Scarica in formato DOCX, PDF, TXT o leggi online su Scribd
Scarica in formato docx, pdf o txt
Sei sulla pagina 1di 23
Anna Visone Matr.
M06003027 LA POLITICA ECONOMICA DELL’UNIONE MONETARIA EUROPEA: IDEOLOGIA, CRITICITÀ E FUTURO DELLA MONETA UNICA.
PROBLEMI E CRITICITA’ DELLA MONETA UNICA.
È L’UNIONE MONETARIA EUROPEA UN’AREA VALUTARIA OTTIMALE?
L'idea della creazione di un'area monetaria unica è da ricondurre a
Mundell (1961). La teoria delle Aree Valutarie Ottimali parte dell'ipotesi che una moneta unica porta ad un miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini dei paesi partecipanti se questi paesi hanno condizioni economiche simili. In caso di condizioni strutturali divergenti, l’Unione porta dei danni a tutti i paesi. La teoria delle aree monetarie ottimali, per valutare i benefici delle unioni monetarie, si concentra soprattutto sui costi macroeconomici indotti dalla creazione di un'unione monetaria. In particolar modo, cerca di equilibrare i costi e i benefici determinati dall'abbandono del tasso di cambio come strumento di politica economica. Se i costi sono minori dei benifici, allora è possibile creare un'area monetaria tra due o più paesi. I costi macroeconomici associati all'abbandono del tasso di cambio sono ridotti se gli shock esogeni abituali investono in modo simmetrico tutte le economie dei paesi coinvolti nel processo di integrazione monetaria (shock simmetrici). In tal caso la necessità di una politica monetaria indipendente è ridotto. Ad ogni modo, i costi potrebbero essere ridotti anche in caso di shock asimmetrici se esistono particolari condizioni e cioè in presenza di manodopera mobile, salari e prezzi flessibili, grado di integrazione commerciali tra i paesi, integrazione politica, integrazione fiscale. Un'area valutaria ottimale è costituita da un gruppo di regioni con economie fortemente integrate e con piena mobilità dei fattori. Molti economisti, si chiedono se l’EMU sia un'area valutaria ottimale. Le difficoltà che attualmente attraversano molte economie europee, a seguito della crisi del 2008, sono in parte riconducibili proprio all'adozione di una moneta unica all'interno di un'area monetaria non ottimale. Molti economisti ritengono che l'EMU non sia un'area valutaria ottimale per i seguenti motivi: i tassi di cambio fissi non permettono ai paesi in crisi di utilizzare la svalutazione monetaria per rilanciare l'economia, la perdita della possibilità di usare la politica monetaria è un altro strumento di politica economica che è stato abbandonato, i patti di stabilità impediscono alla politica fiscale di essere usata in misura anticiclica,la politica monetaria centralizzata porta a danni in caso di shock asimmetrici,la combinazione di tutte queste misure ha comportato una crescita della disoccupazione durante la crisi economica. Di conseguenza, eventi economici asimmetrici in paese diversi dell'area Euro, che potrebbero richiedere tassi di interesse saranno difficili da gestire attraverso la politica monetaria comune. PL'introduzione dell'Euro ha rappresentato il tentativo più ambizioso, mai effettuato, di trarre vantaggio dall'utilizzo di una moneta comune. La recente crisi economica ha messo però in evidenza i rischi e le difficoltà che un simile esperimento comporta. Se tali difficoltà non verranno superate, il fallimento del progetto della moneta unica potrebbe far naufragare anche il sogno dell'integrazione politica. Tra i problemi più rilevanti bisogna considerarne almeno tre: 1) l’Europa non costituisce un'area valutaria ottimane, quindi, shock macroeconomici asimmetrici (che colpiscono solo uno o pochi paesi dell'area-Euro) risultano difficilmente gestibili attraverso una politica monetaria centralizzata. Tali crisi, per potere essere adeguatamente fronteggiate, necessiterebbero di tassi di interessi interni differenziati. Inoltre, mentre la politica monetaria è gestita centralmente dalla Banca Centrale Europea, le politiche fiscali sono ancora regolare in modo decentrato, dai singoli paesi. A fronte di una politica monetaria su scala europea, continuano dunque a sussistere molteplici politiche fiscali, una per ogni Stati membro. Ciò crea evidenti discrasie e oggettive difficoltà di coordinamento. 2) La regolamentazione dei mercati del lavoro, su scala europea, resta fortemente differenziata. La mobilità interna dei lavoratori, inoltre, è frenata da molteplici ostacoli (barriere linguistiche, legislative, ecc.) che impediscono la formazione di un mercato del lavoro effettivamente integrato a livello continentale. L’assenza di una reale integrazione impedisce di assorbire shock economici asimmetrici, cristallizzando differenziali notevoli nei tassi di disoccupazione tra regioni e nazioni interne all'Unione.3) I vincoli imposti dal Patto di Stabilità alla politica fiscale dei singoli paesi ostacolano il ricorso alle tradizionali politiche di stabilizzazione macroeconomica in caso di crisi. I vincoli di bilancio risultano così stringenti da impedire agli Stati di utilizzare la leva della spesa pubblica per ridare slancio all'economia anche in caso di deflazione persistente e di inefficacia della politica monetaria. Non potendo ricorrere alle politiche fiscali, gli Stati colpiti da shock asimmetrici non hanno la possibilità di fronteggiare adeguatamente tali situazioni congiunturali avverse. La teoria delle Aree Valutarie Ottimale evidenzia che per creare una unione monetaria tra più paesi è necessario rispettare certi criteri. L’EMU non rispetta tali criteri e quindi non permette una convergenza tra i paesi membri. La crisi del 2008 ha evidenziato l'inconsistenza di questa Unione e l'impossibilità di creare un miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. Il dibattito sulle aree monetarie ottimali trova le sue origini nella controversa discussione sui “regimi di cambio ottimali”. Nel 1953 Friedman sosteneva che un paese che presentasse una rigidità sia dei salari che dei prezzi dovesse adottare tassi di cambio flessibili per essere in grado di realizzare contemporaneamente gli obiettivi di equilibrio interno( piena occupazione,stabilità dei prezzi) e di equilibrio esterno( pareggio della bilancia dei pagamenti).La questione delle “Aree Valutarie Ottimali” si ripresenta ogni qualvolta si pensa all’integrazione economica dei paesi come una delle possibili soluzioni ai problemi di equilibrio della bilancia dei pagamenti ed ogni volta essa si arricchisce di nuovi contenuti. La letteratura sulle Aree Valutarie Ottimali viene nuovamente rivalutata a partire dalla metà degli anni ‘ 70.Sul piano macroeconomico internazionale la fase di crescente instabilità aperta dal tramonto del sistema di Bretton Woods ed il dibattito politico sul progetto del rapporto Werner di un’Unione Monetaria Europea riaccendono l’interesse sulla appropriata definizione dei confini di un’area valutaria.Tre sono gli approcci delineati sul tema delle “Optimum Currency Areas”: Approccio Tradizionale, Approccio Costi-Benefici, “Nuova teoria” delle Aree Monetarie Ottimali. Robert Mundell nel 1961 è stato il primo a definire le caratteristiche fondamentali dell’area valutaria ottimale. L’Approccio Tradizionale delle OCAs, fondato sul lavoro pioneristico di Mundell, oltre a definire queste caratteristiche tenta di individuare le condizioni nelle quali i paesi trovano conveniente partecipare ad un’area valutaria ottimale. Questo approccio mira ad individuare le condizioni in cui gli strumenti di politica monetaria si rivelano inefficaci e, dunque, la rinuncia ad una politica monetaria indipendente non comporta una perdita eccessivamente onerosa. I limiti di questo approccio possono essere rappresentati dal mancato approfondimento dei possibili benefici di cui i paesi avrebbero potuto godere in virtù dell’appartenenza ad un’area valutaria. Un ulteriore limite è dato dalla mancaza di un vero e proprio modello che permettesse di valutare adeguatamente i costi di aggiustamento. Con il lavoro di Ishiyama (1975) prende corpo un filone di ricerca alternativo che contrappone all’astrattezza dei criteri elaborati della letteratura precedente una puntuale analisi dei costi e benefici di una unione valutaria. Nonostante la maggiore complessità formale, il nuovo approccio ha comunque il merito di offrire una visione “multidimensionale” unitaria ed esaustiva de vari aspetti connessi alla delimitazione di un’area valutaria ottimale, nel tentativo di superare la parzialità dell’analisi di singoli criteri. Sia l’approccio “Tradizionale” che quello “Costi-Benefici” delle aree valutarie ottimali non consentirono di individuare dei criteri obiettivi in grado di dare risposte univoche ai quesiti riguardanti la desiderabilità e la possibilità di sopravvivenza delle OCAs.Verso la fine degli anni ’80 nuovi stimoli di dibattito sono forniti dai fautori della “Nuova Teoria” delle OCAs. Due sono i temi di discussione principali di questa “nuova” linea della teoria delle OCAs: l’effetto degli shocks e la reputazione/credibilità.Entrambi possono considerarsi come la naturale conseguenza di un più esatto approfondimento rispettivamente dell’approccio tradizionale e di quello costi-benefici.Il primosegue dalla considerazione che paesi con caratteristiche simili(mobilità dei fattori,strutture produttive) dovrebbero reagire allo stesso modo ai disturbi esterni.L’uso del tasso di cambio come strumento di aggiustamento, dunque, potrebbe perdere gran parte della sua importanza. Il criterio della credibilità, invece, discende da un’analisi più estesa dei benefici di cui può godere il paese che aderisce ad un’area monetaria ottimale; l’idea guida è che paesi che godono a livello internazionale di poca credibilità possano beneficiare della buona reputazione dei paesi ai quali si agganciano. La teoria delle aree valutarie ottimali nasce nel 1961 grazie a Robert Mundell ed il suo scritto “A Theory of Optimum Currency Areas”, ottenendo subito un grande riscontro in campo accademico. Molti altri autori, tra cui spiccano McKinnon e Kenen che sono considerati insieme al premio Nobel canadese la “triade delle AVO”, hanno cercato di apportare nei decenni successivi i loro contributi a questo argomento. La domanda a cui gli studiosi cercano di rispondere sembra essere relativamente semplice: quando conviene ad una serie di regioni o Stati adottare un sistema di cambi fissi (o una moneta comune) e quando, invece, conviene far fluttuare tra loro le diverse valute? Nei primi decenni di studio, i vari economisti hanno cercato di evidenziare una serie di caratteristiche (le quali in alcuni casi entrano in conflitto tra di loro o possono addirittura creare dei paradossi) ideali che due o più regioni dovrebbero possedere per ambire alla creazione di un’area valutaria. La fine di Bretton Woods negli anni ’70 e la mancanza, all’epoca, di unioni monetarie ridusse in maniera drastica l’interesse accademico ed anche politico verso il tema. Solo negli anni ’90 con la concretizzazione del progetto europeo di creare una moneta unica, il dibattito si è riacceso creando nuove linee di analisi fondamentalmente diverse da quelle precedenti. Oggi infatti, piuttosto che cercare di stabilire quali siano le caratteristiche migliori che i paesi dovrebbero possedere per creare un’efficace unione monetaria, ci si concentra sugli effetti positivi e negativi che la realizzazione della stessa implicherebbe (analisi di costi e benefici. Milton Friedman, uno dei maggiori esponenti della scuola di Chicago, è stato fondatore del pensiero monetarista e premio Nobel per l’economia nel 1976. Negli anni ’50, in un capitolo del suo libro 13 “Essays in Positive Economics”, descrive la sua visione riguardo i sistemi di cambi flessibili. Pur non parlando ancora di aree valutarie ottimali, è considerato per la qualità dei suoi studi come un precursore alla teoria AVO; lo stesso Mundell successivamente riprenderà alcune delle sue analisi per descrivere importanti caratteristiche che dei paesi dovrebbero possedere per partecipare ad un’unione monetaria. L’autore inizia sostenendo che un sistema di cambi flessibili sia il miglior mezzo per ottenere un sistema di scambi multilaterali senza restrizioni evidenziando, però, due possibili “misunderstanding” da evitare. In primis per cambi flessibili Friedman non intende cambi instabili (dovuti ad un’economia di base non solida), ma cambi liberi di variare; definisce, inoltre, scambi multilaterali non ristretti un sistema in cui non ci sono controlli quantitativi diretti su import e export, dove tariffe e dazi sono ragionevoli e non discriminatori (non imposti per, ad esempio, manipolare la bilancia dei pagamenti). Le argomentazioni a favore dei cambi flessibili sono basate su 3 elementi: 1) Prezzi e salari non sono in grado di aggiustarsi nel breve periodo ma, attraverso un regime di cambi flessibili, l’aggiustamento dei tassi di cambio permette di raggiungere in contemporanea sia obiettivi interni (piena occupazione, stabilità prezzi) che esterni (pareggio bilancia pagamenti). In un’economia dove i prezzi sono fissati, uno shock esogeno che colpisca, ad esempio, la produttività condurrà ad un’allocazione inefficiente delle risorse quando i tassi di cambio con altre nazioni sono fissi. Supponendo che lo shock sia positivo, la quantità di beni venduta dagli agenti del mercato sarà inferiore a quella ottimale poiché i prezzi non potranno essere abbassati nonostante l’aumento di produttività. Con un sistema di cambi flessibili, supponendo sia valida la legge del prezzo unico, il mercato si sarebbe adattato a questo nuovo shock con una variazione dei prezzi relativi dei produttori nazionali rispetto a quelli esteri, permettendo il raggiungimento di una massima allocazione. 2) L’indipendenza della banca centrale garantita dai tassi di cambio flessibili protegge il paese da eventuali errori di politica monetaria che potrebbero essere commessi a livello centrale quando si fa parte di un’unione monetaria o quando si adotta un sistema di cambi fissi. Friedman conclude il secondo punto evidenziando l’importanza, in caso di partecipazione ad un’area valutaria, di avere un’autorità fiscale unica (tema che svilupperà poi Kenen nel 1969) e poche restrizioni ai movimenti di beni, capitali e persone: queste condizioni infatti permettono, in linea teorica, di combinare i vantaggi di elasticità (classici dei cambi flessibili) con quelli della stabilità (classici dei cambi fissi). 3) Un sistema di cambi flessibili stimola il commercio internazionale poiché favorisce l’eliminazione dei controlli e ostacoli imposti nei confronti dei beni e capitali tra le nazioni. Robert Mundell, economista e professore alla Columbia University e all’Università Cinese di Hong Kong, è stato il vincitore del premio Nobel per l’economia nel 1999 «per la sua analisi della politica fiscale e monetaria in presenza di diversi regimi di cambio e per la sua analisi delle aree valutarie ottimali». Nel suo lavoro del 1961 “A Theory of Optimum Currency Areas” iniziò a chiedersi quali caratteristiche potessero essere desiderabili da diverse regioni affinché non fosse costoso rinunciare a cambi flessibili e all’indipendenza monetaria per istituire una moneta comune o un sistema di tassi di cambi fissi. Nonostante lo stesso autore cominci con il presupporre che la domanda a cui cerca di dare risposta sia puramente accademica, gli avvenimenti storico-economici degli ultimi decenni, dalla caduta di Bretton Woods alla formazione di svariate unioni monetarie, tra cui ovviamente la controversa Eurozona, hanno dimostrato la contemporaneità dell’idea. Il premio Nobel propone 3 esempi per esporre le criticità che possono sorgere tra due regioni o stati con tassi di cambio fissi o flessibili. Nel primo si supponga l’esistenza di due paesi, A e B con diverse monete, inizialmente in equilibrio (con pieno impiego e con bilance di pagamento equilibrate) ma successivamente soggetti ad un trasferimento di domanda dei beni prodotti in B ai beni di A. L’effetto del cambio di preferenza dei consumatori genererà una spinta inflazionistica in A e disoccupazione in B; se i prezzi potessero aumentare in A allora i beni prodotti nel paese risulterebbero meno appetibili all’estero tornando, nella migliore delle ipotesi, all’equilibrio iniziale. Nel caso A attuasse una politica monetaria restrittiva e impedisse ai prezzi di lievitare, allora B dovrà affrontare interamente la disoccupazione creatasi e sarà necessaria una riduzione dei salari reali per restituire competitività alle imprese operanti nel paese. Ciò significa che una politica deflazionistica in A di difesa del surplus generatosi, si riflette su altri paesi facenti parte di una stessa area valutaria (o con regimi di cambio fissi) in maniera negativa causando una recessione. Mundell, con questo primo modello, cerca di evidenziare come la mancanza di mobilità dei fattori (soprattutto del lavoro) e di flessibilità dei prezzi possano danneggiare economie con cambi fissi che si trovano, per una qualsiasi causa legata o alla domanda o allo sviluppo tecnologico, improvvisamente in deficit. Nel caso i prezzi fossero però flessibili, il paese in surplus subirebbe una spinta inflazionistica che peggiorerebbe il suo settore dell’export favorendo il ripristino dell’equilibrio degli scambi; nel caso fosse presente mobilità dei fattori, e nello specifico del lavoro, la popolazione migrerebbe dal paese in deficit verso quello in surplus con il duplice effetto di ridurre la disoccupazione nella prima regione e fermare l’inflazione nella seconda poiché il livello medio dei salari si abbasserebbe (grazie ad un’offerta di lavoro più elevata). L’assenza di questi criteri giustificherebbe l’utilizzo di cambi flessibili fra le due monete. Supponiamo invece che A e B facciano parte di una stessa nazione con un’unica moneta, e che il governo segua l’obiettivo di pieno impiego. Il cambio di preferenze dei consumatori, uguale al caso precedente, causa disoccupazione in B e inflazione in A. Per ripristinare l’impiego sarà necessario aumentare l’offerta di moneta e stimolare l’economia, ma essendo A e B soggette ad un’unica autorità monetaria l’espansione monetaria aggraverà l’inflazione in A. Perseguire obiettivi occupazionali aggrava la spinta inflazionaria nell’economia multiregionale. In un’area valutaria che comprende diverse nazioni con monete diverse si può ristabilire l’occupazione nei paesi in deficit se quelli in surplus sono disposti ad accettare l’inflazione. In un’area valutaria che comprende più regioni con un’unica moneta si può tenere a bada l’inflazione solo accettando disoccupazione nelle aree in deficit, e viceversa. Nell’ultimo modello, l’autore, ipotizza invece che il mondo consista di soli due paesi (Canada e USA con valute che fluttuano tra loro) e che esistano due regioni, Est e Ovest, non corrispondenti ai confini nazionali specializzate nella produzione di, rispettivamente, automobili e materie di base come la plastica o il legname. Nel caso si verificasse un aumento di produttività nel settore automobilistico, questo causerebbe un aumento (e quindi eccesso) di domanda per i beni usati per costruire macchine, come la plastica, e un eccesso di offerta di automobili. Come nel primo modello, la regione ad Est subirà un aumento della disoccupazione mentre quella ad Ovest una pressione inflazionistica. Poiché i due paesi hanno monete diverse, e quindi anche banche centrali separate, potrà essere risolto solo uno dei due problemi: se entrambe le autorità monetarie espandessero la base monetaria si potrebbe migliorare l’occupazione a discapito dell’inflazione, di contro per abbassare l’inflazione bisognerebbe attuare una politica restrittiva a discapito dell’impiego. Si potrebbe anche dividere il fardello dell’aggiustamento tra le due aree ed accettare un po' di disoccupazione e inflazione nell’Est e nell’Ovest. Il sistema di cambio flessibile non serve a correggere la situazione della bilancia dei pagamenti tra le due regioni anche se lo farà tra USA e Canada; non è quindi necessariamente preferibile a una valuta comune o monete nazionali collegate da tassi di cambio fissi. Mundell con quest’argomentazione non ha voluto criticare a priori un sistema a cambi flessibili, piuttosto evidenziare che in molti casi sarebbe più logico, da un punto di vista economico, adottare delle monete su base regionale piuttosto che nazionale. Successivamente si dovrebbe stabilire la convenienza di un tasso fisso o meno (a seconda dei criteri stabiliti precedentemente). L’area valutaria ottimale, conclude, è la regione che può non coincidere con i confini politici di uno Stato. Un altro criterio per definire un’AVO che è possibile sintetizzare dal terzo modello, è il livello di similarità delle industrie operanti sul territorio: con la presenza di dollari statunitensi e canadesi, lo shock di produttività , nel settore automobilistico, causa inflazione e disoccupazione nelle due regioni, se ai primi si sostituissero dollari dell’Est e dell’Ovest le banche centrali potrebbero comportarsi come nel primo esempio e gestire sia l’aumento dei prezzi che la diminuzione dei posti di lavoro (invece che solo una delle due problematiche) L’autore continua con un’analisi per supportare l’esistenza di aree valutaria di ampia estensione. In primis, osserva che l’efficienza della moneta come strumento di pagamento e unità di conto diminuisce all’aumentare del numero delle valute esistenti a causa dei costi di conversione, transazione e informazione. Questo può facilitare l’arbitraggio e rendere inefficaci le politiche monetarie poiché non si trasferirebbero ai livelli più bassi dell’economia. Ipoteticamente, infatti, in un mondo con tante valute quanti sono i beni prodotti, l’utilità della moneta scomparirebbe. Inoltre un sistema di cambi flessibili trae beneficio dal fatto che i consumatori accettano molto più facilmente un cambiamento nel loro salario reale attraverso la variazione del tasso di cambio piuttosto che a causa di una diminuzione del salario nominale o aumento dei prezzi. Il fenomeno è chiamato illusione della moneta: se però le aree valutarie diventassero più piccole, aumenterebbe la quantità di beni da importare e l’assunzione della “money illusion” perderebbe di valore. Dato che il livello necessario di illusione monetaria aumenterebbe al rimpicciolirsi delle aree valutarie, è realistico concludere che debba esistere un limite superiore al numero di aree valutarie esistenti. Mundell conclude il suo paper dividendo la questione dei tassi flessibili in due domande. 1) Può un sistema di tassi flessibili essere efficiente e effettivo nell’economia moderna? 2) Come dovrebbe essere diviso il mondo in aree valutarie? Per rispondere al primo quesito Mundell elenca delle condizioni necessarie, che ▪ Un sistema di prezzi internazionali stabile. ▪ Le variazioni del tasso di cambio necessarie per eliminare i normali disturbi all'equilibrio dinamico non devono essere così grandi da causare violenti e reversibili spostamenti tra le industrie che si occupano di export tra quelle che importano (questo è non escluso dalla stabilità). ▪ I rischi creati dai tassi di cambio variabili possono essere coperti a costi ragionevoli nei mercati a termine. ▪ Le banche centrali devono astenersi dalla speculazione monopolistica. ▪ La disciplina monetaria sarà mantenuta dalle sfavorevoli conseguenze politiche del continuo deprezzamento. ▪ Deve essere assicurata una protezione ragionevole dei debitori e dei creditori per mantenere un flusso crescente di movimenti di capitali a lungo termine. ▪ Le retribuzioni e gli utili non devono essere legati a un indice dei prezzi in cui le merci importate sono fortemente ponderate. Per rispondere alla seconda incognita, Mundell afferma che un sistema di cambi flessibili lavorerebbe al meglio se il mondo fosse diviso in aree valutarie basate su regioni e non su nazioni. Nel miglior scenario possibile, ogni regione dovrebbe possedere un alto valore di mobilità dei fattori interno e uno basso a livello esterno. Ogni regione coinciderebbe con un’AVO con moneta propria che oscillerebbe verso tutte le altre. Essendo però le regioni solo unità economiche e i confini politici realtà esistenti espressione della sovranità nazionale, l’economista realizza che riorganizzare gli Stati non sia fattibile e dunque afferma che la validità dell’argomento dei tassi di cambio flessibili è legata al grado di similarità delle nazioni rispetto alle regioni descritte precedentemente. Chiaramente se lavoro e capitale non fossero sufficientemente mobili dentro il paese, un sistema a cambi flessibili non riuscirebbe a mantenere la stabilità desiderata e ci si potrebbe aspettare tassi di disoccupazione e inflazione variabili nelle diverse regioni facenti parte del paese stesso; in maniera analoga se i fattori citati sopra fossero mobili anche al di fuori dei confini nazionali, un regime a cambi flessibili risulterebbe non necessario o addirittura dannoso.Ronald McKinnon è, cronologicamente, il secondo studioso della “triade” degli economisti che hanno lanciato le prime teorie riguardanti le aree valutarie ottimali. Citando brevemente i concetti che Mundell qualche anno prima aveva espresso nel suo scritto “A Theory of Optimum Currency Areas”, cerca di ampliare la discussione introducendo e discutendo l’influenza dell’apertura di un’economia, definita come il rapporto tra beni commerciabili e non commerciabili, nella determinazione di un’AVO enfatizzando l’importanza della stabilità interna del livello dei prezzi. Il rapporto prima citato è un espediente per rendere il modello di analisi il più semplice possibile poiché non è realistico dividere la totalità dei prodotti in queste due strette categorie. I beni commerciabili si dividono ulteriormente in due macro-categorie: beni esportabili che sono prodotti internamente e in parte esportati; la differenza tra queste due varianti è dipendente esclusivamente dal consumo interno, verosimilmente basso se la produzione di esportabili è altamente specializzata. beni importabili che sono sia prodotti internamente sia importati; in maniera analoga la differenza tra le due classi è direttamente collegata al grado di specializzazione delle importazioni. La somma degli esportabili prodotti, quindi, non deve essere necessariamente uguale alla somma degli importabili consumati anche se nella bilancia degli scambi è verificata l’uguaglianza tra beni esportati e importati. Per adattare questa analisi alla realtà potrebbe essere possibile creare una media ponderata per calcolare il valore totale di tutte le categorie di produzione esistenti tra le due sopra menzionate. L’autore definisce con “ottimale” un’area valutaria all’interno della quale le politiche monetarie e fiscali sono utilizzate per ottenere la combinazione migliore di 3 obiettivi, spesso in contrasto tra loro: - Pieno impiego. - Mantenimento dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti. - Contenimento dell’inflazione per assicurare un livello di prezzi interno stabile. McKinnon, come precedentemente aveva fatto Mundell, divide il mondo in due regioni da considerarsi aree valutarie che devono decidere se adottare tra loro un sistema di cambi flessibili o fisso descrivendo due modelli. La seconda regione è il mondo, si assume quindi essere molto più estesa della prima; questo comporta che il prezzo dei beni commerciabili espresso nella moneta estera non è influenzato da variazioni del tasso di cambio domestico o movimenti dei prezzi interni. Essendo i prezzi in moneta estera fissi, gli scambi saranno necessariamente immuni alle politiche economiche della piccola regione. Nel primo caso, l’economista ipotizza che i beni esportabili e importabili (che sommati formano i beni commerciabili) rappresentino una grande parte dei beni consumati internamente, inoltre viene utilizzato un sistema di cambi flessibili per mantenere l’equilibrio verso l’esterno. Il prezzo delle merci non commerciabili è tenuto costante relativamente alla moneta domestica. La grande apertura economica comporta una notevole correlazione tra variazioni del tasso di cambio e oscillazioni dei prezzi domestici. Infatti, in caso di deprezzamento della propria valuta a causa ad esempio di uno shock esterno, i prezzi dei beni commerciabili aumenterebbero in maniera proporzionale costringendo le autorità che cercano di perseguire l’obiettivo di bassa inflazione/stabilità dei prezzi interni ad attuare politiche monetarie e fiscali restrittive per raffreddare la domanda di beni non commerciabili riducendone il prezzo. Chiaramente minore è la percentuale di beni non commerciabili rispetto ai beni “tradable” (e quindi più elevato il grado di apertura degli scambi), maggiore dovrà essere l’intervento centrale. Un sistema di cambi flessibili non è quindi efficace quando il peso dei settori import-export è elevato. Nel secondo caso l’ipotesi è ribaltata e la produzione di beni non commerciabili è largamente superiore a quella dei beni importabili ed esportabili; l’economia in questione è quindi definibile come relativamente chiusa. Supponendo sempre una svalutazione del tasso di cambio, e quindi un aumento dei prezzi dei beni commerciabili, la variazione dell’indice dei prezzi generali interno sarà molto modesta essendo esportabili e importabili presenti in quantità inferiore nel sistema economico. Un tasso di cambio flessibile potrebbe, in questo esempio, trovare un’applicazione migliore. Il criterio di definizione di un’AVO per McKinnon può essere riassunto prendendo in considerazione il grado di apertura di un’economia e la sua grandezza: piccole economie aperte hanno più convenienza ad utilizzare un sistema di cambi fissi o un’unica valuta con altre nazioni o regioni con le quali i volumi di interscambio sono elevati. L’area valutaria che si creerebbe risulterebbe chiusa verso l’esterno e quindi assicurata dai rischi dovuti a deprezzamenti o apprezzamenti della valuta. Al contrario i paesi caratterizzati da un’economia chiusa riescono a sfruttare i benefici di un sistema di cambi flessibili. L’autore conclude il suo scritto ricalcando anche l’importanza della mobilità dei fattori. Secondo McKinnon questi ultimi si dividono in due aree: fattori di mobilità geografica tra regioni, che Mundell due anni prima aveva descritto, e fattori di mobilità tra industrie. L’economista considera il caso, a suo dire comune, di immobilità fattoriale tra regioni con industrie specializzate, che coincide con il caso in cui è difficile analizzare separatamente l’immobilità regionale e interindustriale e suppone l’esistenza di due regioni A e B: la prima osserva un aumento della domanda per i suoi prodotti mentre la seconda un calo. Se esistesse la possibilità per la regione B di produrre i beni della regione A, non ci sarebbe necessità di un elevato grado di mobilità dei fattori tra le regioni; se al contrario questa soluzione non fosse realizzabile allora la mobilità dei fattori, e le politiche volte ad aumentarla, potrebbero essere l’unico mezzo in grado di evitare il crollo degli stipendi e dell’occupazione in B. In questo senso anche McKinnon sostiene la tesi di Mundell di creare aree valutarie con regioni con le quali si condividono i suddetti fattori di mobilità, evidenziandone l’importanza per piccole economie che cercano di sviluppare industrie con economie di scala o elementi di indivisibilità. Peter Kenen, professore di Economia e Finanza Internazionale dell’università di Priceton, è considerato con il suo scritto del 1969 “The Theory Of Optimum Currency Areas: An Eclcetic View” come uno dei principali contribuenti e studiosi della teoria delle aree valutarie ottimali. Nel suo lavoro riprende le argomentazioni precedentemente presentate da Robert Mundell e Ronald McKinnon evidenziando però come l’approccio del primo autore non fosse pienamente convincente e adeguato a definire un’AVO, proponendo ulteriori criteri di identificazione. 1) Livello di diversificazione di un’economia. 2) Integrazione fiscale. Un’economia diversificata, con vari beni esportati, può essere, come ogni altra economia, soggetta a disturbi della domanda estera o tecnologici: se queste variazioni sono isolate, e non caratterizzano l’intero settore export, la bilancia commerciale non peggiorerà in maniera particolarmente rilevante dato che saranno colpiti un numero ristretto di filiere produttive. La diversificazione funge quindi da isolante contro lo shock negativo diminuendo il rischio di trovarsi in difficoltà. Il livello di diversificazione (che si riflette nella diversificazione dell’export) può essere usato come mezzo per stimare quanto sostenibili per determinati livelli di impiego e per la bilancia commerciale possano essere dei cambi fissi. Kenen continua evidenziando che la mobilità dei fattori interindustriale è fondamentale per assicurare la reintegrazione dei lavoratori che operano (e presumibilmente sono stati licenziati) nei settori colpiti dai disturbi e ipotizza due situazioni diverse: - Se gli shock sono realmente indipendenti tra di loro poiché i prodotti sono diversi, allora è probabile che il livello di mobilità dei fattori sia basso ma i guadagni derivanti dalle vendite rimangano pressoché stabili poiché la maggioranza del settore export non è colpito negativamente. - Quando i prodotti sono buoni sostituti tra di loro, è realistico considerare non perfettamente indipendenti gli shock, questo comporterà una situazione opposta alla prima dove il livello di mobilità dei fattori sarà più alto mentre i ricavi potenzialmente più bassi a causa di un livello di “effettiva diversificazione” inferiore. Il secondo criterio ipotizzato dall’autore per valutare la fattibilità e l’efficacia di un’AVO, è il livello di integrazione fiscale esistente tra i vari paesi. Risultati migliori si otterranno tra Stati che hanno fra di loro un elevato livello di coordinamento che permetterebbe di attenuare gli effetti di uno shock negativo, su un paese o regione, attraverso un trasferimento di risorse fiscali. Le aree impoverite e con una disoccupazione in aumento potrebbero quindi usare queste ulteriori finanze per contrastare le conseguenze della perturbazione negativa. Inoltre, Kenen aggiunge, il dominio dell’autorità fiscale dovrebbe coincidere con l’area valutaria o comunque non essere più ampio. Se la seconda ipotesi non si verificasse si creerebbero dei problemi ricollegati alla raccolta di tasse in paesi che possono indipendentemente decidere la propria politica monetaria, la propria offerta di moneta e tassi di cambio. Supponiamo che la regione A stampi moneta più velocemente della regione B (entrambe assoggettate ad un’unica autorità fiscale), la prima sarà sia soggetta ad un’inflazione più alta sia ad una crescita di salari più veloce. A meno che la sua moneta non si deprezzi allo stesso ritmo con cui aumentano gli stipendi, allora la regione A sosterrà un fardello tributario più elevato. Il cuore della teoria AVO deriva principalmente dal lavoro di Mundell, McKinnon e Kenen che hanno dato vita ad un framework successivamente ampliato e anche criticato. Sinteticamente le caratteristiche evidenziate per la costituzione di un’area valutaria tra due o più economie sono: - Livello di mobilità del lavoro e flessibilità di prezzi e stipendi (Mundell) - Incidenza di shock asimmetrici e livello di similarità delle strutture produttive (Mundell) - Livello di apertura economica (McKinnon) - Ampiezza di un’economia (McKinnon) - Livello di diversificazione dei prodotti (Kenen) - Livello di integrazione fiscale (Kenen) Alcuni problemi possono però sorgere quando due o più criteri entrano in contrasto tra di loro, a questo proposito Dallas e Tavlas (2009) analizzano alcuni possibili conflitti. 1) Un’economia aperta e piccola dovrebbe preferire un tasso di cambio fisso anche se è probabile che, per caratteristiche strutturali legati all’ampiezza, abbia un livello di mobilità del lavoro basso con le regioni adiacenti. 2) Un’economia piccola è probabilmente aperta ma anche poco diversificata e specializzata in poche produzioni, evidenziando una chiara discordia tra le teorie principali. 3) Consideriamo due paesi, il primo di grandi dimensioni e rilevanza economica (A) mentre il secondo più modesto in entrambi i parametri (B). Uno sviluppo economico nel paese B avrà poche ripercussioni su aggregati economici, come il PIL, di A; viceversa uno sviluppo in A creerà delle esternalità positive molto più rilevanti. Se le due regioni fossero assoggettate ad un’unica autorità nazionale, quest’ultima sarà molto più interessata a sviluppi economici nella prima area. Seguendo questo ragionamento le economie più influenti e grandi dovrebbero essere le migliori candidate per un sistema di cambi fissi, contrariamente a quanto affermato da McKinnon. 4) Paradosso della diversificazione: due economie non/poco diversificate dovrebbero far fluttuare tra di loro le valute, nel caso però creassero un sistema di cambi fissi, l’area valutaria nascente avrebbe un livello di diversificazione superiore a quello delle singole regioni. La diversificazione può fungere allo stesso tempo da incentivo e disincentivo alla realizzazione di una moneta unica. 5) La tesi della diversificazione può anche essere rigirata, economie che posseggono questa caratteristica possono meglio gestire dei cambi flessibili rispetto a economie poco diversificate. 6) Economie che si aprono agli scambi tendono a specializzarsi, grazie allo sfruttamento di economie di scale, in alcune produzioni e diventare meno diversificate. Le teorie create da Mundell, McKinnon e Kenen, erano figlie di un periodo in cui, grazie agli accordi di Bretton Woords, esistevano sistemi di cambi fissi aggiustabili e la mobilità dei capitali a livello internazionale era limitata. Nei decenni successivi, a causa di cambiamenti macroeconomici e politici, sono stati aggiunti ulteriori framework di analisi che complicano ulteriormente la scelta del sistema di cambi da adottare. In uno degli esempi di Mundell in cui il mondo è diviso in due regioni, Est e Ovest, la prima specializzata nella produzione di automobili e la seconda nella produzione di legname, uno shock positivo nell’Est aumenterà la domanda di beni prodotti dell’Ovest causando nelle due aree, rispettivamente, un eccesso di offerta di lavoro e una spinta inflazionistica. Un problema che nasce è il perché uno shock positivo della produttività nell’Est porti ad una variazione della domanda da prodotti domestici a merci dell’Ovest. Il suddetto shock dovrebbe avere i seguenti effetti sull’economia che lo subisce: 1) Aumento della produttività marginale del lavoro (aumento positivo della domanda di lavoro). 2) Movimento verso l’alto della funzione di produzione aggregata. 3) Dati i due punti precedenti si osserverà anche un movimento verso destra dell’offerta aggregata. Se lo shock fosse permanente, allora il prodotto marginale del capitale aumenterebbe nell’Est causando anche un aumento della domanda aggregata. L’effetto netto sul reddito reale, impiego e scambi con l’altra regione, dipenderà esclusivamente dall’intensità dei parametri evidenziati e l’effetto finale potrebbe essere potenzialmente diverso da quello previsto da Mundell. I movimenti di capitali tra regioni non erano stati considerati nelle teorie iniziali. Assumendo sia un aumento di produttività dell’economia di un paese, sia una crescita veloce, è plausibile ipotizzare un deficit della bilancia dei pagamenti verso il resto del mondo. Uno shock positivo indurrà, probabilmente, agenti stranieri ad investire all’interno del paese permettendo di evitare di svalutare la moneta per aumentare le esportazioni e controbilanciare il deficit che precedentemente si era creato. Quest’ultimo sarà sostenibile se: il Tasso di rendimento dell’investimento è superiore al costo del prestito,gli aumenti in consumo associati con il disequilibrio sono temporari e desiderabili per livellare il consumo inter- temporale, la spesa pubblica non è eccessiva e la posizione fiscale dello Stato è, in generale, solida. Contrariamente a quanto evidenziato con le prime teorie, un Paese con un deficit nella bilancia dei pagamenti non deve necessariamente svalutare la sua moneta per drogare le esportazioni e ripristinare l’equilibrio. Inoltre, la mobilità dei capitali influenza i tassi di cambio aumentando incertezza e variabilità; la stessa è quindi considerabile come una fonte di shock asimmetrici. I trasferimenti fiscali da una regione all’altra per combattere gli effetti negativi di shock asimmetrici possono condurre a tre problematiche. In primis, il debito che si genera potrebbe non essere sostenibile nel lungo periodo. Secondo, i trasferimenti fiscali causati da shock permanenti posso bloccare risorse in alcune aree bloccando i meccanismi di aggiustamento naturali. In ultima istanza, un paese facente parte di un’area valutaria con un rapporto debito/PIL elevato, può creare esternalità negative nell’intera unione, specialmente nel caso in cui l’integrazione tra regioni sia elevata. Due paesi, A sviluppato e B in via di sviluppo, otterranno effetti diversi da una politica monetaria comune. Se l’obiettivo dell’autorità è quello di mantenere i prezzi stabili, B potrebbe osservare alcuni fenomeni. 1) Profitti sugli investimenti alti. 2) Tassi di interesse reali e nominali bassi poiché l’inflazione nell’area è mantenuta stabile 3) Con liberi movimenti di capitali i fenomeni 1) e 2) potrebbero generare delle aspettative troppo positive deviando gli investimenti su progetti troppo rischiosi che, in condizioni normali, non sarebbero stati finanziati. 4) Nel lungo periodo l’economia più debole potrebbe dover affrontare un periodo di deflazione per recuperare competitività. La differenza di sviluppo dovrebbe quindi essere considerata come un fattore molto importante per la determinazione di un’area valutaria ottimale. Le teorie iniziali si basano tutte su un mondo che è composto di sole due regioni, senza una funzione di benessere che possa essere massimizzata. Quando, ad esempio, McKinnon fa riferimento agli obiettivi di pieno impiego, mantenimento dell’equilibrio della bilancia e mantenimento dei livelli interni di prezzo, utilizza termini vaghi che non sono analiticamente quantificati. L’utilizzo di modelli matematici potrebbe rendere le varie dottrine più concrete ed applicabili. Anche negli anni ’70 diversi economisti contribuiscono ad arricchire la teoria AVO sviluppatasi. Corden (1972), ad esempio, ribadisce l’importanza della flessibilità di prezzi e salari per contrastare gli effetti di uno shock asimmetrico, non potendo, il singolo paese, più fare affidamento su una politica monetaria indipendente. Friedman (1973) ritorna sul tema evidenziando come sia importante, per le regioni partecipanti ad un’unione monetaria, condividere il rischio internazionale attraverso la diversificazione non solo di attività reali, ma anche finanziarie (poiché i capitali finanziari si muovono molto più velocemente e facilmente di quelli fisici e del lavoro). Tower e Willet (1976) suggeriscono un approccio che si concentra sui costi e benefici derivanti dalla partecipazione ad un’area valutaria basato su diverse teorie precedenti e, conseguenzialmente, diversi criteri di valutazione. Tra questi spicca quello della similarità dei tassi d’inflazione: Fleming (1971) elenca 3 elementi che favoriscono questa condizione. Somiglianza negli obiettivi di impiego nazionale. Somiglianza nella crescita della produttività. Somiglianza nel livello di influenza sindacale. La suddetta similarità non deve caratterizzare tutte le condizioni contemporaneamente, eventuali differenze, ad esempio, nella crescita della produttività possono essere compensate da una volontà politica di tollerare una disoccupazione superiore o inferiore. La teoria AVO, dopo gli impulsi iniziali, ha osservato un declino dovuto alla mancanza di esempi reali di unioni monetarie venendo definita, citando Ishiyama (1975), come una discussione scolastica che contribuiva in maniera poco rilevante alle problematiche connesse ai tassi di cambio e alle politiche monetarie. L’esperienza dell’Unione Monetaria Europea è stata, negli anni ’90, uno dei motivi principali della ripresa dell’interesse verso la materia. La “nuova scuola” muove la propria attenzione verso i temi dell’efficacia della politica monetaria, della sua credibilità, endogenità dei criteri, fattori politici e benefici che si concretizzano solo expost la creazione di un sistema di cambi fissi. Il tema della discrezionalità, introdotto alla fine degli anni ’70, descrive come un’autorità di politica monetaria che promette di mantenere un certo livello di inflazione è tentata, una volta che gli agenti privati incorporano l’annuncio della banca centrale adattando stipendi e prezzi in relazione alle suddette aspettative, ad “imbrogliare” ed espandere l’inflazione inaspettatamente per ridurre la disoccupazione ed aumentare il reddito nel breve periodo. Questo gioco è plausibile una sola volta poiché, nel periodo successivo gli operatori del mercato non crederanno più agli annunci effettuati ed incorporeranno nelle aspettative di inflazione il comportamento passato dell’autority. È facilmente dimostrabile che l’equilibrio discrezionale così creatosi comporta delle perdite superiori ad un equilibrio di “regola” dove la credibilità della banca centrale è consistente. Un altro punto importante degli studi moderni, riguarda la teoria endogena delle AVO che si basa sui seguenti principi. In primis i confini sono una restrizione ai commerci internazionali, rimuoverli significa incentivare gli agenti a intraprendere scambi all’interno dell’unione monetaria poiché vengono meno i rischi di cambio dovuti alle diverse valute (quindi il costo di copertura) e diminuiscono i costi di diffusione delle notizie con una conseguente informazione, trasparenza e concorrenza superiore (Skudenly 2003). In secondo luogo, diversi economisti, hanno osservato un legame positivo tra aumento del reddito e integrazione commerciale: questa, in particolare, porta alla creazione di cicli economici più correlati a causa di shock della domanda comune e aumenta il commercio intra-industriale che diminuisce la necessità di politiche monetarie da attuare per il singolo paese; complessivamente il costo di abbandonare l’indipendenza monetaria non è quindi così elevato. È chiaro come la teoria originale delle AVO si concentrasse sulla quantità o intensità degli shock asimmetrici tra regioni come criterio di scelta per potenziali partecipanti ad un’area valutaria, la teoria moderna sottolinea invece come l’adesione ad un’area valutaria riduca di per sé gli shock asimmetrici tra i diversi paesi. Alesina, Barro e Tenreyro (2003) sviluppano il tema analizzando, per paesi con un elevato livello di inflazione, il livello di scambi, co-movimento di prezzi e reddito con 3 possibili “ancore” (Eurozona, USA, Giappone). I risultati suggeriscono la concreta possibilità, per alcune delle nazioni prese in esame, di trovare beneficio o creando un sistema di cambi fissi con una delle valute in esame (Euro, Dollaro, Yen) o creando un’unione monetaria con uno dei paesi ancora. Nel dare una risposta lo studio prende in considerazione anche variabili geografiche; quello che non viene invece valutato è la concreta volontà politica (di entrambe le parti) di muoversi in questo senso. Un altro importantissimo filone di analisi moderno è quello del rapporto tra costi e benefici che la partecipazione ad un’area valutaria comporta. I primi sono principalmente di tipo macroeconomico, i secondi di tipo microeconomico. Il costo principale di un’unione valutaria è sicuramente la perdita di autonomia della politica monetaria, si perde quindi la possibilità di gestire indipendentemente i tassi d’interesse e gli aggregati monetari (quindi, per esempio, non è più possibile svalutare il tasso di cambio a piacimento per stimolare un’economia in difficoltà). I costi complessivi sono tanto più alti quanto più sono efficaci gli strumenti di politica monetaria indipendente. Vi sono alcuni tipi di elementi che possono rendere onerosa la partecipazione ad un’area valutaria. Bruno e Sachs evidenziano come le differenze istituzionali e di centralizzazione dei sindacati possano comportare alti costi per un’unione monetaria poiché possono creare delle alterazioni nell’andamento di prezzi e salari. Un sindacato centralizzato tende infatti a considerare, durante una rivendicazione salariale, gli effetti inflazionistici di richieste di stipendi nominali troppo elevati che potrebbero causare un mancato aumento (o addirittura un calo) dei salari reali. Tutto ciò comporta delle richieste che sono generalmente moderate e ponderate rispetto alle previsioni inflazionistiche. Al contrario una serie di sindacati che non formano alcun tipo di unione tra di loro agiranno come “free rider” e quindi con comportamenti opportunistici per cercare di aumentare il salario nominale della propria classe di lavoratori il più possibile: si genera più facilmente una spinta inflazionistica che tende ad annullare o diminuire i benefici derivanti dall’aumento dello stipendio nominale. Un altro punto di vista sulla questione è stato sviluppato da Calmfors e Driffils. Un sistema estremamente decentralizzato, con contrattazione a livello di singola azienda o gruppo, permette di detenere un elevato grado di controllo sulle richieste salariali facilmente adattabile ad eventuali shock dell’offerta. L’impresa in questione riesce a mantenere, almeno in parte, la propria competitività se le richieste non sono eccessive (poco probabile poiché a pagarne le conseguenze in termini occupazionali nel medio/lungo periodo, sarebbero gli stessi partecipanti del sindacato). I paesi con una forte centralizzazione o decentralizzazione sindacale sono meglio attrezzati a rispondere a shock dell’offerta poiché, in pratica, esiste una flessibilità di stipendi (e quindi di prezzi) superiore; quelli con una centralizzazione intermedia possono avere più difficoltà. In conclusione, paesi con diversi tipi di sindacati osserveranno andamenti di salari e prezzi diversi; questo rappresenta un costo quando esiste una moneta unica e quindi tassi di cambio fissi poiché diventa difficile correggere le differenze, soprattutto quando l’obiettivo dell’autorità monetaria centrale è quello di mantenere l’inflazione contenuta in tutta l’unione monetaria. Nei paesi anglosassoni le imprese ottengono liquidità principalmente attraverso i mercati dei capitali (capitale di credito e di rischio), in quelli continentali, anche a causa di caratteristiche comportamentali dei consumatori diverse, le aziende si finanziano principalmente sfruttando i prestiti bancari. Se la Banca Centrale dovesse aumentare il tasso di interesse, i consumatori che detengono azioni e obbligazioni, molto diffuse nel primo tipo di regioni, osserverebbero un calo di prezzi e di valore delle stesse; nelle aree bancocentriche, questo effetto sarebbe inferiore e l’aumento del tasso d’interesse influenzerà il consumo attraverso il sistema bancario (quindi con modi e tempistiche diverse). In conclusione, un consumatore di un sistema marked-based che mediamente investe in azioni in maniera più marcata rispetto ad uno italiano, sosterrà un costo superiore a causa di una politica monetaria comune. Supponiamo che il mondo sia composta da due paesi, A che cresce più velocemente di B e che l’elasticità delle importazioni di A da B e viceversa sia uguale ad uno. Le importazioni di A cresceranno più velocemente (a causa del tasso di crescita superiore) causando un disavanzo nella bilancia commerciale. Per tentare di ripristinare l’equilibrio, A può rendere più competitive le proprie esportazioni verso B attraverso un deprezzamento della moneta oppure mantenendo un’inflazione dei prezzi interni più bassa rispetto a B. Se i due Stati hanno un accordo di cambi fissi o condividono una stessa moneta, l’unica alternativa valida è la seconda (chiaramente se si escludono politiche di innovazione o simili). Il paese A deve sostenere quindi il costo di politiche deflazionistiche che tendono a rallentare la crescita stessa della nazione. Krugman critica quest’analisi facendo notare empiricamente che la crescita economica comporta lo sviluppo e la diffusione di nuovi prodotti. Gli stessi, riprendendo l’esempio precedente, permettono al paese A di non avere problemi di bilancia commerciale poiché alimentano le esportazioni controbilanciando l’aumento delle importazioni. Tassi di crescita diversi non dovrebbero essere considerati come costi o ostacoli per un’unione monetaria.
Da molti l’euro è considerato come l’origine della maggior parte dei
problemi economici che affliggono il nostro Paese da anni. L’argomento è degno di essere affrontato anche in chiave scientifica, e non solo ideologica: la creazione di una moneta unica utilizzata da più Nazioni è un argomento ben noto alla scienza economica già dagli anni ’60, quando R. Mundell diede un primo contributo a quella che oggi prende il nome di Teoria delle aree valutarie ottimali. La domanda a cui si cerca di dare una risposta è la seguente, se conviene adottare una moneta unica. Se sì, quanto conviene. Per iniziare a comprendere questa teoria è necessario spiegare brevemente che cos’è il tasso di cambio. Il tasso di cambio non è altro che un rapporto che indica quanto vale una moneta in termini di un’altra; per esempio, se 1 euro vale 1.29 dollari allora il cambio euro/dollaro è esattamente 0.77 (ovvero 1/1.29), che equivale a dire “1 dollaro vale 0.77 centesimi di euro”. Il tasso di cambio ha quindi un’importanza fondamentale, perché è determinante per le imprese che esportano e importano, ovvero per il commercio internazionale (oltre che il movimento di capitali fra Nazioni.Quando due o più Nazioni decidono di adottare una moneta unica, andando ad eliminare completamente l’uso delle loro vecchie valute, la prima cosa che viene meno è proprio il tasso di cambio che vigeva fra le due diverse monete. Questo passaggio è fondamentale, perché determina tutti i benefici e i costi di un’unione monetaria.
Benefici:
● una moneta unica abbatte notevolmente, se non elimina del tutto, i
costi di transazione commerciali fra le nazioni che la adottano; ● i commerci internazionali sono favoriti dalla mancanza di incertezza sul tasso di cambio, venuto meno con la creazione di una singola valuta. Chi esporta ed importa non deve più fare i conti con un’altra variabile fondamentale e difficile da prevedere nel futuro, che può far variare il prezzo dei beni e dei servizi.
Costi:
● perdita degli strumenti di politica monetaria. In altre parole, quando
un gruppo di Paesi adotta un’unica valuta si crea una nuova Banca Centrale, comune per tutti, che ha il compito di creare moneta e immetterla nel mercato (oppure di “drenarla”, ovvero toglierla dal mercato), cercando di rendere il sistema economico stabile in ogni periodo, attuando cioè la cosiddetta “politica monetaria”. Il problema si pone nel caso di shock asimmetrici: un determinato evento può avere ripercussioni economiche diverse da un Paese all’altro, in base alla loro struttura economica; in questo caso, una Banca Centrale unica avrebbe molte difficoltà pratiche nell’intervento, poiché le sue azioni potrebbero essere a favore di un Paese e a discapito di un altro.
La teoria delle aree valutarie ottimali afferma che è opportuno, oltre che
non costoso, rinunciare all’indipendenza monetaria a favore di un’unica valuta se i benefici superano i costi.Essendo molto difficile misurare i costi e i benefici di una moneta unica in modo tale da poterli confrontare, la teoria economica, basandosi su numerose ricerche empiriche, soprattutto sul caso degli USA (che si possono considerare come l’area valutaria ottimale per eccellenza), è arrivata a fornire sei criteri di convergenza, verificati i quali un gruppo di Paesi può divenire area valutaria ottimale. Ciò equivale a dire che i benefici di una singola moneta supererebbero di gran lunga i costi nel caso in cui sussistano contemporaneamente queste condizioni. I criteri sono i seguenti:
1. mobilità del lavoro, ovvero la possibilità dei lavoratori di trovare
lavoro facilmente spostandosi da un Paese all’altro del gruppo in cui è in vigore la moneta unica; 2. diversificazione della produzione, che consiste nel fatto che i Paesi facenti parte del gruppo devono essere partner commerciali compatibili, ovvero devono trarre reciproco vantaggio negli scambi di beni e servizi fra di loro; 3. libera circolazione: in un’area in cui vige una moneta unica è indispensabile ci sia la libertà di circolazione di beni e persone, sinonimo di integrazione e semplificazione del sistema economico; 4. sussidiarietà fiscale reciproca: i componenti di una potenziale area valutaria ottimale devono essere disposti, in caso di shock asimmetrici, ad attivare misure di compensazione, sotto la veste di aiuto monetario, a favore di quei Paesi danneggiati dall’avverarsi di un determinato evento. In altre parole, chi ha tratto vantaggio da una situazione deve aiutare chi è stato svantaggiato dalla medesima situazione; 5. preferenze omogenee: i Paesi membri di un’unione monetaria devono condividere le principali linee di azione politica ed economica; 6. solidarietà e nazionalismo: vivere insieme comporta sempre il dover rinunciare a qualche pretesa o desiderio. I Paesi membri di una comunità valutaria devono essere uniti insieme da un condiviso progetto politico, e devono essere consapevoli di condividere un destino comune.
Facendo un’analisi dei sei criteri di convergenza e riportandoli alla
situazione attuale dell’Unione europea, non è difficile affermare che, a livello teorico, essa non è un’area valutaria ottimale. Eppure la moneta unica esiste, e i benefici economici e sociali si sono verificati ampiamente. I problemi, infatti, sono sorti proprio con l’avvento della crisi del 2008 che non è stata altro che uno shock asimmetrico che ha fatto venire a galla innumerevoli punti deboli e falle del sistema monetario europeo, per come è strutturato oggi. Questo significa che l’UE non è di natura un’area valutaria ottimale, ma può diventare tale poiché, in momenti di espansione economica, l’euro ha molto favorito la crescita economica dei membri dell’eurozona. In termini economici, quindi, la UE può definirsi come un’area valutaria ottimale endogena. Solo il tempo, la dedizione e la volontà politica saranno le chiavi per la buona riuscita di questo progetto.
Principi di Economia: Un'introduzione Completa Ai Concetti Fondamentali Della Microeconomia E Della Macroeconomia: Economia Moderna: Serie di Libri per Principianti e Professionisti