Un Tesoro in Vasi Di Coccio (B.Maggioni)

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UN TESORO IN VASI DI COCCIO

Il titolo del libro vorrebbe essere il filo conduttore dell’intero discorso. Il vaso di coccio è ogni
cristiano e l’intera comunità dei credenti. Il vaso di terracotta è un vaso casalingo, umile, fragile, di
utilizzo quotidiano. Non è un oggetto prezioso da esibire all’ammirazione di tutti. Fuori di metafora:
se Dio si servisse solo dei Santi sarebbe un’ovvietà, e invece si serv anche e soprattutto di uomini
comuni, fragili, di poca fede, com’erano i discepoli e come siamo noi. La potenza del Vangelo si fa
presente nell’inadeguatezza per rendere chiaro a tutti che la sua efficacia viene da Dio, non dagli
uomini ne dai loro strumenti. Chi pretende una Parola di Dio subito chiara, direttamente visibile,
appariscente, clamorosa, non incontrerà mai il Signore. Il compito della Chiesa non è attrarre su di
se lo sguardo degli uomini, ma rinviarlo sempre al Dio di Gesù.

Gesù e la sua Chiesa.

Ci sono due costatazioni.

Gesù è all’origine della Chiesa. Questa espressione va spiegata con tre convinzioni:
1 Gesù è il punto di partenza della Chiesa. Essa va cercata nell’interezza della vita di
Gesù, parole, azioni, persona, morte e risurrezione, dono dello Spirito. E’ nella globalità di questo
evento che si colgono l’esigenza e il germe della chiesa.
2 l’evento di Cristo non è informe e senza direzione, ma configurato secondo precise
modalità, la Chiesa ha sempre guardato a Gesù come al “suo” modello, cercando nella sua memoria
i criteri per le scelte da operare, i comportamenti da assumere e le strutture da darsi
3 il Risorto – mediante il suo Spirito – è ora presente nella sua Chiesa, come Signore
vivificante che la costituisce, non solo la guida ma la genera. Il sorgere della Chiesa è pertanto
“fatto storico” (perché ha origine dal passato) ed evento oggi contemporaneo, il cui
protagonista è lo spirito che vivifica.
I testi neotestamentari mostrano la convinzione che all’origine della Chiesa ci sia soprattutto il
Cristo risorto. Fra Gesù prepasquale e il Cristo risorto c’è una profonda continuità. Il Cristo
risorto è quel medesimo Gesù che fu crocifisso. E i discepoli, che ora lo comprendono e lo
annunciano, sono gli stessi che lo hanno seguito nel suo ministero itinerante. Si tratta di una
continuità nella discontinuità.
La Chiesa – e precisamente la sua origine – non è tutta nelle parole del Gesù terreno e nei gesti da
lui compiuti. La chiarezza viene dal Cristo risorto e dalla presenza dello Spirito. Gesù ha previsto e
voluto una comunità che lo continuasse, si tratta di un evento generatore. Si possono ricordare tre
tracce di questa intenzionalità:
1 . L’annuncio del regno, da non interpretarsi in modo apocalittico, non solo lascia
spazio all’intenzione di una comunità, ma in un certo senso la include
2 la scelta dei dodici che già allude ad un nuovo popolo di Dio. Questo gruppo ( nel quale
emerge Simone chiamato roccia) è costituito ed educato per una missione.
3 l’istituzione dell’eucaristia. Gesù raccoglie la sua vita in due segni rituali (il pane e il
vino). Questo non avrebbe alcun senso se non fosse per fare memoria di Lui e della sua vita. Gesù
mostra con questi gesti di considerare la sua vita aperta (e disponibile) a una comunità di discepoli
che lo ricorderà e ripercorrerà la sua strada.

Le comunità primitive leggono la storia e fanno le loro scelte confrontandosi con le origini
(principio di tradizione) e fra di loro ( principio di comunione).
Gesù ha annunciato il Regno di Dio facendone lo scopo centrale della sua missione, del suo
insegnamento e dei gesti. Il giudaismo vedeva il Regno nel passato (Esodo) o alla fine ( profeti e
apocalittici). Per Gesù il Regno è qui e ora. Il Regno per Lui viene sì all’improvviso, ma non
come una grandezza totale, compiuta, bensì come un seme. L’annuncio del Regno non dice
soltanto che Dio è qui e agisce, ma manifesta anche un volto nuovo di Dio: i tratti della
misericordia e dell’universalità.. La sua prassi messianica è caratterizzata dalla ricerca degli
esclusi, soprattutto dei peccatori. La prassi di Gesù ha travolto lo schema del puro e
dell’impuro, coglie l’uomo nel rapporto che Dio ha con lui. L’universalità di Gesù è qualitativa.
Egli non chiude la sua missione dentro un recinto, convinto che si affretti la venuta del Regno
abbandonando il mondo e isolandosi nella purezza. Da quanto detto risulta chiaramente che
Regno e Chiesa non si identificano. Tanto è vero che la comunità chiede “venga il Tuo Regno”.
Questo dice già che la Chiesa non deve assorbire tutte le attenzioni, ne di se stessa ne del mondo. La
Chiesa non è un’istituzione che deve soltanto conservare se stessa, o mostrarsi, ma deve tenere a
qualcosa che la supera. La Chiesa è soprattutto un rinvio al futuro verso la pienezza e nello
spazio verso l’universalità. L’inadeguatezza della comunità è in certo senso necessaria perché
appaia che il Regno è di Dio.. Il Regno annunciato da Gesù significa: che è Dio che agisce, e su di
Lui e non altrove poggia la speranza. L’agire di Dio è in favore dell’uomo e per un mondo diverso,
la misericordia accompagna sempre l’agire di Dio, rivelandolo. La Chiesa deve apparire come
luogo di misericordia. La preghiera della Chiesa dice “ siano rimessi i nostri debiti”,
un’invocazione che non può ridursi ad una domanda individuale, ma è l’intera comunità che chiede
perdono.
Gesù ha scelto dalla folla un gruppo di discepoli, che non dovevano soltanto imparare un
messaggio, ma seguirlo, condividendo la sua vita. Da questo gruppo vengono scelti poi i dodici. Si
tratta di qualcosa di nuovo: il tratto dell’assoluta centralità di Gesù: sua è l’iniziativa di chiamare i
discepoli e di istituire i dodici. Essenziale per il gruppo dei discepoli non è il metodo educativo di
Gesù ne la sua dottrina, ma la sua persona. Nel gruppo dei discepoli c’è anche uno zelota e un
pubblicano, due nemici mortali. La comunità di Gesù prepasquale è germinale ma già aperta
senza discriminazioni. Il fatto che il gruppo dei discepoli sia uguale prima e dopo la pasqua ha
creato un ponte di continuità fra il prima e il dopo. I discepoli hanno condiviso il cammino terreno
di Gesù e poi, dopo la pasqua, hanno subito capito di dover continuare il suo annuncio. Un tratto
che la Chiesa non può dimenticare è che Gesù ha istituito i discepoli perché lo seguissero e
stessero con Lui, ma i discepoli al momento cruciale della Passione lo hanno abbandonato. Il
Crocifisso abbandonato, appena risorto, si preoccupa di mandare ad avvertire i discepoli fuggiti.
Siamo di fronte ad una variante del tesoro ( la fedeltà di Gesù) in vasi di coccio ( il venir meno
dei discepoli).
La sicurezza della comunità poggia totalmente sulla fedeltà del proprio maestro, non su altro.

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FIGURE DI COMUNITA’ NEL NUOVO TESTAMENTO

Dalla descrizione di alcune comunità dovrebbero risultare le differenze che le distinguono, sia le
costanti che le apparentano. Ci si devono porre tre domande:
1 quali tensioni ci sono nelle comunità
2 quali relazioni intercorrono tra comunità e comunità
3 la posizione che le comunità assumono di fronte al mondo

Gerusalemme
La prima comunità di Gerusalemme non si stacca dal giudaismo, ne osserva le prescrizioni e
frequenta il tempio. Sono già presenti quei germi di novità che porteranno la comunità molto
lontano:
1 Gesù di Nazareth, rifiutato dalle autorità religiose, è proclamato Messia e Signore
2 la resurrezione non è soltanto un evento futuro e generale ma un evento già accaduto per un
uomo, Gesù, ora vivo e presente nella comunità, nel quale solo c’è salvezza
3 accanto alla liturgia del tempio si pratica un culto proprio che trova il suo perno nella cena
del Signore.
I tratti che caratterizzano la comunità di Gerusalemme:
1 la fede in Cristo. E’ la fede che genera la vita comunitaria, ne determina i rapporti e le
manifestazioni e si trasforma in annuncio. Al centro della fede e dell’annuncio c’è la Pasqua. Si
insite su un contrasto: da una parte i giudei che hanno rifiutato Gesù ritenendolo al di fuori della
logica di Dio; dall’altra Dio che ha approvato proprio questo Gesù riscattandolo dalla morte. Il
contrasto evidenzia la distanza tra giudaismo e cristianesimo e quindi la conversione che il farsi
cristiano richiede. L’annuncio termina sempre con una proposta di conversione che consiste
nel pentimento, nel battesimo e nell’entrare a far parte della comunità.
I cristiani avrebbero potuto ritirarsi dalla società, abbandonando il mondo ( giudaico) a se stesso,
riservando per se stessi uno spazio privilegiato e protetto; e anziché portare il loro messaggio al
mondo, avrebbero potuto accontentarsi di accogliere coloro che avrebbero bussato alla comunità.
La comunità cristiana nasce missionaria, il rimanere nel mondo testimonia la signoria di Dio
sul mondo. Dio ama il mondo e se ne occupa e vuole che i suoi testimoni vi rimangano. La
comunità di Gerusalemme è contrassegnata dall’esperienza dello Spirito. Fin dall’inizio il battesimo
è stato sperimentato come un battesimo dello Spirito. L’adesione al Vangelo, contrassegnata dal
pentimento e dalla fede in Gesù Cristo si concretizzava nel rito del battesimo che aveva un
triplice significato:
1 la remissione dei peccati
2 il dono dello spirito
3 l’aggregazione alla comunità.
Luca riassume l’intera vita della comunità sotto una quadruplice perseveranza:
1 ascoltare l’istruzione degli apostoli, garantisce la continuità tra Gesù e la comunità ed è un
indice di attaccamento alla tradizione.
2 la comunione, il concetto base è quello di possesso comune, comproprietà. Fra i cristiani non è un
semplice mettere in comune le proprie risorse ( fede o altro) ma una partecipazione-inserimento in
una realtà già esistente, la vita di Cristo. L’ideale perseguito non era la povertà ma la condivisione
3 la frazione del pane ( eucaristia), chi vi partecipava sentiva in modo particolare la presenza
invisibile del Signore risorto.
4 le preghiere.
La prima crisi della comunità scoppia quando entra a farvi parte il gruppo dei cosiddetti “
ellenisti”, ebrei provenienti dalla diaspora, la cui lingua abituale era il greco. Rispettavano la
legge di Mosè, ma la osservavano in maniera meno meccanica che li rendeva aperti a

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suggestioni religiose. Leggevano in modo diverso la storia della salvezza e la funzione salvifica di
Cristo. Gli apostoli cercano il superamento della tensione mediante la Parola e la preghiera.
Non nascono due comunità, ma rimane l’unica comunità. Tanto meno si cerca l’unità nel
prevalere di un gruppo sull’altro, ma in un confronto di ambedue i gruppi con la Parola . La
presa di posizione dei cristiani ellenisti nei confronti del giudaismo è stata che gli stessi sono
stati dispersi e il cristianesimo uscì fuori dalle barriere del giudaismo.

Antiochia
Vi era una forte comunità giudaica, qui, per la prima volta i credenti ricevettero il nome di
cristiani ed erano riconosciuti come un gruppo autonomo, distinto sia dai pagani sia dai giudei
e ciò che li qualificava era la loro fede in Gesù.
In questa comunità ci sono tutti gli aspetti della Chiesa di Gerusalemme: la fede in Gesù Signore, il
battesimo, il culto e anche l’antico testamento considerato il libro di tutti i cristiani non solo dei
cristiani ebrei.
Accentuata rispetto a Gerusalemme è l’esperienza dello spirito: ci sono il dono della profezia,
il dono delle guarigioni e altre manifestazioni.
Fra Gerusalemme e Antiochia ( e le comunità ellenistiche) c’è una profonda continuità.
Cacciati da Gerusalemme gli ellenisti si sono trasformati in missionari.
Un primo fatto importante è l’annuncio del Vangelo ai Samaritani. E’ una prima barriera che
viene infranta. Il giudaismo infatti, non considerava i samaritani come appartenenti al popolo
di Dio, li riteneva esclusi dalla comunità e li considerava come pagani.
Un secondo fatto è l’inizio della conversione dei greci, sono superati i confini fra giudaismo e
paganesimo. La Chiesa conquista la sua universalità
La caratteristica più interessante della Chiesa di Antiochia era il fatto di essere una comunità
mista, formata da ex-ebrei e da ex-pagani. Ai pagani veniva predicato un vangelo senza la
circoncisione e i giudeo-cristiani sedevano a mensa con i pagano-cristiani sperando in tal modo le
leggi giudaiche della purità. La legge non è più mediatrice di salvezza: solo il Cristo è la salvezza.
La Chiesa diventa consapevole di non essere più necessariamente legata al popolo giudaico e alle
sue istituzioni, un primo passo per acquistare la consapevolezza di essere sciolta da ogni vincolo
umano nazionale, sociale e naturale..
Ma un gruppo di cristiani di Gerusalemme non la pensa così: ritiene che la legge di Mosè abbia
un ruolo perenne e teme che la prassi liberale della comunità di Antiochia costituisca un grave
ostacolo alla diffusione del Vangelo in ambiente giudaico. Nasce tra le due comunità una
discussione che viene risolta nella grande assemblea di Gerusalemme dove sono tenute presenti
due preoccupazioni:
1 salvaguardare l’universalità del vangelo
2 l’unità della Chiesa.
L’apertura del cristianesimo al mondo pagano non da origine a due chiese distinte, ma a una
sola Chiesa unita nell’ascolto dello stesso Vangelo e guidata dallo stesso spirito.

Corinto
A Corinto c’è il pericolo di ricadere nella schiavitù della propria sapienza. I giudei confidano nella
loro legge e nelle proprie osservanze, i greci nella loro filosofia. In un caso come nell’altro è
l’uomo che cerca la salvezza in se stesso. C’è una prima divisione in partiti e correnti, riferendosi
chi a un apostolo chi a un altro, ci sono i ricchi e ci sono i poveri e non mancano incertezze in
campo morale. Circa il comportamento sessuale alcuni ritenevano tutto lecito e altri che
consideravano negativamente persino il matrimonio. La stessa cena fraterna rischiava di
trasformarsi in formalità: anziché mettere tutto in comune e condividere fraternamente, ognuno
si metteva davanti il suo pasto, così uno pativa la fame e l’altro era ubriaco. E per finire un

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gruppo di cristiani negava la realtà della risurrezione, non negavano l’immortalità dello
spirito ma la risurrezione dei corpi.
Per il cristiano di cultura greca era forte la tentazione di ridurre il vangelo a filosofia, gli
elementi umani prevalgono sulla parola di salvezza che viene da Dio. I Corinti davano più
peso alla personalità dei singoli predicatori che all’unica promessa di salvezza di cui tutti
erano portatori. La riduzione del Vangelo a filosofia comportava l’indifferenza al dato
tradizionale: si preferiva la contemporaneità alla tradizione e questo portava a una rottura con le
proprie origini e una perdita di identità e alle divisioni. Importante era la ricerca di se,
all’esaltazione della propria personale originalità.
Il tema è: la croce, giudicata dai giudei e dai greci “ stoltezza e follia “ è invece per i cristiani “
potenza e sapienza di Dio”.
I giudei abituati a pensare le manifestazioni di Dio sullo schema dei prodigi dell’Esodo,
attendevano una manifestazione di Dio potente e vittoriosa. La debolezza della croce parve una
via completamente estranea al piano di Dio, uno scandalo.
I greci erano abituati a valutare in termini di competizione, di affermazione di se e di genialità. Lo
spendersi di Dio sulla croce parvero mortificazione della propria personale originalità,
mancanza di genialità ed insulsaggine.
Secondo i credenti è proprio nella debolezza della croce che apparvero la potenza e la
sapienza di Dio. I cristiani di Corinto credevano nella Croce di Gesù, altrimenti non sarebbero stati
cristiani, ne rifiutavano però le conseguenze e cioè che la debolezza della Croce dovesse continuare
a essere presente nella predicazione e nelle scelte pastorali della comunità.
La Croce non è soltanto l’oggetto dell’annuncio ma anche il metodo. La tentazione dei Corinti
era quella di sottrarsi alla debolezza della via di Dio. E’ invece nella piena accettazione della
debolezza della Croce che può apparire la forza dimostrativa dello Spirito.
La comunità di Corinto correva il rischio di staccarsi dalla fedeltà e dalla tradizione-.
Paolo disse: la comunità cristiana ragioni a partire dal fatto di Gesù, dalla sua storia, non a partire
dalla propria cultura e dalla propria filosofia.

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LE COMUNITA’ DI MATTEO E LUCA

Matteo
L’opinione comune è che Matteo abbia scritto il suo vangelo in un ambiente giudeo-cristiano,
aperto anche ai pagani-cristiani e all’universalismo. Forse la comunità di Matteo, da collocarsi
nella Siria occidentale dove giudei e pagani erano numerosi, le sinagoghe influenti e il cristianesimo
e il giudaismo già in netta opposizione, era una comunità mista. Esso non mette in
contrapposizione le due tradizioni cristiane, quella giudeo-cristiana e quella pagano-cristiana
ma le concilia.
Un primo tratto della Chiesa di Matteo è l’universalismo che rivela lo slancio missionario di una
comunità cristiana degli anni 80. E’ una comunità religiosa il cui elemento di coesione è solo la
fede in Cristo e la concreta osservanza della sua volontà: vincoli razziali e culturali sono
superati. Il Vangelo di Matteo si conclude con una scenda di grande apertura missionaria: l’invio
dei discepoli nel mondo.
L’universalismo della comunità di Matteo si evidenzia anche perché non solo la comunità non
si chiude ai pagani, ma neppure ai peccatori. Per Matteo Gesù è il giudice severo ed esigente ma
questo nell’ultimo giorno. Ora Gesù è tollerante che invita la sua comunità a un atteggiamento di
paziente magnanimità. La comunità di Matteo si considera come il solo vero Israele perché si apre a
Cristo. Non c’è un rifiuto degli israeliti, ma di Israele come popolo privilegiato e chiuso.
L’idea fondamentale è che la Chiesa è la vera continuatrice di Israele, in opposizione a coloro
che si definiscono Israele ma non lo sono più, per avere rifiutato Cristo e per essersi chiusi nel
loro particolarismo. Partendo da questa idea Matteo sottolinea la rottura e la continuità. Rottura
determinata dal rifiuto di Israele rientra nel disegno di Dio che è insieme salvezza e giudizio e
quindi il Regno passa ai pagani e che questo passaggio rientra nella storia della salvezza. Ma la
rottura avviene nella continuità.
La comunità di Matteo è composta da giudeo-cristiani che devono continuamente sostenere
un duro confronto con la sinagoga. Dopo il 70 il giudaismo si riorganizza attorno ai dottori
farisei e si chiude nella propria tradizione. Il cristianesimo è sempre meno tollerato. L’esclusione
definitiva dei cristiani dalla sinagoga e dalla vita giudaica avviene verso gli anni 80. Ciò colpì
soprattutto le comunità di origine giudeo-cristiana.. Nella concezione dell’evangelista missione e
persecuzione formano un’unica vicenda. La persecuzione vorrebbe fermare la missione, ma in
realtà la favorisce, perché costituisce un luogo di testimonianza. Rifiutata dai capi e dai
dottori della legge , la comunità di Matteo è fatta di “piccoli”, di gente del popolo, senza
pretese, senza particolare competenza. La comunità di Matteo sperimenta l’esistenza nel
proprio seno dei “falsi profeti”, si tratta di carismatici che antepongono le loro profezie, i loro
esorcismi e i loro miracoli alla pratica concreta della carità. Matteo non è contrario a questi
segni: sull’esempio di Gesù, anche i discepoli infatti devono cacciare i demoni e guarire i malati.
Ma questi segni non hanno alcun valore se non sono uniti al concreto adempimento della volontà di
Dio. Nei confronti di questi falsi profeti Matteo pone in tutto il suo Vangelo l’accento sulla
volontà di Dio, sulle esigenze morali, sulla concretezza della carità.
Matteo tratta due problemi: l’accoglienza dei “piccoli” e la coesione all’interno della
comunità. Si tratta di una Chiesa evoluta con già una certa organizzazione, ma insieme una
comunità divisa con possibilità di scandali, tentata di trascurare i piccoli e i peccatori. Per Matteo
dovrebbe essere invece una Chiesa di umili.
Piccoli sono i bisognosi ma soprattutto coloro che non hanno ancora una fede matura, Piccolo
è anche il peccatore che si smarrisce. A questa comunità, che si stava ripiegando su se stessa,
Matteo ripete che i piccoli devono essere al centro dello zelo pastorale.
la coesione all’interno della comunità esige la correzione e il perdono, un perdono senza limiti.
La comunità di Matteo vive nella certezza della presenza del Signore risorto. Matteo non
conclude il suo Vangelo con l’ascensione, con una partenza, bensì con una presenza: il Signore

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non è partito ma è rimasto. I luoghi densi della sua presenza sono, l’accoglienza dei missionari
itineranti, l’accoglienza dei piccoli, il servizio ai bisognosi.

Luca
Luca scrive il suo Vangelo quando è chiaro che la venuta del Signore non è imminente.Il tempo
della Chiesa continua ed esplicita il tempo di Gesù, ne prolunga e ne attualizza la carica salvifica.
Per questo Luca, oltre al Vangelo, ha scritto gli Atti degli Apostoli: la storia di Gesù si
prolunga nella storia della Chiesa.
Ha disposto gli avvenimenti in modo da mettere in luce il messaggio salvifico. L’evangelista è
convinto che la fondatezza dell’insegnamento sta nella sua fedeltà alle origini. E’ il principio
di tradizione. Luca si rivela un uomo di Chiesa, un uomo di ortodossia e tradizione.
Luca ha scritto gli Atti degli Apostoli almeno per tre motivi:
1 mostrare che la storia della Chiesa continua la storia di Gesù
2 il desiderio di offrire un modello di comunità e di missione ai credenti di ogni tempo. La
Chiesa deve sempre confrontarsi con quel modello i cui tratti caratteristici sono due: la comunione e
la missione senza confini.
3 difendere Paolo e il suo modo di evangelizzare i pagani. Lo stile missionario di Paolo fu molto
contrastato, fu accusato di rompere con i giudei per privilegiare i pagani.
Luca dimostra che a spingere Paolo verso i pagani è stata la volontà dello Spirito e che
decisione di non imporre le costumanze giudaiche ai pagani convertiti fu una scelta di tutta la
Chiesa ( il concilio di Gerusalemme) non una scelta di Paolo.

L’ascensione conclude il cammino di Gesù e inizia quello della Chiesa.


Negli atti degli apostoli, Luca attira l’attenzione su due atteggiamenti sbagliati che i discepoli
hanno tenuto:
1 prima della partenza di Gesù i discepoli sono curiosi di conoscere i tempi e i momenti del
Regno di Dio. L’importante non è indagare sul quando ma chiedersi in che direzione muoversi e
quali compiti assumere nel frattempo. Per Luca il compito dei discepoli è soprattutto la missione:
non sono i popoli che arrivano a Gerusalemme, ma è la comunità che da Gerusalemme va verso i
popoli
2 dopo la sua scomparsa stanno a guardare il cielo. Il discepolo che ha visto Gesù salire in alto,
possiede una speranza (tornerà) e con questa speranza deve reinserirsi tra la gente, impegnarsi tra
gli uomini. I discepoli sono invitati a non esaurirsi nell’attesa del ritorno del Signore, ma a guardare
la terra.

L’episodio che segna l’inizio della Chiesa e ne riassume tutta la storia è la Pentecoste.
Lo Spirito trasforma un gruppo di persone impaurite chiuse nel cenacolo, al riparo, in testimoni
consapevoli e coraggiosi: Il gruppo di discepoli si trasforma in comunità di salvezza,
consapevoli che il Regno di Dio è già in mezzo a loro, consapevoli di una responsabilità nei
confronti del mondo. Sono le due consapevolezze fondamentali del popolo di Dio.
Lo Spirito non è donato ad alcuni ma a tutta la comunità, spalanca il piccolo gruppo e lo pone
in cammino di comunione, il loro scopo è di raccontare le grandi opere di Dio. Questo è il compito
prioritario della Chiesa: un annuncio coraggioso, pubblico, che si qualifica con quattro
caratteristiche.
- annuncio comunitario. E’ la comunità intera che si propone pubblicamente e annuncia
- annuncio che ha come centro il racconto di Gesù crocifisso e risorto, persona, parola e
gesti.
- La Chiesa deve sapere che il suo annuncio susciterà reazioni opposte, incontrerà in
consenso e il dissenso.

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- L’annuncio deve essere universale. Luca sottolinea la venuta dello Spirito utilizzando i
simboli classici che accompagnano l’azione di Dio: il vento, il terremoto e il fuoco e le
lingue che si dividono e si posano su ciascuno dei presenti. Precisamente 70 lingue.
Luca utilizza questo simbolo per sottolineare il compito di unità e di universalità a cui la Chiesa
è chiamata.
Lo Spirito non ha una sua lingua né si lega a una lingua o a una cultura in particolare, ma le
accetta tutte, si esprime attraverso tutte, si fa capire attraverso tutte. Gli uomini non devono
abbandonare le loro lingue, né le loro tradizioni per farsi cristiani: l’unità dello spirito è più
profonda e non costringe l’uomo ad abbandonare il mondo in cui è cresciuto.
Una storia nuova, rovesciata rispetto alla storia iniziata a Babele, dove l’eterna tentazione
dell’uomo che vuole costruire una città senza Dio, e cerca salvezza in se stesso, dal basso, con forze
proprie, anziché nell’accoglienza di un dono che viene dall’alto. Il racconto non parla solo di
confusione di lingue, ma anche di dispersione dei popoli. Dietro la differenza delle lingue si
intravede lo sfascio dell’unità della famiglia umana, la disgregazione, ciascun popolo in un proprio
cammino, un popolo contro un altro. La Bibbia è lucida e s che la divisione non è solo questione di
lingue, ma di valori. Non ci si intende più non perché le lingue sono diverse, ma perché i valori non
sono più comuni.
A Babele uomini di una stessa lingua non si intendono più. A pentecoste gli uomini di lingue
diverse si incontrano e si intendono solo perché il protagonista è lo Spirito. E’ l’indicazione
essenziale per la Chiesa di ogni tempo che deve aiutare gli uomini a ritrovarsi. Ma deve
trattarsi di unione nello Spirito, una riunione di libertà e attorno a Dio. L’unità è uno dei
grandi simboli della salvezza. Ci sono due strade per tentare questa unione:
- la strada impaziente di tutti i sogni egemonici – radunare con la forza tutti i popoli sotto una
sola autorità, costringendoli dentro una unica ideologia; è il tentativo di Babele.
- la strada dello Spirito – che raduna gli uomini, affratellandoli, nel riconoscimento di Dio,
nella libertà e nell’amore; è la strada dello Spirito e quindi della Chiesa.

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LE COMUNITA’ GIOVANNEE ( DI GIOVANNI)

Le vicende che ha vissuto lo hanno indotto a distinguersi nettamente dalle altre Chiese apostoliche.
La comunità ha vissuto un’accesa polemica con la sinagoga che si stringeva attorno alla propria
ortodossia. Lo schema di Giovanni può essere generalizzato per altre esperienze religiose e
filosofiche: buone se si aprono a Cristo, idolatre se si chiudono o si assolutizzano.
Nonostante le molte accuse la comunità di Giovanni non è settaria e interista. Ha incontrato tre
forme di incredulità e vi si è opposta energicamente.
Si è opposta ai giudei ma non ha negato che la legge sia dono.
Si è opposta ai seguaci del Battista ma ha confermato che il Battista è il testimone della luce.
Ha incontrato l’opposizione del mondo ma è rimasta ugualmente una comunità di fronte al
mondo e inviata al mondo, persuasa che Dio “ ha tanto amato il mondo”.
La comunità di Giovanni si è distinta dalle altre chiese apostoliche e ha difeso la sua originalità.
Il fenomeno delle eresie suscita nelle Chiese cristiane il problema dell’ortodossia e della
successione apostolica. Giovanni sente questo problema ma lo risolve mettendo al primo posto
non le strutture ( i ministeri), ma lo Spirito. Di fronte all’ostilità del mondo la comunità di
Giovani non cerca sicurezza in una struttura ma nella forza dello Spirito. In un momento in cui
le chiese sembrano insistere sull’organizzazione e sulla successione apostolica, la comunità di
Giovanni lascia in ombra la molteplicità dei carismi e dei ministeri. Accetta il ministero ma con le
condizioni che resti fermo il primato dello Spirito e che si instauri un rapporto dialettico tra il
primato del ministero apostolico (Pietro) e il primato dell’amore e della profezia.
Tre sono gli elementi che formano la struttura dell’autentica tradizione il grande fiume entro
il quale i credenti sono sicuri di attingere la vera fede,
la predicazione delle origini
lo Spirito
l’apostolo.

La Chiesa come comunione per Giovanni


La prima lettera di Giovanni è indirizzata al gruppo dei fedeli rimasti ed è a loro che Giovanni
intende soprattutto parlare. La comunione è vista come qualcosa che realmente si può possedere,
qualcosa che si possiede unitamente a qualcuno con il quale si instaura un legame, una
compagnia. Non si può parlare di comunione là dove lo stare insieme è provvisorio e
occasionale. Stare insieme, non solo fare insieme.Questa è la stabilità. La comunione della vita
non è senza un reale e reciproco conoscersi. Il vocabolo dell’amore è molto utilizzato nella prima
lettera di Giovanni.
“Affinché abbiate comunione con noi”
L’autore non si rivolge a non cristiani perché lo diventino, ma a cristiani che rischiano di smarrire il
legame con le origini della loro fede. Un invito a continuare a rimanervi. Comunione con noi
racchiude come un tutto unico i testimoni oculari contemporanei dell’evento di Gesù e coloro che
ne prolungano oggi fedelmente la testimonianza. La comunione si costruisce nella tradizione
comune, non nelle novità. Il con noi esige un legame di appartenenza, di esperienza di vita con il
gruppo.

“Affinché anche voi”


Il “noi” rappresenta alcune volte un gruppo che si pone di fronte alla comunità, altre volte si
identifica con la comunità. Da un lato, Giovanni e il gruppo autorevole cui egli appartiene si
pongono di fronte alla comunità; dall’altro si affiancano affermazioni che pongono l’autore e il suo
gruppo all’interno della comunità.

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Autorità e comunità si legano in un rapporto di comune appartenenza, non soltanto in un
rapporto di obbedienza e di ascolto.. Giovanni insiste nel dire che lo Spirito è presente in tutti i
fedeli, non è possesso esclusivo di un gruppo, fosse pure il gruppo del “noi” autorevole
“ Con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo”
Questo “noi” è in comunione con il Padre e il Figlio. Giovanni vuole dirci che è attraverso la
comunione con la comunità, non al di fuori di essa, che si raggiunge la comunione con Dio.
Così egli colpisce qualsiasi pretesa di comunione con Dio che si affidasse allo slancio del singolo. Il
“noi” non è un gruppo qualsiasi, ma il gruppo di coloro che hanno visto e udito e che ora
testimoniano ciò che hanno visto e udito. E’ proprio perché si entra in comunione con Dio
mediante Cristo che occorre entrare in comunione con la Chiesa.
Essere in comunione con il Padre e il Figlio significa partecipare alla comunione che intercorre
fra loro, una comunione intratrinitaria.
“Abbiamo comunione reciproca”
Se camminiamo nella tenebra (nella menzogna) non abbiamo comunione con Dio, se
camminiamo nella luce (nella verità) abbiamo comunione tra noi. Ciò che decide la
comunione con Dio è sempre la condotta morale. La vita che Gesù ha vissuto è, dunque, il
“come” del vero cristiano.
Il cristiano non ha davanti agli occhi una legge, ma un esempio vivo, una persona. Se davvero
conosci Dio e sei in comunione con Lui, allora devi vivere secondo la sua volontà, camminare
come Cristo ha camminato è la condizione per conoscere Dio e per entrare nella sua comunione.
La conoscenza di Dio e la comunione con Lui sono un operazione morale, un fatto di vita, più che
un operazione intellettuale o speculativa. L’amore è ciò che permette di vedere, capire e fare
esperienza della realtà di Dio. Chi non ama il fratello si trova spaesato di fronte alla realtà di Dio:
non sa cosa significa amare, e quando non si conosce l’amore manca la luce per vedere. Se l’uomo
privo d’amore non sa dove andare ed inciampa, non è perché la verità di Dio sia oscura, ma perché
lui è cieco, incapace di vedere e capire. L’amare e il non amare raggiungono il centro profondo di
una persona.
“ Ciò che avete udito da principio”
Non c’è comunione senza un fermo attaccamento al messaggio originario di Gesù. Non è dalla
nostra esperienza che comprendiamo cosa sia l’amore fraterno, ma dall’evento di Gesù.
L’amore fraterno è la memoria dell’evento di Gesù, il segno che si è veramente inseriti nella
tradizione che viene “da principio”. Amarsi scambievolmente è la vita di Dio (la vita che corre
tra il Padre e il Figlio) e dell’uomo (la fraternità).
“ Nessuno ha mai visto Dio”
La visione di retta di Dio non è data a nessuno, ne ieri ne oggi. L’unico spazio in cui fare
esperienza di Dio è l’amore reciproco, la comunione fra noi. Lo Spirito è il testimone intimo e
segreto che crea nel cuore dei credenti la certezza di essere in comunione con Dio. Lo Spirito
trasforma gli indizi (la fede e l’amore) in intima persuasione.
L’apostolo interviene indicando i criteri per un corretto discernimento fra spirito e spirito, fra
lo spirito che viene da Dio e lo spirito che viene dal mondo. Ci sono tre criteri per fare questo
discernimento:
1 la retta confessione di Gesù Cristo, l’accettazione di Gesù come Figlio di Dio realmente
venuto nella carne. Questa è la fede tramandata dalla tradizione che deve prevalere su ogni
altra sollecitazione culturale
2 la distanza dal mondo. Chi è da Dio non è riconosciuto dal mondo. Chi viene dal mondo
parla come il mondo e segue la logica del mondo
3 l’ascolto dell’apostolo.
Ci sono altri criteri quali:
- tutto ciò che è nel mondo (la concupiscenza della carne e quella degli occhi, l’orgoglio della
vita) non è dal Padre, ma dal mondo.

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La fedeltà a “ciò che viene dal principio” e la prassi corretta della carità. La verità si è rivelata nelle
parole di Gesù: nel tempo della Chiesa essa continua a svelarsi nella fedeltà alle sue parole e in una
prassi che prolunga e riproduce la sua vita.

L’Apocalisse
Una pessima abitudine è di considerare lo scopo dell’Apocalisse sia quello di rivelarci il futuro.
L’Apocalisse intende insegnare alla comunità cristiana a leggere il presente carico di
perplessità e di incertezza. Di violenza, di cadute di valori e disorientamento. E’ una lettera i
cui immediati destinatari sono 7 Chiese Il numero 7 simboleggia la pienezza, di qui la
conclusione che è diretta alla Chiesa intera, anche a noi. E’ una lettera destinata all’assemblea
liturgica, dunque uno che legge ad alta voce (un lettore) e quelli che ascoltano (l’assemblea).
Intende suggerire alla comunità tutto ciò che essa deve fare nel tempo difficile in cui è chiamata a
vivere. Tutto si riassume in tre atteggiamenti: leggere, ascoltare, mettere in pratica.

Le sette lettere alle sette Chiese


Tutte e sette le lettere sono costruite secondo un medesimo canovaccio:
l’indirizzo
la presentazione di Cristo
l’esame di coscienza
l’invito all’ascolto
la promessa.
Si tratta di un itinerario di conversione: l’assemblea si confronta con Cristo e con la sua Parola;
alla luce di questa Parola analizza la propria situazione, nel bene e nel male; docile allo Spirito, la
comunità discerne e prende le decisioni.
L’atteggiamento primo e fondamentale non è il fare ma l’ascoltare.
Le situazioni descritte sono 3.
1 la presenza nella comunità di concezioni incompatibili con la vera tradizione apostolica. La
fede delle origini è ciò che deve restare fermo.
2 la persecuzione. Si ripete quella stessa opposizione che il Cristo per primo ha incontrato.
3 la mondanizzazione. La perdita della fede primitiva, il compromesso con la logica mondana. Le
comunità non hanno più l’amore di un tempo.
Le direttive sono tre:
1 rimanere fedeli alla tradizione che risale alle origini
2 ritornare alla fede e allo slancio di un tempo
3 sostenere senza paura la prova che proviene dall’opposizione del mondo

L’Apocalisse è un canto di lode sul Cristo morto e risorto, una celebrazione della vittoria del
Signore sulle forze del male e della morte. Due sono i cardini sui quali poggia:
1 la sovranità di Dio. E’ colui che tiene saldamente nelle mani la sua Chiesa, una Chiesa
perseguitata e lacerata, in lotta con il male e con il peccato ma che ha il diritto e il dovere di essere
lieta e vittoriosa, perché è nelle mani di Dio che è il Signore dell’Universo
2 la convinzione che per leggere la storia occorre partire dalla vicenda di Gesù Cristo.
Il profeta ha la visione di un libro chiuso con sette sigilli e la constatazione che nessuno è in grado
di aprirlo e di leggerlo. Di qui il suo pianto, ma poi l’affermazione gioiosa che il Cristo morto e
risorto è in grado di aprire il libro e leggerlo. Il segreto della nostra stessa fede è racchiuso in questa
successione di gesti. Nessuno è in grado di aprire il libro, cioè di cogliere nella confusione delle
vicende umane la direzione e il senso vero delle cose. Di qui l’angoscia, lo smarrimento.
L’Apocalisse afferma che ora non è più così: con la morte e risurrezione Cristo ha rotto i sigilli e il
libro si è aperto.L’uomo abbandonato a se stesso si smarrisce e solo nel Cristo morto e risorto
ritrova la sua verità. Affidarsi alle chiacchiere che provengono da ogni parte e che pretendono
di rivelare il senso delle cose è illusorio: soltanto dalla morte e risurrezione del Cristo viene la

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possibilità di comprendere appieno il senso della storia. La rivelazione necessaria per
comprendere la storia e prevederne il corso è la vicenda storica di Gesù, non dunque una
rivelazione nuova ma una memoria. La via di Dio, della non violenza coraggiosa e del martirio,
è crocifissa, ma non vinta. Sono i martiri che costruiscono la vera storia, non i potenti e gli
oppressori.
Il tema centrale dell’Apocalisse è la ripetuta affermazione della presenza del Regno di Dio nelle
vicende umane. Il criterio di valutazione della storia è Cristo e il modo di porsi in essa è indicato,
una volta per tutte, dalla via che Egli ha percorso.

Nessuna paura
Nell’Apocalisse si legge una storia dai tratti mitologici. – Michele con i suoi angeli ingaggiò
battaglia contro il dragone, che combattè con tutti i suoi angeli, ma non vinse. Così il dragone fu
precipitato in basso sulla terra con tutti i suoi angeli. –
Dobbiamo porci davanti a Dio in due modi differenti:
1 quello del dragone – nell’atteggiamento di chi vuole sostituirsi a Dio
2 quello di chi proclama che solo Dio è Dio. Michele è l’esatto contrario della figura di Satana.
Dobbiamo ricordare la stretta corrispondenza tra l’alto e il basso. Ciò che avviene in alto ha il suo
corrispondente in basso. In alto tutto è già deciso e concluso, in basso tutto è ancora in
svolgimento. Ciò che si vede in alto è la conclusione anticipata, certa, di ciò che in basso ancora
non è concluso. Nella storia in alto è l’arcangelo Michele che vince il dragone. La lezione è che
il dragone è ancora attivo nel mondo; dunque è necessaria la vigilanza. Ma non c’è d’aver
paura: Satana è già sconfitto.

Le due città
L’Apocalisse descrive Babilonia, la città pagana, idolatra, i cui contrassegni sono l’insofferenza di
Dio, il lusso sfacciato e volgare, la violenza, la capacità di attrarre nella propria menzogna tutti i
popoli della terra. Esprime la città pervasa da un consumismo che relativizza tutto anche la vita
umana. I cristiani sono invitati ad uscire da questa città.
L’Apocalisse descrive, poi, la città di Dio, la città di segno positivo. Le due città sono l’una
l’opposto dell’altra. Babilonia si erge contro Dio, la nuova città discende da Dio. In questa città
tutto è luminoso e trasparente, sono cadute le menzogne, sono scomparse tutte le chiusure e le
paure, gli egoismi e le violenze. L’Apocalisse sottolinea che si tratta di una città che vive in piena
comunione con Dio. Non c’è più bisogno di nulla, basta la presenza di Dio. Nella città di Dio
non ci sono più chiese, sono caduti i veli e Dio è di fronte.
L’Apocalisse assicura che i veli cadranno, e Dio sarà di fronte. Ora è il tempo della ricerca, del
desiderio e della meditazione.
L’Apocalisse inserisce anche un avvertimento e una minaccia: “ Non entrerà in essa nulla di
impuro, ne chi commette abominio e falsità”.Il futuro è promesso ma non è scontato.

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LE STRUTTURE COSTANTI DELLE PRIME COMUNITA’

Alcuni nodi formano l’ossatura della fede delle prime comunità cristiane.
1 Al centro dell’attenzione c’è l’agire di Dio in Gesù, nel Signore risorto in Gesù di Nazareth.
Esso è visto come la propria origine, alla quale tutte le comunità si richiamano.Le comunità sanno
di essere il frutto della morte/risurrezione di Gesù e del dono del suo Spirito, non solo il progetto di
una sua volontà. Sanno di essere frutto di un evento già accaduto, ma sperimentano anche di essere
il frutto di una presenza attuale di Cristo, radunate da Cristo e attorno a Cristo e vivificate dal suo
Spirito.
2 La ricerca morale delle prime comunità è caratterizzata dalla legge della sequela. Si resta
fortemente colpiti dalla vitalità e dallo slancio missionario delle prime comunità. Le convinzioni di
questo slancio sono 2:
1 la signoria di Dio su tutto il mondo
2 il Cristo unico mediatore di salvezza.
Le comunità aspettano ma non si ritirano dal mondo, non lo abbandonano al suo destino.
Restano nella società annunciandovi la lieta notizia ed esemplificando un modo nuovo di
rapportarsi al mondo. Non diventano mai comunità entusiaste al punto tale da perdere il senso della
storia e del futuro. Neppure l’entusiasmo le induce ad abbandonare il mondo.
Non hanno luoghi di culto fissi, ma si raccolgono nelle case e qui tengono la loro assemblea
che comprende la cena fraterna e l’eucaristia, le confessioni di fede. Assai forte è l’esperienza
della fraternità, il centro del culto è la cena del Signore.
Nel culto si celebra l’esistenza di Gesù e si configura e sollecita un progetto di esistenza per la
comunità.
L’accettazione dell’Antico testamento come Scrittura da parte di tutte le comunità mostra la
coscienza della continuità della storia della salvezza, la continuità tra l’antico Israele e il nuovo
Israele. Mostra l’unità fra le chiese giudaiche e le chiese ellenistiche. Nell’ascolto delle stesse
Scritture le comunità cristiane trovano un principio di unificazione.
Le Scritture sono infatti lette a partire da Cristo il cui evento resta primario.
La passione della comunione sembra essere la passione principale, che ha guidato tutta la ricerca
delle prime comunità. La comunione non è soltanto consapevolezza di una comune appartenenza
(queste sono le radici della comunione), ma è anche creazione di relazioni nuove, di rapporti di
condivisione. Una comunione aperta che si apre alla missione e al mondo. Le comunità sono
tenute insieme dalla comune fede e dalla consapevolezza di formare l’unico popolo di Dio e in
tale contesto c’è spazio per le diversità. Ogni comunità ha le sue accentuazioni spirituali e i suoi
problemi, ma queste differenze non rompevano la comunione.
Le prime comunità, da una parte sperimentano che lo Spirito è presente e attivo, guida la comunità e
vi distribuisce i suoi doni, ed è fattore di fedeltà e di comunione; dall’altra sperimentano che lo
Spirito non basta a ottenere la fedeltà e la comunione: occorrono l’apostolo, l’ordinamento, la
tradizione.
Lo Spirito fa scomparire le differenze “carnali” (di dignità, potere, separazione) e fa emergere
le differenze spirituali. Il principio di tradizione è costitutivo della vita delle prime comunità.
E’ la tradizione dello Spirito non della lettera. Una tradizione che esige una duplice fedeltà:
1 alle origini
2 alla contemporaneità.

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CHIESA LOCALE E CHIESA UNIVERSALE NEL NUOVO TESTAMENTO

Paolo indirizza la sua lettera “Alla Chiesa di Dio (universale) in quanto si incarna (locale) nella
comunità di Corinto”. La Chiesa non è definita dalla sua collocazione geografica e ambientale,
ma è una realtà che si manifesta nelle comunità locali. Come la Chiesa locale non è la somma
dei suoi gruppi e dei suoi membri, la Chiesa universale non è la somma delle comunità
particolari. La comunità locale non può permettersi di estraniarsi dalla vita della Chiesa nella
sua totalità, Paolo invita la comunità di Corinto a partecipare alla colletta per i cristiani di
Gerusalemme e a tenere costantemente presente la fede e le pratiche delle altre Chiese.
Nel nuovo Testamento “ekklesia” non designa la singola comunità, ma “il popolo di Dio”, la
comunità degli eletti della fine dei tempi. Designa anche la singola comunità locale residente in un
luogo. Rimane sempre ferma la coscienza di essere l’unico popolo di Dio, radunato in Cristo.
Questa coscienza mantiene costantemente aperta la singola comunità verso tutte le altre.
“Ekklesia” designa anche la Chiesa nella sua totalità, abbracciando tutti i cristiani sparsi in
ogni luogo.
Si traggono due conclusioni:
1. La coscienza dell’unico popolo di Dio – di cui le singole comunità fanno parte - è primaria,
quasi una decisione delle singole comunità che scoprivano di avere la medesima fede e gli
stessi ideali. Primaria la convinzione che nella comunità singola si manifesta e prende figura
l’unica grande comunità.
2 la Chiesa universale non è la semplice somma delle Chiese locali, ne la Chiesa locale non è una
semplice porzione di quella universale.

Gli Atti degli Apostoli descrivono per tappe il cammino della Chiesa nel mondo.
Una tappa importante è la fondazione della comunità cristiana in Samaria. Per la prima volta la
comunità cristiana esce dai confini territoriali e culturali della Giudea e annuncia il vangelo a
gente ritenuta esclusa e diversa, i samaritani appunto, che i giudei disprezzavano e
consideravano alla stregua dei pagani. Protagonista di questa tappa è Filippo, la sua missione
richiede l’intervento di Pietro e Giovanni che rivelano che la Chiesa madre di Gerusalemme
non considera le nuove comunità, che man mano sorgono, come staccate e indipendenti. Unica
la Chiesa e unico è il messaggio. La comunione diventa comunione fra comunità e comunità,
Chiese antiche e Chiese nuove. Il ruolo degli apostoli in questa rete è insostituibile.
Una seconda tappa fondamentale fu la fondazione della comunità cristiana di Antiochia che non
si considera indipendente e staccata, ma in comunione con la Chiesa madre di Gerusalemme.
Questo legame è un indice di un vivo senso della tradizione e dell’attaccamento alla vicenda del
Gesù storico. La comunità di Antiochia è una comunità mista, formata da ex-ebrei e da ex-
pagani. Una convivenza tranquilla fino a quando un gruppo di cristiani di Gerusalemme non
la pensa allo stesso modo. Nasce così una discussione,risolta nella grande assemblea di
Gerusalemme, dove sono tenute presenti due preoccupazioni
1 salvaguardare la specifica fisionomia della Chiesa pagano-cristiana
2 l’unità della Chiesa.
Non c’è un vangelo per ogni predicatore e per ogni comunità, ma un solo vangelo per tutte le
comunità.
Di particolare importanza la colletta organizzata da Paolo in favore della comunità di Gerusalemme.
Si tratta di spingere i pagano-cristiani a dare una prova, concretamente, di non considerarsi estranei
ai cristiani di Israele, ma di considerarli fratelli anziani ai quali bisogna unirsi.
La comunione delle chiese ellenistiche con la chiesa di Gerusalemme non è un semplice
mettere in comunione le proprie risorse, ma di diventare Chiesa facendo parte dell’unico
popolo di Dio, inserendosi nella comunità madre di Gerusalemme.

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Le comunità cristiane primitive hanno la passione della comunione e, quando sorgono nuove
comunità, le Chiese sentono il bisogno di creare legami di fraternità tra loro. Una fraternità concreta
che si realizza attraverso scambi, aiuti e visite. Le relazioni scaturiscono dalla natura profonda
della Chiesa ( che è realtà di comunione) e dalla sua missione ( che consiste nel proclamare il
grande raduno di Cristo). Questa fraternità non è vissuta solo attraverso il legame con la
Chiesa madre (prima Gerusaleme poi Roma), ma contemporaneamente attraverso una fitta
rete di relazioni orizzontali, fra comunità e comunità.
Le comunità de nuovo Testamento sono fortemente in comunione tra loro, ma resistono alla
tentazione di appiattirsi in una uniformità che non lasci più spazio alle originalità locali e
culturali.

La Chiesa è necessariamente locale, inserita in un ambiente storico e in una cultura precisa.


Nei testi è sempre presente il riferimento al luogo. La “località” è importante come
l’universalità.
La Chiesa è locale non tanto perché gli uomini vivono e operano in un luogo, ma perché la
Chiesa deve farsi visibile, tangibile, corporea, deve essere solidale con le situazioni
sollecitandole verso il Regno. Il “locale” esprime una vocazione che non è solo fedeltà all’uomo
ma fedeltà al piano di salvezza e all’incarnazione. La contestualizzazione locale e culturale è
un’esigenza, che deve sempre storicizzarsi in luogo e in un contesto. L’annuncio è completo
quando non soltanto cade in un ambiente, ma germina e cresce in quell’ambiente,
storicizzandosi e localizzandosi. Tutte le Chiese del Nuovo Testamento sono nate in questo
modo.
La comunità è presente in un luogo ma non si identifica mai con il luogo, conserva sempre una
sua “autonomia” (estraneità) almeno per due motivi:
1 la tensione universale che non permette alla comunità di chiudersi completamente negli
interessi locali
2 è estranea al luogo perché qualitativamente diversa. E’ un’estraneità che nasce dalla novità
di Cristo e dalla libertà dello Spirito.Non accetta di essere solidale con il peccato e la novità di
cui è portatrice non è mai completamente integrata in un luogo, ma sempre oltre.
L’evento di Gesù è irriducibile al luogo: ne lo si può dedurre dalla cultura ambiente ne si lascia d
essa imprigionare. L’evento si è presentato come una “novità” rispetto all’ambiente giudaico: ne ha
assunto la cultura e tradizioni ( Gesù fu ebreo) ma non vi si è lasciato rinchiudere.

Le differenze che esistevano tra le Chiese locali non venivano giudicate incompatibili con la
loro comunione. Le comunità giudaiche sottolineavano maggiormente la continuità con
Israele e quindi l’istituzione; le comunità greche sottolineavano la novità del cristianesimo e la
libera presenza dello Spirito. Queste differenze non rompevano l’unità della Chiesa ne
affievolivano la coscienza di appartenere all’unico popolo di Dio. Non due chiese ma una sola e
tuttavia diverse.
Un esempio è la diversità fra le chiese delle lettere pastorali e le chiese giovannee.
La comunità di Giovanni non pone al primo posto le strutture (una regola della fede, un
deposito di dottrina, i ministeri) ma lo Spirito che è di tradizione e di rinnovamento. Spirito che
appartiene a tutti i membri della comunità e non soltanto ad alcuni.
Ci troviamo di fronte a comunità che accostavano, esprimevano e vivevano in modo diverso il
medesimo mistero di Cristo. Le comunità di Giovanni, Luca, Paolo vivevano la loro particolare
visione di Cristo come il loro modo di vivere l’esperienza cristiana nella sua totalità. Nelle chiese
locali è possibile, senza rompere la comunione, ma proprio al suo servizio, sono possibili delle
differenze. Il Nuovo Testamento ci offre tre indicazioni:
1 un continuo confronto con le origini, con l’apostolo, con una chiesa locale che fa da centro
alla comunione ( nei primi anni Gerusalemme e poi Roma)

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2 nessuna chiesa locale può identificarsi con la Chiesa universale ne pretendere che le altre
chiese si identifichino con la sua precisa esperienza cristiana.
3 l’universalità che deve manifestarsi in una visibile unità di fede, di comportamenti e di
relazioni.

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LA CHIESA E IL SUO ORDINAMENTO

La funzione primaria del ministero ordinato è quella di conservare la memoria dell’evento di


Gesù.
Il sacerdote è un mediatore come lo sono pure il re e il profeta. Ma questi ultimi lo sono in forza
di un carisma personale, come eletti da Dio, il sacerdote invece lo è in forza del suo stato: il
sacerdozio è un istituzione di mediazione.
Il culto è tutto avvolto nell’evento di Gesù, il cui servizio si è espresso non in gesti rituali, ma
nella concretezza della sua vita, della sua esitenza e della sua persona. La ragione della novità
del sacerdozio neotestamentario è unicamente l’evento di Gesù Cristo , sempre più percepito
come gesto definitivo di Dio e risposta perfetta dell’uomo a Dio. Sulla Croce c’è un figlio di Dio
che muore per noi in un gesto di suprema e definitiva alleanza, questo è il dono; e c’è un uomo
che muore per Dio in un gesto di perfetta obbedienza, questa è la risposta. Non c’è più posto
per altri doni e per altre risposte. Lo spazio aperto al culto e al sacerdozio cristiano è ormai solo
la memoria di quel dono unico e definitivo, la sua celebrazione.

Il concetto di sacerdozio viene modificato partendo da Gesù. A molti sacerdoti subentra


l’unico sacerdote, ai molti sacrifici l’unico sacrificio offerto una volta per sempre.
L’originalità del sacerdozio di Gesù rispetto al sacerdozio dell’Antico Testamento deriva dal
mistero della sua persona, dalla posizione unica e originale in cui Egli si trova in rapporto al
Padre e in rapporto agli uomini. Gesù ha vissuto il suo sacerdozio nella linea della solidarietà. La
sua mediazione fra Dio e l’uomo avviene nella linea dell’incarnazione.
Che cosa sia il sacerdozio va chiesto all’evento di Gesù, avendo Egli al tempo stesso svelato ed
esaurito la figura del sacerdote, eventuali altri sacerdoti non possono che collocarsi sul
versante della memoria e della ripresentazione dell’unico sacerdozio di Gesù. Nessuno può
vantare un proprio sacerdozio, se non Gesù Cristo, ne alcuno, al di fuori di Lui, può vantare una sua
personale mediazione.
Il sacerdozio ministeriale è al tempo stesso ricco e povero. Povero, perché non ha una sua
autonoma consistenza, ma è tutto racchiuso nel sacerdozio di Cristo. Ricco proprio perché
non presenta se stesso ma rinvia a Gesù, non offre un proprio sacrificio ma ripresenta l’unico
sacrificio di Gesù.
Si possono fare due osservazioni:
1 come il sacerdozio ministeriale non può sostituirsi all’unico sacerdozio di Cristo ma deve
ripresentarlo e porsi interamente al suo servizio, sembra logico pensare che il sacerdozio
ministeriale non debba annullare, ne oscurare, il sacerdozio del popolo di Dio, bensì esprimerlo e
suscitarlo.
2 il sacerdozio del popolo di Dio è nel Nuovo Testamento completamente investito dalla
novità di Gesù.
L’adesione a Cristo viene così precisata: non soltanto un’adesione alla sua persona, ma al
dinamismo specifico della sia esistenza, con una sottolineatura della Croce. Il sacerdozio del
popolo di Dio è l’adesione e la sequela del Signore Gesù. Adesione a Cristo e sequela di Gesù
delimitano lo spazio in cui i credenti sono trasformati in pietre viventi, e nel quale possono offrire a
Dio sacrifici spirituali. Il sacerdozio del popolo di Dio si esprime nella sequela, nel dono di se,
fare propria la logica della croce. Esso si realizza in un’esistenza che – qui e ora – lascia
trasparire la memoria di Gesù.
Per concludere:
Il sacerdozio cristiano vive di una duplice appartenenza: a Cristo e alla Chiesa. Non è il
sacerdote che si sceglie, né è lui a scegliersi il compito. Il suo compito e il modo di svolgerlo sono
configurati dal fondamento, di cui egli è la memoria. Il lavoro del sacerdote non può esaurirsi nelle
esplicitazioni delle proprie doti o di un proprio personale carisma.

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Il sacerdote appartiene anche alla Chiesa, al tempo stesso dentro la Chiesa e per la Chiesa,
ricordando anche alla Chiesa la memoria che la precede, ricordandole sempre che il suo
fondamento non è lei stessa. La funzione di fare comunione e la stessa missione si reggono
unicamente sulla base del compito di salvaguardare la memoria del fondamento, l’oggettività
dell’evento di Gesù Cristo e del suo permanere.
Il sacerdozio ministeriale si fa riconoscere attraverso un incarico ( il sacramento) che lo rende
oggettivamente e pubblicamente riconoscibile.

La scelta delle metafore e delle figure consente di parlare delle funzioni del ministero ed anche delle
disposizioni spirituali che devono investire chi è chiamato a svolgerlo.
La parola SERVO riferito a chi ha qualche incarico nella comunità. Servizio e servire sono a
volte accompagnati da una specifica azione: per esempio servizio della parola, della riconciliazione,
dei santi espressione questa con la quale Paolo indica il suo servizio alla carità, o meglio alla
comunione fra la comunità di Gerusalemme e le altre Chiese. Il servizio della parola, per esempio, è
donardi interamente alla Parola e al suo annuncio.
Servizio e servire sono termini che nel Nuovo Testamento indicano sempre un’appartenenza totale
“ Nessuno può servire due padroni”.
Servo e basta, questo è il ministro, si tratta di un servizio su incarico. Non un compito da eseguire.
Lo svolgimento di un compito può dirsi veramente servizio solo se emerge da una vita tutta a
servizio.
In una frase del Vangelo di Marco “ Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per
servire”. Con queste parole Gesù svela il progetto che ha guidato la sua intera esistenza, dall’inizio
alla fine, e che da ragione di tutti i suoi gesti, compresa la Croce. Il Figlio dell’uomo non è venuto
a farsi servire (come il mondo si attendeva e avrebbe ritenuto giusto), ma a servire, (cioè a
vivere la propria esistenza prendendosi a carico (fino alle ultime conseguenze) le moltitudini.
E’ sulla base di questo modo di ragionare che sorgono i servizi specifici.
La parola PASTORE può riferirsi soltanto a Cristo e ai discepoli, che hanno compiti di
responsabilità della comunità.
Pascere è immagine che indica tutto il complesso delle funzioni direttive necessarie alla vita di una
comunità. E sempre viene detto che si tratta di un compito che sorge da un incarico del Signore: la
comunità è di Dio non del Pastore. I pastori devono sorvegliare il gregge con amore, nel più totale
disinteresse, non facendo da padroni sul gregge, soprattutto con l’esempio della propria vita. La
funzione di pastore richiede non solo amore al gregge ma anzitutto a Gesù.
Pastore Gesù, per il Nuovo Testamento, è il referente principale dell’immagine.
Nella parabola del pastore e della pecora perduta e ritrovata, il punto su cui cade il peso è il
fatto che per il pastore anche una sola pecora è tanto importante da indurlo a lasciare tutte le
altre. Il pastore Gesù è la trasparenza dell’amore di Dio che non abbandona i peccatori, ma li
cerca.
Il tratto comune è la missionarietà. Gesù lascia le novantanove pecore per andare in cerca di
quella che si è smarrita.
La parabola del pastore e della pecora smarrita sembra proprio rivolta ai capi della comunità, che
probabilmente si lasciavano catturare dai vicini dimenticando i lontani e gli smarriti. Il pastore
evangelico deve sapere che il gregge affidatogli non è solo costituito dalle pecore vicine, ma anche
dalle pecore che si allontanano e si smarriscono. Al pastore evangelico sono simultaneamente
richieste la custodia e la ricerca.

Paolo non ha soltanto chiara coscienza di essere apostolo e annunciatore del Vangelo, ma di essere
apostolo e annunciatore non per decisione propria, ne di altri, ma di Dio. Alla radice sta la gratuita
iniziativa di Dio che conferisce l’incarico.
Paolo sa che due sono le verifiche obiettive: la fedeltà alla tradizione e la sintonia con tutte le
Chiese. Queste due convinzioni Paolo le ha rispettate. Il Vangelo che annuncia è fedele alle

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origini: egli “trasmette” ciò che a sua volta ha “ricevuto”. Il suo programma missionario fu
sottoposto agli apostoli di Gerusalemme ricevendone piena approvazione. Il Vangelo che predica
appartiene alla fede di tutte le Chiese. Nella concezione paolina il ministero è il segno del
Signore risorto che in ogni giorno e in ogni luogo è presente nella sua Chiesa ( con l’annuncio
della Parola, il dono della carità e della comunione, il perdono e la salvezza), ma è nel
contempo la memoria che l’evento di salvezza precede la Chiesa. L’attività di Paolo è di
mantenere viva, sempre attuale e fedele, la memoria di Gesù, che per lui si concentra
particolarmente nella Croce/Risurrezione.
Paolo è innanzitutto il ministro della Parola.
Paolo spiega che il suo compito di predicare non ha soltanto lo scopo di annunciare la Croce,
ma di vigilare affinché questa non venga “svuotata”, cioè staccata dall’evento storico, ridotta
sullo sfondo, scolorita. Sulla base della convinzione che il servizio della Parola è un servizio alla
Parola di Dio, Paolo costruisce tutta una spiritualità della Parola, che coinvolge interamente la
vita del ministro incaricato di farne memoria.
Paolo parla del suo servizio come di un “ ministero della riconciliazione”. E’ la riconciliazione
con i dissidenti di Corinto. La discordia non è vista da Paolo come un fatto personale, ma come
un attacco al Vangelo. Egli non vuole ristabilire soltanto la pace tra lui e la comunità, ma vuole
ricondurre la comunità alla fedeltà all’evento di Gesù. La riconciliazione è esclusivamente opera
di Dio, sua è l’iniziativa. Il suo amore riconciliatore si è manifestato in Cristo e tramite Cristo: la
riconciliazione discende dalla Croce di Gesù. Ma accanto a questi due protagonisti _ Dio e
Cristo - ne appare un terzo il “noi” a cui Dio ha affidato il servizio della riconciliazione.
La riconciliazione è un gesto passato di Dio, attualizzato oggi dalla predicazione. E’ qui che si
inserisce il ruolo del ministro.
Paolo è stato il custode del vero senso della cena del Signore. E lo ha fatto in tre modi:
1 richiamando alla memoria dei Corinti le parole della tradizione
2 sottolineando che la cena del Signore è anzitutto un annuncio della morte del Signore
3 mostrando ai Corinti che la loro cena contraddiceva la cena del Signore.
Il modo con cui i Corinti si comportavano trasformava la cena del Signore in una cena privata. Ma
allora la cena non è più la memoria dell’evento di Gesù. E Paolo interviene duramente. Il ministro
non è soltanto il presidente della celebrazione, è anche il “custode” della memoria celebrata.
L’uomo di Corinto era portato a primeggiare, tutti atteggiamenti che aprivano la strada alle rivalità e
alle divisioni. A questi modi di ragionare Paolo oppone la “carità”, cioè la memoria della Croce.
Tutto il comportamento di Paolo, sia il suo modo di ragionare sia il suo modo di intervenire,
converge nell’affermare che la funzione prioritaria del ministero apostolico è la memoria del
fondamento, la sua gelosa custodia e la sua continua attualizzazione. Non basta che il
fondamento sia posto: deve permanere, incarnandosi nella fede, nella comunione e nella
missione.

Paolo deve allontanarsi da Efeso, mentre ci sono nella comunità dottori che non insegnano la vera
dottrina. L’apostolo affida allora al suo discepolo l’incarico di opporsi alla predicazione di
questi falsi maestri. Paolo ricorda a Timoteo l’incarico ricevuto, mediante l’intervento
profetico e l’imposizione delle mani. Timoteo è stato scelto da Dio e nel contempo
ufficialmente e pubblicamente incaricato.
La funzione di autorità che Timoteo è chiamato a svolgere, richiede che il suo incarico sia
pubblicamente riconoscibile e, quindi, ufficialmente designato: un ministero che non si autentica da
se, in forza di doni che il ministro possiede e può vantare, ma si autentica oggettivamente in forza di
un dono permanente e di una pubblica designazione.
Il compito che Paolo affida a Timoteo va dal culto al buon ordine della vita comunitaria e alla
scelta oculata dei ministri. Il compito primario è la salvaguardia del fondamento apostolico e
l’amorevole custodia della “sana dottrina”.

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“ O Timoteo custodisci il deposito”. Custodire significa sorvegliare con attenzione, e deposito
significa un bene che va custodito con cura, perché prezioso: un bene che è per tutti. Il
deposito è l’insieme delle verità della fede e della carità, verità apostoliche, obiettive e per
tutti.
Timoteo deve risiedere tutto intero e permanentemente nel suo servizio. La missione configura il
modo di vivere al punto che l’esistenza personale del ministro deve presentarsi alla comunità come
un modello.

La funzione essenziale del ministero ordinato è la memoria dell’evento di Gesù. Custodire la


memoria non significa solo conservarla fedelmente, ma anche mantenerla viva, attuale, salvifica e
disponibile per tutti. La stessa esistenza personale del ministro deve apparire come il modello di
una memoria pubblica, istituzionale, comune.
Il ministero non si fa riconoscere attraverso le doti personali, ma attraverso un incarico che lo rende
oggettivamente e pubblicamente riconoscibile.
L’essenza della missione del prete è di avere uno sguardo che resta fisso su quell’evento che
rappresenta il centro e la meraviglia della fede: il fatto cioè che “noi uomini siamo salvi grazie
a Gesù Cristo”. E’ qui che egli può trovare lo slancio e la direzione della propria missione e le
indicazioni per la propria azione pastorale. La cosa più importante per il prete, è offrire all’uomo la
possibilità di attingere a questa memoria per trovare un senso al proprio vivere.

IL servizio di Pietro
La testimonianza di Matteo si colloca in un momento delicato della vita di Gesù. Fallito
l’apostolato in Galilea, Gesù si concentra sul piccolo gruppo dei discepoli.
Gesù disse: “ Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. Tutti e quattro i Vangeli
ricordano che il nome Simone fu cambiato nel soprannome “roccia” e che Gesù attribuì a Pietro
un posto di preminenza nel gruppo. L’origine del passo va senza dubbio cercata in una comunità
che parlava aramaico. Pietro/pietra. Nelle liste dei dodici il suo nome compare sempre per primo. Al
soprannome “roccia” fu attribuito una grande importanza: tanto è vero che questo soprannome
soppiantò quello vero, Simone.
Ci sono tre metafore che racchiudono il senso del testo: della roccia, delle chiavi, del potere di
legare e sciogliere.
Pietro è la roccia (non tanto la prima pietra) che tiene salda la Chiesa, è il centro dell’unità
della Chiesa. Pietro è la roccia ma il costruttore è Gesù (costruirò); e la Chiesa non è di Pietro,
ma di Gesù (la mia Chiesa). Occorre che la Chiesa fatta di pietre vive abbia una pietra viva come
fondamento.
Avere le chiavi significa essere il maggiordomo, disporre di piena autorità, un’autorità vicaria. E’
un maggiordomo non il padrone.
Il significato di legare e sciogliere è proibire e permettere, separare e perdonare, e anche interpretare
autenticamente e autorevolmente la tradizione..
Le tre metafore convergono nell’affermare in Pietro un’autorità suprema ma sempre vicaria.
Egli è il portavoce della fede dei discepoli, ma è anche il portavoce del loro rifiuto della Croce.
Roccia e debolezza: la solidità di Pietro viene da Cristo, non dall’uomo. Pietro è roccia per grazia.
Le prerogative attribuite a Pietro – legare e sciogliere – sono attribuite anche al gruppo delgi
apostoli: concetto di collegialità.
Il passo esaminato dice che la Chiesa appartiene a Cristo. Poi ne sottolinea la stabilità: è costruita
sulla roccia, anche se apparentemente poggia sulla fragilità degli uomini.
Il destino della Chiesa è come quello di Gesù: un cammino tra le contraddizioni. Non si tratta solo
di difficoltà che vengono dall’esterno. All’interno della Chiesa si troveranno sempre dei peccatori.
Per questo la Chiesa ha sempre bisogno di legare e sciogliere. Continua il peccato e perciò deve
continuare anche il perdono.

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Nella testimonianza di Luca il contesto è la prova che la comunità deve attraversare.
“Ma io ho pregato per te” significa che la ragione ultima della stabilità della fede di Pietro non è
da cercarsi nella fedeltà di Pietro, e neppure semplicemente in Gesù, bensì nel Padre a cui Gesù la
chiede. Oggetto della domanda di Gesù è che la fede di Pietro non venga meno “ perché la tua
fede rimanga salda”. Gesù non chiede il coraggio o la santità, ma la fede perché di fronte alla
Croce imminente e alle prove che accompagneranno la Chiesa in tutta la sua storia, non è il
coraggio che tentenna ma la fede. Gesù ha pregato per Pietro ma l’oggetto della preghiera è che
Pietro possa confermare la fede di tutti gli altri. Mostra che la preoccupazione di Gesù per la sua
comunità passa attraverso Pietro che non è al di sopra della comunità. Pietro non sostituisce Gesù, e
gli altri restano discepoli di Gesù non suoi.
“ E tu una volta convertito” con la stessa parola con la quale affida a Pietro l’incarico di
confermare i fratelli, Gesù gli ricorda la propria debolezza. Al sostenitore della fede viene ricordato
che egli stesso condivide la debolezza degli altri.
“ Negherai di conoscermi”: è la tensione fra la debolezza di Pietro e l’incarico che egli riceve.
Questa tensione tra incarico e debolezza non sminuisce la funzione di Pietro, ma la rafforza
ponendola al riparo della sua personale santità.

Nella testimonianza di Giovanni il dialogo tra Pietro e Gesù è costruito intorno al numero 3:
tre domande di Gesù, tre risposte di Pietro, tre imperativi di Gesù. L’allusione al rinnegamento
riprende un dato già presente in Matteo e Luca: il contrasto tra la debolezza di Pietro e il compito
che gli viene affidato. Pietro è pastore per grazia, non per merito. La sua solidità poggia unicamente
sul Signore.
Non si tratta di tre domande ma di un’unica domanda ripetuta tre volte.
Gesù chiede a Pietro l’amore, non altro. Pietro ha confessato Gesù, poi ha detto di non conoscerlo,
ora gli viene chiesto amore, cioè appartenenza, dedizione, esclusività. L’incarico che Pietro riceve è
per gli altri, ma alla radice sta l’amore per Cristo. Il pastore non appartiene al gregge, ma al Signore.
E questa è libertà: il pastore deve rendere conto al Signore, non ad altri..
Non basta l’amore a Cristo per essere pastore, occorre un incarico.
La pienezza dell’amore per Cristo e la pienezza dell’incarico di essere pastore: pastore di tutto il
gregge, pecore e agnelli; il pastore che pensa a tutto ciò di cui il gregge ha bisogno.

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LO SPIRITO E LA CHIESA

Lo Spirito è chiamato a compiere tre miracoli:


1 attualizzare l’evento storico di Gesù rendendolo disponibile per ogni tempo ed ogni luogo.
Lo Spirito è la continuità tra il tempo di Gesù e il tempo della Chiesa.
2 trasformare il discepolo in un missionario
3 suscitare un incontro personale, intimo, con il Signore. Questo è il fondamento che sorregge
anche il secondo.
E’ all’interno della propria fede che si comprende che l’attesa di Cristo è profonda ed estesa a tutto
il mondo. Più l’incontro personale con Cristo è profondo e chiaro, più sappiamo vedere i segni della
sua attesa nel mondo

Lo Spirito nel Vangelo di Luca e negli atti degli apostoli.


Lo Spirito compare in tre racconti : il battesimo, la tentazione, il discorso nella sinagoga di
Nazareth.
Il racconto del battesimo pone al centro la discesa dello Spirito santo su Gesù in preghiera. Gesù è
riconosciuto nella sua fondamentale identità: “Tu sei il mio figlio prediletto”. Sono importanti due
particolari. Il primo è che Gesù fu battezzato con “tutto il popolo” dei penitenti. Esso non è un
peccatore, ma condivide la condizione dei peccatori. Sulla Croce non soltanto muore per i
peccatori, ma muore in compagnia di due malfattori. Questa è stata la via che Gesù ha percorso
nello svolgimento della sua missione, e questa deve essere la via della missione in ogni tempo.
Nella sua missione il servo non farà strepito né ricorrerà alla violenza, non seguirà la dura legge del
mondo che esalta ciò che è forte ed abbatte ciò che è debole. Nella sua attività missionaria Gesù ha
evitato ogni forma di ostentazione.
Nel racconto delle tentazioni è esplicito il collegamento con il precedente episodio del battesimo.
Il medesimo Spirito santo ricevuto al battesimo conduce Gesù nel deserto dove avviene il confronto
con il diavolo. Filiazione divina, dono dello Spirito e missione ( le tre fondamentali strutture
del battesimo) non sottraggono alla “prova” ma inaugurano un’esistenza costantemente messa
alla prova. Il centro della narrazione è costituito da tre suggerimenti di Satana e dalla triplice
risposta di Gesù. Il diavolo suggerisce a Gesù di percorrere una via messianica conforme alle
attese popolari. Le tre tentazioni si riducono ad una sola: dicono la strada che lo Spirito ha rifiutato
nella vita di Gesù e continua a rifiutare nel tempo della Chiesa.
La risposta di Gesù al tentatore è tutta racchiusa in tre citazioni della Scrittura. Gesù trovò la
risposta nella parola di Dio “ Non di solo pane vive l’uomo” – “ Solo il Signore tuo Dio
adorerai” – Non tenterai il Signore tuo Dio”. Sono tre citazioni che sottolineano la fiducia in
Dio e la dedizione all’unico Signore. Sono le due virtù che sconfiggono Satana, e sono i due
atteggiamenti sui quali la missione della Chiesa deve confidare.
L’episodio di Gesù a Nazareth è il terzo evento che conclude la trilogia dello Spirito. Gesù
ritornò in Galilea con “la potenza dello Spirito Santo” e entrato nella sinagoga, presenta il suo
programma: “mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato ad evangelizzare i poveri, a
proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi e a
predicare un anno di grazia del Signore”.
Almeno quattro sono i tratti che ci interesano.
1 la missione di Gesù comprende la liberazione degli uomini impoveriti, prigionieri e oppressi.
La predilezione per gli ultimi non crea emarginazioni, ma si sforza di abolirle. Questa predilezione
è il segno dello Spirito e fa parte dell’originalità della missione cristiana.
2 la missione non è solo l’annuncio di un futuro, una promessa, ma anche la proclamazione di
un compimento. Il tempo inaugurato da Gesù è tempo di compimento.
3 la proclamazione di una anno di grazia del Signore, espressione che probabilmente allude al
giubileo. Gesù ha rivelato Dio con il volto di un Padre che accoglie e perdona
4 la missione secondo lo Spirito è l’universalità.

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Negli Atti degli Apostoli Luca indica una “concatenazione”: il dono dello Spirito (il racconto
di Pentecoste), la Parola ( il discorso di Pietro), la comunità. E’ così che nasce sempre la
Chiesa: dallo Spirito alla Parola.
Nel suo discorso Pietro ripete “ Dio ha costituito Signore e Messia quel Gesù che voi avete
crocifisso”. Intende farci prendere coscienza del mistero della malvagità umana. Non abbiamo
esitato a condannare alla morte più infame il più giusto degli uomini. Nell’affermazione di Pietro è
racchiusa anche l’altra faccia della storia: quel Gesù che abbiamo crocifisso è morto per noi,
alla nostra cattiveria ha contrapposto il suo amore.
La risurrezione non è soltanto una vittoria sulla morte, ma la vittoria sulla malvagità. Pietro
annuncia che la malvagità esiste ma che è possibile vincerla e Dio l’ha già vinta.
Al sentire queste parole gli ascoltatori “ furono toccati nel cuore”. Il cuore non è semplicemente
la sede dei sentimenti, è il nucleo più profondo della persona. Quando la verità raggiunge
nell’intimo, ci si accorge che il modo di pensare e di vivere abituale è sbagliato, ci se ne dispiace
sinceramente e si desidera cambiare. Cambiare pensieri e ragionamenti (questo è il significato
del primo imperativo “ pentitevi) e farsi battezzare nel nome di Gesù (cioè credere nella morte
e risurrezione del Signore e percorrere, a nostra volta, la via della Croce), non avere più nulla
da spartire con la mentalità mondana (“salvatevi da questa generazione perversa”). La
risposta di Pietro è anche una promessa “ Ricevete lo Spirito Santo”. Senza questo dono dello
spirito il programma di rinnovamento resterebbe lettera morta, e la nostra debolezza continuerebbe
ad avere il sopravvento.
La conclusione del capitolo degli Atti: “si aggregarono a loro circa 3.000 persone”. Convertirsi
non significa altro che questo: entrare a far parte d una comunità di fede e di vita. I primi
missionari non si limitano ad annunciare le esigenze del cambiamento, ma invitano gli
ascoltatori a entrare a far parte del cammino della comunità che, in alcuni passi degli Atti
degli Apostoli, è chiamata appunto, la Via.

La missione suscitò un ampio dibattito nelle comunità primitive. Da una parte la concezione dei
giudeo-cristiani (prima deve convertirsi Israele e poi le genti. La conversione dei pagani deve
comprendere l’accettazione della circoncisione); dall’altra la concezione paolina che vedeva
un’apertura universale che comporta la libertà del vangelo ( non le pratiche giudaiche). Il
concilio di Gerusalemme propone la missione paolina, che difende la libertà del vangelo e non è
frutto di una decisione umana ma volontà dello spirito, e trova un ampio consenso all’interno
dell’intera comunità.
Nel concilio di Gerusalemme viene risolto uno dei problemi più difficili del cristianesimo
primitivo: salvare la libertà del Vangelo e insieme l’unità della Chiesa. La decisione che al
termine del dibattito fu da tutti sottoscritta: non imporre alcun altro all’infuori dei seguenti
obblighi che vi teniate lontani dagli idolotiti, dal sangue e dagli animali soffocati e dai
matrimoni irregolari. In esso si accetta la libertà del Vangelo, dall’altra si pongono alcune
clausole per motivi di carità e unità. Tutto questo è voce dello Spirito: uno Spirito che non si
presenta in modo miracolistico, ma come presenza discreta, normale , che agisce all’interno di un
difficile dibattito. Lo Spirito lavora per conservare la libertà del Vangelo e l’unità della Chiesa: non
solo l’una o l’altra ma entrambe.

Paolo chiama i “frutti dello Spirito” tutte le principali espressioni dell’esperienza cristiana,
dai fenomeni straordinari (come il parlare in lingue, i miracoli, le profezie) fino alle
esperienza più normali e quotidiane ( la pace, la gioia, il coraggio). Paolo ha contribuito a far
progredire il discorso sullo Spirito soprattutto in due precise direzioni.
1 nell’aver aperto gli occhi sul fatto che lo Spirito è attivo non solo nei doni straordinari, ma
anche nella vita cristiana animata dalla carità

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2 nell’aver continuamente lottato contro ogni possibile dissociazione tra lo Spirito e la Croce.
Non c’è azione dello Spirito là dove non si confessa “Gesù Signore”.La manifestazione dello
Spirito avviene nella predicazione.

Paolo afferma che la varietà dei doni discende dallo Spirito. Lo Spirito è ricco e non può
manifestarsi in un modo solo.
Ma perché la varietà dei doni sia segno dello Spirito deve realizzare alcune condizioni:
1 la fede che trova il suo centro nell’affermazione “ Gesù è il Signore”.
2 La varietà dei doni deve trovare convergenza nell’utilità (comune)
3 Il carisma va concepito come funzione, come servizio, non come dignità. Il carisma è
un compito da svolgere, un servizio per gli altri.
Un dono che venisse concepito come dignità, da usare a vantaggio proprio, cesserebbe di
essere carisma che viene dallo Spirito.
Paolo non contrappone tra loro i carismi e i ministeri istituzionali: ambedue rientrano nella lista
dei carismi, sono doni dello Spirito e devono tendere all’edificazione comune. Tutti devono
manifestare la nota della gratuità. Paolo pone i carismi sulla base della loro capacità di
edificazione comune e di servizio. Non pone le lingue al primo posto, come facevano i Corinti,
ma la profezia.
Il discorso di Paolo continua nell’apologo del corpo e delle membra. Il corpo è uno eppure vi è in
esso una ricca pluralità e diversità di membra. Le antiche differenze sono scomparse ( schiavi e
liberi, giudei e pagani), però nuove differenze emergono su altre basi: non dignità ma
funzioni.
La vera minaccia contro l’unità della Chiesa viene dal tentativo di uno di essi di ergersi al di
sopra degli altri, o dal suo rifiuto di servire. Paolo teme la minaccia della indifferenziazione. Ci
sono spiriti religiosi che non tollerano la varietà, confondendo l’unità con l’uniformità.
Paolo teme anche la frantumazione. L’unità del Corpo si esprime nella condivisione. Paolo
avverte il pericolo che alcuni si autoescludano dall’insieme. Le funzioni più deboli e nascoste
siano maggiormente onorate.

Per Giovanni non c’è possibilità di comprendere Gesù e la sua parola, di diventarne testimoni,
di partecipare alla vita divina, di entrare in comunione con il Padre senza il dono dello
Spirito.
Protagonista della rigenerazione è per Giovanni lo Spirito: senza la sua forza l’uomo resta
chiuso nel cerchio dell’impotenza e dell’incomprensione “ Ciò che è nato dalla carne è carne, ciò
che è generato dallo Spirito è spirito”.
Giovanni intende l’acqua come simbolo dello Spirito e pone una relazione fra il dono dello
Spirito e la croce (glorificazione)” Uno dei soldati gli trafisse il fianco con la lancia, e subito ne
uscirono sangue e acqua”.
Ci sono dei passi in cui Gesù fa dei discorsi di addio parlando dello Spirito consolatore.
Questi passi si inseriscono in un duplice contesto esistenziale: la partenza di Gesù e l’odio del
mondo, la persecuzione, l’incredulità che perdura. In questo contesto si comprendono i due compiti
fondamentali che Giovanni assegna allo spirito:
1 la testimonianza
2 la comprensione interiore, personale e attualizzata della parola di Gesù.

“Voi lo conoscete” Gesù afferma, in un passo, che lo Spirito non è per il mondo, ma solo per i
discepoli. I discepoli lo possiedono, il mondo no. Il mondo non riesce a percepire lo Spirito per
la cattiva volontà. E’ solo nel tempo della chiesa, grazie alla presenza dello Spirito, che i
discepoli comprenderanno (e assimileranno) la realtà più profonda di Dio, di Gesù e di loro
stessi: la comunione di Gesù con il Padre e la comunione di Gesù con loro. Lo spirito svela, e
rende presente, il mistero trinitario.

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“Testimonierà a mio favore” Gesù avverte i discepoli che saranno odiati dal mondo e
perseguitati, ma insieme assicura ad essi che l’odio del mondo e la persecuzione saranno
l’ambiente in cui si manifesterà la testimonianza dello Spirito e la loro. Lo Spirito difenderà
Gesù nel loro cuore, li renderà sicuri nella loro disobbedienza al mondo. I discepoli avranno
bisogno di certezza: lo Spirito gliela offrirà.
La testimonianza è qui espressa in termini negativi: lo Spirito confonderà il mondo. In altre
parole, lo Spirito mostra il torto al mondo, la sua vanità, la sua inconsistenza.
Lo Spirito non soltanto suscita in noi la fede e l’amore, ma ci fa capire che la fede e l’amore sono le
tracce della presenza di Dio.

“Vi insegnerà ogni cosa”


Il secondo compito che Giovanni assegna allo Spirito è l’interiorizzazione e l’attualizzazione della
Parola di Gesù. “Lo Spirito Santo vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà quanto io vi ho detto.
Ora non siete in grado di portarne il peso. Lo Spirito vi guiderà alla pienezza della verità. Non
parlerà da se stesso, ma racconterà ciò che ha udito”.
Da una parte, senza lo Spirito le parole di Gesù restano incomprese (ora non siete in grado di
portarne il peso). Dall’altro lo Spirito è legato alle parole di Gesù. Non dice parole proprie, ma
ripete quelle già dette da Gesù (Non parlerà da se stesso, ma racconterà ciò che ha udito). Lo
Spirito non si stacca dalla tradizione storica di Gesù e dalla tradizione ecclesiale che la continua.
“ Vi guiderà verso e dentro la pienezza della verità”, dunque una conoscenza interiore, viva,
attuale e progressiva, un viaggio verso il centro.
“ Lo Spirito è la verità” La verità per Giovanni è la rivelazione di Dio, il suo disegno di salvezza,
che si riassume nel dono del Figlio. Lo Spirito è colui che manifesta e personalizza questa verità,
trasformandola da obiettiva in personale, da storica in contemporanea. Come Gesù è la verità, così
anche lo Spirito è la verità: Gesù perché è l’incarnazione storica del piano di salvezza, lo Spirito
perché ce lo comunica.

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LA CHIESA E LA MISSIONE

Si devono distinguere i vari aspetti della missione: annuncio, aggregazione, inculturazione,


dialogo.
Si può dire che ogni momento della missione riproduce il tutto.
L’annuncio di Gesù aggrega, fa nascere la chiesa, fa sorgere dovunque nuove comunità.
Questa direzione della missione deve manifestare i tratti inconfondibili del vangelo, per esempio,
la trasparenza. La chiesa annuncia Gesù Cristo, non se stessa; lascia trasparire la carità di
Dio, non solo la propria. La Chiesa non deve avere altra ambizione che quella di restare all’ombra
del proprio Signore.
La chiesa è la primizia del Regno, ma non la pienezza. Una comunità cristiana è missionaria se
annuncia al mondo la notizia di Gesù Cristo e al tempo stesso sa scoprire, sempre nel mondo, le
tracce già presenti del suo cammino.
La promozione dell’uomo è la missione se svela i tratti dell’originalità cristiana. Il primo è la
gratuità: la chiesa si impegna per l’uomo non per imporsi all’attenzione del mondo, ne per
convertire, ma semplicemente perché ogni uomo è amato da Dio. Un altro tratto
dell’originalità evangelica è la pazienza.
Lo specifico della missione è di impedire agli uomini di illudersi che per risolvere le loro
emergenze bastino dei palliativi. Il fondamento è una nuova visione dell’uomo e del mondo. Gesù
ha detto “ Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, il resto vi sarà dato in aggiunta”. Il
missionario deve essere convinto che proprio l’annuncio della lieta notizia del Regno è una
grande forza di liberazione, perché restituisce agli oppressi il primo dei beni di cui vengono
derubati: la loro dignità.

La novità del vangelo sta in una sorta di capovolgimento: non anzitutto ciò che l’uomo deve fare
per Dio, ma ciò che Dio fa per l’uomo. Questo capovolgimento rinnova anche un altro
atteggiamento: non l’efficienza al primo posto, ma la condivisione. Tutti si aspettavano un
compimento che portasse il capovolgimento della situazione esistente: se ora c’è la morte, la morte
cesserà; se ora i giusti sono sconfitti, i giusti trionferanno. Egli non ha fatto cessare la sconfitta
degusti, condannati perché giusti: si è messo nel loro numero. Al ribaltamento ha preferito la
condivisione.
La novità del vangelo sta anche nella sua gratuità. Tutto ciò che Dio ha fatto è misurato sulla
grandezza del suo amore, non sulle richieste dell’uomo. Gesù è un dono inaspettato e gratuito e,
di conseguenza, gratuita deve essere anche la missione.

La reciprocità cristiana, espressa nella formula di Giovanni “ Gli uni per gli altri” è attraversata
e spezzata dalla gratuità. L’amore di Gesù non è un amore che ritorna su se stesso, ma un amore
espansivo. La logica della solidarietà cristiana è la condivisione che è oltre lo scambio. La
reciprocità non è il mio che diventa tuo, ne il tuo mio, ma il dono di Dio (ne mio ne tuo) che
viene partecipato.
Scambio, reciprocità e condivisione rischiano di chiudere la missione dentro il noi delle Chiese. In
realtà il dono di Dio è universale, non sopporta ne il mio ne il tuo e neppure il nostro . E’
semplicemente per tutti. L’orizzonte obbligato della missione è l’universalità.

La testimonianza cristiana sta nel miracolo di una vita che umilmente, compiendo gesti di
servizio, di solidarietà e di perdono, si fa trasparenza dell’amore di Dio per ogni uomo.
Testimone è chi si fa segno – tangibile, visibile – dell’amore di Dio per l’uomo.. Il testimone è
colui che non si accontenta di vivere per Gesù Cristo, ma vuole essere la memoria di come
Gesù Cristo è vissuto. La via della missione è la trasparenza. Non è parlando di noi che si fa
missione.

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La prima ragione della missione è proclamare la signoria di Cristo in tutto il mondo. Il Figlio
di Dio è venuto tra noi, ha solidarizzato con noi, è morto e risorto. E’ una notizia da diffondere. Il
desiderio di far conoscere Cristo è universale.
La seconda ragione è che l’annuncio di Cristo non è solo un’offerta di consapevolezza ma
anche di salvezza. L’uomo ha essenzialmente bisogno di verità.
La terza ragione è riunire in Cristo e portare a compimento tutti quei frammenti di luce che
invocano una pienezza. Missione della chiesa è aiutare queste luci a trovare la loro strada. La
chiesa è insieme mandata e chiamata. Mandata da una verità che possiede e invocata da una verità
che attende il contesto per svilupparsi pienamente. La missione della chiesa è rivelatrice e
ricapitolatrice.
La quarta ragione è che la chiesa è missionaria per essere se stessa, per convertirsi. Lo schema
evangelico della missione non comprende solo l’invio e la partenza ma anche il ritorno. I dodici
inviati in missione partono, ritornano e raccontano. Destinatario della missione non è solo il mondo
pagano ma anche la comunità che invia. La missione non converte solo il mondo ma anche la
chiesa.
Evangelizzare significa portare una notizia nuova, gratuita, oltre le attese dell’uomo, e al
tempo stesso talmente umana che quando la incontri fa impallidire ciò che prima cercavi.
Se anche tutti i valori essenziali della convivenza ( il rispetto della vita, la giustizia, la pace)
fossero già riconosciuti, anche allora il vangelo conserverebbe intatta la sua novità e la
missione la sua urgenza. Resterebbe infatti sempre da dire l’essenziale, che Gesù è il Cristo, il
Figlio di Dio che si è fatto uomo per noi, condividendo in tutto la nostra condizione.

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LA CHIESA E LA CARITA’

Una sola è la carità, ma diverse le sue concrete figure.


“Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”.
Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. La nota dell’amore per Dio è la sua totalità:
con tutto il cuore, la mente, la forza. Non c’è spazio per alcuna riserva
Il secondo “ Amerai il prossimo tuo come te stesso”. L’intensità dell’amore per il prossimo è
“come te stesso”. Anche il “come te stesso” dice la totalità, ma non dice “al di spora di tutto”.
Il prossimo è da amare e servire, non da adorare
Il comandamento dell’amore non riassume gli altri precetti, ne li abolisce, più semplicemente
li sorregge, dando loro consistenza, senso e direzione.
Tutti e due gli amori sono detti comandamento e insieme costituiscono il punto di forza che regge
tutta l’impalcatura della legge. Si può intravedere un tratto importante dell’amore cristiano per il
prossimo. Non si può esaltarlo al punto da far scomparire la differenza con l’amore per Dio, perché
anche nell’amore Dio resta Dio e il prossimo resta il prossimo. Ma il prossimo e Dio si toccano
profondamente.

“Chi è il mio prossimo” Prossimo è colui nel quale ti imbatti, non importa chi sia. La parabola
non dice nulla del prossimo, se non che giaceva sulla strada derubato, ferito e mezzo morto. Non si
descrive la sua identità, ma il suo bisogno. Neppure si sofferma sull’identità del samaritano.
Indugia invece sul suo comportamento. Gesti e sentimenti sono accuratamente descritti: vede il
ferito, prova compassione, si avvicina, fascia le ferite, lo carica sulla sua cavalcatura, lo porta ad
una locanda, si prende cura di lui e paga l’albergatore. Gesù sposta l’attenzione su un’altra
domanda “ che cosa significa amare il prossimo”. Chi sia il prossimo non si può definire, si
può solo esserlo. La domanda è se in te c’è la prossimità, cioè la capacità di sentirti coinvolto
nel bisogno dell’altro.

La carità in San Paolo. “ Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi”. Ma la libertà è sempre in
pericolo, sottoposta a tre minacce:
1 ricadere nella schiavitù della legge
2 vivere secondo la carne
3 la litigiosità.
Per far fronte a queste minacce Paolo afferma che lo spazio della libertà è la carità. La vera
libertà è solo libertà per l’amore. Servirsi reciprocamente nell’amore non è una limitazione della
libertà, è invece proprio in questo modo che la libertà si dispiega e si realizza.

“Tutta la legge trova la sua pienezza in una sola parola: amerai il tuo prossimo come te
stesso”
In una comunità litigiosa Paolo proclama che la pienezza delle legge è l’amore per il prossimo.
Qui prossimo è il fratello nella fede, il membro della stessa comunità. L’espressione “ gli uni gli
altri” evidenzia la reciprocità per ricordare che il comando di amarsi impegna tutti i membri
della comunità, nessuno escluso. L’amore reciproco è possibile alla condizione che nessuno
cerchi la “gloria vuota” che è poi la gloria di se, poggiata sul nulla. Per Paolo l’evento che ha
portato la legge alla sua pienezza non può essere che l’evento di Gesù, un evento di carità. La
carità riempie di contenuto e di valore la legge, che altrimenti resterebbe come un recipiente vuoto.
Chi ama l’altro ha portato a compimento la legge. Il precetto “non commettere adulterio, non
uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento si ricapitola in questa
parola: amerai il tuo prossimo come te stesso. L’amore non fa alcun male al prossimo:
pienezza della legge è, dunque, la carità.
Nella predicazione di Gesù il concetto di prossimo attraversa l’intera umanità, ogni uomo può
diventare prossimo. Anche nella concezione paolina rimane l’universalità del comando dell’amore;

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l’attenzione principale è rivolta alla fraternità comunitaria. Oggetto prioritario dell’amore è il
fratello cristiano.
“Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra di tutto vi sia la caità, che è
il vincolo della perfezione”. Paolo insiste sul perdono, richiamando l’esempio di Cristo. La misura
degli atteggiamenti da assumere verso gli altri non è più, dunque, soltanto “come te stesso” ma
“come il Signore”. E’ guardando il Signore che il cristiano comprende come e fin dove bisogna
amare. La definizione della carità in questi tre passi: è la pienezza di tutta la legge, la sua
ricapitolazione, il vincolo della perfezione.
La carità sta al di sopra di tutte queste cose (pazienza, sopportazione, perdono) perché è la
forza che le unifica. Paolo non pensa alla perfezione dei singoli, ma alla perfezione della comunità.

L’inno alla carità è il testo paolino che mostra subito le sue intenzioni: rivolgersi ai membri
della comunità per ricondurli all’essenza della vita cristiana, incamminarli sulla strada della
vera ricerca di Dio. La carità non si identifica con le azioni che si compiono, ma è qualcosa che
le precede, le suscita e le accompagna. La carità sembra qualificare la persona che agisce più
che la sua azione

Giovanni è chiamato a praticare il comandamento dell’amore. La fede si prolunga nella


carità. “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”. L’amore è la chiave
dell’esistenza di Gesù: naturale che sia anche una caratteristica fondamentale dell’esistenza
cristiana. Un passo essenziale per comprendere la concezione giovannea della carità è: “Vi dono
un comandamento nuovo:amatevi gli uni gli altri. Come io ho amato voi così amatevi gli uni
gli altri”. I molti comandamenti non sono che la manifestazione esteriore dell’unico
comandamento che è l’amore. Proprio perché non è solo precetto, ma rivelazione, il comando
dell’amore scambievole è un dono. “Vi dono un comandamento”. L’amore scambievole,
rivelazione di Dio, è per l’uomo movimento, vita, un uscire dal chiuso dell’odio, dall’egoismo,
dall’indifferenza per respirare a pieni polmoni. “Chi non ama rimane nella morte”. L’amore dei
fratelli è la prova decisiva che si è vivi.
“Lui ha dato la sua vita per noi: ne consegue che anche noi dobbiamo dare la vita per i
fratelli”. C’è nell’amore di Gesù una gratuità. Il suo amore non accaparra il discepolo ma è un
dinamismo che lo spinge verso gli altri. E’ amando i fratelli che si ricambia l’amore di Gesù.
“Da questo riconosceranno tutti che siete miei discepoli”. L’amore cristiano non cessa di essere
aperto. La comunità deve stare, ben visibile, di fronte al mondo, a tutto il mondo, come
l’alternativa della fraternità all’egoismo, della vita alla morte, della libertà alla schiavitù. Col
loro amore fraterno i discepoli devono mostrare una nuova umanità, un mondo nuovo. Non è
detto che questa dimostrazione converta, mostra però a tutti l’identità del discepolo.

“Ecco il mio comandamento: che vi amiate reciprocamente come io ho amato voi” “Io ho
scelto voi, e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutti e il vostro frutto sia durevole:
qualunque cosa chiederete al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Questo vi comando:
amatevi scambievolmente”.
Il comando dell’amore (trova in Gesù il modello – come io ho amato voi) è un amore che esce dal
chiuso della comunità e si dilata, missionario,: spinge a una partenza “perché andiate e
portiate frutti”. E’ chiaramente un versetto di missione. Se il chicco di grano muore porta molto
frutto. Il frutto che nasce dalla morte del chicco di frumento, cioè dalla Croce, è la riunione
degli uomini. E’ questo il frutto che il padre vuole. La missione si muove in un’atmosfera di
completa gratuità: l’iniziativa di Cristo (vi ho scelto, vi ho costruito) e la preghiera
(qualunque cosa chiederete al Padre mio, egli ve la darà).
Il rimanere in Gesù si realizza in pratica là dove si rimane nella sua parola e nel suo amore, dove si
osservano i suoi comandamenti, là dove ci si ama gli uni gli altri. Il grande imperativo “amatevi

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reciprocamente” della comunione con Dio si realizza, praticamente, nell’amore fra noi. La
garanzia valida è la prassi dell’amore. L’amore produce sempre altro amore.
L’imperativo della vita cristiana scaturisce da un indicativo che lo precede (come il Padre ha
amato me, come io ho amato voi). Se possiamo amare è perché siamo amati. L’amore fraterno
ha due modelli, o radici: l’amore del Cristo per noi e l’amore del Padre per il Figlio, in altre parole
la Croce e la Trinità. Nel primo vengono sottolineati la gratuità e l’universalità, nel secondo la
reciprocità e la comunione. L’esistenza cristiana, come già l’esistenza di Cristo, non è solo dono
e servizio (la Croce) ma anche comunione reciproca e fraternità gioiosa (il dialogo trinitario).
“Chiunque ama conosce Dio, chi non ama non ha conosciuto Dio”. Dio non lo raggiunge
anzitutto con l’intelligenza, ma .lo si sperimenta all’interno di una prassi concreta di vero amore.
Chi non ama non può parlare di Dio, parlerebbe di una realtà di cui non ha alcuna
esperienza.
“ Nessuno ha contemplato Dio, ma se ci amiamo scambievolmente Dio dimora in noi”.
Giovanni non dice che se ci amiamo vediamo Dio, Dio rimane invisibile, lo si può conoscere ma
non vedere. Dimorare non è vedere, ma è più conoscere: è presenza, esperienza, comunione.

Le comunità cristiane devono dare spazio alla carità non perché questa sia particolarmente
efficace, ma semplicemente perché verità. La ragione per fare spazio alla carità è il “come io ho
amato voi”, non “da questo vi riconosceranno”. Non la forza della sua efficacia pastorale deve
spingerci a fare spazio alla carità, ma la convinzione che essa, la carità, è la verità del vangelo.
La memoria del primato di Dio non deve porsi accanto alla prassi della carità, ma dentro. Gesù non
è soltanto il fondamento della carità, ma il modello.

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LA CHIESA E IL SUO CULTO.

Cristo è al centro di tutta la vita cultuale della Chiesa primitiva.


Nel tempio si celebravano le grandi feste e ogni giorno venivano offerti il sacrificio del mattino e il
sacrificio della sera. Il culto sinagogale consisteva nella preghiera, l’ascolto della parola e l’omelia.
La sinagoga non costituiva un’alternativa al tempio.
Gesù frequenta il tempio ed ha anche polemizzato con esso “Io distruggerò questo tempio
fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne ricostruirò un altro non fatto da mani d’uomo”. Il
gesto di Gesù diventa ardente appello al cambiamento di mentalità: alla conversione. Le
tradizioni evangeliche tendono a scorgervi un significato più profondo: non più la purificazione
del tempio, ma la sua abolizione. Queste tradizioni leggono il gesto di Gesù alla luce di una
convinzione precisa: il vero spazio della presenza di Dio fra gli uomini non è più il tempio, ma
il Signore Gesù.

Marco precisa che il tempio che sarà distrutto è qualificato “ come fatto dalle mani degli uomini”,
un’espressione che la polemica giudaica riservava agli idoli “vuoti”. Non si tratta dunque di
una purificazione o di un rinnovamento, ma di una sostituzione.
Il gesto di Gesù proclama che il tempio è decaduto.Marco sembra offrirci una prima indicazione:
lo “spazio della presenza di Dio” si estende a tutti i popoli. Lo spazio sacro si è dilatato.
L’agonia e la morte di Gesù sono scandite sulle ore del giorno, che sono anche le lore della
liturgia al tempio: l’ora terza, sesta, nona. E’ come se fosse ormai chiaro che la vera liturgia si
compie sul Calvario, lungo una pubblica strada, non più nel recinto sacro del tempio. A
conclusione del racconto, Marco annota “Il velo del tempio fu lacerato in due”. Gesù aveva
ragione: con la sua morte il tempio è davvero finito, una prospettiva nuova si è aperta. Il velo
delimitava la zona più sacra, più riservata del tempio, a tutti preclusa, eccetto che al sommo
sacerdote. Con la Croce cade ogni preclusione, Il tempio non è più un luogo di separazione,
ma di universalità.

In Luca in risalto è l’azione di insegnamento di Gesù che avviene nel tempio. Luca non parla di
un nuovo tempio. Gerusalemme frequentava assiduamente il tempio, ma il suo modo proprio di
rendere culto a Dio avveniva nelle case. Dal tempio alle case, questo il significativo spostamento
del luogo sacro che Luca pare sottolineare opponendo il tempio e la casa. E’ una differente
concezione di spazio: non più uno spazio locale, ma relazionale. Lo spazio del culto è la
comunità che vive fraternamente. L’estensione del nuovo spazio sacro è la comunione.

Giovanni afferma che il tempio è decaduto. Il gesto di Gesù è la profezia di una sostituzione. Il
vero tempio è il Cristo morto e risorto. “Egli parlava del tempio del suo corpo” Corpo dice la
persona nella sua concretezza storica e nella concezione biblica il tempio è il luogo della presenza
di Dio e dell’incontro delle tribù. Ambedue gli aspetti sono ora sostituiti da Gesù. Per Gesù il luogo
in cui adorare Dio non è il tempio, non è Gerusalemme, ma lo spazio dello Spirito e della verità.
Secondo il vocabolario di Giovanni il culto nello spirito è la forza divina che solleva l’uomo
dalla sua impotenza, collocandolo nell’unico luogo in cui veramente si incontra il Padre.
Questo luogo è la verità. La verità è il dialogo di comunione che unisce i credenti. Lo spazio in
cui adorare Dio è, dunque, Gesù. Lui è il tempio, il luogo in cui il Padre si mostra a noi “ Chi ha
visto me ha visto il Padre”.
Sul luogo sacro le principali trasposizioni che abbiamo incontrato sono: dal tempio alle case,
da uno spazio riservato ad uno spazio aperto, dal tempio al corpo del Signore.

La dimensione cultuale di una religione non si limita a definire i luoghi, ma si esprime attraverso
riti, regole, celebrazioni, offerte e sacrifici. “Religiosità pura e incontaminata davanti a Colui
che è Dio e Padre è questa: visitate gli orfani e le vedove nella loro tribolazione, e guardarsi da

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ogni contaminazione col mondo”. Per Giacomo la vera purità sta nella solidarietà con i
bisognosi, non nelle regole rituali. Con l’espressione “conservarsi puri dal mondo” egli intende
affermare che il cristiano deve ragionare in modo diverso dal mondo. Il sacrificio vero e
ragionevole degno di Dio e dell’uomo è l’offerta di se, il retto vivere. L’unione con Dio altre
strade: la preghiera, l’esperienza mistica, l’immersione in Dio senza parole, nel silenzio, da spirito a
spirito.

Per il Nuovo testamento lo spazio del culto è l’esistenza. Paolo disse “ Offrite i vostri corpi
come sacrificio vivente e non uniformatevi a questo mondo, rinnovate la mente”. L’espressione
“offrite i vostri corpi” nel linguaggio paolino corpo è la persona concreta, nella sua interezza,
nelle sue relazioni, nella sua profanità. Si tratta di un culto che coinvolge l’uomo intero non
semplicemente il suo spirito. Paolo suggerisce di rinnovare la mente e di non uniformarsi al
mondo. Culto a Dio è l’esistenza “convertita”.

La cena del Signore nel Nuovo testamento non è solo l’atto di culto per eccellenza, ma il
centro per comprendere ogni altra forma culturale neotestamentaria. Gesù raccoglie l’intera
sua esistenza nei gesti del pane e del vino, due gesti simbolici e rituali, ripetibili.
Il pane è spezzato e condiviso e il vino è distribuito: Gesù raccoglie nel pane e nel vino la sua
esistenza vissuta nel dono di se. E’ il dono di se che trasforma l’esistenza in culto, un dono di
se a Dio e agli uomini. Il culto è l’intreccio di due movimenti: da Dio all’uomo e dall’uomo a Dio.
Dio si affaccia alla preghiera di benedizione (avendo reso grazie), e i discepoli nei gesti con cui
Gesù porge loro il pane e il vino imperativi “prendete” e “fate memoria”. Gesù è l’unico
personaggio che veramente agisce e parla, e l’evento raccontato e tradotto in simboli è
unicamente la sua esistenza vissuta nel dono e conclusasi nel martirio.
“Fate questo ogni volta che ne bevete, in memoria di me”. Avendo raccolto la sua esistenza in
gesti simbolici e ripetibili, Gesù può ora consegnarla ai discepoli perché ne facciano memoria –
nella celebrazione (fate questo) e nella vita (prendete e mangiate). Il vero culto è Gesù, evento
unico e straordinario, la comunità cristiana deve perciò raccontarlo e celebrarlo. Siccome si
tratta di una memoria di una persona e non soltanto di un evento storico del passato, allora la
memoria può dilatarsi nella presenza (il Crocifisso è ora il Signore presente nella comunità) e
nell’attesa del suo ritorno.

La vera radice della novità cultuale neotestamentaria è l’evento di Gesù.


L’insistenza neotestamentaria sulla vita ha purificato e accentuato lo spazio della ritualità, ma non
l’ha soppresso. Basti pensare alla celebrazione dell’eucaristia.
La novità neotestamentaria sta nell’aver compreso la valenza culturale dell’evento
cristologico. Cristo è designato con una serie di espressioni cultuali: il tempio, il sommo sacerdote,
l’unico mediatore. Cristo assomma su di se tutte le strutture cultuali: il dono di Dio all’uomo,
la risposta dell’uomo a Dio, la mediazione. Soprattutto la sua morte viene vista come
un’azione cultuale. L’evento di Cristo è lo spazio del vero culto, è lo spazio dell’incontro: il
Cristo terreno, morto e risorto, ora Signore nella comunità, reso attuale e trasparente nello
Spirito. Così il discorso si fa trinitario.

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UNA SFIDA ANTICA E SEMPRE NUOVA

Parlando di assolutezza si afferma l’origine divina del messaggio cristiano, la sua validità perenne e
universale, la sua obbligatorietà per tutti gli uomini. L’uomo d’oggi la giudica radice di intolleranza
e di fanatismo, incompatibile con dati di fatto irrefutabili quali l’innegabile somiglianza del
cristianesimo con le altre religioni. E’ indubbio che il cristianesimo è teso verso la pienezza non
ancora raggiunta.
Il Cristo, il cristianesimo, la Chiesa possiedono qualcosa di unico e di definitivo in fatto di
conoscenza di Dio e di salvezza. Occorre elaborare un concetto di assolutezza che illumini quelle
caratteristiche e quei dati storici. E’ da loro che sorge il carattere assoluto del cristianesimo. Si
dovrà parlare di assolutezza che si muove all’interno di un primo dato fondamentale,
qualificante l’originalità cristiana: l’affermazione che il cristianesimo poggia su una
rivelazione storica e significa perciò un sì alla storia. L’assolutezza della rivelazione cristiana
trova la sua giustificazione nel fatto che è parola di Dio, parola che viene dall’alto e che
raggiunge il suo compimento in Gesù Figlio di Dio. L’assolutezza si fonda sulla sua origine
divina, ma i contorni sono determinati dal modo con cui Dio ha voluto storicamente rivelarsi.
L’incarnazione è la sua legge più costante. Quando il nuovo testamento parla dell’evento di
Cristo e della sua Parola, intende anche l’annuncio che di quel fatto avviene ora nella chiesa.
Si passa così al cristianesimo e alla Chiesa. Il cristianesimo è convinto di essere portatore e
annunciatore di un messaggio assoluto e definitivo universale. Il suo carattere assoluto
scaturisce dal fatto di essere una rivelazione, una parola dall’alto: questo è il punto fondamentale.
L’assolutezza è la logica conseguenza della fede che Cristo è Figlio di Dio.Fondata sulla parola
di Dio, l’assolutezza che il cristianesimo afferma è la logica conseguenza della fede
nell’incarnazione ed è anche accettazione della storicità. Non esclude la relatività della storia, al
contrario in essa si afferma e si esprime. C’è un’assolutezza che rientra nel mistero di Dio
( l’alleanza che Dio ha manifestato nei nostri confronti). C’è un’assolutezza racchiusa nella
storia ( l’assolutezza dei gesti compiuti da Gesù). Il pluralismo religioso e culturale non è un
ostacolo all’assolutezza del suo messaggio.

Il cristianesimo è per l’uomo concreto che vive in contesti diversi e determinati. Il Nuovo
Testamento racconta l’esperienza di comunità concrete, in un mondo non cristiano e spesso ostile,
dentro il quale, non cercano uno spazio per vivere isolandosi, ma uno spazio per comunicare. E’
proprio dentro questo spazio “missionario” che troviamo le tracce del rapporto fede e culture.
Nel Nuovo Testamento ci si accorge che il Mistero di Cristo non si è svelato in linea retta, ma
a ventaglio, attraverso la particolarizzazione delle chiese. La diversità fra i quattro vangeli,
Paolo, la lettera agli ebrei, è spiegata dal fatto che le comunità che ricordavano e vivevano l’evento
di Gesù si trovavano in condizioni culturali (ambiente, tempo e problemi) differenti. Le comunità si
sono contestualizzate, questo ha favorito l’approfondimento del cristianesimo, essa non ha tradito la
novità e l’assolutezza di Gesù Cristo ma l’ha rivelata.

Il discorso tenuto da Paolo costituisce un primo tentativo di dialogo fra cristianesimo e culture e si
inserisce in un quadro di forte denuncia. Luca annota che l’animo di Paolo era indignato “al
vedere la città piena di idoli”. Il tema centrale del discorso è l’ignoranza. Paolo non esita ad
appellarsi ai loro maestri, dei quali assume il linguaggio e gli insegnamenti, e scopre anche aspetti
positivi perché trova una altare a un dio ignoto che manifesta, da una parte, la grande religiosità
degli ateniesi e, dall’altra, il presentimento dell’esistenza di un dio sconosciuto e diverso. E’
un’ammissione d’ignoranza. Paolo inserisce il suo messaggio: “ Quello che voi non conoscete, io
ve lo annuncio” Paolo ha da dire una novità. Il predicatore utilizza per esempio l’affermazione
Dio è dappertutto, polemizzando contro la tendenza popolare a rinchiudere Dio nei santuari.
Afferma l’unità del genere umano “Egli ha creato tutte le razze umane”.

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Il discorso di Atene ci permette alcune conclusioni: Sia pure in un quadro di denuncia, il
discorso testimonia fortemente il tentativo di agganciare il vangelo alla cultura ambiente,
Paolo fa leva su alcuni valori culturali ritenendoli capaci di far evolvere lo stesso paganesimo
e aprendo la strada alla concezione di Dio. Paolo crede di avvertire nella religiosità pagana un
“presentimento” che può trovare il suo sbocco chiaro e completo nell’annuncio di Gesù, il
punto centrale della fede, come rivelazione ultima e definitiva di Dio, questo può solo essere
oggetto di annuncio. L’evento storico si può solo raccontare e testimoniare.
Paolo afferma che solo Cristo è la via necessaria per la salvezza.
Non sono condannate le culture come tali, ma viene rifiutata ogni loro pretesa di essere vie di
salvezza entrando in concorrenza con la Croce di Cristo.
Un ambiente che rischiava di entrare in collisione con la fede era la cultura ellenistica che
aveva diffuso, anche a livello popolare, la convinzione dell’esistenza di una frattura fra lo
spirito e il corpo. I cristiani di Corinto riducevano la risurrezione all’immortalità dello spirito, un
modo sbagliato di intendere il rapporto fede e cultura. Il nucleo della fede che Paolo difende e
ritiene intoccabile non è solo l’evento della morte/risurrezione di Gesù e la sua assolutezza
salvifica. Il suo ragionamento suppone irrinunciabili altri due valori: la solidarietà fra Cristo
e noi e l’unitarietà dell’uomo. L’evento della risurrezione di Gesù testimonia infatti l’unità
dell’uomo, e la sua morte per i nostri peccati dice la solidarietà fra Cristo e noi.

Il Nuovo Testamento rivela che più che con le culture e i sistemi, il dialogo è con le aspirazioni
profonde degli uomini, che le culture e i sistemi, a modo loro, tentano di esprimere e soddisfare.
Per Paolo, proprio perché trascendente, l’evento salvifico non è legato a nessuna cultura e può
utilizzarle tutte. Per Giovanni, invece, il cristianesimo è aperto alle culture perché “il verbo
illumina ogni uomo”: nelle culture c’è una luce del Verbo, c’è un appello che invoca un
compimento.
Il luogo vero, pieno, della contestualizzazione culturale è la chiesa locale che cresce in un
ambiente storico determinato e lo assume, e dal quale prende la fisionomia. L’annuncio è
completo quando non solo cade in un ambiente, ma germina e cresce in quell’ambiente
storicizzandosi: cioè quando si fa chiesa locale.
Le chiese del Nuovo Testamento fanno molto affidamento sullo Spirito che considerano il
protagonista; il loro affidarsi ad esso avviene sempre all’interno di due regole precise: la memoria
di Gesù e la comunione con le altre chiese.
Il punto fermo e comune, da salvare in ogni modo, è l’evento di Gesù Cristo, sia come parola
unica, sia come unica via di salvezza. In tale evento sono incluse una visione dell’uomo e una
direzione morale.
Un secondo punto fermo è la relatività di ogni cultura. L’incontro fede e cultura non è privo di
rischi. Il Nuovo Testamento ne ha incontrati due: il rischio che la cultura si assolutizzi e si eriga a
valore salvifico, e il rischio che si sovrapponga mutandone il significato.
Il punto fermo più importante è che l’incontro del vangelo con le culture non si risolve in un
compromesso, ma produce una novità, e nella sua novità trascina tutto ciò che incontra.
La vera inculturazione avviene quando ci si accorge che a contatto col vangelo il loro
significato cambia: il modo di guardare Dio non è più quello di prima, e così pure il modo di
guardare l’uomo e di guardare il mondo.
I capisaldi per comprendere Cristo sono tre: la preesistenza, l’incarnazione, l’affermazione
conclusiva. ( Il Logos fatto carne).
“ In Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Il verbo era indica una condizione, non una
funzione. Non solo da la vita, è luce.
“La luce nella tenebra splende” La luce brilla sempre. Nessuno può fare cessare la luce che
emana. Il rifiuto della tenebra è un fatto, dipende dal comportamento dell’uomo e dalla sua
libertà. Gli uomini possono rifiutare la luce, non però spegnerla.

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“ Il Logos divenne carne e abbiamo veduto la sua gloria”. La gloria della carne. Il soggetto è il
noi dei credenti. Al gesto del Logos che si fa carne corrisponde la risposta della fede, qui
descritta in termini di visione (abbiamo visto). E’ proprio nella carne che la gloria va vista. La
storia di Gesù è la visibilità di Dio. Se la carne fosse solo l’involucro della gloria, il Logos non
avrebbe manifestato la sua gloria – cioè la vicinanza di Dio all’uomo, il suo amore – bensì la
distanza di un Dio che si preserva. Gloria è infatti l’amore di Dio e la visibilizza mediante i
segni: i miracoli, la Croce innalzata.
L’evento del Logos che diventa carne è un evento storico e come tale è un punto in cui
l’universalità del Logos sembrerebbe contrarsi e restringersi. In realtà l’universalismo è uno dei
tratti più marcati del vangelo di Giovanni. Assumendo la carne, il Logos non ha perso la sua origine
divina, il suo significato universale, quello di illuminare ogni uomo.
L’evento di Gesù è il punto in cui l’universalità ha raggiunto tutta la sua concentrazione e la sua
chiarificazione, perché ha condiviso la storia dell’uomo, di ogni uomo, dandole significato,
direzione e salvezza.. Ha reso visibile l’amore di Dio per il mondo. Nell’evento di Gesù si legge
l’amore di Dio, il dramma del mondo che sembra vittorioso ma che non lo è; la vittoria sulla morte.
L’esigenza del dialogo con ogni uomo ( e quindi con ogni cultura e religione) è iscritta nella natura
del Logos incarnato, ed è perciò anche nella natura della comunità che lo conosce e lo testimonia.

FINE.

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