ANGIOGRAFIA

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ANGIOGRAFIA

Con il termine angiografia si intende ogni tecnica e metodologia di studio


contrastografico dei vasi (arteriosi, capillari e venosi) e delle cavità cardiache. L’
angiografia ha avuto la sua massima diffusione ed applicazione negli anni 70 e nella
prima parte degli anni 80, apportando notevole perfezionamento ed ampliamento delle
possibilità diagnostiche della radiologia. Inizialmente l’applicazione di questa tecnica è
stata però limitata a causa di una serie di fattori come il carattere invasivo, la possibilità di
complicanze per il paziente, il problema radioprotezionistico legato all’esposizione del
paziente e dell’operatore e infine gli alti costi di gestione delle unità di angiografia.
Attualmente se da un lato l’avvento di metodiche di studio incruente quali la angio-RM e
la angio-TC ha ridotto sensibilmente l’uso della angiografia a solo scopo diagnostico,
dall’altro, le applicazioni terapeutiche dell’angiografia hanno consentito lo sviluppo di
innovative ed efficaci procedure interventistiche sempre più largamente diffuse, non solo
sul distretto vascolare ma anche sul distretto biliare e renale.
In campo vascolare le principali procedure angiografiche interventistiche consistono
soprattutto nella:
ANGIOPLASTICA TRANSLUMINALE (PTA), oggi estesa a quasi tutti gli apparati ed organi:
distretti periferici, coronarico, arterie renali e vasi viscerali, tronchi epiaortici.
POSIZIONAMENTO DI STENT
FIBRINOLISI LOCO REGIONALE: nelle urgenze vascolari per ischemia acuta o subacuta
degli arti conseguente a trombosi arteriosa, o da emboli, a carico degli arti o di segmenti
potesici o a carico di altri distretti: coronarie, arterie polmonali, ecc.;
EMBOLIZZAZIONE di forme angiodisplasiche, di varici, di lesioni parietali responsabili di
emorragie digestive; embolizzazione o CHEMIOEMBOLIZZAZIONE di neoplasie epatiche
primitive o secondarie.

L’avvento della ANGIOGRAFIA DIGITALE (AD) ha reso possibile un ulteriore sviluppo e


diffusione dell’angiografia diagnostica. Il principio su cui si fonda l’angiografia digitale è
costituito dall’elaborazione elettronica di immagini ottenute da un sistema radiologico
tradizionale accoppiato a intensificatore di brillanza (I.B.) e catena televisiva a circuito
chiuso. L’immagine radioscopica estratta dalla catena televisiva applicata all’I.B.
dapprima viene amplificata, poi convertita da segnale analogico a digitale e come tale
elaborato e immagazzinato nel computer; infine il segnale viene riconvertito da digitale
ad analogico ed inviato al monitor.
Tale procedimento è vincolato alla sottrazione elettronica di immagine (DSA), in grado di
eliminare del tutto o in gran parte le strutture anatomiche e le altre immagini parassite
estranee al segmento vascolare oggetto di studio, opacizzato con il mdc.
In termini pratici consente la rappresentazione di strutture vascolari ottenendo un buon
risultato iconografico anche con somministrazioni di piccole quantità o di basse
concentrazioni di mdc.
Nei confronti della Angiografia Tradizionale i vantaggi della Angiografia Digitale sono
rappresentati da:
somministrazione di quantità ridotte di m.d.c.
maggiore rapidità di esecuzione dell’indagine (soprattutto grazie alla immediata
registrazione e disponibilità delle immagini), con conseguente riduzione dei rischi per il
malato;
notevole riduzione della dose di esposizione al paziente;
minor costo globale in termini di pellicole e materiale sensibile.
Gli svantaggi dell’AD sono per lo più legati ad una non perfetta sottrazione della
immagine tra la fase diretta e quella contrastografica, per movimento del paziente o
movimenti involontari di organi contrattili (intestino, cuore e grandi vasi) con persistenza di
immagini parassite e artefatti. Il principale limite della AD è costituito dalla risoluzione
spaziale, misurata in paia di linee per millimetro (pl/mm), inferiore rispetto all’angiografia
tradizionale, il che si traduce ovviamente nella possibilità di uno studio più accurato e
preciso della fine vascolarizzazione intraparenchimale con la tecnica tradizionale.
Tuttavia l’uso di ottimi amplificatori di brillanza, l’utilizzo di matrici ampie (1024x1024) e la
disponibilità di elaboratori di adeguata potenza hanno ulteriormente e decisamente
migliorato l’imaging in AD.

APPARECCHIATURE DELLA SALA ANGIOGRAFICA


In passato, in una sala angiografica tradizionale era necessario un seriografo, la
seriografia infatti era una tecnica che permetteva la ripresa in successione di una serie di
immagini di un organo o di una regione anatomica, seguendo le variazioni morfologiche
che provocava il passaggio del MDC, seguendone quindi il cammino. Erano necessarie
seriografie rapide e modificabili nel corso di una sola seriografia, mediante programmatori
a scheda con distribuzione temporale variabile in rapporto ai tempi di circolo e alle fasi
arteriosa o venosa o parenchimografica.
Sistemi di registrazione particolari e aggiuntivi in angiografia tradizionale erano la
Cineroentgengrafia e la fluorofotografia (entrambe oggi abbandonate).
La prima consentiva di realizzare seriografie ad altissima rapidità, utilizzate soprattutto in
Cardio-angiografia e coronarografia ma era caratterizzata da una risoluzione spaziale
discretamente inferiore alla classica seriografia diretta; la fotofluorografia o
fluorofotografia offre un risultato migliore rispetto alla Cineroentgengrafia anche in
relazione ai migliorati schermi fluorescenti allo Ioduro di Cesio : il sistema consisteva in una
seriografia fotografica mirata, su piccolo campo, della fosforescenza dello schermo
secondario dell’amplificatore di brillanza. Anch’essa veniva usata su piccoli campi specie
in angio-cardiografia e coronografia o sulle arterie epiaortiche.

Abbiamo già detto che l’angiografia digitale (AD) è una tecnica per lo studio del distretto
vascolare che impiega un intensificatore di brillanza per la rilevazione delle radiazioni; le
immagini ottenute vengono digitalizzate ed elaborate da un computer prima di venire
visualizzate su un monitor televisivo e fotografate su pellicola.
La tecnica angiografica con la digitalizzazione ha numerosi vantaggi rispetto ai sistemi
tradizionali, tanto è che questi sono stati sostituiti.
Nei sistemi digitali è poi abolito tutto il processo legato alla pellicola radiografica:
rifornimento, deposito, carico-scarico nel seriografo, sviluppo, esposizione al
negativoscopio, recupero, imbustamento ed archivio, elaborazioni fotografiche varie
quali maschere, sottrazioni ecc.
Se in passato un sistema di angiografia digitale era costituito da un apparecchiatura
dedicata che produceva immagini che venivano digitalizzate e da un elaboratore
destinato alla conversione digitale di tali immagini e alla loro manipolazione e
visualizzazione, attualmente gli impianti angiografici sono completamente digitali:
tutti i componenti del sistema sono controllati da microprocessori, i segnali di comando
ed i sincronismi sono gestiti da un computer centrale.
Il complesso radiologico di una sala angiografica comprende il generatore ad alta
tensione, il tubo radiogeno, l’intensificatore di brillanza (complesso tubo-intensificatore di
brillanza).
I generatori di alta tensione sono ad alta frequenza, con potenze da 80 a 120kW, e tempi
di esposizione minimi. Il generatore ad alta tensione è in grado di lavorare in scopia in
modo tradizionale con emissione continua di rx, oppure con scopia ad emissione pulsata
di Rx: quest’ultima è la tecnica più impiegata attualmente, in quanto, specie in
procedure complesse come quelle interventistiche che richiedono tempi lunghi di scopia,
consente una riduzione della dose anche del 50%.

Il tubo radiogeno deve poter accumulare un carico termico elevato a livello anodico e
deve poterlo dissipare rapidamente: la capacità termica dei tubi per angiografia è fino a
quattro volte superiore a quella dei tubi di radiologia tradizionale. La guaina contenente il
tubo deve accelerare questa dissipazione, ricorrendo eventualmente a particolari
dispositivi di raffreddamento.

L’apparato ricettore di immagini: intensificatore con relativa catena Televisiva oppure nel
caso di sistemi di ultima generazione, 'flat panel ', con campo di ripresa adeguato al
settore di indagine. L’Intensificatore di Brillanza (IB) raccoglie ed amplifica il fascio di
radiazioni in uscita dal paziente: le dimensioni dell’IB sono particolarmente importanti
perché determinano le dimensioni del campo utile. In diagnostica vascolare addominale
e periferica sono da preferire IB di grandi dimensioni perché consentono di coprire aree
anatomiche più ampie.
L'intensificatore di brillanza è costituito da una ampolla di vetro sottovuoto all'interno della
quale sono racchiusi:
• un grande schermo fluorescente dal quale entra il fascio di raggi x;
• un fotocatodo;
• un elevato campo elettrico;
• un piccolo schermo di uscita.
I raggi x investono il grande schermo fluorescente, il quale emette luce proporzionale
all'intensità della radiazione ricevuta. Il fotocatodo per effetto fotoelettrico emette degli
elettroni, questi, vengono accelerati dal campo elettrico presente all'interno dell'ampolla
di vetro e vanno ad urtare il piccolo schermo di uscita convertendo la loro energia
cinetica in luminosa. In questo modo ottengo in uscita un'immagine che corrisponde alla
mappa di assorbimento dei raggi x. Riprendendo con una telecamera l'immagine in
uscita dallo schermo riesco a visualizzare in tempo reale i tessuti analizzati. Per quel che
riguarda il sistema classico, la qualità dell'intensificatore costituisce uno dei fattori
determinanti per le prestazioni dell'intero sistema e pertanto deve avere le seguenti
caratteristiche:

a. buona efficienza di conversione, che assicura un ottimale utilizzo della radiazione X


incidente;
b. elevato rapporto di contrasto;
c. campo d'ingresso adatto alle dimensioni del distretto anatomico da esaminare; d.
buona risoluzione spaziale.

I Sistemi che ancora utilizzano l’IB impiegano telecamere con rilevatori allo stato solido
chiamati CHARGE COMPLED DEVICES (CCD), costituiti da celle con matrici 1024x1024. Il
segnale elettrico, in uscita dalla CCD, va al Convertitore Analogico Digitale (CAD) e poi al
Computer. Da questo l’immagine digitale, elaborata o no, viene inviata a monitor e/o
stampata previa riconversione digitale-analogica (CDA) oppure viene memorizzata. I
vantaggi di un sistema CCD sono nella miglior qualità dell’immagine, nell’assenza di
fenomeni di abbagliamento e di persistenza. In particolare un sistema CCD, pur non
avendo una risoluzione spaziale sostanzialmente più alta di una telecamera, presenta una
risoluzione di contrasto migliore nella zona di interessa diagnostico.

Il complesso Tubo-Intensificatore di Brillanza presenta una configurazione “ad arco a C”,


isocentrico con due o tre assi di rotazione; la caratteristica principale degli stativi ad arco
isocentrico è quella di poter ruotare il fascio X intorno ad un punto, quello di intersezione
degli assi di rotazione del sistema, che rimane fisso al variare delle diverse proiezioni ed è
assunto come punto di centraggio del distretto vascolare in esame. Le versioni più
moderne di tali stativi prevedono 3 assi di rotazione per la realizzazione di proiezioni
multiple tramite movimenti motorizzati combinati dell'arco e del suo supporto: una
caratteristica particolare dello stativo ad arco a tre assi di rotazione è quella di poter
operare sia con stativo posizionato in testa al tavolo di cateterismo (ed accesso bilaterale
al paziente), che con stativo posizionato lateralmente al tavolo stesso (per una totale
esplorazione del paziente), in modo da rendere più agevole possibile la condotta
dell'esame.
Un sistema ad arco consente di realizzare tutte le obliquità lasciando il paziente supino,
riducendo così al minimo gli artefatti da movimento dovuti a posizioni poco confortevoli.
“L’arco a C” può essere fissato a pavimento o pensile; possiamo inoltre parlare di sistemi
monoplanari e biplanari :
Uno Stativo Monoplanare presenta le seguenti caratteristiche:
Installazione di tipo a soffitto od a pavimento a scelta del fornitore.
Isocentrico sui tre assi di rotazione.
Deve garantire ampia manovrabilità e flessibilità.
Ampia profondità dell’arco.
Sistemi di ausilio per la movimentazione dell’apparecchiatura in situazioni di emergenza.
Rotazione intorno all'asse trasverso in direzione cranio-caudale pari a ±45° o superiore.
Rotazione intorno all'asse longitudinale in direzione LAO-RAO di 90° o superiore. Rotazione
intorno all'asse verticale pari almeno a 90° rispetto alla posizione di 0° in testa del lettino
Possibilità di memorizzare le proiezioni dell’arco a C.
Sistema anticollisione Distanza fuoco-rivelatore variabile.

Un angiografo biplanare è caratterizzato invece da:


Doppio stativo ad arco isocentrico con possibilità di utilizzo tanto in configurazione
biplanare che monoplanare
Possibilità di parcheggio del secondo stativo, durante esami eseguiti in configurazione
monoplanare, con movimento eseguibile, preferibilmente, sia automaticamente che
manualmente
Ampia possibilità di posizionamento e di rotazione di entrambi gli stativi
Possibilità di movimenti di angolazione e rotazione dei due stativisia sincronizzati sui due
piani che non
Ampia possibilità di esecuzione di proiezioni (cranio-caudali e caudo-craniali, latero-
laterali e oblique) con chiara visualizzazione sul monitor dei gradi di angolazione della
proiezione ottenuta
Possibilità di variazione della distanza focale con chiara visualizzazione di essa sul monitor
Possibilità da parte dell’operatore di programmare, modificare e memorizzare, sia prima
che durante l’esame, un consistente numero di proiezioni con possibilità di richiamarle in
sala d’esame tramite tastiera o telecomando
Multipli ed avanzati sistemi anticollisione

La disponibilità di un angiografo biplanare consente un notevole risparmio di tempo ed


una semplificazione nell’esecuzione dell’esame, nonché una notevole riduzione della
quantità di mezzo di contrasto somministrato, particolarmente utili qualora si eseguano
procedure interventistiche; permette infatti la visualizzazione e l’acquisizione di immagini
contemporaneamente su due piani distinti dello spazio.

In questi ultimi anni le sale di diagnostica angiografica sempre più si interfacciano con
indagini di tipo interventistico di alta complessità, con un imaging rivolto alla
visualizzazione di vasi sottili, guide, cateteri e stent che si sovrappongono ad organi con
differenti contrasti quali polmoni e diaframmi. Questo imaging necessita di tecnologie che
non possono più basarsi su sistemi tradizionali quali l’Intensificatore di Brillanza;
Recentemente nasce infatti una nuova tecnologia chiamata “tecnologia flat panel”. Per
comprendere il significato e i vantaggi del sistema “flat panel”, ricordiamo brevemente
ciò che avviene nel comune Intensificatore di Brillanza: i fotoni X sono arrestati e
trasformati in fotoni luminosi e quindi in elettroni nel fotocatodo; questi elettroni vengono
accelerati nel vuoto del tubo dell’IB, verso lo schermo secondario dove vengono
trasformati nuovamente in fotoni luminosi, che focalizzati da opportuni sistemi ottici,
vengono catturati da una videocamera.
Ad ogni passo di questo processo, il segnale immagine è in parte degradato anche se i
vari componenti del sistema sono ottimizzati per le loro funzioni: ne deriva che le
informazioni contenute nell’immagine sono ridotte.
Recenti sviluppi tecnologici della Radiologia Digitale hanno portato all’applicazione della
tecnologia flat panel anche agli apparecchi angiografici; In angiografia il flat panel è del
tutto analogo al sistema detettore usato in radiografia digitale convenzionale e sostituisce
tutta la catena dell’intensificatore di brillanza, con le ottiche, la camera CCD e il
convertitore analogico-digitale.
La filosofia della tecnologia flat panel è quella di eliminare i vari punti deboli di questa
lunga catena, sostituendola con un unico detettore digitale “flat panel”, che consente
una miglior qualità dell’immagine, non alterata da distorsioni, con riduzione della dose.
L’obiettivo del flat panel è quindi quello di migliorare la qualità di immagine in termini di
risoluzione spaziale e risoluzione di contrasto; la conversione diretta è la caratteristica
innovativa di tale tecnologia: i raggi x che attraversano il corpo del paziente vengono
convertiti direttamente in segnali elettrici che contribuiscono alla formazione digitale
dell’immagine. Il rilevatore flat panel è composto da quattro componenti integrati: il
convertitore di raggi X, il rilevatore (TFT array), l’elaboratore di segnale ad alta velocità e
l’unità di trasferimento digitale.
Convertitore di raggi X. Esistono due tecnologie che utilizzano un modo diretto e uno
indiretto. Nel modo diretto è utilizzato del selenio amorfo come materiale fotoelettrico
che, esposto ai raggi x, crea direttamente un segnale elettrico proporzionale al livello di
esposizione. Nel modo indiretto viene utilizzato del materiale fluorescente che converte i
raggi X in luce, la quale viene convertita a sua volta dai fotodiodi in segnale elettrico. Tra
le due tecnologie, quella diretta è molto meno sensibile alla radiazione diffusa.
Rilevatore (TFT array). La tecnologia TFT (thin film transistors) è impiegata per fabbricare
delle piastre con matrici di oltre 2 milioni di rilevatori in un substrato di vetro. Ciascun
rivelatore è composto da un condensatore e da un TFT. Il segnale elettrico proveniente
dal convertitore viene accumulato dal condensatore e trasferito al relativo TFT. Quando il
TFT viene attivato da un segnale di sincronismo, la relativa carica accumulata viene
trasferita come segnale elettrico all’elaborazione di segnali ad alta velocità.

Elaboratore di segnale ad alta velocità. Questa unità genera i segnali di sincronismo per
l’attivazione dei TFT della matrice. Il segnale elettrico proveniente da ciascun tft viene
quindi convertito da un A/D converter.

Unità di trasferimento digitale. I dati digitali vengono trasferiti ad un Host computer. In


tecnica fluoroscopica le immagini dinamiche vengono acquisite con velocità fino a 30
immagini/s.

In angiografia, l’alta efficienza di rilevazione digitale ottenuta con la tecnologia flat


panel, assai maggiore rispetto al sistema tradizionale con I.B., si traduce in una qualità di
immagine eccellente, anche nella visualizzazione dei piccoli vasi, con elevatissima
risoluzione spaziale. In altri termini, la conversione del fascio RX in immagine digitale
mediante la tecnologia flat panel è in grado, nel momento stesso di acquisizione
dell’immagine, di catturare le informazioni con minima perdita lungo l’intero range di
esposizione, eliminando gli artefatti ed i fenomeni di distorsione tipici del sistema
convenzionale con I.B. Altre caratteristiche della tecnologia flat panel sono l’impiego di
avanzati algoritmi di post processing dell’immagine real-time (circa 10 volte più veloci
rispetto al sistema tradizionale) con possibilità di raggiungere elevato numero di
frames/secondo, nonché la possibilità di ridurre la dose sia in fluoroscopia che in grafia,
rispetto al sistema convenzionale con I.B.
ANGIOGRAFIA ROTAZIONALE
Ancora, le più recenti apparecchiature angiografiche sono dotate della funzione definita
“angiografia rotazionale”, mediante la quale viene acquisita una serie di immagini
mentre il sistema tubo-amplificatore di brillanza ruota intorno al paziente in un arco
continuo. L’acquisizione è piuttosto rapida; una serie completa può essere acquisita
durante un’unica iniezione di mezzo di contrasto. Come risultato l’angiografia rotazionale
fornisce un completo range di proiezioni, dando un eccellente impressione
tridimensionale delle strutture vascolari, di stenosi, di aneurismi.
Le principali applicazioni dell’angiografia rotazionale sono a livello dell’addome, della
regione del collo e del cranio.

Una sala angiografica oltre ai componenti del complesso radiologico sopracitati deve
essere munita di :
tavolo di cateterismo monocolonna con piano d'esame a sbalzo di lunghezza adeguata
al tipo di applicazioni. Il piano d'esame è in generale in fibra di carbonio, quindi
particolarmente resistente (portata fino a 200 kg) e allo stesso tempo a basso
assorbimento della radiazione. Una tavola sulla quale il paziente si corica, tavola
regolabile in altezza e in lunghezza ed è dotato di diverse movimentazioni:

1. elevazione in altezza con movimento motorizzato;


2. scorrimento longitudinale a mano e a motore;
3. scorrimento trasversale;
4. rotazione di +/- 180 nel piano orizzontale, per facilitare l'accesso e la fuoriuscita del
paziente. In questo modo il medico può gestire facilmente le parti da acquisire.

Serie di monitor montati su sospensione a soffitto. Le immagini trattate sono visualizzate sul
monitor ad alta risoluzione montati su apposito stativo pensile in sala d'esame ,per
facilitare la conduzione dell'esame da parte degli operatori medici, oltre che sulla
console del sistema digitale.

Sistema informatico. Permette di gestire i parametri di acquisizione, la loro visualizzazione e


la memorizzazione dei dati. E’ dotato di particolari software in grado di acquisire immagini
“ in sottrazione ”, grazie a una funzione che esalta l’immagine vascolare sottraendo
quella dei tessuti molli e scheletrici circostanti.
La sottrazione è una delle principali operazioni gestite dal computer: un’immagine prima
dell’arrivo del mezzo di contrasto (maschera) meno la stessa durante il passaggio di mdc
dà come risultato un’immagine di sottrazione che contiene solo vasi.
I sistemi informatici di acquisizione digitale, trattamento e visualizzazione adottano
processori di immagini dedicati ad alta velocità, in grado di trattare un numero elevati di
dati.

L’iniettore automatico è uno strumento indispensabile in Angiografia; gli iniettori


automatici sono dotati di dispositivi di programmazione tali da consentire l’iniezione del
mdc a flussi variabili in ml/sec indipendentemente dalla lunghezza e dal calibro del
catetere, con possibilità di accelerazioni iniziali del flusso (allo scopo di ridurre l’eventuale
sposizionamento del catetere nelle iniezioni selettive).Inoltre dispongono di vari controlli di
sicurezza tra cui il blocco automatico dell’iniezione se la pressione periferica in corso di
iniezione supera anche di poco quella programmata prefissata del flusso (per evitare ad
esempio iniezioni extraluminali di mdc). E’ possibile sincronizzare l’iniezione
dell’apparecchio angiografico in modo da collegare, secondo un preciso programma e
con un solo impulso, l’iniezione e la sequenza angiografica.
L’iniettore deve essere usato e programmato con molta attenzione, poiché volumi o flussi
troppo elevati di mdc possono causare danni gravi nei vasi in cui vengono iniettati (la
quantità di mdc e la velocità di flusso vanno scrupolosamente programmate e
controllate).Inoltre assai importante è la rimozione accurata dell’aria dalla siringa
dell’iniettore, obliquando la testata della siringa in modo da eliminare le possibilità di
iniettare eventuali bolle d’aria.

I MEZZI DI CONTRASTO IN ANGIOGRAFIA. In angiografia vengono impiegati mezzi di


contrasto iodati non ionici; I mdc non ionici, a differenza dei mdc ionici, sviluppano assai
meno il sintomo dolore, specie nell’iniezione diretta nelle arterie, così come tutte le altre
manifestazioni sull’endotelio dei vasi legate all’osmolarità e alla chemiotossicità; anche i
danni sulle membrane cellulare delle emazie, le alterazioni locali o generali e l’interazione
con la barriera ematoencefalica risultano nettamente inferiori con mdc non ionici.
Per quanto riguarda la scelta della concentrazione di Iodio, negli studi angiografici essa
può variare a seconda del distretto di studio o della tecnica di iniezione: valori intorno a
350-370 mgI/ml possono essere impiegati nello studio di grandi vasi con iniezione in pieno
flusso (ad esempio aorta toracica; tronco comune dell’arteria polmonare, vena cava
superiore e inferiore); nello studio dei distretti arteriosi periferici o negli studi selettivi
arteriosi, specie in AD, possono essere usate concentrazioni di 300 mgI/ml, o anche
inferiori.
Un ultimo parametro che può essere preso in esame in angiografia è la viscosità alla
quale è legata la più o meno facile iniettabilità; valutando i rapporti fra numero di atomi
di Iodio (I) per particella o rapporto I/P (atomi di iodio/particella) nei monomeri e nei
dimeri sia ionici che non ionici, si può rilevare come il miglioramento di tale rapporto
comporti, soprattutto per i dimeri, un consistente aumento di grandezza della molecola e
una elevazione della viscosità. Tuttavia a parità di numero di atomi, a parità di peso
molecolare, quanto più le molecole tendono alla sfericità, tanto più la viscosità può
essere minore, anche in modo consistente; per tale fatto i monomeri non ionici, pur a
grande peso molecolare, sono meno viscosi di altri monomeri ionici a molecole più
piccole.
La ricerca è pertanto orientata verso la produzione di dimeri non ionici le cui molecole
con rapporto I/P di 5/1 tendano sempre più, in soluzione, alla forma sferica, conseguendo
così i più importanti obiettivi, quali l’alto contenuto in I e l’ulteriore importante riduzione
dell’osmolarità (minor numero di particelle osmoticamente attive in soluzione) senza
elevare la viscosità verso livelli di scarsa praticità di iniezione.

TECNICHE DI ESECUZIONE DI UN ESAME ANGIOGRAFICO


Le tecniche di uso per l’esecuzione dei vari esami angiografici sia nelle arterie che nelle
vene sono fondamentalmente 3:
PUNTURA A INIEZIONE DIRETTA: consiste nella puntura del vaso con semplici aghi di vario
calibro e nell’iniezione del mdc attraverso di essi, nello studio di segmenti a monte o a
valle, a seconda dell’orientamento dell’iniezione e del senso della corrente circolatoria.
Tale tecnica si può applicare in svariati punti dell’apparato cardiovascolare, sia in tratti
arteriosi che in tratti venosi.
CATETERISMO PREVIA INCISIONE E INCANNULAZIONE: prevede l’introduzione diretta del
catetere in un vaso ove si è prodotta una incisione previo isolamento chirurgico del vaso
stesso e la progressione sotto controllo scopico del catetere, che viene portato con la sua
estremità al livello desiderato dei segmenti vascolari in esame.
Anche tale tecnica si applica sia in settori arteriosi che venosi, soprattutto quando il
catetere da introdurre nel vaso ha calibro consistente, tale da rendere molto difficoltosa
o impossibile la emostasi dopo normale puntura percutanea.
CATETERISMO SECONDO SELDINGER: E’ quella comunemente applicata tra le tecniche
citate; essa prevede la puntura con ago (di vario calibro) munito di mandrino,
l’introduzione di guide attraverso l’ago e il successivo inserimento coassiale, sulla guida di
cateteri variamente conformati, a seconda dello studio da eseguire.
ESEMPIO: CATETERISMO SECONDO SELDINGER PRENDENDO COME PUNTO DI
APPLICAZIONE L’ARTERIA FEMORALE COMUNE.
Il paziente è in decupito supino sul piano operativo; viene eseguita ampia disinfezione di
entrambe le regioni inguinali, curali e addominali, ovviamente dopo accurata tricotomia.
Si ricoprono l’addome e gli arti con teli sterili lasciando una piccola finestra nell’area
inguinale di un lato.
L’operatore munito di guanti sterili esegue dapprima una anestesia locale superficiale e
profonda assicurandosi con piccole aspirazioni di non iniettare direttamente l’anestetico
in un vaso. Dopo pochi secondi si esegue, nel punto di maggior apprezzabilità della
pulsazione femorale, un’ incisione dell’epidermide ampia qualche mm: servirà a rendere
più facile lo scorrimento dell’ago e soprattutto del catetere nelle successive fasi
dell’operazione.
Si esegue quindi la puntura con ago munito di mandrino tenendo tra il dito indice e
medio della mano sinistra (per chi punge con la destra) l’arteria femorale a livello del
legamento inguinale ove meglio si apprezza la pulsatilità; l’ago penetra lentamente con
direzione discretamente obliquata verso il vaso e leggermente obliquata medialmente
tenendo conto del decorso del vaso in quel punto: il giusto orientamento dell’ago serve a
evitate, se possibile, di oltrepassare anche la parete contrapposta dell’arteria al fine di
prevenire anche il minimo stravaso ematico. La penetrazione dell’ago verticalmente
rispetto all’asse del vaso difficilmente evita tale inconveniente e rende più difficoltoso il
cateterismo mediante la inserzione della guida angiografica. E più corretto un decorso di
penetrazione dell’go con inclinazione quasi tangenziale rispetto alla parete più
superficiale del vaso: dopo la puntura della parete retraendo il mandrino compare il
getto ritmico del sangue; qualora con la punta dell’ago sia stata oltrepassata anche la
parete contrapposta del vaso, per rientrare nel canale dell’arteria è necessario retrarre
parzialmente l’ago.
Il punto di approccio cutaneo della puntura corrisponde alla piega inguinale o
leggermente al di sotto di essa, in modo che il reale punto di ingresso dell’ago nell’arteria
si trovi circa a 1,2 cm sotto al legamento inguinale.
Accertata la giusta posizione dell’ago si introduce attraverso di esso la guida metallica,
facendola scorrere attraverso le arterie iliache esterna e comune fino all’aorta (offrendo
già una valutazione sulla pervietà e sulla regolare transitabilità dei vasi).
Facendo quindi una leggera pressione sull’inguine a monte della sede di puntura si retrae
l’ago facendo attenzione a non sfilare insieme ad esso la guida.
Si introduce poi il catetere sulla guida facendo attenzione che la parte distale della guida
fuoriesca dall’estremo caudale del catetere.
A questo punto, prima di introdurre il catetere nei tessuti molli inguinali, si esercita una
dolce pressione e rotazione sull’estremo prossimale del catetere che, attraverso la piccola
incisione prodotta sull’epidermide e attraverso le parti molli sottocutanee, arriva alla
parete dell’arteria e sempre coassialmente alla guida penetra nel vaso. Accertata la
penetrazione del catetere, si procede all’avanzamento per brevi tratti, mentre in ugual
misura viene retratta sempre più la guida, fino a sfilarla completamente; a questo punto,
attraverso l’ausilio della radioscopia, viene posizionato il catetere con estremità poco a
monte del tratto da studiare. Piccole iniezioni di mdc assicureranno sulla giusta posizione
dell’estremo del catetere. La tecnica Seldinger è comunemente impiegata anche per la
puntura della vena femorale comune, che decorre affiancata all’arteria omonima, circa
1 cm più medialmente (ogni atto della tecnica descritta per l’arteria vale anche per la
vena femorale a differenza della sede della puntura).
La somministrazione del mdc, dunque, può avvenire per via venosa o per via arteriosa.
VIA VENOSA. In condizioni ottimali (buona gittata cardiaca, collaborazione del paziente)
si possono valutare per via venosa solo le arterie di medio e grosso calibro. L’esame può
venir realizzato secondo due differenti modalità: iniezione centrale e periferica.
La prima prevede che il mdc venga iniettato attraverso cateteri posizionati con
l’estremità in una delle due vene cave o direttamente nell’atrio destro. I cateteri possono
avere estremità diritta oppure arricciata (pig tail) ma devono sempre comunque avere
fori laterali di stabilizzazione; presentano un calibro di 4-5 French. Devono infatti essere in
grado di sopportare flussi sino a 30 ml/sec di un mdc ad elevata concentrazione ionica
(350-360 mgI/ml). I parametri più comunemente usati sono usati sono 40 ml di mdc con
flussi di 20 ml/sec in Vena Cava.
La cateterizzazione avviene a livello della piega anticubitale del gomito, con tecnica di
Seldinger. Si cerchi di pungere preferibilmente ( anche se non necessariamente) la vena
basilica che si continua direttamente con la vena ascellare e succlavia, mentre la
cefalica si inoscula in quest’ultima ad angolo retto. Quando non si riesca a reperire
palpatoriamente una vena adeguata può rilevarsi utile l’accorgimento di iniettare una
piccola quantità di mdc in una vena della mano, ed individuare scopicamente a livello
della piega atecubitale del gomito una vena opacizzata.

L’approccio femorale è come abbiamo detto precedentemente a livello della piega


inguinale, richiede un minimo di immobilità dopo l’esame ed è certamente meno gradito
al paziente rispetto all’iniezione a livello del braccio.

L’iniezione periferica avviene mediante aghi cannula di diametro di 16-18G, di lunghezza


tra i 20 e i 30 cm, anestetizzando preventivamente la cute. Anche l’ago-cannula viene
introdotto preferenzialmente attraverso la vena basilica; il corretto posizionamento viene
controllato mediante un “flash” manuale di mdc sotto controllo scopico: più la vena si
inoscula a pieno canale nella succlavia e minori sono le probabilità di stravaso durante
l’iniezione che avviene mediante iniettore automatico.

VIA ARTERIOSA. Per gli studi per la via arteriosa la tecniche utilizzate sono sempre o per
puntura diretta, oppure quando il distretto esaminato non è direttamente accessibile per
cateterismo. In questi studi però, con l’AD cambia la quantità globale di mdc iniettato
rispetto all’angiografia tradizionale. Per l’elevata risoluzione di contrasto. In AD è infatti
possibile ottenere opacizzazioni vascolari adeguate con quantità di Iodio inferiori rispetto
alla radiologia tradizionale. Ciò si può ottenere, riducendo, per ciascuna iniezione, la
quantità di mdc lasciandone invariata la concentrazione e riducendo proporzionalmente
i flussi ; oppure lasciando invariati quantità e flussi ma riducendo la concentrazione;
oppure ancora riducendo opportunamente sia la quantità che la concentrazione.
L’iniezione arteriosa di mdc rappresenta un’indicazione elettiva quando si debba
esaminare patologia d’organo o patologia vascolare di piccole e medie dimensioni (ad
esempio aneurismi cerebrali) e dove sia necessario precisare la sede della lesione.

ESECUZIONE DELL’ESAME ANGIOGRAFICO


L’esame angiografico, tradizionale o digitale, per quanto eseguito dai migliori operatori e
con le più adeguate procedure e strumentazioni, per la invasività intrinseca, per il tempo
di durata dell’esame, non sempre breve, per la somministrazione talora di discreta
quantità di mdc, costituisce un esame di un certo impegno per il paziente.
Ovviamente l’esame angiografico deve essere eseguito solo per obiettiva necessità
diagnostica; in tal senso deve essere coinvolto formalmente il clinico richiedente, mentre
sia per dovere medico-legale che per dovere etico è corretto dare al paziente sufficienti
dati informativi riguardo la necessità diagnostica dell’esame e tutte le informazioni
riguardanti la procedura, possibilmente facendo sottoscrivere al paziente il modulo del
consenso informato.
Prima dell’esame va raccolta una adeguata storia clinica e valutato il grado dei più
importanti fattori di rischio: insufficienza cardiaca, recente infarto miocardico, grave
insufficienza arteriosa, insufficienza renale, diabete più o meno grave, ipersensibilità
pregressa ai mdc, età avanzata, eventuale disidratazione ecc.
Nel corso dell’esame va mantenuto un clima che tenga sereno il malato, anche al fine di
ottenere dallo stesso la migliore collaborazione; si dovrà fare in modo di non avere tempi
morti legati a non accurata organizzazione, preparando i materiali necessari a portata di
mano.
La preparazione del paziente può prevedere per indagini in ambito addominale una
adeguata toilette intestinale (purgante e clistere di pulizia la sera prima dell’esame). La
dieta del giorno prima deve essere leggera e priva di alimenti ricchi di scorie.
Il giorno prima dell’esame è consigliata, per qualunque settore di indagine, una modesta
iperidratazione del paziente, soprattutto nel caso di lieve insufficienza renale; va
sottolineato infatti il maggior danno al tubulo renale da parte del mdc in caso si
disidratazione più o meno marcata; inoltre l’iniezione a più riprese del mdc protrae e
accentua la disidratazione richiamando liquidi dai tessuti al circolo, talora con danni o
peggioramento delle condizioni generali il giorno successivo all’esame.
Per l’approccio arterioso o venoso all’inguine è indispensabile una accurata tricotomia
bilaterale.
Prima dell’esame è consigliato mantenere un accesso venoso con fleboclisi a goccia
lenta, per dominare eventuali complicanze o intolleranze all’indagine.
A livello inguinale si esegue medicazione topica bilaterale.
Alcuni operatori ritengono utile eseguire premedicazione per via endovenosa mediante
iniezione di 0,5 di atropina, se non vi sono controindicazioni (aritmie, glaucoma, patologia
prostatica).
Per minimizzare gli artefatti da peristalsi intestinale in corso di studio dell’aorta e dei vasi
viscerali possono essere somministrati in vena Glucagone o Buscopan 15-20 sec prima di
eseguire la sequenza.
Durante l’indagine è consigliabile il monitoraggio continuo dei principali parametri cario-
respiratori del paziente : tracciato elettrocardiografico; frequenza cardiaca; pressione
arteriosa sistolica e diastolica; pressione di Ossigeno. La assistenza del Rianimatore in sala
angiografica è consigliata nei pazienti con gravi fattori di rischio all’esecuzione
dell’indagine o nei casi in cui è necessaria la sedazione.
La sala angiografica dovrebbe essere dotata di defibrillatore, di pallone Ambu, di
impianto per ossigeno-terapia e per la derivazione del protossido di azoto; inoltre devono
essere a portata di mano tutti i farmaci necessari ad un primo intervento in caso di crisi
ipotensive o piccoli collassi cardio-circolatori.

Posizionato il paziente sul tavolo della sala angiografica, non appena posizionato il
catetere nella sede opportuna, l’area di studio viene centrata sotto il sistema tubo-
amplificatore di brillanza. Sotto controllo scopico si perfeziona il posizionamento del
paziente, e si verifica l’eventuale esistenza di zone di iperilluminazione che devono venir
attenuate attraverso filtri. Durante tutta questa fase si rivela utilissima la possibilità di
congelare l’immagine scopica sul monitor, il che consente di realizzare l’intera proceduta
somministrando solo pochi brevi “flash” di scopia.
Il catetere viene poi raccordato all’iniettore automatico sul quale vengono impostati i
parametri di iniezione; il paziente viene ragguagliato sul comportamento da tenere
(immobilità, eventualmente apnea) e gli operatori si spostano verso il tavolo di comando.
Il passo successivo è costituito dalla determinazione dei parametri o fattori di esposizione
ottimali: normalmente l’operazione avviene in maniera automatica ad opera del
computer sulla base di alcuni parametri prefissati dalla ditta costruttrice o dall’operatore
(KV massimi, tempo massimo di esposizione, dimensione della macchia focale),
eventualmente differenziati per zone anatomiche e per dimensioni del paziente. Si
programmano l’intervallo tra inizio della sequenza angiografica ed iniezione del mdc
(ricordare che almeno la prima immagine SEMPRE non deve contenere mdc perché è
quella che funge da maschera), e poi la cadenza desiderata; a seconda della
sofisticatezza delle apparecchiature quest’ultima sarà fissa durante tutta la sequenza (ad
esempio 1 immagine al secondo per 15 secondi) oppure variabile (ad esempio 2
immagini al secondo per i primi 5 secondi e poi un’immagine ogni 2 secondi per i
successivi 10). A questo punto la sequenza può iniziare; all’intervallo prefissato compaiono
sul monitor televisivo dapprima un’immagine della zona anatomica in esame ed
immediatamente dopo, in cadenzata successione, le immagini della sequenza
angiografica già sottratte. Non appena la sequenza è terminata è subito possibile
impostarne un’altra oppure rivedere le immagini appena ottenute per operare su di esse
tutte le operazioni necessarie. Le immagini più significative di ciascuna sequenza
vengono stampate.

INCIDENTI IN ANGIOGRAFIA. L’incidenza di complicanze in angiografia è correlabile


direttamente alla abilità e all’esperienza clinica dell’operatore. Ovviamente la attenta
valutazione delle condizioni cliniche del paziente prima dell’indagine, la più opportuna
scelta del programma operativo dell’esame stesso e soprattutto l’espletamento della fase
operativa precipua, risultano fondamentali per ridurre al minimo i rischi di vario tipo legati
all’indagine. Di grande importanza sono anche la scelta dei materiali e degli strumenti più
idonei alla manovra richiesta, l’organizzazione della sala angiografica e la professionalità
del tecnico di radiologia e dell’infermiere che affiancano l’operatore.
I principali incidenti che possono accadere in corso di esame angiografico sono
raggruppabili in 4 classi: Incidenti da mdc; Incidenti nella sede di approccio al
cateterismo; incidenti in corso di manipolazione degli strumenti angiografici; Incidenti
legati all’iniettore.

RADIOLOGIA INTERVENTISTICA
La radiologia interventistica comprende l’insieme delle procedure invasive e mini-invasive,
diagnostiche e terapeutiche realizzate mediante tecniche, metodiche e
apparecchiature radiologiche che utilizzano un approccio percutaneo. La RI sta
andando incontro ad una continua espansione in particolare per quanto concerne le
procedure endovascolari; questa espansione è in diretta correlazione con l’evoluzione di
materiali dedicati a disposizione degli operatori. In relazione alla particolare importanza
che assume la conoscenza di questi materiali nella pratica clinica accenniamo
brevemente alle loro caratteristiche principali.

AGHI DA PUNTURA VASCOLARE.


Aghi di tipo Seldinger: aghi coassiali con mandrino interno;
Aghi cannula-mandrino in acciaio con cannula esterna in teflon.
Aghi senza mandrino (puntura diretta parete anteriore del vaso) tipo Trocar.

GUIDE
Le guide consentono di incannulare una struttura canalicolare quale un vaso o un dotto
biliare, permettendo di introdurre in sicurezza e con minimo traumatismo i dilatatori, gli
introduttori e i cateteri necessari per la procedura interventistica.
Possono essere suddivise in 2 gruppi: metalliche, non idrofiliche, e idrofiliche.
Si distinguono, inoltre, in base alla loro rigidità, in guide normali, stiff o superstiff; alla forma
della loro punta, J o retta; alle loro dimensioni.
Le metalliche, sono rivestite in teflon con un’anima interna metallica che ne regola la
rigidità e hanno un calibro compreso tra 0,010 e 0,048 inches (1 cm = 0,39 inches).
Le guide idrofiliche sono ricoperte da polimeri che a contatto con l’acqua acquisiscono
caratteristiche di scorrevolezza, elasticità e ridotta traumaticità consentendo di superare
le stenosi più serrate o le ostruzioni più difficili.

CATETERI
I cateteri sono dei dispositivi che trovano impiego sia in procedure vascolari che
extravascolari. Il loro diametro esterno viene espresso in French (3 Fr= 1 mm), mentre
quello interno in inches, la loro lunghezza è misurata in cm e si dividono in cateteri per
impego vascolare e in cateteri per drenaggi.
Tra i cateteri per impiego vascolare ritroviamo: cateteri diagnostici, cateteri terapeutici e
cateteri per infusione.
Alcuni di loro prendono il nome dalla loro forma altri dal nome dello specialista che per
primo li propose. I cateteri diagnostici si dividono a loro volta in cateteri ad alto flusso con
multipli fori laterali per vasi di grosso calibro detti pig tail (a coda di maiale) e cateteri a
basso flusso con foro esclusivamente terminale usati per angiografie selettive.
I cateteri a basso flusso si differenziano per la forma dell’estremità distale confezionata a
seconda del vaso da andare a cateterizzare:
Cobra (A. mesenterica superiore, A. renale, A. iliaca controlaterale) come il serpente
cobra.
Simmons (A. mesenterica superiore, tronco celiaco, vasi epiaortici, iliaca controlaterale)
Headhunter (A. carotidi e vasi epiaortici)
Berenstein (A. carotidi)
Controlateral (selettive iliache controlaterali)
Judkins (selettive coronariche)
La grande maggioranza di questi cateteri ha un calibro di 4-5 Fr. Caeteri di calibro
maggiore (7-9 Fr) vengono impiegati come cateteri guida nel corso di procedure
particolarmente impegnative in cui un catetere di dimensioni minori non consentirebbe
una sufficiente manovrabilità.
L’obiettivo è quello di avere una via d’accesso attraverso la quale inserire cateteri più
piccoli, cateteri a palloncino e protesi da impiegare a seconda dei casi. Grazie ai
progressi tecnologici sono stati confezionati cateteri di calibro estremamente ridotto (3 Fr)
che vengono impiegati nelle procedure interventistiche e diagnostiche che richiedono un
cateterismo superselettivo del distretto vascolare fino ai rami distali di piccolo calibro.
Tra i cateteri terapeutici ricordiamo i cateteri a palloncino che derivano dal catetere
proposto nel 1974 da Gruntzig .

Sono costituiti da un piccolo palloncino in poliestere montato attorno ad un catetere in


nylon, collegato esternamente ad una via attraverso la quale è possibile
iniettare od aspirare il mdc per gonfiare o sgonfiare il palloncino.
Attraverso un’ulteriore via posta internamente al catetere portante
in nylon vie-ne inserita la guida metallica necessaria per mantenere
il catetere in sede per effettuare la dilatazione in condizioni di sicu-
-rezza. Le misure dei palloncini vengono espresse da due cifre: la
prima corrisponde al diametro esterno del palloncino, la seconda
alla lunghezza.

Le alterazioni patologiche a carico del sistema arterioso periferico sono alterazioni di tipo
steno-ostruttivo da riferirsi nella maggior parte dei casi a patologia aterosclerotica o a
fibrodisplasia.
La stenosi o l’ostruzione di un’arteria principale determina una riduzione del flusso ematico
a valle della lesione provocando l’insorgenza di una sintomatologia dolorosa durante
l’esercizio muscolare oppure compromette la funzionalità di un organo come avviene ad
esempio a livello renale.
Il trattamento con la RI si basa sull’utilizzo di cateteri a palloncino, di calibro e lunghezza
variabili in rapporto al distretto da trattare, per la dilatazione del tratto stenotico
(angioplastica percutanea transluminale-PTA).
I cateteri a palloncino possono essere suddivisi in : over the wire (OTW) e monorail, a
seconda del sistema di conduzione sulla guida ove viene montato il catetere. In base alla
capacità del palloncino di superare o meno il suo diametro nominale (livello
sovradilatazione) man mano che viene gonfiato ad una pressione crescente, si
distinguono palloni complianti, semicomplianti, non complianti.

Non compliante Un pallone non compliante mantiene lo stesso diametro


indipendentemente dalla pressione

Compliante Un pallone compliante ha diversi diametri a seconda della pressione

Semicompliante Il pallone è compliante fino ad una certa pressione a cui diviene non
compliante

I cateteri per infusione sono dei cateteri retti in nylon provvisti di un foro terminale e di
multipli fori disposti lateralmente lungo il tratto terminale del catetere, che vengono
impiegati per l’infusione ditrettuale di farmaci fibrinolitici nel trattamento di estese
trombosi vascolari.

STENT
Gli stent sono dispositivi di forma tubulare, costituiti da filamenti metallici in acciaio, nitinol
o tentalio che vengono impiegati sia nel sistema vascolare che extravascolare con lo
scopo di mantenere pervia una strutttura
canalicolare in caso di restenosi o di occlusione
dopo semplice dilatazione con palloncino o per
trattare eventuali complicanze dopo
angioplastica (dissezione), o in caso di
infiltrazione per neoplasie ad accrescimento
endoluminale; Vengono distinti in:
Espandibili con palloncino: si tratta di stent
metallici montati attorno ad un catetere a
palloncino ; gonfiando il palloncino lo stent
viene dilatato e modellato attorno alla parete
da trattare in base al diametro del palloncino. Pre-stent Post-stent

Autoespandibili: le protesi metalliche sono montate su un catetere portante, raccolte e


mantenute chiuse da una membrana esterna che, rimossa dall’estremo distale al
prossimale, consenteil rilascio e l’espansione dello stent.

Montati su pallone Autoespandibili


In acciaio inossidabile Nitinolo
Maggior forza radiale Più flessibili
Posizionamento più accurato Più conformabili
Maggior radiopacità
Adatto a: lesioni focali con forte Adatti a: lesioni lunghe, anatomie tortuose,
componente calcifica, lesioni ostiali dissezioni lunghe

Utilizzato in: Renale, Iliache, Succlavie Utilizzati in: carotidi ,iliache, fem.
superficiale

I differenti stent variano tra loro essenzialmente per caratteristiche come:


RADIOPACITA’: grado di visibilità delle maglie metalliche in fluoroscopia che consente di
visualizzare lo stent durante le procedure inteventistiche e posizionarlo accuratamente.
ACCORCIAMENTO: differenza tra la lunghezza definitiva dello stent una volta rilasciato e
le dimensioni originali.
FLESSIBILITA’: definisce la possibilità di posizionare la protesi in situazioni anatomiche
particolari come in distretti vascolari ad andamento tortuoso o in distretti vascolari in
prossimità delle articolazioni.
FORZA RADIALE: pressione esercitata dalle maglie dello stent nei confronti della parete
da trattare.
LARGHEZZA DELLE MAGLIE: esprime la distanza fra le maglie dello stent.

GLOSSARIO DEI PRINCIPALI TRATTAMENTI ANGIOGRAFICI

ANGIOPLASTICA
L'angioplastica percutanea transluminale, o più semplicemente angioplastica, è una
tecnica mini-invasiva capace di eliminare, o perlomeno ridurre, i restringimenti del calibro
vasale. Quando il lume interno di un'arteria si riduce, generalmente a causa di una
placca aterosclerotica, di un trombo o di un processo infiammatorio, si parla di stenosi. A
causa di questo restringimento patologico, il normale passaggio del sangue e delle
sostanze che trasporta vengono ostacolati, o nella peggiore delle ipotesi impediti.

In tutti questi casi l'angioplastica si propone come un'alternativa sicura ed efficace alla
terapia chirurgica, perché si esegue in in anestesia locale (il paziente è quindi sveglio e
cosciente) e senza bisogno di ricorrere alla toracotomia.

PROCEDURA.L'angioplastica consiste nell'incanulamento selettivo


di un catetere guida a monte dell'arteria ostruita (che spesso si trova a livello delle
coronarie - coronaropatie - o degli arti inferiori - claudicatio - ); generalmente il sito
d'accesso arterioso è rappresentato dall'arteria femorale comune. Segue l'introduzione
lungo il filo guida di un catetere a palloncino.

Raggiunta la stenosi, si opera un rigonfiamento a pressione controllata del palloncino, che


ripristina in modo più o meno completo la pervietà del vaso ostruito, schiacciando la
placca verso le pareti del vaso, rendendolo quindi più ampio e riducendone il
restringimento. Il diametro del palloncino viene scelto in modo che rifletta il calibro del
lume dell'arteria a monte della stenosi, mentre la sua lunghezza è leggermente superiore
a quella del restringimento. La visione endoscopica ed il controllo radiografico mediante
un colorante radiopaco, permettono la corretta scelta ed il giusto posizionamento del
palloncino. Al termine dell'angioplastica è importante procedere con l'emostasi
dell'arteria d'accesso, per evitare che l'elevata pressione arteriosa produca un'emorragia.
Durante l'esame il paziente può avvertire un episodio di dolore toracico nel momento in
cui il palloncino viene gonfiato, occludendo momentaneamente il flusso di sangue
nell'arteria.
RICHI E COMPLICANZE.La tecnica appena descritta, nota anche come angioplastica
semplice, presenta alcuni rischi, molti dei quali vengono limitati somministrando, prima e
dopo l'intervento, medicinali come aspirina e calcioeparina per prevenire fenomeni
trombotici. E' quindi importante che il paziente segua scrupolosamente le
raccomandazioni mediche.

Risulta concreto anche il rischio che l'angioplastica provochi dei danni a carico della
parete vasale (dissecazione) o inneschi meccanismi ostruttivi acuti o subacuti del vaso.
Comune è anche una re-stenosi vasale nei mesi successivi alla dilatazione.

APPLICAZIONE DI STENT Molti di questi limiti vengono superati mediante l'introduzione dei
cosiddetti stent, piccole protesi metalliche, simili a una rete, che rimangono fissate alla
parete vascolare impedendone un nuovo restringimento.

L'adesione alla parete vascolare può essere spontanea (stent autoespandibili) o favorita
dalla pressione esercitata dal palloncino

Il mantenimento della pervietà ottenuta può essere favorito da appositi farmaci applicati
sulla superficie dello stent (si parla in questi casi di stent medicato) e rilasciati in maniera
graduale.

Ultimamente è pratica comune utilizzare per effettuare l'angioplastica l'arteria radiale che
migliora notevolmente la qualità di vita del paziente nel post-procedura utilizzando come
sistema di emostasi dei presidi molto simili a dei braccialetti che vengono gestiti dal
personale infermieristico fino alla completa rimozione degli stessi. Recentemente sono stati
introdotti sistemi di emostasi a collagene riassorbibile che consentono di evitare la
compressione e permettono al paziente di deambulare in meno di un'ora in completa
sicurezza.

I risultati dell'angioplastica (successo tecnico e durata dello stesso) dipendono da


numerosi fattori: sede ed entità della stenosi sono quelli più rilevanti; deve inoltre essere
considerata la composizione della placca che determina la stenosi (placche con
maggiore componente di calcio sono più "resistenti" alla dilatazione). In alcuni casi
tuttavia il risultato è poco durevole nel tempo e deve essere ripetuto o integrato da altra
metodica.
Praticamente qualsiasi vaso stenotico può essere sottoposto ad angioplastica: le sedi di
applicazione più comuni sono le arterie coronarie, le arterie degli arti inferiori, le arterie
renali e le carotidi.

TROMBOLISI. La trombolisi, o terapia trombolitica, è


il trattamento a base di farmaci chiamati fibrinolitici
(o trombolitici) , che serve a dissolvere i trombi o emboli
presenti nei vasi sanguigni arteriosi o venosi, al fine di:
Migliorare il flusso sanguigno (o circolo sanguigno),
laddove vi siano impedimenti;
Prevenire i danni a organi e tessuti, che possono derivare
dalla privazione di sangue (in particolare, questo è il
caso dei trombi presenti nelle arterie).
Non è eseguibile in presenza di :Uso di farmaci
anticoagulanti (o fluidificante del sangue); Severa ipertensione; Gravi emorragie; Ictus
emorragico; Una grave malattia renale; Un intervento di chirurgia maggiore praticato di
recente; Dissecazione aortica; Una grave malattia epatica; Pancreatite acuta;
Endocardite infettiva.Inoltre, la trombolisi non è adatta alle donne in stato di gravidanza e
ai soggetti di età molto avanzata

INDICAZIONI.La trombolisi può trovare impiego quando c'è bisogno di dissolvere trombi o
emboli responsabili di:
Infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST. È una grave forma di attacco di
cuore, dovuta al blocco completo di una delle coronarie principali e caratterizzata da un
elettrocardiogramma molto particolare
Trombosi venosa profonda. È la condizione patologica che deriva dalla formazione di un
trombo in una vena profonda del corpo umano.
Con una preferenza per il sistema venoso degli arti inferiori, la trombosi venosa profonda è
molto pericolosa, perché bloccare il flusso sanguigno lungo la vena coinvolta e/o dare a
origine a emboli che, facendo ritorno al cuore attraverso il sangue, possono dar origine a
episodi di embolia polmonare.
Ictus ischemico. In medicina, il termine "ictus" e i suoi sinonimi " indicano la morte (o
necrosi), per mancanza di apporto sanguigno, di un'area più o meno estesa di encefalo.
Embolia polmonare. È la condizione medica, contraddistinta dall'ostruzione di una delle
arterie polmonari, ossia i vasi sanguigni deputati al trasporto del sangue deossigenato dal
ventricolo destro del cuore ai polmoni, con lo scopo di ossigenarlo.La principale causa
dell'embolia polmonare sottoponibile a trombolisi è la trombosi venosa profonda.
Ischemia acuta periferica. Conosciuta anche come ischemia acuta degli arti, è la
riduzione repentina e improvvisa del flusso di sangue ("ischemia acuta") all'interno della
rete vascolare arteriosa presente alle estremità del corpo umano ("periferica").Può essere
di natura trombotica (quando dipende da un trombo) oppure embolica (quando
dipende da un embolo).

PROCEDURA.La trombolisi è un trattamento medico che verte attorno alla


somministrazione di particolari farmaci e che prevede l'utilizzo di tecniche radiologiche di
imaging (in parole più semplici, strumenti a raggi X) per avere conferma della dissoluzione
del trombo o dell'embolo bersaglio.
A seconda delle circostanze, il medico che pratica la trombolisi può scegliere di infondere
il preparato farmacologico mediante una semplice iniezione endovenosa oppure
direttamente laddove risiede il trombo o l'embolo bersaglio.
Se opta per la semplice iniezione endovenosa, si avvale di un piccolo catetere, che
inserisce in un punto di accesso venoso comodo alla manovra iniettiva (es: vena del
braccio); se invece opta per l'infusione nel punto esatto dove risiede il trombo o l'embolo
bersaglio, fa ricorso a un lungo catetere, che introduce nel sistema vascolare e conduce
fino al punto desiderato.

In occasione di condizioni come l'ictus, l'infarto miocardico con sopraslivellamento del


tratto ST e l'embolia polmonare, l'attuazione della trombolisi deve avvenire entro un tot di
tempo (in genere, 2-3 ore) dalla compromissione del flusso sanguigno da parte del
trombo o dell'embolo, altrimenti la somministrazione farmacologica è priva di effetto.
COME AGISCONO I FARMACI FIBRINOLITICI?

Il processo della coagulazione del sangue, che si innesca per esempio in occasione di
una ferita della cute, coinvolge numerose proteine; tra queste, spicca la fibrina, la quale,
formando una sorta di rete, ha il compito di intrappolare le piastrine e generare il coagulo
che andrà a bloccare la fuoriuscita di sangue.

Durante la normale coagulazione, la fibrina è finemente controllata nella sua azione, nel
senso che, a coagulo formato, interviene un sistema che ne blocca la produzione; se così
non fosse, si assisterebbe alla formazione di coaguli sanguigni anomali, ossia alla
generazione di trombi.

I farmaci fibrinolitici agiscono attraverso l'attivazione del plasminogeno in plasmina, la


quale è la proteina deputata specificatamente, in occasione di un processo coagulativo,
a degradare la fibrina, quando quest'ultima non è più necessaria. Semplificando al
massimo, i farmaci per la trombolisi agiscono attivando la proteina del corpo umano, che
interviene quando bisogna interrompere la coagulazione del sangue.

Il termine "fibrinolitico" deriva dalla parola "fibrinolisi", nella quale "lisi" significa
disgregazione/distruzione, mentre "fibrino" fa riferimento alla fibrina.

Pertanto, "fibrinolisi" e gli aggettivi derivati, come per esempio "fibrinolitico", vogliono dire,
letteralmente, "distruzione della fibrina".

RISCHI E COMPLICANZE.La trombolisi presenta alcuni rischi; nello specifico, il paziente che
vi si sottopone potrebbe: Sviluppare una reazione allergica al farmaco fibrinolitico
impiegato; Sviluppare un'infezione nel punto d'inserimento del catetere per la
somministrazione farmacologica; Essere oggetto di emorragie più o meno gravi; Subire un
danno a livello dei vasi sanguigni attraversati dal catetere per la somministrazione diretta
del farmaco fibrinolitico; Essere vittima di un ictus emorragico dal potenziale esito fatale. È
la complicanza più grave, ma anche quella meno comune (interessa, infatti, solo un 1%
dei pazienti).

Attualmente, le tecniche di attuazione e monitoraggio della trombolisi


garantiscono che quest'ultima proceda in modo sicuro. Pertanto, in generale, è
molto raro osservare le complicanze sopra riportate.

EMBOLIZZAZIONE ENDOVASCOLARE
Con il termine embolizzazione si intende l’iniezione di sostanze chimiche, agenti
meccanici o fisici. In un vaso, allo scopo di ottenere l’occlusione del vaso stesso o di un
microcircolo a valle.Le procedure di embolizzazione vengono eseguite sia nel circolo
arterioso che venoso, sebbene ovviamente la tipologia di patologie coinvolte sia
differente.
INDICAZIONI.Il medico può raccomandare EE se si verifica una delle seguenti condizioni:
-aneurismi cerebrali, che stanno gonfiando punti deboli nelle pareti dei vasi sanguigni nel
cervello
-tumori come i fibromi uterini, che possono essere ridotti bloccando il loro flusso sanguigno
-escrescenze anomale in il sistema circolatorio
-malformazioni artero-venose (AVM) del cervello e della colonna vertebrale, che sono
nodi di vasi sanguigni che sono soggetti a sanguinamento
- epistassi eccessivi
EE può essere usato come unica forma di trattamento, oppure può essere fatto prima di
un altro intervento chirurgico. Bloccare il flusso di sangue in una zona danneggiata può
rendere più sicuro l'intervento chirurgico.
PROCEDURA.Durante la procedura, verrà praticata una piccola incisione nell'inguine. Un
catetere viene quindi inserito attraverso l’arteria femorale e guidato attraverso il sistema
circolatorio fino alla regione di interesse, il tutto sotto controllo radiologico.
Quando il catetere raggiunge la posizione dell'anomalia da trattare, il materiale viene
iniettato per sigillare il vaso sanguigno.
Quando si parla di embolizzazione il concetto di “cateterismo selettivo” risulta
fondamentale; A seconda della conformazione e dello stato dei vasi del paziente e
dell’anatomia del distretto coinvolto nella procedura, l’operatore sceglierà il tipo di
catetere più adatto. In funzione del cocnetto di selettevità compare tra i materiali di cui si
serve il radiologo interventista per le embolizzazioni il catetere coassiale e microcatetere.
Si tratta di cateteri dal diametro esterno ridotto a 4 Fr, che vengono introdotti
coassialemnte nel catetere utilizzato per la selettivizzazione dell’arteria distrettuale.
Essendo anche le guide un dispositivo che fa parte dello strumentario del radiologo
interventista, connesse ai microcateteri sono le microguide.
MATERIALI EMBOLIZZANTI.
Palloncini staccabili, posizionati tramite catetere;colle biologicamente inerti, il che
significa che non interagiscono con i tessuti ,Particelle di collagene ,Spirali metalliche,
Polvinilalcol (agenti particolati).

CHEMIOEMBOLIZZAZIONE,
La chemioembolizzazione (o TACE, ovvero trans-arterial chemioembolization) è una
procedura medica che viene eseguita da un radiologo interventista. Attraverso questa
tecnica possono essere somministrati farmaci chemioterapici direttamente all'interno del
tumore, mediante un catetere inserito nell'arteria nutritizia dello stesso[1]. Questa
procedura garantisce una concentrazione superiore del farmaco, che può rimanere a
contatto con le cellule tumorali per un tempo maggiore[2].

Questa tecnica attualmente trova largo impiego nel trattamento delle neoplasie del
fegato[3] e nelle neoplasie del sistema neuroendocrino[4].
Come già abbiamo detto è una procedura che viene eseguita per via trans-arteriosa.
Sotto guida radiologica (accesso dalla arteria femorale, o dalla omerale o dalla radiale)
viene inserito un catetere e si navigano i vasi sino ad arrivare alla arteria epatica e si
cateterizza selettivamente il vaso che irrora il tumore. A quel punto si inietta il farmaco di
solito legato con delle sostanze che lo veicolano e talvolta ne aumentano la
concentrazione nel contesto delle cellule tumorali garantendone un rilascio continuo nel
tempo sino a circa 1 mese. Questi farmaci chemio-terapici causano la necrosi delle
cellule maligne e le sostanze che lo veicolano servono anche per chiudere il vaso o i
piccoli vasi che alimentano il tumore.
In lesioni voluminose è possibile usare le due metodiche sopra-descritte in maniera
combinate (termoablazione+ TACE), per garantire una maggiore efficacia del
trattamento.

TERMOABLAZIONE.
La termoablazione epatica viene annoverata, tra le terapie locoregionali dei tumori
epatici, primitivi o secondari, in pazienti non candidabili a intervento chirurgico di
resezione.
La termoablazione è indicata nel caso di un’unica lesione con diametro inferiore a 5 cm o
in caso di lesioni multiple con diametro inferiore a 3 cm, in stadio non avanzato, in assenza
di metastasi extraepatiche e in assenza di scompenso epatico (ittero, ascite, disturbi della
coagulazione, insufficienza renale). È invece controindicata nelle lesioni con diametro
superiore a 6-7 cm o in numero superiore a 4-5, nonché in caso di scompenso della
malattia epatica (cirrosi in stadio avanzato, alterazione dei valori di coagulazione,
riduzione importante delle piastrine).
La termoablazione mediante radiofrequenza, microonde, laser permette di bruciare la
lesione mediante lo sviluppo di calore all’interno della lesione e la formazione di necrosi
coagulativa.
Possono essere trattate sino a circa 3 lesioni nella stessa seduta. Le procedure vengono
eseguite in sedazione e con l’anestesia locale nella sede di inserzione dell’ago/antenna.
Per lesione con dimensioni sino a 3 cm, è possibile essere completamente radicali (questo
è valido anche per lesioni localizzate in sedi difficili (vicino ai grossi vasi, colecisti, cupola
epatica, etc), grazie alle nuove tecnologie oggi disponibili.

I TRATTAMENTI IN DETTAGLIO
ANGIOGRAFIA POLMONARE
(TRADIZIONALE) L’angiografia polmonare consiste nello studio contrastografico delle
arterie polmonari, a partire dai grandi tronchi del peduncolo vascolare nel mediastino
fino ai vasi polmonari segmentari e subsegmentari, nonché del ritorno venoso attraverso
le vene polmonari al cuore sinistro. Tale esame consente di studiare modificazioni dei vasi
sanguigni che portano sangue ai polmoni e valutare dunque eventuali blocchi o il
restringimento di questi vasi ,ad esempio, dovuti ad un coagulo di sangue.
L’iniezione del mdc avviene a livello della radice dell’arteria polmonare o tronco
comune, oppure a livello della radice di uno dei suoi rami principali, a seconda che si
voglia attuare uno studio bilaterale e sistemico, unilaterale o selettivo, oppure
superselettivo.
Durante l’esame il paziente si sdraia su un tavolo attrezzato per la scansione con raggi X e
viene monitorizzato tramite elettrocardiogramma.
La via di accesso venosa preferibile è quella brachiale, attraverso le vene antecubitali del
braccio ( vena basilica e vena cefalica), o in caso di necessità anche attraverso la vena
giugulare interna o esterna destra oppure attraverso la vena femorale. I vantaggi offerti
dall’approccio brachiale sono la facile comprimibilità del vaso, la riduzione delle
complicanze legate al sanguinamento indotto dalla terapia, la facilità di accesso
all’arteria polmonare ed il ridotto rischio di mobilizzazione di trombi ileo-cavali.
I cateteri da usare preferibilmente sono quelli pig-tail angolati Swan-Ganz angiografici
con fori laterali prossimalmente al palloncino, attraverso di essi una soluzione di contrasto
(si utilizzano mezzi di contrasto non ionici )viene iniettata nelle arterie del polmone per
renderle maggiormente visibili . Per quanto riguarda la sede di iniezione si eseguono in
prima istanza le selettive dei due rami polmonari, evitando l’iniezione globale nel tronco
della polmonare in quanto le immagini risultanti sono generalmente non sufficientemente
particolareggiate.
Per lo studio selettivo del ramo polmonare destro e del suo intero emisistema la proiezione
generalmente usata è quella postero-anteriore, mentre per il ramo polmonare sinistro è
l’obliqua anteriore sinistra 25°/30°.
La ripresa angiografica deve essere sufficientemente protratta da permettere la
visualizzazione della fase levo-grafica, cioè dell’atrio sinistro, del ventricolo sinistro e
dell’aorta ascendente.
L’angiografia polmonare ha rappresentato sino a qualche anno fa il gold standard nella
diagnosi di embolia polmonare. Oggigiorno, dopo l’introduzione della tomografia
computerizzata multislice e dell’angio-RM mediante risonanza magnetica, l’angiografia
polmonare trova indicazione quasi esclusivamente limitata ai pazienti candidati ad
embolectomie strumentali o trombolisi locale oppure nei casi in cui le altre tecniche
diagnostiche sono dubbie. Bisogna infatti ricordare che l’angiografia polmonare è un
esame invasivo, costoso e non privo di rischi, soprattutto nei pazienti con ipertensione
polmonare, scompenso cardiaco destro e/o insufficienza respiratoria.
Altre più rare indicazioni allo studio con angiopneumografia possono essere
rappresentate da: alterazioni vascolari su base displasica quali le anomali di deflusso
venoso; fistole arterovenose; aneurismi; ipoplasia o agenesia dell’arteria polmonare;
dilatazione idiopatica o costrizione dell’arteria polmonare. Particolare interesse può trarre
l’angiopneumografia nello studio tardivo delle cavità cardiache di sinistra, della valvola
mitrale, delle valvole aortiche e dell’aorta nelle situazioni in cui non sia possibile il
cateterismo dell’aorta stessa e l raggiungimento dei suoi segmenti prossimali (ad esempio
in caso di stenosi serrate), oppure il cateterismo transvalvolare aortico della cavità
ventricolare sinistra.
Scarso interesse ha trovato l’angiografia polmonare nel giudizio di operabilità di tumori
polmonari e nella diagnosi di malignità delle masse polmonari, in quanto risultano
vascolarizzate fondamentalmente dal sistema delle arterie bronchiali.
(AD POLMONARE) L’angiografia polmonare digitale, grazie ai miglioramenti tecnologici,
consente ottimi risultati iconografici soprattutto nel cateterismo selettivo; nello studio del
cono dell’arteria polmonare, delle cavità cardiache o dell’aorta toracica possono
persistere alcuni artefatti da movimento dovuti alle pulsazioni cardiache, nonostante
l’impiego della ripresa sincronizzata con l’ECG.
Inoltre l’elevato gradiente di attenuazione delle strutture del campo d’esame (polmone e
mediastino) comporta sempre un difficile e talvolta non del tutto adeguato compromesso
nella scelta e nella disponibilità dei parametri di esposizione.
La tecnologia offre inoltre vari software che consentono non solo la rimaschera, ma
anche la ricostruzione elaborata delle immagini (post-processing) consentendo così di
ottenere un importante contenimento degli artefatti ed una elevata risoluzione
diagnostica per le lesioni più vistose a livello dei grandi vasi o delle cavità cardiache (fase
angiocardiografica); l’affidabilità diagnostica, pur migliorando nello studio selettivo, può
talvolta non essere adeguata nella dimostrazione di piccole embolie dei vasi segmentali
o subsegmentali. Al momento, non disponiamo ancora di una metodica diagnostica
soddisfacente per la individuazione degli emboli più periferici.
ARTERIOGRAFIA BRONCHIALE. Si attua soltanto mediante cateterismo selettivo (per via
femorale) delle arterie bronchiali, che originano per lo più dall’aorta discendente;
l’arteriografia bronchiale, un tempo applicata nella diagnosi di natura di opacità di
masse periferiche del polmone, attualmente può trovare indicazione nel protocollo di
studio delle emottisi importanti, sia nella diagnosi che nel successivo trattamento,
mediante embolizzazione, della displasia vascolare responsabile del sanguinamento.

INTERVENTISTICA VIE BILIARI


Nel campo della patologia biliare il radiologo interventista riveste senza dubbio un ruolo di
protagonista. Al giorno d’oggi i trattamenti interventistici percutanei, insieme alle
procedure endoscopiche, costituiscono cardini importanti nella terapia della patologia
biliare benigna e maligna anche perché la chirurgia è spesso complicata tecnicamente
ed è gravata da tassi di mortalità e morbilità rilevanti.
Nei pazienti anziani, nei quali l’intervento chirurgico è spesso controindicato sia per l’età
che per le condizioni cliniche, la radiologia interventistica assume un ruolo di rilievo sia a
scopo terapeutico, come nella litiasi delle vie biliari, sia a scopo “palliativo” in caso di
tumori primitivi delle vie biliari o lesioni estrinseche che comprimono o infiltrano le vie biliari.
La conoscenza delle procedure attualmente a disposizione risulta fondamentale per
identificare in un secondo momento le appropriate indicazioni per ognuna di esse, allo
scopo di ottenere un corretto inquadramento diagnostico-terapeutico e una corretta
gestione del paziente.
Tratteremo qui di seguito la metodologia tecnica, dall’accesso percutaneo
all’esecuzione delle diverse procedure.
- DRENAGGI BILIARI
- ENDOPROTESI E STENTING
- BILIOPLASTICA
LA COLANGIOGRAFIA TRANEPATICA PERCUTANEA- PTC
Qualsiasi intervento percutaneo sul sistema biliare richiede un accesso, che può essere
eseguito dalle vie di destra o da quelle di sinistra. Si tende a preferire la via destra sia per
la maggiore comodità per l’operatore, sia per il maggior allineamento con la via biliare.
L’accesso destro va scelto in uno spazio intercostale compreso fra la VII e la X costa, in
corrispondenza della linea ascellare media; l’accesso sinistro viene eseguito in regione
epigastrica, 4-5 cm al di sotto dell’apofisi xifoidea sternale, con inclinazione dell’ago da
sinistra a destra.
Abbandonata ormai completamente la tecnica di Seldinger, la puntura viene eseguita in
genere con sistema coassiale, fornito di un ago sottile da 22 o 21 G.
Previa anestesia locale l’ago viene spinto con direzione parallela al piano frontale verso la
sede presunta dell’ilo epatico o tenendo come riferimento la XI- XII vertebra toracica. Al
termine di ogni puntura va ripetuto il seguente procedimento: ritiro del mandrino,
aspirazione tramite la cannula con siringa da 10 cc, ritiro della cannula verso il punto di
accesso mantenendo la siringa in aspirazione. Questo metodo è volto ad ottenere
l’aspirazione di bile, che segnala la presenza di un ramo biliare. Nel punto in cui si è
ottenuto il reflusso, si può procedere alla lenta iniezione, con altra siringa da 10 cc di mdc.
E’ questo un punto importante in quanto l’osservazione della distribuzione del mdc
consente di identificare se si ha realmente accesso alla via biliare.
Una volta confermato l’ingresso in via biliare, si può procedere all’opacizzazione
dell’intero sistema, eseguendo in tal modo una PTC che consentirà di avere una mappa
anatomica del sistema biliare.
La PTC permette l’identificazione del livello e della natura dell’ostruzione delle vie biliari,
confermando o chiarendo i reperti della diagnostica non invasiva; consente di
evidenziare eventuali fistole biliari e rappresenta il primo tempo per qualsiasi tipo di
procedura interventistica percutanea delle vie biliari. Le complicanze sono rappresentate
da sepsi (1,8%), perdita biliare (1,03%),emorragia (0,28%).Altre, più rare, sono l’insorgenza
di uno pneumotorace, la formazione di fistole artero-venose epatiche, la reazione al MDC
o reazioni vagali.
DRENAGGI BILIARI.
Le indicazioni all’esecuzione di un drenaggio transepatico biliare (DTB) sono
fondamentalmente costituite dalla presenza di:
– ostruzioni o stenosi biliari maligne con colestasi ingravescente;
– ostruzioni o stenosi biliari benigne a impronta colestatica;
– fistole post-chirurgiche con spandimento di bile in peritoneo o raccolte biliari.
Il catetere di drenaggio è un dispositivo che ha lo scopo di ridurre il ristagno di bile nel
fegato provocato dal restringimento delle vie biliari, ripristinandone il normale
passaggio nell’intestino. Questo dispositivo consiste in un tubicino della lunghezza di una
quarantina di centimetri, che attraverso la cute viene introdotto nel fegato e da qui nelle
vie biliari che costituiscono il sistema di scarico nell’intestino della bile prodotta dal fegato.
In relazione alla causa dell’ostruzione e allo stato clinico del paziente possono essere
utilizzati differenti tipi di drenaggio biliare. Sulla base della comunicazione che si stabilisce
fra sistema biliare, ambiente esterno e intestino si distinguono:

il Drenaggio Biliare Esterno (DBE), in cui il catetere di drenaggio, posizionato nella via
biliare, fuoriesce dall’accesso percutaneo ed eventualmente viene connesso con una
sacca di drenaggio in cui viene scaricata la bile; Eseguita la CPT e ottenuta
l’opacizzazione delle vie biliari si identifica un dotto periferico che viene punto e
impiegato per il cateterismo biliare con materiale di derivazione angiografica. Il catetere
di drenaggio di solito ha diametro tra 7 e 10 F ed è munito di fori nella porzione distale.
il Drenaggio Biliare Esterno Interno in cui il catetere di drenaggio, inserito per via
percutanea, attraversa la via biliare e viene posizionato con l’estremità distale nel tubo
gastroenterico; il catetere di drenaggio è dotato numerosi fori (pre- e post-stenotici) nel
suo tragitto lungo la via biliare sino in duodeno. Questo tipo di drenaggio consente il
ripristino del normale circolo della bile e non necessita normalmente del sacchetto di
raccolta.
Le complicanze gravi dei drenaggi biliari, seppur molto rare, possono essere precoci o
tardive e sono rappresentate da emobilia, colangite, ascessi e dislocazione del catetere.
Il Drenaggio Biliare Interno (DBI); Quest’ultimo può essere costituito
da dispositivi differenti (endoprotesi o stent). Dopo aver posizionato
in intestino una guida rigida Amplatz con la medesima procedura
descritta per il posizionamento di un DBEI, si può decidere se
posizionare un’endoprotesi o uno stent metallico.
ENDOPROTESI: Le più comuni sono le endoprotesi di Miller e le
Carey-Coons.
Sono dei cateteri di differenti lunghezze e fogge, costituite da
materiale idoneo alla lunga permanenza (alta biocompatibilità) di
calibro variabile tra 12 e 14 F e sono
munite di fori laterali. Vengono inserite
utilizzando una guida metallica sulla
quale si fanno scorrere fino a giungere a
cavallo della stenosi, sospinte da un
catetere “vettore”. Il periodo medio di
pervietà è di 6-9 mesi: quando si
ostruiscono possono essere recuperate
per via endoscopica previa rimozione del bottone di
ancoraggio sottocutaneo e sostituite per via percutanea.
I vantaggi delle protesi plastiche possono essere così riassunti:
– consentono di trattare, mediante l’inserimento di due o più endoprotesi, anche stenosi
alte o ilari con separazione dei dotti di destra e di sinistra;
– possono essere agevolmente rimosse in caso di ostruzione o intervento chirurgico; –
possono essere impiegate in tutti i tipi di stenosi; – hanno un costo minore rispetto agli stent
metallici.
Fra gli svantaggi devono essere ricordati:
– la minore maneggevolezza (posizionamento più difficoltoso) rispetto a quelle metalliche;
– la necessità di disporre di introduttori peel-away di grosso calibro (12 F);
– la maggior incidenza di ostruzione (minor calibro interno).
STENT:Hanno carattere permanente, tranne poche eccezioni. Sono costituite da una rete
metallica con maglie molto strette e si suddividono in autoespandibili o espandibili su
pallone. Gli stent vengono rilasciati a cavallo della stenosi; dopo averne verificato,
mediante un controllo colangiografico, il corretto posizionamento, si rimuove il catetere di
drenaggio. La maggiore “facilità” di posizionamento, il minor traumatismo legato
all’utilizzo di introduttori di tipo angiografico di piccolo calibro (7 F) e il minor rischio di
ostruzione grazie a un adeguato calibro interno (7-12 mm) sono i maggiori vantaggi nei
confronti delle protesi plastiche. Rispetto a queste ultime sono però più costose, non
possono essere rimosse quando si occludono e non sono utilizzabili per trattare stenosi
alte.
In campo biliare si utilizzano prevalentemente gli stent auto-espandibili, ovvero montati su
un catetere e compressi da una guaina che, una volta ritirata, ne permette la dilatazione
fino al raggiungimento del diametro prestabilito.
La scelta della lunghezza dello stent viene ovviamente fatta individualmente, sulla base
della localizzazione e della lunghezza della lesione, ma è preferibile utilizzare dispositivi di
lunghezza maggiore per ridurre i rischi di ostruzione da crescita del tumore.

BILIOPLASTICA
La bilioplastica percutanea consiste nella dilatazione di un segmento stenotico della via
biliare mediante l’impiego di cateteri a palloncino di Gräntzig (di diametro variabile) che,
scorrendo su un filo guida, vengono posizionati a cavallo della stenosi.
Quelli più comunemente utilizzati hanno diametro di 10-12 mm, una lunghezza di 2-4 cm e
generalmente resistono a pressioni fino a 16-18 atmosfere; la dilatazione del segmento
stenotico dura pochi secondi e può essere ripetuta sino a quando non si ottiene un
risultato soddisfacente.
In pazienti con stenosi fibrotiche a causa di ripetuti interventi chirurgici, possono essere
necessari palloni con diametri ancora maggiori ed alte pressioni di gonfiaggio.
La procedura richiede analgesia e talvolta una blanda sedazione e tutti i pz devono
essere monitorati. Altri ancora richiedono anestesia generale.
PATOLOGIA MALIGNA DELLE VIE BILIARI
La Radiologia Interventistica ha un ruolo importante a partire dalla diagnosi con le biopsie
percutanee imaging guidate delle lesioni epatiche che permette di definire la istologia
della o delle lesioni epatiche.La terapia delle neoplasie maligne delle vie biliari è
naturalmente chirurgica; tuttavia, quando il tumore è avanzato e non suscettibile di
intervento radicale sono preferibili trattamenti alternativi.
Le problematiche concernenti la patologia maligna sono numerose, da quelle più
strettamente tecniche a quelle inerenti la gestione clinica e la qualità di vita del paziente
a quelle, non meno importanti, riguardanti le implicazioni economiche gravanti
sull’impiego di materiali sempre più innovativi e sempre più costosi.
Da un punto di vista strettamente diagnostico, una volta dimostrata l’esistenza di una
ostruzione biliare con esami TC o ultrasonografici, può essere indicato il ricorso alla PTC o
all’ERC ( Endoscopic Retrograde Cholanghiography)
La prima tecnica interventistica proposta per la decompressione nelle ostruzioni maligne
(ostruzioni cioè causate da tumori che comprimono o invadono le vie biliari) è stata il
drenaggio biliare esterno; attualmente tuttavia esso non è praticamente più usato. Si
predilige il posizionamento di un drenaggio esterno-interno temporaneo sostituito poi dal
definitivo dispositivo interno. Originariamente il DBE veniva proposto pre-operatoriamente
per alleviare l’ittero dei pazienti candidati alla chirurgia, ma attualmente si ritiene che
esso determini un aumento del tasso di morbilità operatoria a causa delle complicanze
settiche. Oggi si pratica solo in caso di colangiti gravi. Infatti i pazienti con drenaggio,
oltre al dolore ed al disagio associato ad esso, rischiano, a lungo termine, di sviluppare
infezioni.
Da un punto di vista strettamente tecnico gli stent metallici risultano essere maggiormente
efficaci come terapia palliativa dell’ittero maligno rispetto alle endoprotesi in plastica; ad
essi si associano migliori risultati in termini di tassi di mortalità a 30 giorni, varietà media,
tempo di sopravvivenza, complicanze globali e costo totale. Questi dati si riferiscono a
stenosi basse della via biliare; i vantaggi dello stent tuttavia sono ancora maggiori nei casi
di stenosi più alte in quanto consentono di drenare meglio rami collaterali.
Un indubbio vantaggio però delle endoprotesi in plastica è sicuramente il costo
decisamente inferiore rispetto agli stent; questo limita l’uso di questi ultimi a vantaggio
delle prime.
La scelta va fatta comunque caso per caso. Un problema comune nell’utilizzo delle
endoprotesi è la formazione di incrostazioni e fango biliare che ne condizionano il tasso di
ostruzione, attestato intorno al 20-30%. E’ importante tener presente a questo proposito
che il diametro interno della protesi è l’unico fattore in grado di migliorare il tasso di
pervietà, anche se l’utilizzo di dispositivi con diametri di 10-14 Fr è limitato dal rilevante
disagio/dolore del paziente all’atto del posizionamento.
L’ideale quindi sono dispositivi con elevato diametro interno e, diametro esterno non
troppo maggiore ma con spessore di parete tale da prevenire compressione e kinking ab
estrinseco da parte del tumore in crescita. Rispetto alle endoprotesi in plastica gli stent
consentono, grazie all’alto grado di espansione, di ottenere un diametro interno
soddisfacente, con diametro esterno, e conseguentemente, dispositivi di posizionamento,
più piccoli; tale procedura, meno traumatica è più adatta dell’endoprotesi a pazienti
defedati e poco tolleranti al dolore.
Altri vantaggi sono rappresentati dalla possibilità di stenting multiplo, in più dotti, e dal più
basso rischio di migrazione.
Gli svantaggi degli stent sono la formazione di fango biliare, il danno della mucosa
duttale, la crescita tumorale ab estrinseco ed intrastent con conseguente ostruzione.
Tumori del terzo superiore della VBP
Questo tipo di neoplasia può interessare la confluenza dei dotti epatici o il dotto epatico
comune. Lo stato itterico viene risolto posizionando un drenaggio biliare esterno qualora
non si riesca a valicare la stenosi neoplastica. Talvolta, nel caso in cui sia presente la
separazione dei due emisistemi biliari per infiltrazione della confluenza, si rende necessario
il posizionamento di due drenaggi biliari, uno a destra e l’altro a sinistra. Solitamente, dopo
alcuni giorni si tenta di valicare la stenosi sostituendo il DTBE con un DTBEI o, qualora non
sussista indicazione chirurgica, con una protesi interna
Tumori del terzo medio della VBP
Le lesioni neoplastiche situate a questo livello sono dovute a infiltrazione secondaria a
carcinomi della colecisti o da adenopatie metastatiche del peduncolo epatico. Dopo un
preventivo DTBE o DTBEI, a distanza di 5-7 giorni, nei pazienti non operabili, o a elevato
rischio operatorio, si può posizionare una protesi biliare definitiva.
Tumori del terzo inferiore della VBP
Le neoplasie del terzo inferiore della VBP possono originare dal pancreas, dalla via biliare,
dalla papilla di Vater o dal duodeno. La stenosi neoplastica può inoltre essere secondaria
a linfoadenopatie locoregionali.
Come per gli altri tipi di neoplasia della VBP, è indicato posizionare un drenaggio biliare
per risolvere lo stato itterico e distendere le vie biliari.In questa sede è preferibile il
posizionamento di un stent metallico anziché la protesi plastica, poiché non
compromette un’eventuale correzione chirurgica.

PATOLOGIA BILIARE BENIGNA


La gestione del paziente con patologia ostruttiva delle vie biliari su base benigna
(causata cioè da malattie benigne che coinvolgono le vie biliari come la calcolosi biliare)
presenta aspetti molto diversi, per la differente tipologia di pazienti, spesso giovani in
piena attività, e per la differente aspettativa di vita.
In questo campo fattori meno prettamente tecnici come la durata dell’invalidità cui è
costretto il paziente, portano l’attenzione ai risultati a lungo termine delle procedure
terapeutiche da applicare.
Le cause dell’ostruzione biliare benigna sono molteplici, anche se la maggioranza dei casi
è rappresentata da complicanze chirurgiche.
E’ da tenere a mente che in questi pazienti la causa dell’ostruzione rappresenta l’innesco
di una serie di problematiche concatenate, in primo luogo le infezioni che, sul terreno di
un ristagno di bile e del passaggio di batteri dal tubo gastrointestinale nel sistema biliare, si
sviluppano con grande facilità.
L’intervento chirurgico rimane sicuramente il trattamento con tasso di successo più alto; è
in ogni caso indicato un tentativo di risoluzione per via endoscopica tramite dilatazione o
posizionamento di protesi in plastica.
L’intervento per via percutanea andrebbe quindi riservato ai casi di ripetuto insuccesso
delle procedure endoscopiche.

La bilioplastica percutanea ha tassi di successo maggiori di quelle ottenuti con le


procedure endoscopiche, ma c’è da ricordare che spesso sono necessarie più
dilatazioni. La normalizzazione dei livelli di bilirubina viene raggiunta infatti più con
approccio ripetuto che con singolo approccio.
I peggiori risultati della bilioplastica sono descritti nella colangite sclerosante con successo
a lungo termine del 40%, essenzialmente a causa della natura recidivante e multifocale
della malattia. In quest’ultimo caso infatti, il tasso di successo può abbassarsi fino al 27%.
Una volta eseguita la dilatazione è controverso il comportamento da tenere .
Alcuni ritengono che dopo una procedura di dilatazione debba essere posizionata
almeno un’edoprotesi per ridurre la restenosi . L’uso di un DBEI consente di conservare
l’accesso ed avere allo stesso tempo un drenaggio che eviti il rischio di ostruzione da
eventuali coaguli formatisi in seguito all’embolia, frequente nelle procedure di
bilioplastica.
Gli svantaggi nell’uso di questo dispositivo sono il disagio per il paziente, le diffcoltà di
gestione da parte del personale paramedico, e non ultimi, i rischi di sposizionamento e di
formazione di un tramite ampio attraverso capsula epatica e peritoneo.
In linea di massima il comportamento da adottare viene stabilito caso per caso sulla base
delle evidenze colangiografiche al termine della procedura: ripristino del calibro duttale,
scomparsa dei segni di colangite, assenza di difetti di riempimento. Il mantenimento di un
catetere di drenaggio esterno-interno, o di un catetere di piccolo diametro solo per
garantire la via di accesso è sicuramente indicato per ripetere la procedura in caso di
evidenza di fallimento. Si considera adatto un lasso di tempo di 15-20 giorni come periodi
di osservazione ed eventualmente ritrattamento.
Per quanto riguarda gli stent metallici, un recente testo specialistico si pronuncia così sulle
indicazioni al posizionamento in pazienti con stenosi biliari benigne: “stenosi recidivanti
dopo fallimenti di più trattamenti chirurgici o percutanei, (in pazienti) non più candidabili
alla chirurgia ricostruttiva biliare o in caso di rifiuto del paziente alla chirurgia.

TRATTAMENTO DELLA LITIASI


La litotripsia percutanea consiste nella rimozione di calcoli biliari intra- ed extraepatici
mediante manovre di tipo meccanico eseguendo per esempio il lavaggio delle vie biliari
con soluzione salina ogni 6-8 ore, associato all’aspirazione di bile e detriti; si può anche
portare il calcolo a valle con una sonda di Dormia, utilizzata anche nella pratica
endoscopica, oppure spingerlo tramite un pallone da occlusione che andrà gonfiato
adattandolo al diametro della via biliare a seconda del tratto che si stia trattando. Molto
spesso nella gestione di un paziente con calcolosi può essere necessario il ricorso a
procedure in “rendez-vous”, nelle quali cioè un operatore agisce attraverso l’accesso
percutaneo, ”dall’alto”, mentre l’endoscopista agisce “dal basso”. Praticamente, nel
corso della colecistectomia laparoscopica si fa una bonifica della via biliare e la
colecistectomia in un’unica soluzione rappresentando quest’ultimo un grande vantaggio
per il paziente.
E’ importante classificare la patologia sulla base della localizzazione, per cui
distingueremo una litiasi extraepatica o della via biliare comune, una litiasi intraepatica
ed una litiasi coinvolgente entrambi i livelli.
Nella calcolosi intraepatica, in pazienti con anastomosi bilio-enteriche ed in pazienti già
sottoposti ad interventi di colecistectomia, l’approccio percutaneo va utilizzato come
prima scelta. Per eseguire un corretto studio colangiografico pretrattamento è richiesto il
riempimento completo della via biliare. Una volta localizzati i difetti di riempimento
potranno essere pianificati anche accessi in più dotti simultaneamente per la rimozione
dei calcoli. Nella calcolosi coinvolgente sia il sistema intraepatico sia la via biliare
comune, si considera invece utile la strategia in rendez-vous già citata, senza dimenticare
comunque che tante volte è necessario il ricorso alla chirurgia onde creare prima
un’anastomosi bilio-digestiva per poi passare alla bonifica della via biliare.

INTERVENTISTICA VASCOLARE
CIRCOLO INTRACRANICO
Aneurismi Intracerebrali. L’aneurisma cerebrale si presenta come una dilatazione della
parete arteriosa, in comunicazione con l’arteria tramite un piccolo foro (colletto
dell’aneurisma) attraverso cui passa il sangue che lo riempie. La parete della sacca
aneurismatica è debole perché non possiede la normale struttura pluristratificata di
un’arteria e può rompersi improvvisamente generando l’emorragia cerebrale
subaracnoidea. Normalmente non ci sono segni premonitori della presenza
dell’aneurisma, a meno che questo non comprima delle strutture nervose adiacenti (ad
es. nervi cranici) provocando dei deficit o che la sua grandezza non comprima il tessuto
cerebrale circostante.
L’intervento di esclusione di aneurisma, sia che questo venga eseguito mediante
clippaggio chirurgico che mediante embolizzazione con spirali trans -catetere, ha
dunque come principale scopo la prevenzione di una emorragia subaracnoidea.
L’alta traumaticità e soprattutto le alte complicanze della chirurgia, hanno fatto sì che si
preferisse, fin dagli anni 70, il trattamento endovascolare che risulta essere meno invasivo,
più scevro da complicanze intra e post operatorie e richiede un tempo di
ospedalizzazione inferiore (2-4 giorni) rispetto a quello richiesto dal corrispettivo intervento
chirurgico. Talvolta risulta essere l’unica strategia terapeutica nei pazienti che per età
avanzata, condizioni generali scadenti o controindicazioni all’anestesia generale, non
possono essere sottoposti ad un intervento chirurgico convenzionale.
L'intervento consiste nella puntura dell'arteria femorale e, con un sistema di piccoli
cateteri appositamente studiati, flessibili e atraumatici, si giunge alla regione interessata
posizionando un microcatetere nell'aneurisma, sotto la guida dei raggi X di un angiografo
a sottrazione d'immagine. Si procede quindi all'esclusione dell'aneurisma dal circolo
cerebrale che in passato avveniva attraverso l’utilizzo di piccoli palloni distaccabili
“detachable ballons” successivamente riempiti con mdc, oggi invece si utilizzano spirali
metalliche.
La tecnica con palloni distaccabili è stata abbandonata a causa delle innumerevoli
complicanze, prima fra tutte la non infrequente rottura dell’aneurisma durante il
gonfiaggio del palloncino al suo interno, favorendo l’impiego di tecniche più moderne e
affidabili.
Attualmente la tecnica ritenuta più efficace e sicura è l’obliterazione della sacca
aneurismatica mediante rilascio di spirali. Il grande vantaggio di questa tecnica è quello
di mantenere comunque pervio il vaso affetto da aneurisma.
La tecnica con spirali richiede estrema cautela nell’introduzione del catetere all’interno
dell’aneurisma, soprattutto in quegli aneurismi che hanno già sanguinato e che hanno
quindi nel sito di rottura un punto di estrema fragilità.
L’utilizzo delle spirali ha lo scopo di creare un vero e proprio “groviglio” di materiale
trombigeno e trombotico all’interno della sola cavità aneurismatica che viene così
esclusa dal flusso. In questo modo l’arteria affetta dall’aneurisma, rimane assolutamente
pervia con un flusso al suo interno del tutto normale.
Le principali complicanze di esclusione d’aneurisma oltre alla già menzionata rottura della
sacca durante le manovre comprendono gli eventi embolici per distacco di placca o
molto più raramente per migrazione di spirale, con conseguente possibile infarto
ischemico del parenchima cerebrale.

MAV. La malformazione artero-venosa è un insieme di anomalie vascolari caratterizzate


da una comunicazione diretta e ad alto flusso tra arterie e vene. Normalmente il sangue
passa dalle arterie alle vene attraverso i capillari, vasi microscopici a parete molto sottile,
a livello dei quali si realizzano gli scambi di sostanze nutritive tra sangue e tessuti. Nelle
malformazioni artero-venose manca il normale letto capillare e il sangue passa dal
distretto arterioso a quello venoso con alto flusso e alta pressione, percorrendo dei canali
vascolari anomali, dilatati e tortuosi. Questi ultimi formano una sorta di gomitolo chiamato
nidus.
Il trattamento endovascolare, delle mav consiste nell’utilizzo di un microcatetere, che
introdotto dall’inguine (arteria femorale) viene spinto fino all’estremo prossimale della
malformazione intra-cranica e attraverso questo viene iniettato una sostanza
(embolizzante) che ha lo scopo di riempire e chiudere il nidus della MAV.Il trattamento
endovascolare può essere usato con due finalità: quella risolutiva e quella adiuvante al
trattamento chirurgico.
Nel primo caso il successo è soprattutto per lesioni di piccole dimensioni.
Nel secondo caso lo scopo è quello di ridurre le dimensioni del nidus e la chiusura delle
arterie afferenti che non sono accessibili chirurgicamente.
Generalmente come embolizzante viene usato l’alcool polvinilico, ma per MAV con
ampie comunicazioni arterovenose è maggiormente indicato l’utilizzo di spirali, avendo
queste un minor rischio di dislocamento dal sito di rilascio rispetto al materiale particolato.
Un trattamento opzionale, ma solo per MAV extracraniche può essere l’embolizzazione
mediante puntura percutanea con rilascio di materiale embolizzante direttamente nella
vena di drenaggio; questa tecnica risulta essere assolutamente valida per le MAV rifornite
da vasi arteriosi marcatamente tortuosi che non consentono la cateterizzazione selettiva.

ALTRE APPLCIAZIONI (TUMORI). Alcuni tumori intracranici, in particolare quelli della fossa
cranica posteriore come alcuni meningiomi, possono essere trattati mediante
embolizzazione intra arteriosa, facilitando il successivo trattamento chirurgico.
La vascolarizzazione di questi tumori intracranici può dipendere da uno o più vasi arteriosi,
per cui diviene di fondamentale importanza prima dell’intervento conoscere
accuratamente l’esatta anatomia vascolare della lesione.
Anche per la patologia tumorale dunque, può essere praticata l’embolizzazione. Il rilascio
all’interno del letto vascolare di materiali di dimensioni ridottissime come l’alcol polivinilico
consente, andando ad occludere il rifornimento arterioso a livello capillare, di ottenere
una buona devascolarizzazione del tumore ed è solo mediante un’embolizzazione, la più
distale possibile che si può ottenere tale risultato. Se la lesione appare però rifornita da
vasi di considerevoli dimensioni (Esempio arteria mascellare interna) dovranno essere
usate, in aggiunta all’alcool polivinilico, particelle di dimensioni maggiori in modo da
poter bloccare il rifornimento anche dai rami più grandi.

VASI EPIAORTICI.
L’esame angiografico dei vasi epiaortici viene effettuato mediante la tecnica
convenzionale secondo Seldinger con approccio trans femorale o trans omerale e
l’utilizzo di cateteri ad alto flusso tipo Pig tail di 4 5 Fr di calibro con iniezione di 15-20 cc di
mezzo di contrasto non ionico a livello dell’arco aortico, al flusso di 10-15 cc al secondo.
Le proiezioni necessarie per una valutazione completa dei vasi epiaortici sono:
ANTERO-POSTERIORE (anche con rotazione del tubo di 45° per la valutazione dell’arco);
OBLIQUA LATERALE SINISTRA con rotazione del cranio di 20-30° a destra;
OBLIQUA LATERALE DESTRA con rotazione del cranio 20-30° a sinistra;
(entrambe per la valutazione delle biforcazioni carotidee)
ANTERO-POSTERIORE per la valutazione del circolo intracranico e del ritorno venoso;
Ove necessiti sono possibili iniezioni selettive a livello del tronco anonimo e della carotide
comune sinistra con cateterismo selettivo.
VIE D’ACCESSO
L’accesso più utilizzato è trans femorale, in anestesia locale, con cateterizzazione selettiva
della carotide comune; sono possibili anche accessi trans brachiali e con puntura diretta
dell’arteria carotide comune.
Il cateterismo selettivo della carotide comune con un catetere angiografico diagnostico
è necessario per effettuare un angiografia selettiva di controllo in modo da ottenere una
completa visualizzazione della biforcazione carotidea, della carotide interna, della
carotide esterna e dell’eventuale stenosi e per favorire l’ingresso di guide di supporto.
Salvo che per casi molto semplici, è preferibile avanzare il catetere diagnostico, solo
dopo aver portato il filo guida 0,035” [idrofilica, punta J, flessibile per 3 cm in punta, poco
traumatica nella versione standard] in carotide esterna.
A questo punto, il catetere è spinto in carotide esterna, si effettua lo scambio di fili guida:
da una standard ad una rigida; a questo punto, si porta il catetere da lavoro: introduttore
lungo o catetere guida.
Elemento cardine dell’intervento, infatti, è poter conseguire l’accesso all’arteria carotide
comune, nel lato da trattare, con un introduttore lungo o con un catetere guida.
L’intento è quello di conseguire una posizione stabile e sicura, per poter poi effettuare
agevolmente i vari passaggi di materiale, senza dover ricorrere ad alcuno sforzo, e
concludere l’intervento percutaneo.
La tecnica più utilizzata per lo stent carotideo è quella dei cateteri coassiali; tale tecnica
consente di posizionare preliminarmente il sistema di protezione cerebrale e
successivamente di dilatare e stentare la stenosi, utilizzando la guida del sistema di
protezione.
La stenosi può essere dilatata prima del posizionamento dello stent con un pallone di 3-
3,5 mm di diametro; in caso di difficoltà di superare la stenosi con lo stent o con il filtro, lo
stent rilasciato deve successivamente essere dilatato con palloncino da 5-6 mm.
Un controllo angiografico è effettuato al termine della procedura prima di togliere la
guida, al fine di poter mantenere l’approccio per poter eventualmente reintervenire, e
deve comprendere anche la valutazione del circolo intracranico nelle proiezioni fronto-
occipitale e laterale.
Durante la procedura vengono somministrate 5,000 U di eparina e 1 mg di atropina subito
prima di dilatare lo stent a livello delle stenosi con il catetere a palloncino.
E’ importante monitorare l’ECG, per evitare complicanze da picco ipertensivo con rischio
di danno da riperfusione, bradicardia indotta dalla dilatazione carotidea o ipotensione
eccessiva per il riflesso glomo-carotideo e la valutazione del compenso vascolare con il
Doppler-intracranico.
Prima e dopo la procedura vengono somministrati antiaggreganti piastrinici.
Gli stent in nitinol sembrano dare migliori risultati rispetto a quelli in acciaio medicale, nelle
lesioni della carotide interna distanti dalla biforcazione; essi riescono ad aderire
maggiormente alla parete vasale per via della loro struttura, che però, nel caso di pareti
vasali irregolari , può causare un effetto sfavorevole sulla dinamica del flusso e provocare
una trombosi all’interno dello stent; un ulteriore svantaggio degli stent in nitinol è la
possibilità che provochino una reazione allergica, dovuta alla presenza del nichel.
Per ovviare alla problematica legata alle alterazioni emodinamiche che possono
generare trombosi sono stati progettati stent conici che si adattano alle pareti dei vasi.
Anche il disegno delle maglie dello stent può influire sulla capacità di adattamento alla
anatomia del vaso.
D’altra parte gli stents in acciaio medicale possono non aderire in maniera completa al
vaso in particolare con vasi tortuosi, questo può portare ad un azione trombofilica da
parte dello stent nelle prime settimane dopo la procedura, tendenza che scompare con
la riepitelizzazione dello stent da parte dell’endotelio vasale.
Un’ulteriore differenza tra gli stent in acciaio e in nitinol è nella differente capacità di
modellarsi a livello della biforcazione carotidea, gli stent in acciaio, tendono infatti , a
rimodellare la biforcazione rendendola più dritta per via della sua scarsa flessibilità,
viceversa gli stents in nitinol sono più indicati per vasi anatomicamente tortuosi e quando
si deve posizionare uno stent in maniera più precisa.

SISTEMI DI PROTEZIONE.
Durante le procedure è possibile che frammenti di placca o aggregati di piastrine
embolizzino verso il cervello con potenziali severe conseguenze. Per ridurre questa
evenienza vengono utilizzati dei dispositivi di protezione, alcuni vanno sotto il nome di filtri,
di cui è intuitiva la funzione, altri sono più sofisticati e bloccano il flusso anterogrado
durante la procedura, permettendo l’aspirazione manuale del materiale di placca al
termine dell’intervento.
Il sistema d’interruzione del flusso può essere attuato mediante il posizionamento di un
palloncino occlusale a livello della carotide comune o a livello della carotide interna,
dopo la stenosi.
In entrambi i casi è necessario valutare la tolleranza del paziente all’interruzione del flusso,
poiché il 5% dei pazienti non riesce a supplire con i circoli controlaterali, i sintomi si
manifestano entro il primo minuto dall’interruzione del flusso.
Nei sistemi di protezione con palloncino in carotide interna bisogna monitorare anche
che non sia invertito il flusso in carotide esterna e in arteria oftalmica.
E’ recentemente uscito in commercio un sistema di protezione ad inversione del flusso
chiamato sistema di Parodi; esso prevede il posizionamento di due palloncini uno in
carotide esterna e l’altro in carotide comune; con questa tecnica il flusso in carotide
interna è invertito, e il sangue viene preso dall’introduttore, filtrato e reinserito a livello
della vena femorale.
Una recente variante di questo sistema è il sistema Mo.Ma di “ blocco del flusso
prossimale” che si basa sull’interruzione del flusso sanguigno nella zona della biforcazione
carotidea tramite occlusione con due palloncini, della carotide comune e carotide
esterna. In questo modo il flusso in carotide interna è arrestato ed è possibile attraversare
la stenosi, dilatarla e rilasciare lo stent in completa sicurezza, al termine verrà aspirata la
colonna ematica presente in carotide così da aspirare tutti i detriti.
Al termine dell’aspirazione verranno sgonfiati i cateteri a palloncino.
Questi sistemi, rispetto ai precedenti, consentono di oltrepassare la stenosi con la
protezione già inserita rispetto ai precedenti che superano la stenosi con il palloncino di
protezione.
L’utilizzo dei filtri come sistema di protezione comporta invece, i seguenti vantaggi:
Mantenimento della perfusione cerebrale, Valutazione angiografica di tutte le fasi della
procedura, Minore rischio di spasmo e di dissezione.
Ovviamente la scelta del filtro va fatta valutando morfologia e decorso della carotide
interna, diametro del vaso e grado di stenosi.
Nei filtri è molto importante la lunghezza del sistema perché più sono vicini alla placca e
maggiore è la possibilità che si chiudano, il che si evidenzia nei controlli come una
colonna di contrasto ferma tra la placca e il sistema di filtro; in questi casi va aspirato il
sangue tra filtro e stenosi essendoci sangue con emboli al suo interno.
ANEURISMI CAROTIDE INTERNA
L’aneursima della carotide interna è un evento piuttosto raro, spesso di natura
traumatica, che può essere risolto con terapia endovascolare mediante l’utilizzo di stents
ricoperti. Questi stents escludono la sacca aneurismatica o pseudo-aneurismatica dal
flusso, evitando il rifornimento della stessa. La sacca esclusa andrà incontro a trombosi,
con risoluzione del quadro. La tecnica d’approccio alla carotide è la stessa utilizzata per
la patologia steno-ostruttiva, con cateterismo selettivo della carotide comune mediante
un catatere guida o un introduttore lungo.
Attraverso la tecnica coassiale si rilascia lo stent dilatandolo successivamente con un
palloncino da 5-6 mm, si tende a comprendere la biforcazione carotidea nello stent in
modo da garantire che non vi siano turbolenze, che potrebbero provocare trombosi.
L’alternativa all’utilizzo dello stent ricoperto, negli pseudo-aneurismi, è l’embolizzazione
mediante spirali, piccoli filamenti metallici che si arricciano su se stessi a contatto con il
sangue provocando così una trombosi nella zona in cui vengono rilasciati, ma per poter
utilizzare le spirali è necessaria la presenza di un colletto affinchè le spirali rimangano nella
sacca cosi da non essere spinte dal flusso fuori dall’aneurisma e quindi a livello encefalico
con il rischio di embolizzazione.
Da un punto di vista tecnico è preferibile utilizzare un catetere all’interno dello
presuodoaneurisma, attraverso cui rilasciare le spirali e un catetere a palloncino che
chiude a protezione il catetere stesso all’interno della sacca e il colletto così da evitare
pericolose dislocazioni delle spirali. Le dimensioni del catetere dipendono dalla
localizzazione dell’aneuirsma, più è alto minore sarà il diametro del catetere, la forma è in
relazione all’anatomia vascolare del paziente e alla preferenza dell’operatore.
Le spirali più utilizzate sono attualmente le spirali di Guglielmi che si arricciano all’interno
dell’aneurisma una volta rilasciate dal catetere.
CIRCOLO VERTEBRO-BASILARE.
Il posizionamento di stent ha indicazioni nelle disostruzioni e nel caso in cui la PTA
(angioplastica percutanea transluminale) da sola non abbia ottenuto risultati
soddisfacenti.
Gli accessi per la procedura possono essere brachiali o femorali; attraverso l’accesso
femorale viene cateterizzato il tronco anonimo o l’arteria succlavia, ed effettuato un
controllo con iniezione di mdc al fine di localizzare la stenosi.
Prima di intervenire vengono misurate le pressioni e calcolato il gradiente tra i due arti.
La stenosi è dilatata con catetere a palloncino montato su una guida rigida tipo Amplaz.
Dopo la dilatazione si misurano nuovamente le pressioni, se il gradiente è superiore a 5
mmHg, o il controllo angiografico dimostra una stenosi superiore al 20% si procede con il
posizionamento dello stent. Diametro e lunghezza di quest’ultimo sono scelti a seconda
del caso.
Con l’accesso brachiale non vengono utilizzati cateteri, ma solo una guida tipo Amplaz in
aorta ascendente su cui viene montato il catetere a palloncino e l’eventuale stent.

AORTA
L’esame angiografico dell’aorta è effettuato con tecnica di seldinger tramite approccio
trans-femorale e l’utilizzo di cateteri diagnostici ad alto flusso tipo Pig Tail di 4-5 Fr di calibro
con iniezione di 20-25 cc di mezzo di contrasto non ionico a livello dell’origine del tronco
anonimo per la valutazione dell’aorta toracica e a livello delle arterie renali nello studio
dell’aorta addominale. Le proiezioni sono:
ANTERO POSTERIORE, OBLIQUA ANTERIORE con rotazione del tubo a sinistra di 45° per la
valutazione dell’arco, OBLIQUE LATERALI DESTRE e SINISTRE con rotazione del tubo (25-30°),
per la valutazione delle biforcazioni iliache e la laterale per la valutazione dell’emergenza
dei vasi dall’aorta addominale.
Il trattamento endovascolare costituisce una valida alternativa alla chirurgia tradizionale
per patologie dell’aorta toracica discendete e in alcuni casi dell’arco aortico, mentre
rimane di esclusiva pertinenza chirurgica la patologia dell’aorta toracica ascendente.
La possibilità di effettuare il trattamento endovascolare degli aneurismi dell’aorta
toracica, come per quelli dell’aorta addominale, è strettamente correlato alla
definizione, mediante l’impiego dell’Angio tcms, di una serie di caratteristiche
morfologiche della dilatazione aneurismatica ( caratteristiche del colletto prossimale,
morfologia dell’aneurisma, estensione distale).
Ancora la radiologia interventistica può essere applicata in caso di DISSEZIONE, in
particolare nei casi di :
-Dissezioni acute associate a rottura o ischemia di vasi arteriosi
-Dissezioni croniche con dilatazioni aneurismatiche

Per una corretta programmazione all’intervento, è fondamentale un accurato studio


diagnostico mediante TC-spirale-multistrato. Devono essere identificati il vero e il falso
lume, la breccia di ingresso e l’estensione della dissezione, eventuali rotture e i rapporti
con l’origine dei sovraortici, oltre all’esatta misurazione dei diametri indispensabile per la
scelta della protesi.
In questi ultimi anni si sta diffondendo il trattamento endovascolare delle dissezioni acute
tipo B ( a carico dell’arco aoritco o aorta discendente) e delle dissezioni croniche con
concomitante dilatazione aneurismatica del falso lume a livello dell’aorta discendente.

In entrambe le patologie il trattamento si basa sull’obliterazione della porta di accesso,


impedendo così la comunicazione con il falso lume e riducendone od eliminandone il
flusso.
Nelle dissezioni acute tipo B si ha un repentino incremento di calibro del lume vero in
assenza di un reale aumento del calibro complessivo dell’aorta. Distalmente, le alterazioni
di flusso a carico delle branche che originano dal lume vero vengono immediatamente
ristabilite in seguito al posizionamento della protesi.
Nella maggior parte dei casi, sia nelle dissezioni acute tipo B che nelle croniche, si ottiene
una trombosi progressiva del falso lume in senso cranio-caudale.
La scelta della protesi da utilizzare è strettamente legata alle caratteristiche morfologiche
della dissezione ma non è ancora stato standardizzato un metodo ottimale per la
selezione del diametro e della lunghezza della protesi . Tuttavia, è solito misurare il
diametro di riferimento a livello dell’aorta non dissecata nel tratto immediatamente
prossimale alla porta di accesso, considerando una sovrastima del 20% per garantire il
corretto ancoraggio della protesi, mentre relativamente alla lunghezza delle protesi da
impiantare, in genere è tra tra 10 e 15 cm, nettamente più lunghe della porta di accesso.
L’utilizzo delle protesi endovascolari sta trovando applicazione nel trattamento di un
numero sempre maggiore di patologie dell’aorta toracica quali le lesioni post-
traumatiche, gli aneurismi micotici, le rotture aortiche e gli aneurismi estesi all’arco od alle
branche addominali, costituendo una sfida eccitante verso lo sviluppo di nuove tecniche
e di nuovi materiali.

TRATTAMENTO AORTA ADDOMINALE


Lo sviluppo di tecniche di tipo endovascolare di Radiologia Interventistica, ha dato
l’opportunità di adottare procedure alternative alla chirurgia tradizionale, garantendo
anche minor trauma al paziente. La procedura endoluminale costituisce una valida
alternativa al trattamento chirurgico, permettendo di ottenere un’immediata esclusione
dell’aneurisma con una serie di vantaggi rispetto alla chirurgia: minore morbilità e
mortalità, minore aggressività, riduzione dei tempi di ospedalizzazione e del periodo di
convalescenza con conseguente riduzione dei costi.
L'aneurisma dell'aorta addominale (AAA) è una dilatazione anomala localizzata nell'aorta
addominale tale che il diametro è maggiore di 3 cm o più del 50% rispetto al normale.
Solitamente tale condizione non comporta nessun sintomo eccetto quando l'aneurisma si
rompe. Gli aneurismi dell'aorta addominale si localizzano generalmente distalmente alla
biforcazione delle arterie renali e possono assumere un aspetto sacculato o fusiforme.
La chirurgia endovascolare consiste nel posizionamento, sotto controllo di
apparecchiature radiologiche e tramite cateteri, di una endoprotesi (stent-graft aortico)
in grado di escludere le pareti dell’aneurisma dal flusso. Le porte di accesso per
l’endoprotesi sono le arterie femorali o le arterie iliache mediante piccole incisioni al livello
dell'inguine.
Tuttavia tale trattamento non può essere sempre eseguito perché richiede alcune
caratteristiche di forma dell’aneurisma e dei vasi vicini su cui la protesi deve essere
ancorata e dei vasi utilizzati per introdurre la protesi , caratteristiche che vengono
valutate mediante una Angio-TC spirale o multistrato.

SCELTA DELL’ENDOPROTESI. Dopo aver valutato i parametri per includere il paziente al


trattamento endovascolare, si procede alla scelta dell’endoprotesi.
Il diametro della protesi deve essere superiore di circa il 10% rispetto al calibro dell’aorta a
livello del colletto sottorenale. Per stabilire la lunghezza si calcola la distanza esistente tra
l’origine della arteria renale più bassa e l’origine dell’ipogastrica più alta; il limite superiore
di posizionamento della endoprotesi corrisponde all’origine dell’arteria renale più bassa.
Questo valore prima veniva calcolato attraverso un’angiografia con catetere
centimetrato, attualmente lo si può fare mediante un algoritmo di ricostruzione delle
moderne tc multistrato.
Le endoprotesi o stent-graft per la riparazione endovascolare di un’aneurisma hanno 3
componenti che consistono in:
(i) un sistema di rilascio per l’introduzione e posizionamento; (ii) uno stent metallico autoes
pandibile con un’alta forza radiale che fa da supporto all’endoprotesi e permette l’anco
raggio al vaso; e (iii) un tessuto protesico che esclude l’aneurisma e costituisce un nuovo
condotto per il flusso sanguigno.
Esistono endoprotesi per l'aorta addominale divise in soprarenali poichè posseggono uno
stent scoperto che si fissa al di sopra delle arterie renali, o sottorenali sprovviste di detto
stent e completamente ricoperte da tessuto. Le protesi per l'aorta addominale possono
essere costituite da 1, 2 o 3 pezzi a seconda del numero di componenti minimi da
utilizzare per completare la procedura di esclusione della camera aneurismatica dal flusso
sanguigno.
Possiamo classificare le endoprotesi in base a caratteristiche strutturali e modalità di
posizionamento diverse.
In base alla forma sono divise in
RETTE: raramente usate vengono posizionate in pazienti con dilatazioni segmentarie
dell’aorta addominale
BIFORCATE: il tipo più utilizzato nella esclusione di AAA limitati al tratto addominale o estesi
alle arterie iliache.
UNILIACHE: vengono rilasciate in pazienti in cui viene effettuata un contemporaneo by-
pass femoro-femorale.
CONICHE: vengono proposti come dispositivi di correzione; possono essere utilizzate come
stent aggiuntivi in caso di endograft biforcato di lunghezza non sufficiente ad escludere
completamente l’aneurisma a livello iliaco o come cuffia per favorire la perfetta adesione
del graft alla partete aortica.

Per quanto riguarda il posizionamento, tutte le procedure devono essere eseguite con la
collaborazione di un TEAM costituito da Radiologi Interventisti, Chirurghi Vascolari,
Anestesisti Rianimatori, preferibilmente in sale angiografiche adatte per
proceduremRadiologico-Chirurgiche o in sale operatorie provviste di archi a C portatili
con caratteristiche tecnologiche idonee.
L’endoprotesi viene posizionata in genere in anestesia locale, con blanda sedazione del
paziente e assistenza anestesiologica.
Si esegue un’angiografia così da valutare correttamente la posizione delle arterie renali e
la morfologia dell’aorta addominale. Nella maggior parte delle protesi è necessario un
accesso femorale bilaterale, per alcune misto (chirurgico per la porzione protesica
principale e percutaneo per la branca accessoria) per altre chirurgico bilaterale. Si
procede con l’avanzamento del corpo protesico principale su una guida metallica, fino
all’origine delle arterie renali. Si esegue un breve test angiografico così da valutare il
corretto posizionamento dell’endoprotesi rispetto al colletto aortico ed all’ostio delle
arterie renali.
Dopo aver controllato la corretta localizzazione dell’endoprotesi se ne effettua il rilascio.
Attraverso l’accesso controlaterale si cateterizza successivamente la branca principale
dell’endoprotesi e si posiziona la gamba iliaca controlaterale. Questa viene fatta risalire
fino a che non vi sia la sovrapposizione dei markers della componente aortica con quelli
prossimali della branca iliaca che viene poi rilasciata sotto controllo fluoroscopico. Viene
fatto quindi il controllo angiografico per valutare il corretto posizionamento di tutta la
protesi, la completa esclusione dell’aneurisma o la presenza di eventuali endolak. Il
posizionamento dell’endoprotesi viene controllato mediante l’esecuzione di un’ Angio-
TCMS a distanza di qualche giorno dalla procedura per confermare la completa
esclusione dell’aneurisma ed escludere la presenza di endolak .
Verranno eseguiti controlli TC-multistrato a distanza di 1-3-6-12 mesi ed ogni 12 mesi. Il
follow up dei pazienti con aneurisma dell’aorta addominale trattati con endoprotesi,
viene eseguito con Angio-TCms valutando le immagini assiali e le successive ricostruzioni
multiplanari ed eventualmente le navigazioni endoscopiche virtuali. La TC-ms permette
oltre alla valutazione dell’endoprotesi con le immagini assiali, di integrare l’esame con
algoritmi di ricostruzione.
L’endoscopia virtuale è una tecnica di post-processing basata su raggi divergenti
analizzati tramite uno speciale algoritmo al fine di creare immagini tridimensionali
partendo da scansioni in angio-TC e scansioni con RM ad alta risoluzione in modo da
poter verificare eventuali complicanze trombotiche endoprotesiche.

L’endolak è la persistenza di sangue all’interno della sacca aneurismatica nonostante la


presenza di endoprotesi il cui fine è proprio quello di escludere l’aneurisma dalla
circolazione sanguigna sistemica. Con questo termine si comprendono anche i
rifornimenti della sacca provenienti da rami collaterali pervi, specie le arterie lombari, che
possono verificarsi anche se la protesi è ben sigillata alle sue estremità.
Gli endoleak si classificano in due diversi modi in base al tempo di comparsa o alla sede
delle cause. Riferendoci al tempo di comparsa avremo:
Endoleak precoci, quelli che si sviluppano durante l’intervento o entro i primi trenta giorni
dal posizionamento della protesi
Endoleak tardivi, che compaiono oltre i trenta giorni dall’intervento
Endoleak ricorrenti, quando la sacca viene rifornita nuovamente e tardivamente dopo
una apparente esclusione.
La classificazione che invece valuta la sede del rifornimento li divide in quattro tipi:
Endoleak TIPO I : periprotesico, riconducibili all’innesto, per inadeguata fissazione
dell’endoprotesi alle pareti vasali.
Endoleak TIPO II, quando come momento causale c’è un rifornimento proveniente da
rami collaterali (aa, lombari, arteria mesenterica inferiore o tramite anastomosi aa.
Intercostali, aa. Ipogastriche, ecc).
Endoleak TIPO III quando il rifornimento della sacca si realizza per un errato attacco o dal
successivo distacco delle componenti di una protesi.
Endoleak TIPO IV associato alla porosità del rivestimento protesico.

ARTI INFERIORI
Radiologia Interventistica. Molti pazienti soffrono di disturbi agli arti inferiori di origine
vascolare che si manifestano con una claudicatio intermittente (crampi intermittenti),
oppure con un’ischemia, ulcerazioni o gangrena.
Interrogare il paziente è fondamentale per determinare la progressione o meno della
malattia, la sua origine e i problemi funzionali che essa comporta; E’ molto importante un
attento follow-up di questi pazienti che verranno sottoposti ad esami strumentali quali
l’Eco color Doppler, l’Angio-TC multistrato.
La classificazione delle arteriopatie degli arti inferiori svolge un ruolo fondamentale
nell’indirizzare il paziente verso i diversi tipi di trattamento.
Due sono le classificazioni oggi utilizzate: quella di Leriche e Fontaine e quella della
Società di Chirurgia Vascolare modificata da Rutheford e Becker:
La prima si suddivide in quattro stadi:
stadio I: leggera claudicatio che non richiede trattamento di RI ne trattamento chirurgico
stadio II: attenta valutazione della lesione prima di prendere qualsiasi decisione
stadio III e IV: ischemia critica la quale necessita di trattamento rapido per salvare l’arto.
La seconda classificazione risulta essere più precisa e porta ad una miglior valutazione
delle condizioni cliniche del paziente e della prognosi.

Un successo tecnico è direttamente correlato alla morfologia della lesione. Naturalmente


più la stenosi è corta e migliori sono i risultati; la lunghezza ideale è < di 3 cm. Lesioni di
circa 10 cm vanno incontro quasi sempre ad una restenosi e quindi non vi è l’indicazione
per un trattamento di angioplastica. Le stenosi danno migliori risultati rispetto alle
occlusioni anche se le ostruzioni concentriche sono facilmente trattabili; Le lesioni ostiali
danno cattivi risultati con un alto rischio di occlusioni;
Le lesioni estremamente calcifiche risultano essere molto difficili da trattare e danno
scarsi risultati.
INDICAZIONI ALL’ANGIOPLASTICA. L'angioplastica (PTA - Percutaneous Transluminal
Angioplasty) delle arterie degli arti inferiori è una modalità di intervento mini-invasiva che
rappresenta una vera innovazione nel campo della terapia delle arteriopatie. In molti casi
sostituisce l'intervento chirurgico tradizionale (by-pass) con il vantaggio di essere poco
invasiva, ripetibile, eseguibile in anestesia locale e con ricovero limitato a pochi giorni(in
genere 2 notti). Anche il recupero dopo la procedura è breve e il paziente può tornare
alle sue occupazioni il giorno stesso della dimissione. Conosciuta anche per le sue
applicazioni cardiologiche, l'angioplastica si ripropone di dilatare o riaprire arterie colpite
dall'aterosclerosi attraverso l'introduzione di un catetere provvisto di un palloncino che
allarga il punto malato.
L'intervento si svolge in condizioni di sterilità in sala angiografica. La sede di puntura è
generalmente l'inguine destro, ove si esegue un'anestesia locale. Un catetere è avanzato
sotto monitoraggio radiologico fino al vaso sanguigno interessato dal restringimento o
dall'occlusione. In questa sede si inietta il mezzo di contrasto che consente di visualizzare
la distribuzione dei vasi sanguigni e la presenza di eventuali lesioni (restringimenti e
occlusioni compresi). La ricostruzione del vaso sanguigno danneggiato potrà essere
effettuata mediante l'inserimento di un catetere dotato di palloncino gonfiabile che verrà
sospinto fino al punto di restringimento e gonfiato con lo scopo di dilatare il lume del vaso
ristretto (potrebbe essere necessario gonfiare il palloncino più di una volta) e consentirne
un'adeguata rivascolarizzazione.
L'idoneità al trattamento viene discussa con il paziente in sede di visita specialistica di
radiologia interventistica dopo aver eseguito esami diagnostici specifici, quali l'eco-color-
doppler e l'Angio-TC degli arti inferiori. Il medico potrebbe anche non ritenere opportuno
eseguire l'intervento su pazienti che soffrono di disturbi della coagulazione, in presenza di
ipercoagulabilità, di malattie ai vasi sanguigni o di occlusione totale.
Questo tipo di procedura consente di ripristinare il normale calibro del vaso malato
(ristretto o occluso) per consentire al flusso di sangue di tornare a una condizione il più
possibile vicino alla normalità.
Tra i rischi che si possono correre sottoponendosi a questa procedura vi sono:
- sanguinamenti o ematomi che possono verificarsi attorno all'area dell'incisione mediante
cui il catetere è stato inserito;
- molto raramente un coagulo di sangue potrebbe bloccare l'apporto sanguigno al
distretto vascolare trattato o la parete dell'arteria potrebbe risultare indebolita (in molti
casi questo problema può essere trattato dal medico radiologo nella medesima seduta di
angioplastica, ma a volte però può rendersi necessario un intervento chirurgico);
- in rarissimi casi può presentarsi una reazione al mezzo di contrasto. Fra le possibili
complicanze gravi sono incluse l'occlusione improvvisa dell'arteria e la formazione di una
nuova stenosi.
I criteri generali per le indicazioni alla PTA (angioplastica) sono considerati in accordo al
sito della lesione e ad alcune caratteristiche anatomiche e morfologiche. Le lesioni
arteriose vengono classificate in 4 categorie a seconda del trattamento più indicato sia
esso chirurgico che di tipo radiologico interventestico:
I Gruppo: a) lesioni per le quali la PTA è il trattamento di prima scelta
b) trattando queste lesioni con la PTA si ottiene un alto successo tecnico e di
solito si ha una completa scompasa della sintomatologia con un ritorno alla
normalità dei gradienti pressori
II Gruppo: a) le lesioni vengono trattate in modo appropriato con la PTA
b)trattando queste lesioni con la PTA si ottiene un significativo miglioramento
dei segni clinici e pressori
III Gruppo: lesioni che possono essere trattate mediante PTA, ma che hanno una chance
di successo molto bassa dovuta al diffuso coivolgimento del loro sito d’origine. Tuttavia si
può eseguire una PTA in quei casi in cui il rischio operatorio è alto.
IV Gruppo: lesioni multiple suddivise in più livelli per le quali la PTA svolge un ruolo
puramente marginale con scarsi risultati a distanza.

CRITERI DI SELEZIONE IN BASE ALLA LESIONE


Arterie iliache:
L’angioplastica con catetere a palloncino è il trattamento di prima istanza nelle stenosi
delle arterie iliache. Rappresenta la procedura più diffusa grazie all’elevato successo
tecnico, con bassa incidenza di restenosi e complicanze; l’approccio solitamente è
omolaterale alla lesione, mentre nelle lesioni bilaterali può essere bilaterale o omolaterale
con crossover.
Il diametro del catetere a palloncino viene scelto in base alle caratteristiche della stenosi.
Se la stenosi non è calcifica il diametro del palloncino scelto sarà uguale a quello
dell’aorta. In presenza di un’arteria molto calcifica si partirà con un palloncino di
diametro inferiore per evitare il rischio di rotture, poi a seconda della tollerabilità potrà
essere aumentato il diametro.
Se la lesione è localizzata in prossimità della biforcazione, un palloncino con largo
diametro non può essere usato per evitare di danneggiare l’arteria iliaca comune e si
utilizza la tecnica “Kissing Ballon” usando un doppio accesso femorale. Il diametro dei
palloncini varia da 8 a 12 mm che corrisponde poi al diametro delle arterie iliache e
garantisce una sufficiente dilatazione dell’aorta addominale.
Sebbene l’occlusione delle arterie iliache sia stata sempre considerata una
controindicazione all’utilizzo della PTA, per il rischio di embolizzazione distale, oggi è
possibile effettuare una fibrinolisi o una trombectomia meccanica con un alto successo
tecnico.
In questo modo una lunga occlusione verrà trasformata in corta e sarà possibile effettuare
una PTA con o senza posizionamento successivo di stent metallico
DISTRETTO FEMORO-POPLITEO
Nella PTA si posiziona una guida all’interno della stenosi. Si fa quindi procedere un
catetere da pochi Fr sulla guida attraverso la lesione. Si retrae la guida e si controlla la
posizione del catetere attraverso un’iniezione di mdc. Si reintroduce la guida e si
sostituisce il catetere con un altro a palloncino. Quando il palloncino si trova all’interno
della lesione lo si gonfia. Durante la dilatazione col palloncino l’intima aterosclerotica si
rompe e si apre parzialmente. Questo fatto libera la media dalle limitazioni dell’intima
aterosclerotica, consentendone lo stiramento con lesione delle sue fibre elastiche
collagene e muscolari. L’aumentato flusso ematico attraverso la lesione mantiene distesa
la media e questa si rimodella mediante la deposizione del collagene. Questa rottura
della media determina permanente dilatazione dell’arteria.

STENT: Lo stent mantiene la forma e le dimensioni del palloncino usato per la dilatazione
ed è mantenuto in sede dalla rimanente forza elastica dell’arteria.
Siccome il posizionamento di uno stent intravascolare in un vaso stenotico è un processo
irreversibile, la certezza che esso espanda il lume arterioso è di fondamentale importanza.
Risulta chiaro che le maglie di uno stent debbono vincere la forza e l’elasticità della
parete arteriosa lesionata e per far questo lo stent deve essere posizionato in modo
corretto rendendo omogenea la distribuzione del carico all’interno delle maglie.
Gli stent oggi in commercio sono moltissimi e tra i materiali più usati ricordiamo l’acciaio, il
tantalio, il nitinol, il titanio ecce cc.
La reattività del metallo a contatto col flusso sanguigno dipende dalle caratteristiche
fisiche della superficie. Più risulta ruvida e porosa la superficie maggiore sarà la
trombogenicità. Dopo pochi giorni o alcune settimane dal posizionamento dello stent lo
stato trombotico superficiale viene rimpiazzato da tessuto fibromuscolare che si espande
in maniera concentrica.

La PTA è il primo trattamento da effettuare in caso di arteropatie degli arti inferiori.


Tuttavia parecchi problemi rimangono irrisolti come le complicanze durante la procedura,
i risultati a lungo termine e la possibilità di restenosi la quale è molto più probabile a livello
femoro-popliteo che a livello iliaco.
L’utilizzo di protesi metalliche (stents) viene riservato a quei casi in cui non si sia avuta una
risposta soddisfacente alla PTA o in prima istanza a lesioni iliache considerate
potenzialmente emboligene quali: occlusioni croniche, lunghi segmenti stenotici e
placche ulcerate.
Gli stent vascolari sono stati proposti come un supporto meccanico endovascolare per
compensare o superare i limiti della PTA, tuttavia non è mai raccomandabile effettuare
uno stenting prima di una PTA sia per ragioni socio economiche che per potenziali
problemi di follow-up.
ARTERIE ILIACHE. Dati gli ottimi risultati che si ottengono con la PTA, le indicazioni allo
stenting sono strettamente limitate a quei casi in cui non è sufficiente la sola
angioplastica. Le complicanze della PTA risultano ottimamente trattabili con lo stenting.
Tra queste ricordiamo l’ematoma intramurale, ma anche le dissezioni ostacolanti il flusso
che possono essere un’indicazione al posizionamento della protesi per ripristinare il flusso
evitando il trattamento chirurgico.
Anche un inadeguato risultato dopo una PTA è un requisito secondario per il
posizionamento protesico.
Nelle occlusioni invece il posizionamento di uno stent self-expandable è la procedura
d’elezione, in quanto previene il dislocamento di materiale trombotico in periferia, una
complicanza frequente nel trattamento percutaneo delle disostruzioni iliache. Altro
vantaggio dello stenting è quello di stabilizzare l’aumentato lume vasale dopo PTA ed
evitare una eccessiva dilatazione.
ARTERIE FEMORALI. In questo distretto le indicazioni sono diverse rispetto a quello iliaco. Da
quando si è notato che la frequenza della restenosi nello stenting della femorale è alta, le
indicazioni al posizionamento della protesi in questo distretto sono diventate molto più
restrittive e limitate a quei pazienti con ematoma intramurale o dissezione in modo da
trattare le complicanze legate alla PTA. Non esistono indicazioni, o per lo meno sono
veramente limitate, allo stenting della femorale superficiale e della femorale profonda.

Il posizionamento di uno stent a livello popliteo è tecnicamente possibile utilizzando


protesi flessibili, ma la flessione continua del ginocchio potrebbe portare a trombosi dello
stesso. Altri tipi di stent oggi utilizzati per il trattamento di aneurismi o arteropatie
periferiche sono quelli ricoperti.
Il principio alla base di questi stent nel trattamento delle stenosi dei vasi periferici è che
essendo essi ricoperti andrebbero ad impedire la proliferazione intimale all’interno delle
maglie dello stent garantendo una pervietà a distanza maggiore.
Favorevoli risultati sono riportati in genere per lesioni corte e per lesioni localizzate nel III
superiore e nell III medio della femorale superficiale; come sempre i risultati dipendono
dalla lunghezza della lesione e dal numero di stent posizionati.
Nelle arterie iliache l’utilizzo di questi stent può sembrare non determinante tranne che in
casi di aneurismi ulcerati o dopo ricanalizzazione.
Si utilizzano usualmente delle protesi ricoperte in ePTFE (materiale sintetico) che dopo
essere state rilasciate vengono dilatate con catetere a palloncino.
L’utilizzo di stent ricoperti nel distretto femoro-popliteo apporta dei benefici grazie al loro
rivestimento interno che funziona come una barriera impedendo la crescita miointimale
al suo interno.
TECNICA DI POSIZIONAMENTO DELLO STENT. La tecnica consiste nell'eseguire
un'angiografia diagnostica che identifichi con esattezza il sito di stenosi/occlusione
dell'asse iliaco.
1. Successivamente si supera l'occlusione con un filo guida.
2.Sulla guida viene fatto scorrere un pallone da angioplastica che permette di dilatare la
stenosi per favorire il posizionamento di un eventuale stent.
3.Viene quindi posizionato lo stent.
4.Lo stent viene dilatato in maniera tale da ristabilire il corretto calibro del lume arterioso.
5. Si esegue un'angiografia finale che dimostri il corretto poszionamento dello stent e la
correzione del quadro stenocclusivo.

TECNICA DI RICANALIZZAZIONE. Negli ultimi anni, la tecnica percutanea endoluminale è


divenuta estremamente popolare per il trattamento delle patologie degli arti inferiori e in
alcuni casi risulta essere il trattamento di scelta come ad esempio la PTA in caso di stenosi
delle arterie iliache. Più controversa è la posizione della ricanalizzazione arteriosa .
RICANALIZZAZIONE MECCANICA.La ricanalizzazione avviene di solito in occlusioni > di 3
mesi e possono essere usati molteplici approcci. Le occlusioni tromboemboliche acute e
sub-acute sono tuttora una delle principali cause di ischemia periferica e di amputazione
degli arti.
La tecnica di disostruzione subintimale consiste nel ricanalizzare il vaso tra l’intima e
l’endotelio .
L’approccio transfemorale omolaterale anterogrado o retrogrado viene usato tutte le
volte che si riesce a pungere l’arteria; di solito viene usato un introduttore da 8 Fr in
quanto consente ampio spazio di manovra per l’introduzione di eventuali stent o protesi,
una guida idrofila retta o curva da 0.035 e successivamente viene avanzato un catetere
da 5 Fr attraverso l’occlusione. In questo passaggio bisogna essere estremamente cauti in
quanto soprattutto nelle lesioni calcifiche si può andare in contro a dissecazione del vaso.
Proprio per questo è opportuno effettuare continui controlli iniettando del mdc.
La tecnica di disostruzione subintimale consiste nel ricanalizzare il vaso tra l’intima e
l’endotelio, questo avviene attraverso il caratteristico passaggio della guida con punta
conformata a loop nella porzione sub intimale del vaso ostruito; una volta raggiunto la
porzione pervia del vaso viene avanzato il catetere e raddrizzata la punta della guida
che perfora nuovamente l’intima rientrando nel lume “vero”. Il tramite ottenuto, una volta
dilatato, sposterà eccentricamente il trombo riformando un neolume più ampio di quanto
si riesce ad ottenere con la tecnica endoluminale.
L’approccio transfemorale controlaterale viene effettuato quando non è stato possibile
l’ipsilaterale. A volte il rientro nel lume vero può essere difficoltoso. In caso di insuccesso si
può tentare di oltrepassare l’ostruzione pungendo distalmente il lume vero; con una guida
si cerca di normalizzare il vaso. Se si riesce a raggiungere la sede della puntura prossimale,
mediante l’ausilio di una guida “a cappio” (loop) si può agganciare l’altra guida,
mettendo in comunicazione diretta i due siti di punture. In alternativa esistono in
commercio dei cateteri dedicati che presentano un piccolo uncino distale per forare
l’intima.
Anche in questo caso viene utilizzato un introduttore da 8 Fr, la solita guida idrofilica e un
catetere tipo Simmons.
In caso di disostruzione della femorale superficiale o del distretto di gamba l’approccio
da preferire è femorale omolaterale anterogrado, con puntura della femorale comune al
di sotto del legamento inguinale, ma nella direzione del flusso. Una volta effettuata la
ricanalizzazione è importante assicurarsi che la guida sia all’interno del lume.
Successivamente, prima del posizionamento dello stent o della protesi, la guida viene
sostituita con una guida stiff in modo da garantire un valido sostegno al passaggio degli
stessi.
Possono essere utilizzati anche approcci brachiali o poplitei in caso di lesioni iliache
bilaterali, ma sono fortemente limitati visto che non tollerano introduttori maggiori dei 4 Fr .

b) FIBRINOLISI. Alcuni pazienti possono essere sottoposti a fibrinolisi con Urochinasi per
cercare di riaprire il vaso. La Fibrinolisi viene mantenuta dalle 6 alle 24 ore, il catetere di
infusione viene posizionato, grazie ad un approccio controlaterale, a ridosso del trombo.
La dose somministrata è di 4000 UI/min per le prime due ore seguite da 2000 UI/min per le
seguenti ore.

c) TROMBECTOMIA MECCANICA. Un’altra opzione è ‘utilizzo di un macchinario per la


trombectomia e la successiva aspirazione di materiale in modo da evitare embolia
distale. Le complicanze più comuni effettuando questo tipo di procedure sono appunto
l’embolia distale e la comparsa di ematomi e pseudo-aneurismi.
I risultati a lungo termine per il trattamento di ricanalizzazione sono incoraggianti,
dovrebbe essere sempre il trattamento primario in pazienti anziani con malattie vascolari
polidistrettuali.

TROMBOLISI. Il principale obiettivo della terapia trombolitica è quello di rimuovere i


trombi e facilitare la rivascolarizzazione; prevede la somministrazione di particolari
farmaci, chiamati fibrinolitici (o trombolitici), e di una strumentazione ai raggi X per
osservarne l'esito.
Agenti trombolitici. Gli agenti trombolitici oggi più utilizzati nelle occlusioni arteriose sono:
la streptochinasi e l’urochinasi.
La dose di streptochinasi da somministrare al paziente è di circa 5000 UI/h a bassa
infusione. Oggigiorno il farmaco più utilizzato è la Urochinasi e il suo protocollo di
somministrazione è il seguente:
Iniziale infusione di 4000 UI/mn per due ore seguite da 2000 UI/min per altre due ore e 1000
UI/h per 24 ore fino a che la lisi non sia completa. Numerosi studi riportano una lisi
completa del trombo nel 75% dei casi.
Metodi di Infusione.
Stepwise infusion: consiste nell’avanzare il catetere di infusione man a mano che si
dissolve il trombo, è una procedura lunga e il paziente deve rimanere nella sala
angiografica per effettuare i controlli.
Infusione graduale: come dice il nome stesso c’è un periodico rilascio del farmaco
Infusione continua: questo è il metodo più comune di rilascio dove il farmaco viene
somministrato continuamente nelle 24 ore.
Tecnica Pulse Spray : il farmaco trombolitico viene iniettato direttamente nel trombo in
modo da frammentarlo in modo che così aumenti la superficie per gli attivatori del
plasminogeno.

Salvataggio d’arto. Negli ultimi 20 anni c’è stato un considerevole miglioramento nelle
tecniche chirurgiche di rivascolarizzazione nell’ischemia degli arti inferiori con notevole
riduzione della percentuale delle amputazioni.
Nonostante la vasta esperienza e lo sviluppo della terapia endovascolare, il ruolo della
tecnica percutanea nell’ischemia del circolo di gamba ancora non è ben codificato.
Il termine salvataggio d’arto appare di frequente nella letteratura scientifica come
descrittivo per giustificare una strategia terapeutica.
In caso di stenosi severa una PTA, con o senza successivo posizionamento di stent, viene
eseguita per mantenere pervia l’arteria.
Eventuali trombi vengono trattati con tromboaspirazione e successiva somministrazione di
200.000 UI di UK.
In caso di occlusioni trombotiche, gli emboli distali vengono trattati con la sola
tromboaspirazione o associata anche alla trombolisi.
Per l’occlusione di by-pass chirurgici si preferisce usare la fibrinolisi somministrando il
farmaco con la tecnica pulse-spray.
La procedura interventistica consiste in una ricanalizzazione dell’arteria seguita da PTA ed
eventuale posizionamento di stent metallico anche se come abbiamo visto in
precedenza le indicazioni allo stenting sono riservate ad un ristretto gruppo di casi.
I criteri d’inclusione al trattamento endovascolare non tengono conto della lunghezza
dell’occlusione: nessuna stenosi od occlusione è considerata a priori inadatta alla
ricanalizzazione,a nche stenosi ed occlusioni maggiori di 10 cm di lunghezza, stenosi
multiple consecutive, occlusioni calcifiche, sono trattate con tecnica endovascolare.
In questo modo è possibile ottenere tassi di salvataggio dell’arto superiori all’80% con tassi
non significativi di mortalità peri-operatoria.

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