fissi o condividono una stessa moneta,
l’unica alternativa valida è la seconda (chiaramente se si escludono
politiche di innovazione o simili). Il paese A deve sostenere quindi il costo
di politiche deflazionistiche che tendono a rallentare la crescita stessa della
nazione. Krugman critica quest’analisi facendo notare empiricamente che
la crescita economica comporta lo sviluppo e la diffusione di nuovi
prodotti. Gli stessi, riprendendo l’esempio precedente, permettono al paese
A di non avere problemi di bilancia commerciale poiché alimentano le
esportazioni controbilanciando l’aumento delle importazioni. Tassi di
crescita diversi non dovrebbero essere considerati come costi o ostacoli per
un’unione monetaria.

Da molti l’euro è considerato come l’origine della maggior parte dei


problemi economici che affliggono il nostro Paese da anni. L’argomento è
degno di essere affrontato anche in chiave scientifica, e non solo
ideologica: la creazione di una moneta unica utilizzata da più Nazioni è un
argomento ben noto alla scienza economica già dagli anni ’60, quando R.
Mundell diede un primo contributo a quella che oggi prende il nome
di Teoria delle aree valutarie ottimali. La domanda a cui si cerca di dare
una risposta è la seguente, se conviene adottare una moneta unica. Se sì,
quanto conviene. Per iniziare a comprendere questa teoria è necessario
spiegare brevemente che cos’è il tasso di cambio. Il tasso di cambio non è
altro che un rapporto che indica quanto vale una moneta in termini di
un’altra; per esempio, se 1 euro vale 1.29 dollari allora il cambio
euro/dollaro è esattamente 0.77 (ovvero 1/1.29), che equivale a dire “1
dollaro vale 0.77 centesimi di euro”. Il tasso di cambio ha quindi
un’importanza fondamentale, perché è determinante per le imprese che
esportano e importano, ovvero per il commercio internazionale (oltre che il
movimento di capitali fra Nazioni.Quando due o più Nazioni decidono di
adottare una moneta unica, andando ad eliminare completamente l’uso
delle loro vecchie valute, la prima cosa che viene meno è proprio il tasso
di cambio che vigeva fra le due diverse monete. Questo passaggio è
fondamentale, perché determina tutti i benefici e i costi di un’unione
monetaria.

Benefici:

● una moneta unica abbatte notevolmente, se non elimina del tutto, i


costi di transazione commerciali fra le nazioni che la adottano;
● i commerci internazionali sono favoriti dalla mancanza di incertezza
sul tasso di cambio, venuto meno con la creazione di una singola
valuta. Chi esporta ed importa non deve più fare i conti con un’altra
variabile fondamentale e difficile da prevedere nel futuro, che può far
variare il prezzo dei beni e dei servizi.

Costi:

● perdita degli strumenti di politica monetaria. In altre parole, quando


un gruppo di Paesi adotta un’unica valuta si crea una nuova Banca
Centrale, comune per tutti, che ha il compito di creare moneta e
immetterla nel mercato (oppure di “drenarla”, ovvero toglierla dal
mercato), cercando di rendere il sistema economico stabile in ogni
periodo, attuando cioè la cosiddetta “politica monetaria”. Il problema
si pone nel caso di shock asimmetrici: un determinato evento può
avere ripercussioni economiche diverse da un Paese all’altro, in base
alla loro struttura economica; in questo caso, una Banca Centrale
unica avrebbe molte difficoltà pratiche nell’intervento, poiché le sue
azioni potrebbero essere a favore di un Paese e a discapito di un
altro.

La teoria delle aree valutarie ottimali afferma che è opportuno, oltre che


non costoso, rinunciare all’indipendenza monetaria a favore di un’unica
valuta se i benefici superano i costi.Essendo molto difficile misurare i costi
e i benefici di una moneta unica in modo tale da poterli confrontare, la
teoria economica, basandosi su numerose ricerche empiriche, soprattutto
sul caso degli USA (che si possono considerare come l’area valutaria
ottimale per eccellenza), è arrivata a fornire sei criteri di convergenza,
verificati i quali un gruppo di Paesi può divenire area valutaria ottimale.
Ciò equivale a dire che i benefici di una singola moneta supererebbero di
gran lunga i costi nel caso in cui sussistano contemporaneamente queste
condizioni. I criteri sono i seguenti:

1. mobilità del lavoro, ovvero la possibilità dei lavoratori di trovare


lavoro facilmente spostandosi da un Paese all’altro del gruppo in cui
è in vigore la moneta unica;
2. diversificazione della produzione, che consiste nel fatto che i Paesi
facenti parte del gruppo devono essere partner commerciali
compatibili, ovvero devono trarre reciproco vantaggio negli scambi
di beni e servizi fra di loro;
3. libera circolazione: in un’area in cui vige una moneta unica è
indispensabile ci sia la libertà di circolazione di beni e persone,
sinonimo di integrazione e semplificazione del sistema economico;
4. sussidiarietà fiscale reciproca: i componenti di una potenziale area
valutaria ottimale devono essere disposti, in caso di shock
asimmetrici, ad attivare misure di compensazione, sotto la veste di
aiuto monetario, a favore di quei Paesi danneggiati dall’avverarsi di
un determinato evento. In altre parole, chi ha tratto vantaggio da una
situazione deve aiutare chi è stato svantaggiato dalla medesima
situazione;
5. preferenze omogenee: i Paesi membri di un’unione monetaria
devono condividere le principali linee di azione politica ed
economica;
6. solidarietà e nazionalismo: vivere insieme comporta sempre il
dover rinunciare a qualche pretesa o desiderio. I Paesi membri di una
comunità valutaria devono essere uniti insieme da un condiviso
progetto politico, e devono essere consapevoli di condividere un
destino comune.

Facendo un’analisi dei sei criteri di convergenza e riportandoli alla


situazione attuale dell’Unione europea, non è difficile affermare che, a
livello teorico, essa non è un’area valutaria ottimale. Eppure la moneta
unica esiste, e i benefici economici e sociali si sono verificati
ampiamente. I problemi, infatti, sono sorti proprio con l’avvento della crisi
del 2008 che non è stata altro che uno shock asimmetrico che ha fatto
venire a galla innumerevoli punti deboli e falle del sistema monetario
europeo, per come è strutturato oggi. Questo significa che l’UE non è di
natura un’area valutaria ottimale, ma può diventare tale poiché, in
momenti di espansione economica, l’euro ha molto favorito la crescita
economica dei membri dell’eurozona. In termini economici, quindi, la UE
può definirsi come un’area valutaria ottimale endogena. Solo il tempo, la
dedizione e la volontà politica saranno le chiavi per la buona riuscita di
questo progetto.

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