Storia Dell'arte Contemporanea 6 - 13
Storia Dell'arte Contemporanea 6 - 13
Storia Dell'arte Contemporanea 6 - 13
Abbiamo parlato di arte atratta fino ad arrivare ad espressione artistiche astratte e oggettuali. Ma nel
Novecento ci sono artisti che si sono incentrati sulla figura, in particolare la figura umana, di cui non abbiamo
ancora parlato con attenzione. L’arte che caratterizza il secolo XX e ancora il nostro XXI, come abbiamo visto,
non nasce per diretta continuità dai raggiungimenti del secolo precedente, semmai sembra aver colto di quel
secolo e in particolare dagli ultimi anni e da particolari personalità tutte le scintille di rottura e innovazione
possibili. Abbiamo più volte sottolineato che, se qualcosa accomuna i movimenti d’avanguardia, è la chiara
ed esplicita volontà di interrompere ogni relazione con il passato financo con l’impressionismo, ritenuto
moderno e di rottura dai contemporanei. Dopo le nostre ardite incursioni nel tempo presente, durante le
quali abbiamo tenuto fortemente in mano il legame con i movimenti di avanguardia, conviene ora
ricapitolarle accuratamente per poi proseguire il nostro complesso cammino. Vi sono dei movimenti
fondamentali sui quali non ci siamo ancora incentrati che fanno ancora riferimento alle avanguardie storiche:
il Cubismo e il Futurismo italiano.
CUBISMO
Lo avevamo già visto con i papier collè di Braque e Picasso, con i quali brandelli di realtà avessero anticipato
movimenti successivi e in particolare il Dada, ma il Cubismo è un movimento molto complesso che ha una
caratteristica sostanziale: non abbandonare mai l’interesse per la figura umana. Anche se nell’apparenza
sembra scivolare inconsapevolmente verso l’astrazione o la rappresentazione aniconica, il cubismo resta
perfettamente agganciato alla figura umana. Negli anni del consolidamento dell’impressionismo
cominciarono a prendere corpo critiche sostanziali all’approccio che la pittura impressionista aveva con la
realtà. Questa presa diretta sulla realtà quando ancora alcuni rappresentanti dell’impressionismo era in vita,
come Monet, furono oggetti di critica. Il primo artista ad avvertire il disagio di una visione estemporanea e
legata soltanto alla pura visibilità fu Georges Seurat.
E’ artefice di un passaggio fondamentale nella cultura del 900: partiamo da lui perché le avanguardie
appartengono non più a un periodo storico definito, dato che hanno una tale energia propositiva che ancora
oggi noi dobbiamo confrontarvisi. Preparato scientificamente sui primi scritti teorici sulla luce Seurat volle
aggiungere alla pittura impressionista, che aveva rifiutato ogni coinvolgimento intellettuale adagiandosi
morbidamente su ciò che l’occhio percepisce, un processo tecnico di scomposizione, analisi e ricomposizione
dell’impressione visiva. Gli impressionisti avevano avuto l’intuizione staordinaria di capire che la luce è una
componente fondamentale della percezione visiva, e che essa sia l’artefice primo della nostra possibilità di
vedere. Seurat, e prima di lui i fisici, capisce come funziona la nostra retina. Ciò che colpisce la retina, stando
agli studi dello scienziato tedesco Hermann von Helmholtz e quelli del fisico inglese James Maxwell, sono i
contrasti di tono, di tinta, di linea. Dunque bisogna trovare un nuovo modo di dipingere (pointinisme) che
accosti i colori ciascuno nella sua purezza, e poi all’occhio il compito di ricreare la sintesi, così come accade
nella realtà. Per la prima volta l’artista visivo si confronta con la scienza e intravede la possibilità di superare
la realtà sostituendola con un ordine astratto. Questa tecnica verrà chiamata puntinismo, e questi sono gli
antefatti del cubismo a livello teorico.
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- Il cerchio dei colori, elaborato da E. Chevreul (ca 1868) – fu di grande interesse a Seurat.
- Georges Seurat, Una domenica pomeriggio all’isola della Grande-Jatte, 1884-1886, Art Institute
(Chicago)
- Particolare da Una domenica pomeriggio all’isola della Grande-Jatte (1884-86)
- Particolare da Donna con parasole di Claude Monet (1886) confronto – in tutti e due i quadri
vediamo una donna con l’ombrello, ma Monet procede a larghissime pennellate e la figura è già
completamente visibile nella sua sintesi. Al contrario Seurat parte dall’analisi, analizza i colori uno
per uno, soprattutto nella loro sostanza pura, e accostandoli l’uno all’altro va a rendere possibile la
sintesi delle persone che stiamo osservando. Sono soluzioni di importanza capitale per tutto il
Novecento.
- Georges Seurat, studio per Una domenica pomeriggio all’isola della Grande-Jatte – teniamo presente
che è anche il periodo della nascita della fotografia, e gli artisti vi hanno a che fare, e molto.
- Georges Seurat, Bagnanti a Asnières, 1884, National Gallery (London)
- Georges Seurat, il circo, 1891, Museo d’Orsay (Paris) – ne ritroveremo i filamenti sia nel cubismo che
nel futurismo italiano.
Nel 1913 Guillaume Apollinaire (1880 – 1918, anno in cui morì di Spagnola e fu trovato in casa da
Giuseppe Ungaretti), amico di Picasso, in Peintres cubistes, dando sintesi ai pensieri cubisti nel manifesto
del movimento cubista, scrive: «La geometria sta alle arti plastiche come la grammatica sta all’arte dello
scrivere» e ancora «oggi gli scienziati non si attengono più alle tre dimensioni della geometria euclidea. I
pittori sono stati portati, per così dire, intuitivamente a preoccuparsi di nuove misure possibili dello
spazio che, nel linguaggio figurativo dei moderni, si indicano tutte insieme brevemente col termine di
quarta dimensione. Così, come si offre allo spirito, dal punto di vista plastico, la quarta dimensione
sarebbe generata dalle tre dimensioni conosciute: essa rappresenta l’immensità dello spazio, che si
eterna in tutte le dimensioni in un movimento determinato. È lo spazio stesso, la dimensione dell’infinito,
e dà plasticità agli oggetti.» coglie anche se in maniera non scientifica elementi sulla geometria euclidea,
sulle rette parallele, per trovare immagini dell’universo alternative a quelle euclidee. Così introdusse
l’elemento tempo: se il tempo è una dimensione, esso avrà parte assai importante nella realtà. Il tempo
rappresenta infatti il nostro limite, se lo consideriamo davvero come se fosse la nostra quarta
dimensione. E’ un elemento che noi non dominiamo, a differenza dello spazio. Ovviamente Apollinaire,
che non è un fisico, attinge con linguaggio poetico agli studi di Riemann, ma ciò che conta è che un
movimento artistico cerchi nuove strategie di rappresentazione che vadano a sostituire la mimesi nel
senso di un nuovo ordine oggettivo.
Il vecchio maestro condusse la propria ricerca per superare il provvisorio degli impressionisti («Qui si vede
che piove, si vede che splende il sole, ma non si vede mai la pittura» disse Picasso). Non si vede qualcosa che
la pittura può fare: siamo di fronte alla mimesi, così mimetica da non acquisire quella libertà di un universo
altro. Per gli avanguardisti la pittura può essere davvero un linguaggio altro, che ricostruisca il mondo.
Cercava di costruire qualcosa di fermo, di consistente che non andasse in frantumi, qualcosa che ostacolasse
l’indeterminatezza rilassata degli impressionisti e del tempo di cui furono espressione.
«Che cosa c’è dietro il fenomeno naturale? Forse, niente; forse, tutto. Dunque, io intreccio queste mani
erranti. Prendo a destra, a sinistra, qui e là, dappertutto, i suoi colori, le sue sfumature; li fisso, le accosto tra
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loro, e formano linee, diventano oggetti, rocce, alberi, senza che io ci pensi assumono un volume. La mia tela
stringe le mani, non vacilla, è vera, è densa, è piena». Cézanne cerca quindi un aggancio oggettivo in ciò che
lui vede, nell’ambito delle tre dimensioni.
Lo sforzo di Cézanne per restituire sulla tela la forma delle cose, e così dar loro un peso, lo spinse a guardare
ciò che dipingeva non più da un solo punto si vista bensì da varie angolazioni. Pensava quindi a costruire dei
cubi – rappresenta la facciata di un oggetto ma mostra anche un parziale spessore. In questo modo uno
stesso oggetto, all’interno del quadro, giaceva in prospettive diverse, che lo deformavano in senso verticale
o longitudinale, oppure verso il basso, e la linea dell’orizzonte perdeva la propria orizzontalità per inclinarsi
a seconda delle esigenze plastiche dell’oggetto rappresentato. In conseguenza di ciò un medesimo oggetto
lo si potrà vedere contemporaneamente da più lati. Inizia a dissolversi completamente la prospettiva
rinascimentale: se tutto fosse considerato solo nelle reali dimensioni geometriche, essa sarebbe abbastanza.
Ma del resto per il Novecento abbastanza non lo era.
Da queste innovazioni o anomalie cézaniane scaturì il cubismo e la distruzione completa della prospettiva
rinascimentale. Sconvolte definitivamente le regole della rappresentazione, l’artista si permette una nuova
creazione laddove lo spazio non è più illusionistico, ma evocativo di uno stato mentale che appartiene al solo
artista demiurgo. L’evocazione non è più di cosa io vedo ma di ciò che io penso quando lo vedo: questa è la
pittura che cerca Picasso. Il volume e la struttura sono le prime preoccupazioni dei cubisti. Eliminando
l’atmosfera, il gusto del colore, la linea ondulata, essi cercano una pittura di estremo rigore. A loro interessa
soltanto la costruzione e la corposità degli oggetti. A Picasso, Braque, Juan Gris e Léger si unirono tra gli altri
Delauney e Brancusi e nel 1911 venne organizzata la prima mostra del gruppo.
L’evoluzione del cubismo tra approccio istintivo e approccio scientifico riconosce due fasi: cubismo analitico
e cubismo sintetico. Per cubismo analitico si intende la prima evoluzione dal primo approccio istintivo nella
direzione di composizioni fortemente sfaccettate che rompono l’oggetto e lo analizzano sino quasi a
dissolverlo. Il cubismo ha sempre rifiutato fortemente l’astrattismo, perché in effetti il cubismo non astrae,
non toglie da, ma l’estrema frammentazione poteva creare questo equivoco, soprattutto riguardo il cubismo
analitico. Per cubismo sintetico invece si intende la ricostruzione dell’oggetto liberato definitivamente dalle
regole prospettiche con l’oggetto riassunto nella sua forma essenziale, senza alcuna soggezione alle regole
dell’imitazione.
Nel 1907 il Salon d’automne di Parigi presentò la retrospettiva di Cèzanne, scomparso l’anno prima. Ebbe
effetti incredibili: la mostra fu vista e ammirata da Picasso, Braque e Léger.
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Pablo Picasso (1881-1973)
Pablo Picasso ha segnato indelebilmente le arti del XX secolo. Nato a Malaga dal padre Josè Ruiz Blasco,
artista a sua volta, manifestò subito uno straordinario talento ma sin da giovanissimo fuggì la sua strabiliante
dote naturale ardendo del fuoco della continua ricerca e sfida. Attratto da Parigi, all’epoca riconosciuta
capitale intellettuale d’Europa, nel 1900 vi si reca una prima volta e l’anno successivo per un periodo assai
più lungo. A Parigi vivono a quel tempo tra gli altri: Henri Matisse, Fernand Léger, Marc Chagall e Amedeo
Modigliani solo per citare i più noti. È per il giovane Picasso il tempo della pittura: prima con il periodo Blu e
successivamente, in coincidenza con tempi meno burrascosi, con il periodo Rosa.
Il periodo blu si dice che sia stato un periodo in cui Picasso ha affrontato un periodo triste e cupo. E’ ai suoi
esordi e vive difficilmente tra Parigi e Barcellona, e si interfaccia con drammi come il suicidio di un suo caro
amico.
- Pablo Picasso, Poveri in riva al mare, 1903, Cleveland Museum of Art (Cleveland) - Il blu disumanizza
queste figure. Le figure dei poveri dovrebbero arrivarci come figure emozionali, e di indigenza, ma
non percepiamo questo. Percepiamo come queste tre figure diventino oggetti geometrici, avulsi
dall’emotività che dovrebbero trasferirci, poiché quella vitalità di cui parla Moravia Picasso la trova
nelle forme. E l’utilizzo della monocromia è proprio questo: se avesse usato un’ intera pallette non
avrebbe raggiunto l’assolutezza nella forma, che resterà sempre la sua sigla, da cui sfocia forte
vitalità.
- Pablo Picasso, La vita, 1903, Cleveland Museum of Art (Cleveland)
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- Pablo Picasso, Celestina, 1904, Museo Picasso (Paris) – la persona rappresentata è diventata, ancora
una volta, una forma, di una vitalità forsennata.
- Pablo Picasso, Acrobata e giovane equilibrista, 1905, Museo Pušhkin delle belle arti (Mosca) – è
assolutamente condivisibile la relazione tra i colori: in primo piano il panno blu dell’atleta di spalle,
poi il blu del corpo del giovane in equilibrio, e sullo sfondo il blu della gonna. Lo stesso discorso si
può fare per i rosa. La forma prevarica sul soggetto.
Nella primavera del 1907 Picasso mostrò a pochi amici, lasciandoli sgomenti e sbalorditi, un grande quadro
ideato nei mesi precedenti in angosciosa solitudine: Le bordel d’Avignon, (il bordello di Avignon) noto
successivamente come Les Demoiselles d’Avignon. Anticipano il cubismo: il dissolvimento della prospettiva
rinascimentale, la visione simultanea di cose disposte in differenti punti dello spazio e la giustapposizione di
differenti immagini dello stesso oggetto che in natura potremmo vedere soltanto girandogli attorno.
- Pablo Picasso, Les Demoiselles d’Avignon, 1907, MoMA (New York) – si incrociano molteplici e non
relazionabili punti di vista. In primo piano il tavolo con la frutta ribalta verso di noi. Sulla sinistra una
figura di profilo, per quanto attiene alla postura delle gambe, più avanti due donne frontali, un’altra
donna rivolta verso di noi e un’altra ancora di profilo. Pochissimo tempo prima, del resto, nel periodo
blu, lo aveva già tentato – quei poveri in riva al mare erano sulla strada di diventare forme.
Importante anche il riferimento per l’arte negra: ebbe questa possibilità perché a Parigi c’era un forte
collezionismo di arte africana che veniva importata da collezionisti e mercanti. «I diversi imprestati
formali dalle più varie culture, dall’arte egizia alla greca e alla romana, dalla cultura iberica agli
affreschi del medioevo catalano, dal Greco a Ingres a Gauguin si mescolano in una infernale miscela
cui fa da filtro e da reagente l’arte di Cézanne cui si aggiunga l’arte negra rivelatagli probabilmente
dagli amici Matisse, Vlaminck e Derain» scriveva Franco Russoli nel 1972. I primi disegni di
quest'opera in realtà rappresentano due uomini in un bordello, un marinaio e uno studente di
medicina (spesso rappresentato con un libro o un teschio in mano). Rimane traccia della loro
presenza in un tavolo al centro: lo spigolo sporgente di un tavolo vicino al fondo della tela.
L'osservatore sta ora al posto dei due uomini seduti, obbligato ad affrontare la vista delle prostitute
dritto di fronte. Nessuna altra opera come Les Demoiselles ha rotto con la tradizione naturalista
ottocentesca, e mantiene il suo primato anche se messa a confronto con le contemporanee La joie
de vivre di Matisse, che risulta una magistrale sintesi tra le strutture di Cézanne e il linearismo art
nouveau, e con le Bagnanti di Derain che ancora una volta muovono da Cézanne e da Gauguin.
Per tutto il 1907 Picasso lavora saggiando le possibilità offerte dall’arte negra sia in pittura che in scultura
mettendola spesso a confronto con le sintesi volumetriche romaniche nella ricerca della possibile
applicazione della dinamica spaziale sulla superficie piana del quadro. La mostra retrospettiva di Cézanne del
1907 lo porta ad immaginare la possibilità di una impostazione di figure nello spazio obbedienti a regole
concettuali e non naturalistiche. Ciò che non aveva fatto Cèzanne Picasso lo rende possibile grazie all’apporto
della scultura negra che esprime l’idea delle cose e non l’aspetto delle cose stesse: Donna con ventaglio in
poltrona, Donna con mandolino, Nudo nella foresta.
- Pablo Picasso, Donna con ventaglio in poltrona, 1908, Ermitage (San Pietroburgo)
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- Pablo Picasso, Donna con mandolino, 1908, Ermitage (San Pietroburgo)
- Pablo Picasso, Nudo nella foresta, 1908, Ermitage (San Pietroburgo)
Nell’autunno del 1908 Georges Braque (1882 - 1963) espose alcune sue opere alle quali aveva lavorato
l’estate precedente, per le quali Louis Vauxcelles scrisse: «Maltratta la forma, riduce ogni cosa, luoghi, figure
e case a schemi geometrici, a cubi». Da qui nasce la parola cubismo, da una critica non favorevolissima. «Devo
creare un nuovo genere di bellezza, la bellezza che mi appare in termini di volume, di linea, di massa, di peso,
e attraverso questa bellezza interpretare la mia impressione soggettiva» dichiara il pittore.
Dal 1909 le opere di Picasso e di Braque rispondono tra loro dialetticamente, quasi contrappunti sullo stesso
tema. Attraverso un procedimento di realismo concettuale (ovvero in cui la rappresentazione parte un’idea
pregressa), giungono all’analogia esistenziale.
«Certi quadri cubisti - scriveva nel 1919 Blaise Cendras - ricordano i riti della magia nera; esalano un fascino
strano, malsano, inquietante - fin quasi letteralmente a gettare un incantesimo sull’osservatore. Sono specchi
magici, tavoli da stregoni». Il percorso sulla via della trasposizione della realtà naturale e storica
nell’immagine puramente ‘plastica’ equivalente ed autonoma, è giunto a un traguardo fondamentale. «Il
quadro-oggetto è un’opera a sé, che vale per sé stessa e non per i confronti che si possono fare con il vero»
scrisse Max Jacob.
- Pablo Picasso, ritratto di Ambroise Vollard, 1909-1910, Museo Puskin (Mosca) - l’elemento
fenomenale è che nonostante la sfaccettatura che dovrebbe dissolvere totalmente l’immagine di
questa persona, l’immagine di questa persona è riconoscibile. Anzi, ha una riconoscibilità che va oltre
il suo aspetto fisico: ha rappresentato un altro Vollard, ovvero la proiezione per analogia che Picasso
ha di Vollard.
- Pablo Picasso, ritratto di Daniel-Henri Kahnweiler, 1910, Art Institute (Chicago) – fa la stessa cosa nel
ritratto di questo gallerista e mercante d’arte. In basso vediamo addirittura le mani incrociate.
Non va immaginata come ombra di Picasso, anzi: alcune intuizioni le avute lui prima di Picasso. Del resto
Picasso è anche questo: è colui che riesce spesso a portare all’estremo intuizioni avute da altri. Il 1907 fu un
anno determinante per Georges Braque: visitò la retrospettiva su Cézanne e ne fu profondamente
impressionato - i suoi esordi erano stati di ispirazione fauves - e conobbe Pablo Picasso, con il quale costruì
un binomio artistico davvero singolare. Da questo stimolante connubio nacque una nuova visione dello spazio
pittorico, che presenta oggetti smembrati e sfaccettature creati dallo spezzettarsi dei piani.
- Georges Braque, Case a l’Estaque, 1908, Kunstmuseum (Berna) – deve tanto a Cezanne (proprio un
anno dopo la mostra del 1907).
In Violon et Palette vengono offerti tutti i piani di una visione prospettica ridotta alla superficie del quadro e
chiusa in uno stesso e coerente volume. L’eccessiva frammentazione dell’immagine sembra slittare verso
l’astrazione – fortemente ricusata da Braque e da Picasso - e proprio Braque (le Portugais, del 1911) per
primo e subito dopo Picasso comincia ad aggiungere elementi direttamente presi dal reale per ancorare la
composizione alla realtà. Quando loro inseriscono gli elementi in giornale o la paglia della sedia è proprio il
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motivo è proprio questo: si accorgono che la frammentazione e la scomposizione può portare
involontariamente a testure completamente anti-figurative. Viene in mente che l’aggancio col reale sia
fondamentale e dato che non c’è niente di più reale di un oggetto preso dalla realtà, come un pezzetto di un
giornale o di paglia, Picasso e Braque decidono così di evitare lo scivolamento verso il rischio dell’astratto e
l’annichilimento di forme. Senza la forma di una persona, una casa o di un oggetto non può esistere il
cubismo. Sperimentano così l’anno seguente, nel 1912, la tecnica del collage che li consente di creare una
sintesi di elementi diversi per descrivere con chiarezza un oggetto attraverso la dissociazione di forme e
colori. La collaborazione tra Braque e Picasso si interruppe nel 1914, quando Braque fu chiamato alle armi.
Braque lavorò poi autonomamente e sviluppò uno stile personale, caratterizzato da un «cubismo fatto a
propria immagine che rifiuta le teorizzazioni, le matematiche, lo scientifismo. Il mondo poetico di Braque è
un mondo breve, un hortus conclusus, ma all’interno di esso, questo artista taciturno ha lavorato con una
tenerezza sempre viva verso l’incanto delle apparizioni naturali da colori vivaci e superfici a trama e
ricomparsa della figura umana», scrive Mario de Micheli nel 1959 con George Braque ancora in vita.
Teorico e pittore, scrisse pagine illuminanti sul cubismo, di cui fu comunque attore di primo piano. «Per me
il cubismo non è un procedimento, ma un’estetica, se non addirittura una condizione dello spirito. E se è così,
il cubismo deve avere una relazione con tutte le manifestazioni del pensiero contemporaneo. Si può
inventare isolatamente una tecnica, un procedimento, ma non una condizione spirituale». E ancora,
«Cézanne fa di una bottiglia un cilindro, io parto dal cilindro per crearne un individuo d’un tipo speciale: di
un cilindro io faccio una bottiglia, una certa bottiglia». Io parto dal cilindro, o dalla sfaccettatura di un
individuo, dopodiché io propongo l’oggetto o la persona, ma questa persona o oggetto è una certa persona
o oggetto. Da questo momento la libertà dell’artista non ha più limiti poiché la sintesi non avverrà più
attraverso l’atto creativo che filtra la molteplicità del reale per rivelarne i caratteri essenziali bensì avverrà
prima, sarà un atto puramente concettuale.
Si trasferisce a Parigi dove nel 1911 espone con i giovani ‘cubisti’. L'evoluzione del suo stile risente del vivace
clima artistico parigino: si ispira dapprima all’impressionismo, poi ai Fauves (a differenza di Picasso, che non
guarderà mai ai Fauves) e a Paul Cézanne. Agli esordi cubista sino a sfiorare l’astrazione, dopo il fronte e la
grave ferita scrive: «Ho lasciato Parigi ch’ero impegnato completamente in una maniera astratta, epoca di
liberazione pittorica. Senza transizione, mi sono trovato in mezzo al popolo francese. Assegnato al genio, i
miei nuovi amici erano minatori, terrazzieri, artigiani del legno e del ferro… nello stesso periodo fui abbagliato
dalla culatta di un cannone da 75 aperta in pieno sole, magia della luce sul metallo bianco. Non c’è voluto
molto di più perché mi dimenticassi l’arte astratta del 1912-13.» A differenza di Braque e Picasso, è così che
lui si libera dell’astrazione. «La rudezza, la varietà, l’humour, la perfezione di certi tipi d’uomini intorno a me:
il loro senso esatto del reale utile della sua applicazione opportuna all’ambiente di questo dramma-vita-
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morte nel quale noi eravamo piombati; e più ancora di questo, il loro essere poeti, inventori d’immagini
poetiche quotidiane. Quando io ho morso questa realtà, l’oggetto non mi ha più abbandonato. Quella culatta
di un cannone da 75 aperta nel sole mi ha insegnato più cose per la mia evoluzione plastica che tutti i musei
del mondo» scrive Léger. E’ un punto di vista completamente nuovo e sarà importantissimo per i futuristi.
Così è diventato pittore della vita moderna. È animato da una sorta di umanesimo meccanico, un umanesimo
che esalta l’uomo che crea meraviglie d’acciaio e di ferro con le proprie mani; ciò che caratterizza la vita
moderna è la macchina e il rapporto dell’uomo con essa. Léger dipinge macchine come altri hanno dipinto
paesaggi o nudi femminili, non copia le macchine bensì le inventa per giungere a dare una sensazione di
potenza.
- Fernand Léger, Verdun – gli scavatori di trincee, 1916, MoMA (New York)
- Fernand Léger, eliche, 1918, MoMA (New York) – una macchina gioisa: è l’unica possibilità dell’epoca
moderna
- Fernand Léger, la città, 1919, MoMA (New York)
- Manifesto per il film La corazzata Potemkin di Sergei Eisenstein del 1925
«Com’è possibile continuare a dipingere bottiglie, mele o tavolini se si è circondati da un ordine industriale e
tecnico? Se l’espressione pittorica è cambiata, è che la vita moderna l’ha reso necessario. L’esistenza degli
uomini creatori moderni è assai più condensata e più complicata che non quella degli uomini dei secoli
precedenti. […] un paesaggio attraversato e rotto da un’automobile o da un treno rapido perde il valore
descrittivo, ma guadagna in valore sintetico; lo sportello dei vagoni o il cristallo dell’auto, congiunti alla
velocità acquisita, hanno cambiato l’aspetto abituale delle cose…» scrive ancora Léger. Introduce il concetto
di velocità, che sarà fondamentale per i futuristi, ed essa è legata pure al tempo.
I costruttori: Le loro mani assomigliano ai loro utensili / i loro utensili alle loro mani, / i loro pantaloni a
montagne, a tronchi d’albero. / Un pantalone è grande quando non ha pieghe. /Le loro mani sono pesanti, /
non rassomigliano a quelle dei loro padroni/ non a quelle del prelato benedicente. / Ma i tempi s’avvicinano
in cui la macchina / lavorerà per loro.
- Pablo Picasso, Bombardamento di Guernica, 1937, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia
(Madrid) - Guernica, città basca fedele alla Repubblica - siamo al tempo della guerra civile spagnola
- fu distrutta dagli aeri nazisti, e fu il primo bombardamento su una città con civili della storia
moderna. Era il 28 aprile del 1937. L’evento suscitò sdegno nelle coscienze europee e in Picasso
dolore, ira e passione. Appare uno spirito nuovo che agisce nella storia. Ogni segno, ogni figura tende
all’espressione dell’accaduto, del fatto; la deformazione accentua la verità. Il toro, il cavallo, la
lampada, il coltello, il fiore, i personaggi emblematici del dramma, la dilatata tensione dell’immagine,
assumono un significato d’implacabile, universale condanna di qualsiasi potenza che distrugga
l’integrità della persona umana. Guernica, in un tempo che aveva portato alle estreme conseguenze
la poesia dell’assenza, fu la dimostrazione di quanta storia, di quanta presenza, di quanta
partecipazione l’arte potesse e dovesse vivere. Per questo Guernica è un’opera che ha avuto un peso
culturale determinante nella formazione della coscienza degli intellettuali di ogni paese, soprattutto
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dopo la Seconda guerra mondiale. Picasso compose il grande quadro in soli due mesi e lo espose nel
padiglione spagnolo dell'esposizione universale di Parigi. Guernica fece poi il giro del mondo,
diventando molto acclamata; ma soprattutto servì a far conoscere la storia del conflitto fratricida che
si stava consumando nel Paese iberico. Il dipinto venne ospitato per molti anni al MoMA di New York
e tornò a Madrid nel 1981, a otto anni dalla morte dell'autore e sei da quella di Francisco Franco,
passando prima per il Casón del Buen Retiro (ovvero il Salone da ballo dell'antico palazzo reale), poi
per il Museo del Prado, infine per il Museo Nacional Reina Sofia dove si trova dal 1992. Durante gli
anni '70 fu un simbolo per gli spagnoli sia della fine del regime franchista che del nazionalismo, così
come lo era stato prima, per tutta l'Europa, della resistenza al nazismo. Nel corridoio che si trova
davanti alla sala del Consiglio di sicurezza dell’ONU si trova un arazzo che riproduce il
bombardamento di Guernica. Ogni qual volta i politici escono a fare dichiarazioni per la stampa,
l'arazzo viene inquadrato in secondo piano. Negli anni in cui si discuteva di un'eventuale guerra
"preventiva" in Iraq i vertici ONU non hanno però ritenuto opportuno farsi riprendere con un tale
manifesto dello scempio della guerra e l'arazzo è stato quindi coperto da un drappo blu. Ancora,
dopo anni, per chi vuol fare la guerra Guernica mette in imbarazzo. Il commento di Fred Eckhard
(portavoce dell'ONU) in merito è stato che il misto di bianchi, neri e grigi dell'arazzo produceva un
effetto di confusione visiva.
FUTURISMO
Il 20 febbraio del 1909 (in contemporanea con il cubismo) il letterario Filippo Tommaso Marinetti (1876 -
1944) pubblicò il Manifesto Futurista sul quotidiano francese le Figarò. Poco tempo dopo a Milano nel
febbraio 1910 i pittori Umberto Boccioni (1882 - 1916), Carlo Carrà (1881 – 1966), Giacomo Balla (1871 -
1958), Gino Severini (1883 - 1966) e Luigi Russolo (1885 - 1947) firmarono il Manifesto dei pittori futuristi e
nell'aprile dello stesso anno il Manifesto tecnico della pittura futurista.
- Enrico Prampolini, ritratto di Marinetti, 1924-25, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea
(Torino)
L’Italia nel 1909-1910 è un paese provinciale, ancorato anche a modalità espressive provinciali, e l’unico
movimento che esulta da questo provincialismo è il divisionismo, ovvero un puntinismo intinto di simbolismo,
che sarà importante per il futurismo, proprio come il puntinismo sarà importante per il cubismo.
Manifesto del futurismo: • Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità. •
Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. • La letteratura esaltò fino
ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia
febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. • Noi affermiamo che la magnificenza del
mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano
adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un’automobile ruggente, che sembra correre sulla
mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia. • Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la
cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita. • Bisogna che il
poeta si prodighi con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l'entusiastico fervore degli elementi
primordiali. • Non v'è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo
può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote,
per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo. • Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perché
dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell'impossibile? Il Tempo e lo
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Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell'assoluto, poiché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente.
• Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore
dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. • Noi vogliamo distruggere i musei, le
biblioteche, le accademie d'ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà
opportunistica e utilitaria. • Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa:
canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante
fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde,
divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a
ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che
fiutano l'orizzonte, e le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio
imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra
applaudire come una folla entusiasta. Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra
sfida alle stelle!...».
Per la natura transitoria delle opere che genera, il bricolage si è affermato non appena si è smesso di pensare
che l’opera debba essere durevole; non appena, cioè, il senso del precario ha iniziato a penetrare tutta la
produzione culturale. “Noi siamo sul promontorio eterno dei secoli, perché dovremmo guardarci alle spalle
se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il tempo e lo spazio morirono ieri”. Così si legge
nel Manifesto del Futurismo. L’opera d’arte non può e non deve più ambire all’eternità, se non altro perché
l’eternità non esiste. Questo scriveva Tommaso Marinetti nel 1909, nonostante fosse portatore di una
filosofia vitalistica, sentiva il baratro vicino a sé e avvertiva un forte senso di chiusura con tutto quello che è
stato. Molti studiosi, scrittori, scienziati, hanno iniziato presto a parlare di una relatività del tempo, anche in
termini di vissuto individuale, con il pensiero di Henri Bergson che, proprio dal 1909 di quel Manifesto, si
avvicinò a quello di Proust, e Marinetti viveva nello stesso liquido amniotico. Si è anche iniziato a dominarlo,
il tempo, cercando velocità sempre maggiori. Si è iniziato a concepire le distanze non in termini di misura, ma
in relazione ai tempi di percorrenza. Di qui il culto della mobilità, che implicitamente condanna la
permanenza. Del resto breve durata e alta velocità sono ancora e sempre di più i nostri cardini. Si sono tanto
citati i futuristi perché sono stati i primi a teorizzare l’uso del polimaterico, prevedendone le maggiori
estensioni. Nella pratica, tuttavia, non arrivarono primi e ci giunsero in pochi. Nel 1912 Gino Severini gettò
lustrini sul manto di una ballerina dipinta; Nel 1912 Giacomo Balla progettò la decorazione della casa
Loweinstein, che spostava l’intervento dell’artista dal piano dell’arredo a quello di un’opera appunto
d’ambiente. Carlo Carrà realizzò, con Manifestazione interventista (1914), il primo collage nel quale la parola
ritagliata dai giornali si presenta in un ordine astratta, alla cerca di un ritmo visivo che lasciava immaginare
anche il suono. Siamo di fronte a un dato chiaro: le condizioni di vita presentatesi all’inizio del XX secolo,
condizionate dalle macchine e da una nuova velocità del quotidiano, portano a un gusto inedito; per questo
“godiamo molto più nel combinare idealmente rumori di tram, di motori a scoppio, di carrozze e di folle
vocianti, che nel riudire, per esempio, l’Eroica o la Pastorale. Il futurismo si accomuna alle avanguardie per la
rottura dal passato, soprattutto se si vede la realtà attuale come provinciale e soporifera. C’è una forte
componente velleitaria, ma il Futurismo ebbe una forte influenza. Anche gli spettacoli Dada furono anticipati
dagli spettacoli di futuristi, che spesso sfociavano in risse epocali. Movimento fortemente energico, come del
resto le avanguardie, ma a differenza delle altre avanguardie era guerrafondaio.
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- Nike di Samotracia, 190 a.C., Louvre (Paris)
[…] Via, dunque, restauratori prezzolati di vecchie croste! Via, archeologhi affetti da necrofilia cronica! Via,
critici, compiacenti lenoni! Via, accademie gottose, professori ubbriaconi e ignoranti! Via! Domandate a
questi sacerdoti del vero culto, a questi depositari delle leggi estetiche, dove siano oggi le opere di Giovanni
Segantini; domandate loro perché le Commissioni ufficiali non si accorgano dell'esistenza di Gaetano Previati;
domandate loro dove sia apprezzata la scultura di Medardo Rosso!...E chi si cura di pensare agli artisti che
non hanno vent'anni di lotte e di sofferenze, ma che pur vanno preparando opere destinate ad onorare la
patria? Hanno ben altri interessi da difendere, i critici pagati! Le esposizioni i concorsi, la critica superficiale
e non mai disinteressata condannano l'arte italiana all'ignominia di una vera prostituzione! E che diremo degli
specialisti? Suvvia! Finiamola, coi Ritrattisti, cogl'Internisti, coi Laghettisti, coi Montagnisti!...Li abbiamo
sopportati abbastanza, tutti codesti impotenti pittori da villeggiatura! Finiamola con gli sfregiatori di marmi
che ingombrano le piazze e profanano i cimiteri! Finiamola con l'architettura affaristica degli appaltatori di
cementi armati! Finiamola coi decoratori da strapazzo, coi falsificatori di ceramiche, coi cartellonisti venduti
e cogli illustratori sciatti e balordi! Ed ecco le nostre conclusioni recise: Con questa entusiastica adesione al
futurismo, noi vogliamo: 1) Distruggere il culto del passato, l'ossessione dell'antico, il pedantismo e il
formalismo accademico. 2) Disprezzare profondamente ogni forma d'imitazione. 3) Esaltare ogni forma di
originalità, anche se temeraria, anche se violentissima. 4) Trarre coraggio ed orgoglio dalla facile faccia di
pazzia con cui si sferzano e s'imbavagliano gl'innovatori. 5) Considerare i critici d'arte come inutili e dannosi.
6) Ribellarci contro la tirannia delle parole: armonia e di buon gusto, espressioni troppo elastiche, con le quali
si potranno facilmente demolire l'opera di Rembrandt, quella di Goya e quella di Rodin. 7) Spazzar via dal
campo ideale dell'arte tutti i motivi, tutti i soggetti già sfruttati. 8) Rendere e magnificare la vita odierna,
incessantemente e tumultuosamente trasformata dalla scienza vittoriosa. Siano sepolti i morti nelle più
profonde viscere della terra! Sia sgombra di mummie la soglia del futuro! Largo ai giovani, ai violenti, ai
temerari!
- Umberto Boccioni, Carlo Dalmazzo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini
Boccioni salva solo determinati artisti non futuristi: tra i maestri riconosciuti dal Manifesto figurano dunque
Gaetano Previati, rappresentante del divisionismo, una corrente che innesta sulle acquisizioni tecnico
scientifiche dei puntinisti temi prettamente simbolisti, Giovanni Segantini, un divisionista che non si discosta
mai, come sorgente prima della sua ispirazione dal dato naturale (natura) e un pittore che sottoscriverà il
manifesto: Giuseppe Cominetti che con I conquistatori del sole del 1907 anticipa nella reiterazione dei
movimenti soprattutto Balla. Fondamentale fu anche Medardo Rosso, definito da Soffici scultore
impressionista, in realtà affamato di movimento: «ho sempre detto che tutto si muove e che scopo di tutte
le arti non è esprimere la rigidità, cioè la morte, bensì il movimento, ossia la vita». Di Medardo Rosso scriveva
Boccioni sul Manifesto tecnico del 1912: «rendere con la plastica le influenze di un ambiente e i legami
atmosferici che lo avvincono al soggetto».
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- Medardo Rosso, Effetto di uomo che legge il giornale, 1895, GAM (Milano) – una figura di uomo che
non è rappresentato, ma ne è l’effetto – ci sembra che quest’uomo non solo sia camminando, ma la
sua quotidiana azione è intrisa di movimento.
- Giuseppe Cominetti, I conquistatori del sole, 1907, Museo Borgogna (Vercelli) – interessa perché
introduce la reiterazione del movimento, elemento approcciato anche da Boccioni in seguito. Le tre
figure sono la stessa identica persona: è come la messa insieme di fotogrammi fotografici. La tecnica
è divisionista ma l’idea è futurista.
Torinese e amico di Pellizza da Volpedo, esordisce come pittore nel 1891. Nel 1895 si stabilisce a Roma.
Avvicinatosi al divisionismo dopo aver visto nel 1900 l’esposizione universale di Parigi, ne rende partecipi
alcuni dei suoi migliori allievi (Boccioni, Severini e Sironi). Balla pratica un divisionismo in analogia con le
ricerche di Pellizza da Volpedo, libero e fedele piuttosto alla natura che a rigorose norme scientifiche con
filamenti di pastelli ariosi impastati di luminosità diffusa. Ebbe a dire Gino Severini: «Fu una grande fortuna
per noi d’incontrare un tale uomo, la cui direzione decise forse di tutta la nostra carriera. L’atmosfera della
pittura italiana era in quel momento la più fangosa e deleteria che si potrebbe immaginare; in un simile
ambiente anche Raffaello sarebbe arrivato al quadro di genere…». Tra il 1902 e il 1905 lavora al polittico dei
Viventi nel quale porta la tecnica divisionista cui concorre la partecipazione umana al destino dei vinti alle
estreme conseguenze. Ne La Pazza del 1905 gioca secondo la tecnica divisionista principalmente sui colori
primari (rosso, blu, giallo) – ha visto Seurat a Parigi - , utilizza efficacemente il controluce che gli apparterrà
come scelta d’elezione e già anticipa opere successive.
- Giuseppe Pellizza da Volpedo, cartone per il Quarto Stato, 1898-99, GAM (Roma)
- Giacomo Balla, Autospalla nello specchio antico, 1903, collezione privata (Milano) – la tecnica è
divisionista.
- Giacomo Balla, La pazza (Viventi), 1905, GAM (Roma) – la tecnica è divisionista ma non è più
simbolista – affiora la diretta partecipazione alle vicende umane.
A partire dal 1911 Balla esprime nuovi interessi stilistici, e si va nello snodo: entra in una nuova fase di ricerca
pittorica tesa a rappresentare il dinamismo, il movimento; traccia su foglio o su tela linee di auto in corsa e
altre figure in movimento (Dinamismo di un cane al guinzaglio del 1912) nonché la celeberrima Lampada ad
arco del 1911-1912, della quale lo stesso Balla scrisse nell’occasione dell’acquisto da parte di Alfred Barr
direttore del MoMA: «Nessuno a quell’epoca pensava che una banale lampada elettrica poteva essere
motivo di ispirazione pittorica; al contrario per me il motivo c’era ed era lo studio di rappresentare la luce e,
soprattutto, dimostrare che il romantico chiaro di luna era sopraffatto dalla luce della moderna lampada
elettrica. Cioè la fine del romanticismo in arte. Dal mio quadro, la frase ‘uccidiamo il chiaro di luna’.»
- Giacomo Balla, dinamismo di un cane al guinzaglio, 1912, Albright-Knox Art Gallery (Buffalo)
- Giacomo Balla, Lampada ad arco, 1909-1911, MoMA (New York) – Tante opere dei futuristi sono al
MoMA. Ha ancora nel pennello la tecnica divisionista, con colori puri, ma il soggetto è straordinario.
La luce pubblica, un lampione, che non era da molto nelle città italiane, che diventa presenza assoluta
tanto da nascondere la luna. “Uccidiamo il chiaro di luna” è una frase celebre relativa al futurismo.
«Balla, che sul tema del dinamismo meditava già da alcuni anni, va al di là di Boccioni: prescinde quasi
totalmente dall'immagine visiva per dare l'immagine psicologica del moto. La sua ricerca è prevalentemente
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linguistica: mira a stabilire un codice di segni significanti velocità, dinamismo, ecc. Sono concetti che
interessano intensamente l'uomo moderno: concetti che vogliono essere espressi visivamente perché la
percezione è più rapida della parola, e che non possono essere espressi tramite segni che implichino
riferimenti alla natura, perché debbono esprimere qualcosa di non naturale, di realizzato mediante congegni
meccanici» scrisse il critico Giulio Carlo Argan.
«Avevo dedicato con fede sincera tutte le mie energie alle ricerche rinnovatrici, ma a un certo punto mi sono
trovato insieme a individui opportunisti e arrivisti dalle tendenze più affaristiche che artistiche; e nella
convinzione che l'arte pura è nell'assoluto realismo, senza il quale si cade in forme decorative ornamentali,
perciò ho ripreso la mia arte di prima: interpretazione della realtà nuda e sana» scrisse Balla nel 1937. Il
futurismo venne contaminato fortemente dal fascismo. Questo è stato un problema che adesso in sede
culturale è stato superato, ma che ha per lungo tempo a livello mondiale ha fatto al futurismo una sorta di
damnatio memoriae.
E’ sicuramente di questi il più grande. Nel 1901 Boccioni si trasferisce a Roma dove conosce Gino Severini
con il quale frequenta lo studio di Giacomo Balla. All'inizio del 1903 Boccioni e Severini frequentano la Scuola
libera del Nudo, dove incontrano Mario Sironi anch'egli allievo di Balla, con il quale stringeranno una duratura
amicizia. Nel 1906 si reca a Parigi poi in Russia e a Monaco di Baviera. Rientrato a Roma disegna e dipinge
attivamente, pur restando inappagato perché sente i limiti della cultura italiana che reputa ancora
essenzialmente provinciale. Nell'autunno del 1907 per la prima a Milano avverte la vitalità della città, la più
moderna d’Italia. Durante questi anni di formazione, visita molti musei e gallerie d'arte ed ha la possibilità di
conoscere direttamente opere di artisti di ogni epoca ma, specialmente, antichi. Alcuni di questi, come per
esempio Michelangelo, rimarranno sempre suoi modelli ideali. Nonostante ciò, essi diventeranno anche i
bersagli principali della polemica avviata nel periodo futurista contro l'arte antica e contro il passatismo.
Tra Previati e Balla si colloca Treno che passa del 1908. Per il Ritratto della Signora Massimino del 1908
Boccioni scrive: «Balla è seriamente intaccato, ma sono lontano da liberarmene pienamente». In effetti la
composizione è molto innovativa per la compenetrazione tra figura e ambiente che diverrà fondamentale
nelle successive opere futuriste (La città che sale, La strada entra nella casa, Visioni simultanee e Materia).
E’ Futurista nella raggiunta compenetrazione con l’ambiente: «per dipingere una figura non bisogna farla.
Bisogna farne l’atmosfera» è Tre donne del 1909.
- Umberto Boccioni, Treno che passa, 1908, Collezione città di Lugano (Lugano) – sembra che la tela ci
scorra sotto gli occhi come scorre il treno.
- Umberto Boccioni, La signora Massimino, 1908, collezione privata
- Umberto Boccioni, La città che sale, 1910, Guggenheim Museum (New York) – è una visione
completamente singolare di un cantiere. Gli operai a semicerchio in basso, i cavalli ed edifici in
costruzione. Il movimento è diventato assolutamente il protagonista unico.
- Umberto Boccioni, La strada entra nella casa, 1911, Sprengel Museum (Hannover) – la prospettiva è
completamente inventata, non si tratta neanche dell’abbandono della prospettiva rinascimentale
per riscoprirne una nuova.
- Umberto Boccioni, Visioni simultanee, 1911, Von Der Heydt Museum (Wuppertal) - il titolo stesso ce
la racconta: un’accelerazione strepitosa che ci consente di vedere chi guarda, e vedere cosa guarda
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chi guarda. Le percezioni sono quindi tre: io che guardo, le persone che guardano e gli oggetti
guardati.
- Umberto Boccioni, Materia, 1912-13, Collezione Peggy Guggenheim (Venezia) – è una scomposizione
e composizione analogica, in piena contemporaneità con Picasso.
- Robert Delaunay, Tour Eiffel, 1911, Guggenheim Museum (New York)
Quali soggetti della rappresentazione si proponevano dunque la città, le macchine, la caotica realtà
quotidiana. Nelle sue opere, Boccioni seppe esprimere magistralmente il movimento delle forme e la
concretezza della materia. Benché influenzato dal cubismo, cui rimproverò l'eccessiva staticità, Boccioni evitò
nei suoi dipinti le linee rette e adoperò colori complementari. In quadri come Dinamismo di un ciclista del
1913 la raffigurazione di uno stesso soggetto in stadi successivi nel tempo suggerisce efficacemente l'idea
dello spostamento nello spazio. Simile intento governa del resto anche la scultura di Boccioni, per la quale
spesso l'artista trascurò marmo e bronzo preferendo il legno, ferro e vetro – materiali industriali -. Ciò che gli
interessava era illustrare l'interazione di un oggetto in movimento con lo spazio circostante.
Tra le opere pittoriche più rilevanti di Boccioni sicuramente Stati d'animo n. 1. Gli addii; Stati d’animo n.2.
Quelli che vanno; Stati d’animo n.3. Quelli che restano – in cui i moti dell'animo sono espressi attraverso lampi
di luce, spirali e linee ondulate. Di questo trittico esistono due versioni: una precedente l’incontro con i pittori
cubisti e l’altra subito successiva. L’idea stessa di rappresentare gli stati d’animo attraverso il movimento:
intuizione geniale.
- Umberto Boccioni, Stati d’animo n.1 – Gli addii, 1911, Museo del Novecento (Milano)
- Umberto Boccioni, Stati d’animo n.2 – Quelli che vanno, 1911, Museo del Novecento (Milano)
- Umberto Boccioni, Stati d’animo n.3 – Quelli che restano, 1911, Museo del Novecento (Milano)
- Umberto Boccioni, Stati d’animo n.1 – Gli addii, 1911, MoMA (New York)
- Umberto Boccioni, Stati d’animo n.2 – Quelli che vanno, 1911, MoMA (New York)
- Umberto Boccioni, Stati d’animo n.3 – Quelli che restano, 1911, MoMA (New York)
- Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio, 1913, Museo del Novecento (Milano)
– nella situazione della scultura, della tridimensionalità.
- Umberto Boccioni, Sviluppo di una bottiglia nello spazio, 1913, MET (New York)
Boccioni è sicuramente l’artista fondamentale del futurismo: la sua genialità era tale da non potersi
manifestare neanche in una vita, ma è da giovane che morirà. Nel 1915 l'Italia entra in guerra. Boccioni,
interventista, si arruola volontario, assieme a un gruppo di artisti, nel Corpo nazionale volontari ciclisti
automobilisti, ma non ha occasione di entrare in combattimento. In una lettera dal fronte dell'ottobre 1915
il pittore scrive, infatti, che la guerra «quando si attende di battersi, non è che questo: insetti + noia = eroismo
oscuro....». Il 17 agosto 1916 Boccioni muore all'età di 33 anni all'ospedale militare di Verona, per le ferite
riportate in seguito alla caduta accidentale dalla propria cavalla, imbizzarritasi alla vista di un autocarro. La
caduta avviene il giorno prima durante un'esercitazione militare, in località Sorte a Chievo, una frazione di
Verona.
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Carlo Carrà (1881 - 1966)
Da Milano nel 1900 si recò a Parigi durante l’Esposizione Universale. In questo periodo cominciò a interessarsi
di politica, intrattenendo rapporti con gruppi anarchici. Trovatosi per caso nel corso del funerale
dell'anarchico Galli, ucciso dal custode della fabbrica che picchettava nel corso dello sciopero generale del
1904, e pur essendo di destra e successivamente apertamente fascista ne rimase profondamente colpito, e
cominciò a disegnare alcuni bozzetti, che anni più tardi sfoceranno nell'opera Il funerale dell'anarchico Galli.
«Quando, durante lo sciopero generale del 1904, fu ucciso l'anarchico Galli e durante il suo funerale nacque
una mischia di inaudita violenza, Carrà, trovatosi lì per caso, ne fu fortemente impressionato, e tornato a casa
schizzò il disegno da cui prese spunto più tardi per il quadro I funerali dell'anarchico, esposto nelle mostre
futuriste del 1912». Carrà collaborò al movimento futurista per sei anni. I concetti ispiratori della pittura
futurista vennero pubblicati sulla rivista Lacerba, a cui egli collaborò attivamente. Carrà concepiva i suoi
quadri come immagini dinamiche ma allo stesso tempo non soltanto limitate a dare la sensazione di
movimento, destinate attraverso il colore, a eliminare la legge fissa di gravità dei corpi. Nel 1908 Carrà
conosce Boccioni e Luigi Russolo. Dopo aver aderito al movimento di Marinetti, con Boccioni, Russolo,
Severini e Balla, firma il Manifesto dei pittori futuristi l'11 febbraio 1910, e il Manifesto tecnico della pittura
futurista l'11 aprile 1910. Suo è il manifesto La pittura dei suoni, rumori, odori (1912). Proprio in questi anni
nacque l'amicizia fra Carrà e il poeta Giuseppe Ungaretti. Il distacco dal Futurismo avviene nel 1916, quando
dà avvio con De Chirico alla pittura metafisica.
- Carlo Carrà, Funerale dell’anarchico Galli, 1910-11, MoMA (New York) – nel rosso troviamo la bara.
Dice: «Vedevo innanzi a me la bara tutta coperta di garofani rossi ondeggiare minacciosamente sulle
spalle dei portatori; vedevo i cavalli imbizzarriti, i bastoni e le lance urtarsi, sì che a me parve che la
salma avesse a cadere da un momento all'altro in terra e i cavalli la calpestassero».
Antonio Sant'Elia nasce il 30 aprile 1888 a Como. Nel 1909 decide di iscriversi all'Accademia di Brera nel corso
comune di Architettura per la durata di tre anni. Frequenta il primo anno con delle buone votazioni e nel
1910 rinnova l'iscrizione, ma non risulta che abbia effettuato l'esame di qualificazione. A Brera Sant'Elia
diviene amico di Carlo Carrà e di Umberto Boccioni. Nel 1913 esegue uno studio e realizza una tomba per
Gerardo Caprotti, morto il 7 ottobre 1913, situata ora nel Cimitero Urbano di Monza. Nel 1914 muore il padre,
Luigi Sant'Elia, e Antonio realizza così una nuova tomba nel Cimitero Maggiore di Como. Nel mese di marzo,
accettando l'invito dell'Associazione degli Architetti Lombardi, espone in una sala della Permanente di
Milano, alcuni schizzi, ottenendo diverse segnalazioni di riviste specializzate. Negli ultimi giorni della mostra,
Sant'Elia presenta le tavole della Città Nuova, intitolate Stazione di aeroplani e treni, Sei particolari di spazi
urbani, La casa nuova e La centrale elettrica in tre disegni e cinque schizzi d'architettura. L'11 luglio esce su
un volantino della direzione del Movimento Futurista uno scritto con il titolo Manifesto dell'Architettura
Futurista. Nel maggio del 1915 l'Italia decide il proprio intervento nel conflitto mondiale. Sant'Elia,
condividendo le idee degli altri esponenti futuristi, assieme a Marinetti e Boccioni, scelse di arruolarsi come
volontario. Il 10 ottobre 1916 Sant'Elia guidò un assalto ad una trincea nemica. Durante l'azione, venne
colpito mortalmente alla testa da una pallottola di mitragliatrice. Dopo essere stato inizialmente sepolto sul
Carso isontino, il 23 ottobre 1921 i resti dell'architetto furono definitivamente sistemati nel Cimitero
Maggiore di Como. L'eredità di Sant'Elia è ragguardevole. Sebbene la maggior parte dei suoi progetti non
siano mai stati realizzati, la sua visione futurista ha influenzato numerosi architetti e disegnatori: a lui è stata
attribuita l'antesignana idea dell'esposizione degli ascensori sulle facciate degli edifici (anziché tenerli relegati
"come vermi solitari" nelle trombe delle scale) ed i suoi disegni della Città nuova hanno ispirato il regista Fritz
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Lang per le architetture inserite nel suo capolavoro cinematografico Metropolis. A Sant'Elia va il merito di
aver intuito la stretta dipendenza tra problema architettonico e problema urbanistico su cui, pur con
linguaggi figurativi diversi, si è impostata la progettazione e la riflessione di tutti i movimenti architettonici
moderni. L'interessamento del gruppo olandese De Stijl e di Le Corbusier all'architettura futurista è provato
da scambi epistolari e da articoli su riviste europee.
Giovane architetto visionario, ma soprattutto veggente sui destini della sua disciplina e non solo, sostenne
che i caratteri fondamentali dell’architettura futurista avrebbero dovuto essere la caducità e la transitorietà.
Percorrendo ciò che accade nella corsa al rinnovamento a Tokyo, Shangai, Pechino, Dubai, ci avverte nel 1914
che le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città con materie che siano
capaci di essere flessibili, efficaci e all’occorrenza passibili di distruzione: cemento armato, ferro, vetro, fibra
tessile, e tutti quei surrogati del legno, della pietra e del mattone che permettono di ottenere il massimo
dell’elasticità e della leggerezza.
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METAFISICA E SURREALISMO
Il caso vuole che in determinati periodi della storia dell’umanità ci siano città che diventano centri dell’arte
visiva e non. Se pensiamo alla Firenze nel 1500, la stessa cosa successe a Parigi nei primi del Novecento.
Parigi, come abbiamo più volte sottolineato, fu negli anni immediatamente precedenti al primo conflitto
mondiale la meta favorita di artisti di ogni parte d’Europa. Già molto attrattiva con l’Esposizione universale
del 1900, nel primo decennio del secolo divenne meta di molti tra coloro che, in quei fervidi anni, si
interrogavano sull’arte avendo oramai preso le distanze dal naturalismo ottocentesco e dall’impressionismo
che da quella costola era scaturito. Per chiarezza e comodità si è soliti raggruppare personalità in verità assai
diverse sotto la dicitura ècole de Paris. Infatti non si trattò affatto di una scuola, ma semplicemente di artisti
che, ciascuno per la propria vicenda biografica, avvertirono potentemente il fascino della capitale ove - e non
è secondario - vivevano mercanti e collezionisti di altissimo profilo.
Nel 1904 arrivò a Parigi dalla natìa Romania Costantin Brancusi, nel 1906 vi si trasferirono Amedeo Modigliani
e Gino Severini e nel 1911 Marc Chagall e i fratelli de Chirico. Operavano già a Parigi, come già detto, Picasso
e Braque, i futuristi Carrà, Boccioni, e Marinetti vi aveva pubblicato nel 1909 il Manifesto del Futurismo.
Avevano l’opportunità di scambiarsi opinioni, ma non erano soltanto gli artisti a Parigi: vi erano collezionisti
e mercanti.
A Parigi viveva ed operava Guillaume Apollinaire. Nato a Roma, si era trasferito a Parigi ai primi del 1900.
Frequentò Pablo Picasso, Georges Braque, Andrè Breton, Amedeo Modigliani, Andrè Derain, Marc Chagall,
Costantin Brancusi, Giorgio de Chirico e Alberto Savinio e il poeta Giuseppe Ungaretti (che lo troverà ormai
morto). Apollinaire seguirà e parteciperà a quasi tutti i movimenti d'avanguardia dei primi anni del
Novecento. Contribuì alla divulgazione del Cubismo divenendone il teorico. Negli anni a seguire avrà un ruolo
primario anche nella diffusione della pittura Fauve, del Futurismo, del Surrealismo e della Metafisica. A causa
del suo carattere estroso e burlesco, nel 1911 viene arrestato e incarcerato, sospettato di essere l'autore del
furto della Gioconda, avvenuto nell'agosto del 1911 al Museo del Louvre. Risulterà, poi, del tutto estraneo ai
fatti. Nel 1913 pubblicò il saggio La Peinture moderne e Les Peintres cubistes (I pittori cubisti), in cui rievoca
la nascita del movimento e ne delinea gli aspetti principali. Con il deflagrare del conflitto mondiale Apollinaire
si arruolò volontario e nel 1916 venne ferito gravemente. Ristabilitosi, morì il 9 novembre del 1918 per
l’epidemia di spagnola. Spirito libero e dotato di una prosa poetica di grande raffinatezza, seppe cogliere con
ardite intuizioni la sostanza più vera dei movimenti ai quali si accostava restituendoci con straordinaria
vivezza gli elementi costitutivi.
Viene accostato all’Ecòle de Paris, anche se è una figura unica nel suo genere. A Parigi dalla natìa Livorno dal
1906, si pose subito dalla parte più viva della ricerca artistica in un momento certamente esaltante.
Profondamente avvinto alla cultura italiana e toscana, se per toscana si vogliono intendere Giovanni Pisano
e i senesi o Pisanello oppure Botticelli. Gli artisti italiani hanno difficoltà ad abbattere i ponti col suo passato,
ma del resto per l’eccezionalità dei nostri predecessori è impossibile prescindere da essi. Il ponte lo riallaccia
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Modigliani, ma lo riallacceranno anche i metafisici in seguito. A Parigi è anche il tempo di Costantin Brancusi,
con il quale lavora, ed è anche il tempo della scultura primitiva che per lui equivale al suo essenziale romanico.
Uomo dal fascino inesorabile, fu con Cézanne, con Matisse ma anche con gli amici Utrillo e Soutine e sempre
con Brancusi. Disegnatore padrone della linea continua voleva diventare scultore. Fu ritrattista di
straordinaria sensibilità.
- Amedeo Modigliani, Testa, 1911-12, Tate Gallery (London) – egli voleva diventare scultore. Sono
esperienze che Modigliani fa in pochi anni, dopodiché si dedicherà sempre. La fonte di queste teste
è l’arte primitiva – solo a Parigi si poteva vedere perché si era sviluppato un potente collezionismo e
ne furono ispirati anche Braque e Picasso, per citarne alcuni. L’arte africana aprì le porte verso un
modo intimamente differente per approcciarsi all’arte, davvero lontana dal naturalismo.
- Amedeo Modigliani, Testa, 1912, Metropolitan (New York)
- Amedeo Modigliani, L’ebrea, 1908, collezione privata – Vediamo influssi cezanniani, è un opera
sicuramente francese nella sensibilità – è nella fase degli acquisimenti di informazioni e istanze.
- Amedeo Modigliani, Paul Alexandre, 1909, collezione privata
- Amedeo Modigliani, cariatide in piedi, 1913, collezione privata – vediamo l’evidente derivazione in
pittura della statuaria africana, e vediamo in pittura quello che veniva fatto in punto di scalpello.
- Amedeo Modigliani, Madame Pompadour, 1915, Art Institute (Chicago) – Vediamo, in trasparenza,
la lezione cubista.
- Amedeo Modigliani, Paul Guillaume, 1916, GAM (Milano)
- Amedeo Modigliani, Chaim Soutin seduto, 1916, collezione privata
- Amedeo Modigliani, Nudo sul divano, 1916, Cleveland (Ohio)
- Amedeo Modigliani, grande nudo, 1917-1919, MoMA (New York)
- Amedeo Modigliani, Jeanne Hébuterne con maglione giallo, 1918, Guggenheim Museum (New York)
– la semplificazione delle forme è di marca cubista, ma alla fine ad Amedeo Modigliani non interessa
la poetica cubista. Fu sua compagna e contribuì alla leggenda dell’artista: purtroppo dopo la morte
di Amadeo si suicidò incinta.
- Amedeo Modigliani, Lunia Czechowska, 1919, Petit Palais (Paris)
Per epitaffio della straordinaria, tragica, luminosa vicenda di Modigliani ancora oggi in grado di accendere in
noi passione d’amore le parole di Giuseppe Ungaretti: «L’esplorazione poetica è esplorazione di un personale
continente d’inferno, e l’atto poetico, nel compiersi, provoca e libera, qualsiasi prezzo possa costare, il sentir
che solo in poesia si può cercare e trovare libertà. Continente d’inferno, a causa dell’assoluta solitudine che
l’atto di poesia esige, a causa della singolarità del sentimento di non essere come gli altri, ma in disparte
come dannato, e come sotto il peso d’una speciale responsabilità, quella di scoprire un segreto e di rivelarlo
agli altri. La poesia è scoperta della condizione umana nella sua essenza, quella d’esser un uomo d’oggi, ma
anche un uomo favoloso.» E fu davvero Modigliani uomo favoloso.
Di queste parole di Ungaretti, che non sono dedicate per Modigliani, troviamo parole inevitabili per
descrivere però il pittore.
A Parigi sin dal 1904 lavora nell’atelier di August Rodin, seppur per un tempo brevissimo. Brancusi, benché
in contatto con tutti gli artisti attivi a Parigi, condusse la propria ricerca in piena autonomia. La scultura è per
Brancusi un oggetto reale che bisogna rendere straordinario, portatore di un contenuto etico ineludibile:
«Ciò a cui mira il mio lavoro è soprattutto il realismo: perseguo la realtà interiore nascosta, l’essenza stessa
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degli oggetti nella loro intrinseca natura fondamentale, questa è la mia unica profonda preoccupazione».
Considerando la scultura un oggetto cominciò ad interrogarsi della sua specificità oltre la rappresentazione.
Se per Duchamp, con i ready made, qualsiasi oggetto può divenire scultura, basta che così lo si nomini, per
Brancusi è la forma che crea l’oggetto. Per Brancusi non vale il discorso di Duchamp, ovvero la concettualità:
per Brancusi viene prima la forma e poi l’oggetto in sé.
Due sono gli aspetti della scultura brancusiana che hanno profondamente influenzato le ricerche successive:
il primo è la riflessione del rapporto dell’oggetto/scultura con lo spazio e l’altro è il senso del basamento, da
sempre elemento costitutivo la scultura. La scultura era sempre stata monumentale, un moemento, e il
basamento costituiva un elemento per sorreggere questa memoria. Brancusi dedicava un’attenzione
appassionata al rapporto tra la scultura e lo spazio, a quanto la presenza dell’oggettoscultura modificasse lo
spazio alterandolo definitivamente anche soltanto con il gioco dei pieni e dei vuoti. Fu in questa sua ricerca
molto in anticipo sui contemporanei, con l’eccezione del solo Schwitters con i Merzbau. Se poi la scultura è
un oggetto e soltanto in sé, o meglio, nella sua forma trova senso di esistere, trova la sua verità, perché
dovrebbe avere una base che la isoli dal mondo? Brancusi voleva che la sua opera fosse universale nella
forma e nel contenuto, che cioè fosse di sempre e di ogni luogo e comprensibile a tutti. Trattava temi che
riguardano qualsiasi essere umano: l’uomo, la donna , la vita, la morte, l’amore, l’eternità. Voleva raggiungere
intuitivamente la forma pura tramite l’estrema sintesi di forme a tutti note.
- Constantin Brancusi, il bacio (1907-8), qui nella versione del 1916 al Philadelphia Museum of Art –
Nella poetica francese era molto popolare il tema del bacio e lui ne fa un’opera straordinaria.
- Constantin Brancusi, Musa addormentata, 1910, Centre Pompidou (Paris) – notiamo i collegamenti
con Modigliani. La forma ovoidale è l’unica forma necessaria per questa scultura.
- Constantin Brancusi, Maiastra, 1912, Peggy Guggenheim Collection (Venezia) – La maiastra è una
creatura mitologica dell’est europeo – Brancusi cerca la forma pura,
- Constantin Brancusi, Uccello nello spazio, 1923, MET (New York) – è la sintesi estrema di un uccello
nello slancio del volo. Restituisce piena autonomia alla scultura – essa non ha bisogno di un soggetto:
la scultura è autonoma nella sua realtà.
- Constantin Brancusi, uccello giovane, 1928, MoMA (New York)
La colonna senza fine è indubbiamente l’opera centrale a tutta l’esperienza di Brancusi per la quale lavorò a
lungo. Essa evoca l’idea di infinito attraverso la ripetizione di elementi identici che applicano alcuna variabile,
reiterabili appunto all’infinito. Al confronto ogni altra scultura risulta finita. Formalmente ispirata dalla
architettura rurale rumena ha pervaso la creatività dello scultore per molta parte della sua vita. La
reiterabilità infinta è un tema che riprenderanno gli americani. L’idea per l’uomo di non concedersi limiti è
straordinario – la nostra vita è un segmento finito, non una retta – ma Brancusi vuole puntare all’infinito.
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LA METAFISICA
Con uno scatto imprevedibile, la pittura italiana novecentesca, cancellando l’Ottocento, nacque armata dalla
mente metafisica di Giorgio de Chirico. (Enzo Siciliano)
Metafisica è una parola di derivazione greca che fu utilizzata per la prima volta per suddividere le opere di
Aristotele tra quelle fisiche (che si basano su una natura fisica) e metafisiche, cioè che non hanno come natura
di indagine la natura, ma tutto il resto.
Di nobile famiglia italiana nacque in Grecia come il fratello Andrea (Alberto Savinio). Nel 1906, insieme al
fratello e alla madre si trasferì in Italia, quindi fu a Firenze dove frequentò l’Accademia di Belle Arti. A Firenze
nel 1910 dipinse L'enigma di un pomeriggio d'autunno. Dal 1911 al 1915 de Chirico visse a Parigi, dove abitava
il fratello Alberto, partecipò al Salon d'Automne e al Salon des Indépendants e frequentò i principali artisti e
intellettuali dell'epoca quali Apollinaire, Max Jacob e Picasso. Con la guerra i fratelli de Chirico si arruolarono
volontari e vennero inviati a Ferrara dove strinsero amicizia con Carlo Carrà e Filippo De Pisis. Nel 1924 fu a
Parigi in coincidenza con la presentazione del manifesto del Surrealismo e dal 1925 si stabilì nella capitale
francese. Molto apprezzato dal gruppo dei surrealisti, Breton gli riconobbe il ruolo di anticipatore, per le
opere dipinte prima della guerra. I Surrealisti ne rifiutarono l’evoluzione successiva soprattutto per il ritorno
alla classicità. Nel 1924 e nel 1932 partecipò alla Biennale di Venezia e nel 1935 alla Quadriennale di Roma.
Tra il 1936 e il 1937 visse e lavorò a New York. Visse poi in Italia (Venezia – Milano) e nel 1944 si trasferì a
Roma, in Piazza di Spagna, dove ebbe anche il suo atelier. Morì a Roma il 20 novembre del 1978.
«Perché un’opera d’arte sia veramente immortale, è necessario che esca completamente dai confini
dell’umano: il buon senso e la logica la danneggiano. In questo modo essa si avvicinerà al sogno e alla
mentalità infantile. L’opera profonda sarà spinta dall’artista nelle profondità più recondite del suo essere: là
non giunge il sussurrare dei ruscelli, il canto degli uccelli, il fruscio delle foglie. Ciò che io ascolto non vale
nulla, ci sono solo i miei occhi che vedono, aperti, e più ancora chiusi. Quello che importa è soprattutto
sbarazzare l’arte di ciò che essa contiene di conosciuto sino ad oggi: ogni idea, ogni simbolo deve essere
messo da parte. Bisogna avere una grande certezza in se stessi: è necessario che la rivelazione che abbiamo
di un opera d’arte, che la concezione di un quadro riproducente la tal cosa senza senso alcuno per se stessa,
senza soggetto, senza significato dal punto di vista della logica umana; è necessario, dico, che una simile
rivelazione o concezione sia talmente forte in noi, ci procuri una così grande gioia o un così grande dolore,
da sentirci costretti a dipingere spinti da una forza più grande di quella che spinge un affamato a mordere
come una bestia il pezzo di pane che gli capita tra le mani.» (Giorgio de Chirico – 1914 - in André Breton, Le
surréalisme et la peinture).
Tutto ciò che è fisico non dovrà comparire nell’opera. Quello che sento nel fisico, attraverso i miei sensi, non
vale niente. Bisogna vedere, sentire e toccare con gli occhi chiusi.
Nei primi due decenni del Novecento la pittura è ancora viva, persino in quella versione apparentemente
antimoderna che rifiuta l'astrazione e de Chirico a Firenze già nel 1910, poi a Parigi dal 1911 sino al 1915 e
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infine a Ferrara è affascinato dall'enigma e dal mistero che si annida nella quotidianità quando questa diventa
sogno, voglia di fuga. Presta il servizio militare a Ferrara di fronte al castello d'Este e da quella visione nascono
diverse tele, come il capolavoro I progetti della fanciulla, una natura morta del 1915 piena di riferimenti al
vissuto, oggi al MoMA. Ferrara è anche occasione di incontri: con Filippo De Pisis, con il poeta Corrado Govoni
e soprattutto con Carlo Carrà. Mentre De Chirico mette a punto il nuovo corso, Carrà si allontana dal
Futurismo. Sta nascendo una nuova era. Trampolino di lancio per la pittura metafisica è la rivista Valori
Plastici, edita tra 1918 e 1922 a Roma da Mario Broglio, è qui che si ricomincia a parlare di pittura figurativa
durante la temperie delle avanguardie. De Chirico è il solo artista del Novecento a tentare un rapporto
originale con la storia e la tradizione. Intuisce, ad esempio, il motivo del quadro nel quadro, saltando qualsiasi
concatenazione logica nel mettere insieme cose e immagini diverse. La Metafisica è un movimento è un
estremamente breve: quando si arriva al 1917-18 è già finita. La metafisica durerà pochissimo e de Chirico
tornerà alla classicità, vivendo tantissimo fino ai 90 anni. è vero che la pittura deve essere qualcosa di diverso,
ma alla fine la memoria del passato nell’arte visiva lo trattiene assai. E in fondo l’elemento che davvero ci
permette di capire la metafisica è la memoria, non il sogno, ma la memoria.
- «L’opera d’arte metafisica è quanto all’aspetto serena; dà però l’impressione che qualcosa di nuovo
debba accadere in quella stessa serenità e che altri segni, oltre a quelli già palesi, debbano subentrare
sul quadrato della tela.» «Io entro in una stanza, vedo un uomo seduto sopra una seggiola, dal soffitto
vedo pendere una gabbia con dentro un canarino, sul muro scorgo dei quadri, in una biblioteca dei
libri, tutto ciò non mi colpisce, non mi stupisce, poiché la collana dei ricordi che si allacciano l’uno
all’altro mi spiega la logica di ciò che vedo; ma ammettiamo che per un momento e per cause
inspiegabili e indipendenti dalla mia volontà si spezzi il filo di tale collana, chissà come vedrei l’uomo
seduto, la gabbia, i quadri, la biblioteca; chissà allora quale stupore, quale terrore, e forse anche
quale dolcezza e quale consolazione proverei io mirando quella scena.» G. De Chirico in Valori Plastici,
1919
Se viene meno la memoria, l’arcata non è più un’arcata quattrocentesca fiorentina, ma un insieme di pieni e
di vuoti.
L’immaginario metafisico fu il territorio dove presente e passato potevano affrontarsi senza remore, e de
Chirico a Parigi fu ad un tempo erede della tradizione pittorica italiana e presente alla conflittualità industriale
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tra paesaggi invasi da ciminiere, treni, macchine e officine. Interprete con Carlo Carrà e Giorgio Morandi di
un’estetica, quella novecentesca della quale il tessuto connettivo è l’oggetto (Duchamp), oggetto che
assoltosi dalla sua ovvia funzione d’uso è divenuto segno del nuovo alfabeto che è anche il nostro.
- Giorgio de Chirico, Le muse inquietanti, 1917, collezione privata (Milano) – de Chirico ha fatto una
sorta di assemblage, di elementi per cui la memoria di rompe: vedo un frammento di una colonna
scanalata classica, sotto un torso avvolto con un brandello di toga, ancora sotto una testa
completamente non umana. Addirittura la musa seduta ha la testa poggiata ai suoi piedi. Nell’arte
visiva questo è quello che potrebbe accadere se la nostra memoria si interrompesse. E’ come se in
una grande cesta avessimo oggetti che abbiamo visto ma non sappiamo ricollegarli tra loro.
- Giorgio de Chirico, il grande metafisico, 1917, collezione privata
- Giorgio de Chirico, grande interno metafisico, 1917, MoMA (New York)
«…Eccoci all’aspetto metafisico delle cose. Deducendo si può concludere che ogni cosa abbia due aspetti:
uno corrente, quello che vediamo quasi sempre e che vedono gli uomini in generale, l’altro lo spettrale o
metafisico che non possono vedere che rari individui in momenti di chiaroveggenza e di astrazione metafisica,
così come certi corpi occultati da materia impenetrabile ai raggi solari non possano apparire che sotto la
potenza di luci artificiali quali sarebbero i raggi X, per esempio». G. De Chirico in Valori Plastici, 1919
Carlo Carrà
Parliamo adesso di Carlo Carrà, che non era soddisfatto del futurismo e si avvicinò alla metafisica. Nel 1916,
finita l’esperienza futurista Carlo Carrà scrisse: «fin dai giorni delle scomposizioni cominciava in noi quello
stato d’incertezza che precede le grandi risoluzioni, perché ci si era fatti accorti che per la via lineale si
ricadeva dal lato opposto dell’errore degli impressionisti, che è la scrittura materialistica dell’oggetto». La
prima opera che sente della metafisica per Carrà, ancor prima dell’incontro fondamentale con i fratelli de
Chirico avvenuto a Ferrara, è indubbiamente l’Antigrazioso del 1916. Nello spazio, uniforme e lattescente,
emergono gli oggetti: la casa, il bambino, la tromba, oggetti, appunto tra loro scollegati come pupi di una
tragica pantomima e allo stesso modo nella Carrozzella sempre del 1916 la carrozzella, il cavallo e la casa
hanno l’aspetto di pupazzi di panno e sono a tutti gli effetti semplicemente oggetti. Con La Musa metafisica
e L’Idolo ermafrodito del 1917 i manichini nell’assurdo del gesto meccanico si liberano di ogni possibile
elemento naturalistico e così dal mondo fisico approdano a quello metafisico, quello della quarta dimensione
una dimensione che si origina, nel quadro dalla terza, vale a dire dalla profondità.
- Carlo Carrà, L’antigrazioso, 1916, collezione privata – la figura è in uno spazio privo di coordinate
laddove gli oggetti trovano una bizzara e un’incongrua presentazione.
- Carlo Carrà, La carrozzella, 1916, Mart (Rovereto) – sono oggetti non in relazione tra loro
- Carlo Carrà, La musa metafisica, 1917, Museo Poldi Pezzoli (Milano) – De Chirico è l’unico che
inquadra la prospettiva in uno spazio vero e proprio – Carrà inquadra le figure in spazi neutri, quasi
in scatole. Quest’opera fu acquistata dal pittore Armando Spadini, che scrisse a Carrà: «L’indifferenza
che ho avuto per la pittura contemporanea è scossa per la prima volta dalle tue opere. Amo queste
tue pitture. Ho mille lire da darti per il tuo quadro. Fa’ conto che te lo paghi un milione e pensa che
lo terrò come cosa santa.»
- Carlo Carrà, l’idolo metafisico - «Soltanto in Raffaello trovo una comparazione per la purità e per la
stessa placata e fonda intensità del contorno e della stesura, in quel profilo raccolto, tutto interiore;
e non dico dell’estasi sospesa e degli spazi e delle forme, che fa di questo quadro in tutto così
sensitivo uno dei momenti più sereni della nostra poesia e della nostra epoca.» Carlo Ludovico
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Ragghianti, 1953. Questi uomini, come Carrà e de Chirico, affondano terribilmente nella pittura del
rinascimento.
- Carlo Carrà, Madre e figlio, 1917, Pinacoteca di Brera (Milano) – è come se qualcuno si fosse
dimenticato degli oggetti ed essi siano messi in una scatola degli oggetti dimenticati.
«Mi formai allora il convincimento che il naturalismo aveva cancellato dalla pittura quell’atmosfera spirituale
che si trova gagliardamente espressa in Giotto, Paolo Uccello, Piero (Della Francesca), Masaccio, la bellezza
delle cui opere non consiste tanto nei punti di rapporto col reale, quanto in quella forma tutta particolare
all’indole lirica del trascendentalismo plastico». (Carlo Carrà, 1917). Dunque, come per Leonardo da Vinci, la
pittura come operazione mentale. Nel 1922 Carrà decide di non appartenere mai più ad alcuno schieramento
e terrà fede a questa decisione tanto che anche i rapporti con il gruppo Novecento sarà sporadico.
- Carlo Carrà, Le figlie di Loth, 1919, Mart (Rovereto) – subito dopo la Metafisica Carrà realizza
ques’opera. Queste figure bibliche, dopo la morte della loro madre, si uniscono al padre per
adempire la possibilità di aver figli. E’ in modo evidente le due figure sono ancora oggetti metafisici,
così come appartiene questa giustapposizione il tempietto che vediamo sullo sfondo e il cane in
primo piano. Ma fa i conti anche con l’estetica medievale e primo-rinascimentale.
- Carlo Carrà, Il pino sul mare, 1921, collezione privata – sicuramente un’influenza forte da parte di
Giotto, Uccello e della Francesca.
Giorgio Morandi, pur vivendo quasi sempre a Bologna dove frequentò l’Accademia di Belle Arti, ben a
conoscenza dei lavori di Cèzanne e delle ricerche di Picasso e di Derain, seppe sin da giovanissimo innestarvi
Giotto, Masaccio, Piero della Francesca e Paolo Uccello costruendo così i pilastri della sua cultura artistica.
Vicino ai futuristi (1914 - 1915) dopo i contatti con Carrà e de Chirico si accostò alla metafisica e a Valori
plastici, poi condusse la sua ricerca in meditazione e solitudine tra Bologna dove ebbe cattedra presso la
locale Accademia e la casa di Grizzana sull’Appennino bolognese. Morì a Bologna il 18 giugno del 1964. Tra il
1918 e il 1919 si aprì per Morandi la stagione metafisica, a cui appartengono una decina di opere del 1918-
1919, che rivelano come il ruolo del pittore all’interno del movimento metafisico sia di piena rilevanza e
autonomia. Il 18 marzo 1918 uscì sul quotidiano Il Tempo per la firma di Riccardo Bacchelli il primo articolo
monografico su Morandi. Incontrò Carlo Carrà e Giorgio de Chirico nel 1919, tramite l’amico Raimondi, così
come per lo stesso tramite venne a contatto con i letterati de “La Ronda ”. Alla fine del 1918 conobbe Mario
Broglio che il 15 novembre aveva iniziato la pubblicazione di Valori Plastici. Broglio offrì a Morandi un
contratto per le sue opere, che sarà stipulato il 26 dicembre del 1919 e che, con successive riconferme, varrà
fino al 1924.
- Giorgio Morandi, Grande natura morta metafisica, 1918, Pinacoteca di Brera (Milano)
Ha la caratteristica di aver rappresentato per tutta la sua vita oggetti. Il filone primo è quello della natura
morta, che in Morandi trova un grandissimo tigono, anche perché nelle sue nature morte post-metafisiche
sostanzialmente intinge il pennello nella luce. Morandi, proprio come Carrà, utilizza la scatola metafisica.
- Giorgio Morandi, natura morta, 1918, Ermitage (San Pietroburgo) – vediamo oggetti inscatolati: la
scatola metafisica è molto ricorrente nel lavoro di Morandi. Del resto è una rappresentazione anche
della sua vita, di per sé molto statica – ha sempre vissuto tra Bologna e la sua piccola villa di
campagna.
- Giorgio Morandi, Natura morta metafisica, 1919, Pinacoteca di Brera (Milano)
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- Giorgio Morandi, Natura morta metafisica, 1919, Pinacoteca di Brera (Milano)
Mentre le opere di Morandi si fanno più plastiche, riflettendo la poetica del gruppo che fa capo alla rivista
romana,Mario Broglio mantiene i suoi impegni e organizza prima a Berlino e in altri centri tedeschi, nel
1921, e poi alla esposizione Fiorentina Primaverile nel 1922, rassegne di gruppo che vedono Morandi fra
i protagonisti. Nella mostra di Firenze, la sua opera viene presentata in catalogo da un acuto testo di de
Chirico: «partecipa in tal modo del grande lirismo creato dall’ultima profonda arte europea: la metafisica
degli oggetti più comuni». Degli anni 1922-1925 è una serie di Paesaggi luminosi che, come ricorda il
critico Lamberto Vitali: «non sarebbero comprensibili senza l’esempio di Corot e non soltanto per le sue
soluzioni rigorosamente tonali».
Morandi è ben inserito nel dibattito culturale nazionale ed è presente alle due mostre del Novecento italiano
organizzate alla Permanente di Milano nel 1926 e nel 1929 e, anche se non si allinea al gruppo di Margherita
Sarfatti, invia sue opere a diverse rassegne. Queste figurano alla mostra della Galleria Bonaparte a Parigi, a
Basilea e a Berna, a Buenos Aires e in alcune città brasiliane nel 1930. Nonostante la scelta appartata a
Morandi non fa difetto nella partecipazione ad eventi importanti né nell’attenzione della stampa di settore.
Vicino al gruppo degli intellettuali de Il Selvaggio, rivista fondata e diretta da Mino Maccari a partire dal 1924,
con loro si presenta alla Prima Esposizione Internazionale dell’Incisione Moderna che si tiene a Firenze nel
1927. L’8 giugno del 1927 Maccari gli dedica un lungo articolo sul quotidiano bolognese Il Resto del Carlino”
dove sottolinea l’italianità e la genuinità dell’arte morandiana, così come farà Leo Longanesi l’anno successivo
in L’Italiano, definendo Morandi il più bel esemplare di Strapaese. La consacrazione su questa via verrà
quattro anni dopo quando un interno numero de L’Italiano, in data 10 marzo 1932, sarà dedicato interamente
a Morandi con un testo critico di Ardengo Soffici. Morandi viene invitato alla Biennale di Venezia: nel 1928
presenta quattro acquaforti e una cartella di incisioni nella sala del bianco e nero; nel 1930 espone due
acqueforti e quattro dipinti; nel 1932 è ancora a Venezia con due Nature morte all’acquaforte. Presente con
una certa frequenza ad esposizioni internazionale nel 1939 in occasione della III quadriennale romana ottiene
una sala personale e il plauso di firme di primo piano della cultura italiana (Roberto Longhi, Lamberto Vitali,
Carlo Ludovico Ragghianti) nonostante non manchino le polemiche. Nella primavera del 1945 Roberto Longhi
presenta alla Galleria il Fiore di Firenze una personale dell’amico lontano, di cui non ha ancora ricevuto notizie
e che ritroverà solo qualche mese più tardi. Mentre si riaccendono le polemiche sull’impegno in arte, non è
un caso se alla rinnovata Biennale del 1948, dove esplode il Fronte Nuovo delle Arti, il primo premio per la
pittura venga assegnato a Morandi che presenta undici tele degli anni 1916-1920 nelle sale dedicate a Tre
pittori italiani dal 1910 al 1920, ove figurano anche opere di Carrà e di de Chirico con la presentazione di
Francesco Arcangeli. Nello stesso anno, a sottolineare l’importanza della produzione grafica dell’artista, Carlo
Alberto Petrucci allestisce alla Calcografia Nazionale di Roma una sua rassegna antologica di acqueforti, che
rinnova l’interesse della stampa e del pubblico nei confronti di quello che una cerchia di estimatori,
selezionata ma sempre più ampia, considera ormai come uno dei maestri del secolo. Morandi infatti gode
del favore dei più esclusivi ambienti internazionali e alcune sue opere vengono ospitate in prestigiose
rassegne nel Nord Europa e negli Stati Uniti. A consacrazione di tale stima critica, giunge nel 1957 il primo
premio per la pittura conferitogli alla quarta Biennale di San Paolo del Brasile, dove nel 1953 aveva ottenuto
il primo premio per l’incisione. Valori plastici, rivista d’arte e di cultura fu fondata a Roma nel 1918 da Mario
Broglio che fu collezionista e gallerista. Fu fondamentale per la definizione della Metafisica e per l’apertura
della cultura italiana ai fermenti di marca europea Alberto Savinio, nel primo numero di Valori plastici del 15
novembre 1918, annunciò un programma di completa restaurazione individualista, antifuturista e
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antibolscevica. In seguito, nel 1919, comparve sempre per la firma di Savinio Anadioménon. Principi di
valutazione dell'Arte contemporanea. «II mondo è di continuo - come Venere - anadioménon: che di
continuo, su da qualche mar che lo gestiva in un travaglio misterioso si suscita un novello dio». Con toni quasi
profetici Savinio inizia, in forma aforistica, la presentazione e la difesa della pittura metafisica di De Chirico e
di Carrà presentando, da un lato, una natura eraclitea in continuo divenire e, dall'altro, l'artista capace di
cogliere e di fissare il momento in cui la sua essenza si palesa nella forma di un dio che nasce dalle acque. Il
classicismo saviniano riserva una non meno radicale novità: sottratte al tempo, all’idea morale, al lirismo, e
capaci di attingere la posizione statica propria degli dèi, le arti plastiche non devono riprodurre oggetti ma
offrirne un ricordo immutabile. È la ‘poetica della memoria’, cui darà forma letteraria Tragedia dell’infanzia:
«l’arte è sorta dal fecondo grembo della Memoria – la memoria dell’immortalità terrestre che in principio
fioriva quaggiù e insieme dell’infanzia, brillante come un diamante sul velluto nero».
Dopo la prima guerra mondiale sorse una corrente artistica europea che ripropose la centralità della
tradizione e della storia, del classicismo e della fedeltà figurativa, del racconto e della celebrazione aulica,
rifiutando gli estremismi dell'avanguardia che aveva dominato fino al 1918 e ritornando quindi ad un tipo di
ispirazione tradizionale. In Italia questo cambio di direzione venne riflesso ed incoraggiato da Valori plastici.
Margherita Sarfatti, critica d'arte e intellettuale riuniva gli artisti nella sua casa-studio di corso Venezia a
Milano. Intuì l'importanza anche politica di tale movimento e, in diretto contatto con Mussolini, organizzò
una serie di mostre sotto il nome di Novecento italiano. Gli artisti si ripresentarono assieme, con il nome di
6 artisti del Novecento, nel 1924, alla Biennale di Venezia. Le opere sono caratterizzate da forme plastiche e
geometriche e i generi prediletti sono ritratti, nature morte e paesaggi. Dopo il successo veneziano la Sarfatti
volle aumentare l'importanza del movimento e nel 1926 organizzò un'esposizione con centodieci artisti
italiani alla Permanente di Milano, inaugurata con un discorso di Mussolini. Alla mostra erano presenti tutte
le figure artistiche più importanti del panorama italiano (come Carrà, de Chirico, Morandi, Balla, Martini,
Depero, Severini). «Perché "Mostra del '900"? Qualcuno ha osservato che questa prima Mostra non può
avere la pretesa di ipotecare un secolo che è appena incominciato da sette anni, cioè dalla fine della guerra
mondiale, e che prima del fatidico 2000 altri 74 anni devono passare, durante i quali le più straordinarie
vicende, gli eventi più impensati potranno verificarsi, anche e, vorrei quasi dire, soprattutto nel dominio
dell'arte. Ma è evidente che il titolo di Mostra del '900 non si riferisce a un dato di semplice cronologia. Credo
di essere nel giusto se affermo, che per novecentisti non devono intendersi coloro che sono nati in questo o
nel secolo scorso o che hanno cominciato a dipingere prima e dopo la guerra, ma coloro che seguono un
determinato indirizzo artistico, e vogliono provocare una determinata selezione. I novecentisti sono artisti
che non si rifiutano, non rifiutano e non debbono rifiutare alcuna esperienza e alcun tentativo; quasi tutti
hanno infatti vissuto l'esperienza futurista, ma intendono di essere e di rappresentare qualche cosa per se
stessi; un di più, una conclusione ed un inizio, creatori, non rifacitori o copiatori: un "momento artistico"
insomma, che può essere abbastanza lungo e importante da lasciare durevole traccia nella storia dell'arte
italiana di questo secolo». Benito Mussolini, discorso di inaugurazione
Magniloquenti imprese decorative caratterizzarono l'attività degli artisti del movimento nel corso degli anni
trenta. Le imprese maggiori furono a decorazione delle importanti architetture che stavano sorgendo in
quegli anni, a prevalente destinazione pubblica, con uno stile esplicitamente celebrativo, monumentale e
arcaicizzante.
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Alberto Savinio (1891 -1952)
Fratello di Giorgio de Chirico, da giovane studiò musica sia ad Atene che a Monaco di Baviera; fu poi a Parigi
nel 1911 con il fratello. Dal 1914, alle prime prove di scrittore, adottò il nome de plume di Alberto Savinio.
Fu con il fratello a Ferrara, entrambi arruolati: strinse rapporti con Giovanni Papini e Ardengo Soffici, iniziando
a collaborare con La Voce, rivista di punta per impegno intellettuale fondata a Firenze nel 1908 da Giuseppe
Prezzolini. Subito dopo la fine della guerra visse a Milano e dal 1923 a Roma dove scrisse per Valori Plastici e
La Ronda. Ancora a Parigi dal 1927 sino al 1933, dove fu essenzialmente pittore, rientrò definitivamente in
Italia alternando la pittura agli impegni di pubblicista e letterato. Dal 1941 Bompiani divenne il suo editore di
riferimento e a motivo di ciò ebbe relazioni con Corrado Alvaro e Massimo Bontempelli. Accusato di
antifascismo, trascorse gli ultimi mesi della guerra nascosto riprendendo poi la sua attività di critico letterario
per le pagine del Corriere della Sera. Tre anni dopo la sua morte il fratello Giorgio de Chirico gli dedicò una
retrospettiva nell’ambito della VII quadriennale di Roma. Savinio divenne pittore soltanto nel 1927 e aderì al
movimento surrealista tanto che Breton inserì un suo racconto, unico tra gli italiani, nell’insolita Antologia
dell’humor nero edita la prima volta nel 1940.
- Alberto Savinio, Le navire perdu, 1928, collezione privata – curioso assemblage di oggetti relativi a
una nave. Questa nave invece di essere costituita da elementi facenti parte di una nave è costutita
da oggetti che ci appaiano come dei giocattoli. E’ come se nella mente dell’artista fossero rimasti dei
ricordi di una nave e dei ricordi dei giocattoli d’infanzia, che di conseguenza si incontrano nel quadro.
- Alberto Savinio, Senza titolo, 1929, collezione privata (Torino) – una giustapposizione mentale ma
nella sfera della razionalità.
- Alberto Savinio, i Dioscuri, 1929, collezione privata – i due fratelli de Chirico sono pienamente dentro
la classicità. I Dioscuri non solo altro che loro due.
- Alberto Savinio, Apollo, 1930-31, collezione privata – Apollo è il dio che vede lontano, quindi la testa
dell’uccello nello strano cesto della memoria è riferito a questo concetto.
- Alberto Savinio, i genitori, 1931, collezione privata (Roma) – possono essere visti come i genitori dei
due fratelli. Uomini con teste bestiali. È la ricerca del carattere, al di là degli eufemismi della natura,
di là dalle correzioni della civiltà, di là dagli abbellimenti dell’arte […] e l’aspirazione a uno stato
perfetto: perché nella composizione della creatura perfetta, dell’ermafrodito, entreranno in doti
superlativamente misurate anche cavalli, leoni, aquile e cani. E’ come se lui volesse mettere insieme
in una sorta di figura mitologica nuova tutta quella che è la memoria della vita sulla terra, fatta quindi
di esseri viventi.
SURREALISMO
Prima di parlare di surrealismo bisogna soffermarci un momento sulla personalità di Sigmund Freud. È
noto per aver elaborato la teoria psicoanalitica secondo la quale i processi psichici inconsci esercitano
influssi determinanti sul pensiero, sul comportamento e sulle relazioni tra individui. Sostanzialmente noi
tutti nella nostra quotidianità siamo soggetti alla nostra componente inconscia. Fu determinante per la
definizione teorica della Psicoanalisi L’interpretazione dei sogni, pubblicato in lingua tedesca nel 1900.
«Fatevi portare il necessario per scrivere dopo esservi messo nel luogo più favorevole per la
concentrazione del vostro spirito su se stesso. (ricordiamo come Tzara compone il manifesto Dada).
Ponetevi nello stato maggiormente passivo o recettivo. Fate astrazione dal vostro genio, dalle vostre
capacità e da quelle di tutti gli altri. Ripetetevi che la letteratura è una delle strade più tristi che può
condurre a qualsiasi cosa. Scrivete rapidamente, senza un soggetto predisposto, tanto rapidamente da
non fermarvi e non essere tentati di rileggere. La prima frase uscirà senza sforzi […] È piuttosto difficile
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pronunciarsi sulla riuscita della seconda frase: questa partecipa senza dubbio della nostra attività
cosciente… Poco importa, continuate finché vi piaccia. Dopo la parola di cui sospettate l’origine, ponete
una lettera qualsiasi, la lettera l per esempio e ritornate all’arbitrio imponendo questa lettera come
iniziale alle parola seguente.» scriveva André Breton nel Manifesto del Surrealismo del 1924. Bisogna
altresì ripensare un momento ai DaDa cui i surrealisti in qualche modo polemicamente derivano. DaDa è
stato un movimento anarchico che non presupponeva alcuna possibilità metodologica di realizzazione
dell’uomo nel consesso umano. I surrealisti per contro propongono soluzioni alla presenza dell’uomo. I
surrealisti vogliono, superate le posizioni nihiliste dei DaDa, giungere a una esplicita posizione
rivoluzionaria laddove si possa rintracciare la libertà individuale e quella collettiva, tra i due poli di Freud
e Marx. Questa è la maggiore differenza tra i surrealisti e i Dada. «Il poeta futuro supererà l’idea
deprimente dell’irreparabile divorzio tra l’azione e il sogno» scriveva Breton nel 1923.
Andrè Breton nel Manifesto del Surrealismo (il primo di tre), redatto nel 1924, espose organicamente le
tesi del movimento, dalla condanna del realismo e del romanzo, alla necessità di tener conto delle nuove
concezioni introdotte da S. Freud in filosofia e da A. Einstein in fisica. Per sanare il dissidio tra l’individuo
e il mondo, Breton propose quindi la rivalutazione di tutto ciò che il paradigma positivista aveva escluso
(il meraviglioso, il sogno, la follia, gli stati allucinatori) in una nuova dimensione totalizzante, la surrealtà.
La definizione del surrealismo come «automatismo psichico puro, con cui ci si propone di esprimere il
reale funzionamento del pensiero» illumina il senso delle tecniche adottate dai surrealisti per scavalcare
il controllo della ragione e mettere allo scoperto la forza creativa dell’inconscio. Dal 1924, il Bureau des
recherches surréalistes e la rivista La révolution surrèaliste (cui succederà, dal 1930 al 1933, Le
Surréalisme au service de la révolution) divengono gli organi ufficiali del movimento, che allarga il suo
campo d’azione ai settori più diversi, dalla politica all’antropologia, alle arti figurative, rivalutando le
forme dell’arte primitiva e infantile, le creazioni degli alienati e riscoprendo da un’angolatura originale le
forme espressive popolari in cui domina il gusto per il macabro, il fantastico, l’inconsueto.
In campo artistico, Breton chiarisce nel 1928 la sua posizione in merito all’arte con il saggio Le surréalisme
et la peinture, che fissa alcuni punti di riferimento: «sulla fede che l’uomo non è capace che di riprodurre
con più o meno felicità l’immagine di ciò che lo tocca, i pittori si sono mostrati troppo concilianti con la
scelte dei loro modelli. L’errore commesso fu di pensare che il modello non poteva essere preso che nel
mondo esteriore […] non è però meno vero che è fare cattivo uso del potere magico della figurazione, di
cui certuni posseggono il dono, servendosene per la conservazione e il rafforzamento di ciò che
esisterebbe già anche senza di essi. In questo caso vi è un’abdicazione che non ha scuse. […] L’opera
plastica, per rispondere alla necessità di revisione assoluta dei valori reali sui quali oggi tutti gli spiriti
sono d’accordo, si rifarà dunque a un modello interiore o non potrà esistere». (Breton, Le surrèalisme et
la peinture, 1928).
Max Ernst e Joan Miró furono tra i primi a impiegare metodi basati sull’automatismo e il montaggio:
Ernst, che aveva già utilizzato ampiamente il collage, nel 1925 introdusse il frottage il cui valore di «mezzo
per forzare l’ispirazione» verrà chiarito nel saggio Au-delà de la peinture del 1937 mentre Miró svilupperà
una maniera elusiva, che mescola segni comici, osceni, allucinatori, infantili, in una sorta di figurazione
elementare, archetipica che fa anche uso del collage e dell’assemblage. Nel frattempo il dibattito interno
al gruppo surrealista sulla necessità di dare uno sbocco politico al movimento determina nel 1927
l’adesione di Breton, Aragon, Éluard, Péret e P. Unik al Partito comunista francese; questa decisione sarà
foriera, negli anni successivi, di una lunga serie di rotture ed espulsioni. Nel Secondo Manifesto del 1930
Breton precisa la necessità di maggior rigore e sistematicità nell’azione indicando l’obiettivo della
conquista della surrealtà e quindi la necessità di una ‘rivolta assoluta’ contro l’ordine costituito. Sulla
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linea della pittura di Dalí, che filtra la lezione di De Chirico puntando all’intensificazione di idee ossessive
e di visioni irrazionali, si attesteranno anche R. Magritte e Y. Tanguy, e, più tardi, artisti di diversa
provenienza. Da questo momento prende anche avvio la produzione di ‘oggetti surrealisti’ che avrà larga
fortuna all’interno del movimento; si tratta di oggetti ‘a funzionamento simbolico’, eredi dei ready made
di Duchamp, che estraniati dal loro contesto abituale, o appositamente creati, cristallizzano nella vita
quotidiana pulsioni, desideri, associazioni inconsce. Se la vicenda del surrealismo si complica sul piano
strettamente politico, su quello culturale e artistico la sua influenza è sempre più diffusa
internazionalmente. Gruppi surrealisti si costituiscono in Europa, America e Giappone. Il successo del
movimento è testimoniato dalle mostre di Londra e di New York, (Fantastic Art, Dada, Surrealism, al
MoMA nel 1936) e soprattutto dalla grande esposizione internazionale alla Galerie des beaux-arts di
Parigi nel 1938. La guerra civile spagnola e le tensioni in Europa spinsero di nuovo Breton all’azione
politica; nel 1938 incontrò L. Trockij nell’esilio messicano e lanciò con Diego Rivera il manifesto Pour un
art révolutionnaire indépendent. Allo scoppio della guerra il gruppo surrealista ripara a New York dove
continua l’attività attraverso riviste e mostre; l’influsso dei surrealisti si rivelerà di capitale importanza
per gli sviluppi dell’arte americana, in particolare per A. Gorky e J. Pollock. Nel dopoguerra, il movimento
riceve consacrazione ufficiale in mostre e retrospettive, tra le quali quella organizzata da Breton e
Duchamp alla Galerie Daniel Cordier di Parigi nel 1960.
Giovane studente di filosofia a Colonia, si dedicò alla pittura dal 1912 e conobbe divenendone amico
Hans Arp. Un viaggio a Parigi poco prima del conflitto mondiale e, dopo il rientro in Germania, un secondo
nel 1920 lo mise in contatto con il nascente movimento surrealista. Sperimentò i primi frottage. Collaborò
con Paul Eluard (Les Malheeurs des immortels e Répétition). Nel 1929 pubblicò il primo dei suoi romanzi
frottage (La femme 100 tetes) e collaborò con Luis Bunuel e Salvador Dalì al film L’Age d’or. Nel 1930
realizzò Reve d'une petite fille qui voulut entrer au Carmel, mentre nel 1934 fu la volta di Una settimana
di bontà. Le tavole di questi romanzi-collages erano realizzate con collages di immagini ricavate da opere
scientifiche, enciclopedie mediche, cataloghi o racconti illustrati. I contrasti con Breton inducono Ernst
ad abbandonare il gruppo surrealista nel 1938. Nel 1941 il pittore raggiunge gli Stati Uniti dove rimane
fino al 1953. Durante questo periodo, trascorso in Arizona, Ernst lavora instancabilmente, sperimentando
nuove forme espressive, come il dripping, e realizzando importanti sculture tra le quali, Il re che gioca
con la regina del 1944. Nel 1941 si sposa con Peggy Guggenheim. Dopo essere rientrato in Europa, vince
il primo premio alla Biennale di Venezia nel 1954. Muore a Parigi nel 1976.
- Max Ernst, Verso la pubertà, 1921, collezione privata – la figura centrale è un nudo femminile che ha
cambiato posizione. È in origine una figura di donna sdraiata sul divano. La parte azzurra in alto e la
parte verde in basso ci danno l’idea di cielo e terra. Dal cielo cade un meteorite. Non è quello che
hanno i metafisici, che lavorano su oggetti disarticolati e fatti a pezzi: c’è una surrealtà, che è un parto
individuale dell’esperienza di ciascuno di noi – un esperienza del nostro inconscio, oppure stati di
alterazione del livello cosciente.
- Max Ernst, au premier mot limpide, 1923, frammento di un affresco dipinto per la casa di Paul e Gala
Èlouard, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, Düsseldorf – una mano con lunghissime dita, in cui
vi si può vedere un inguine femminile, reggono un oggetto attaccato a un filo che forma una M.
facendoci caso anche le dita formano una lettera, la x.
- Max Ernst, due bambini sono minacciati da un usignolo, 1924, MoMA (New York) – è un sogno che
ha fatto da bambino, dettato da una febbre altissima. Il cancelletto che vediamo è reale, come anche
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il campanello sul lato opposto. Vediamo una figura femminile che con un coltello sta inseguendo un
usignolo, e una figura che sta scappando con un bambino che vuole suonare il campanello.
- Max Ernst, Reve d'une petite fille qui voulut entrer au Carmel, 1930
- Max Ernst, Una settimana di bontà, 1934 – ci vediamo un’estetica ottocentesca contrapposta
all’inserimento di elementi surrealisti.
- Max Ernst, La vestizione della sposa, 1940, Peggy Guggenheim Collection (Venezia) – le figure con
grembi allungati rimanda all’iconografia fiamminga. In basso a destra una figura ibrida.
“Ogni mattina, appena prima di alzarmi, provo un sommo piacere: quello di essere Salvador Dalì.” E’ stato un
personaggio centrale e controverso del Novecento. Controverso a tal punto che a un certo punto i surrealisti
si allontanarono da lui perché lo accusarono di essersi avvicinato troppo al denaro, e diceva Bretòn che fosse
disinteressato nell’impegno sociale e politico. Il surrealismo, che deve tanto al Dada, è diverso da questo
perché teorizza e immette un meccanismo di impegno sociale. Ma in realtà Dalì, pur avendo successo,
desiderio di denaro e del mondo mondano, conservò sempre la sua libertà come artista.
Si formò in Catalogna, dove era nato, poi si trasferì per proseguire gli studi d’arte a Madrid.
Straordinariamente dotato, entrò in conflitto con il senato accademico che ritenne inadeguato a valutare uno
come lui. Stravagante nell’abbigliamento e negli atteggiamenti, visse a Madrid una stagione vivacissima per
fondamentali relazioni con, tra gli altri, Luis Buñuel e Federico Garcia Lorca. Si avvicinò al movimento DaDa e
a Parigi nel 1926 conobbe Picasso che ammirò profondamente. Nel 1929 Dalí collaborò con il regista
surrealista Luis Buñuel alla realizzazione del cortometraggio Un chien andalou. Il suo contributo principale
consistette nell'aiutare Buñuel a scrivere la sceneggiatura. Incontrò la sua musa, fonte di ispirazione e futura
moglie Gala, allora moglie del poeta surrealista Paul Eluard. Salvador Dalí affermava che era la persona che
lo aveva salvato dalla pazzia e dalla morte prematura. Infatti, dietro il suo genio artistico, si celava un uomo
turbolento, insicuro e disorganizzato, ed era Gala che agiva come il suo agente, il tramite tra il genio ed il
mondo reale. Nel fare questo ferì molte sensibilità, e venne accusata di comportarsi in maniera
estremamente utilitaristica anche per il modo in cui gestiva gli affari, certamente fruttuosi anche in vita, del
secondo marito. Sempre nel 1929 Dalí realizzò le sue mostre più importanti, e si unì ufficialmente al gruppo
dei surrealisti. Erano già due anni che il suo lavoro ne era pesantemente influenzato: i surrealisti
apprezzavano molto quello che Dalí definì il suo metodo paranoico critico per esplorare il subconscio e
raggiungere un maggior livello di creatività.
Dalí fu presentato negli Stati Uniti nel 1934 dal mercante d'arte Julian Levy. La sua esposizione di New York
creò subito scalpore e interesse. Dalí e Gala parteciparono anche ad una festa mascherata a New York,
organizzata per loro dall'ereditiera Caresse Crosby: come costume scelsero di vestirsi come il figlioletto di
Lindbergh e il suo rapitore. La conseguente reazione scandalizzata della stampa fu tale che Dalí dovette
scusarsi. Quando tornò a Parigi i surrealisti lo rimproverarono d'essersi scusato di un gesto surrealista.
Mentre la maggior parte dei surrealisti tendeva ad assumere posizioni di sinistra, Dalí si mantenne ambiguo
sul rapporto tra politica e arte. Andrè Breton lo accusò di difendere il "nuovo" e l'"irrazionale" del "fenomeno
Hitler", ma Dalí respinse queste affermazioni dicendo: "Non sono un seguace di Hitler né nei fatti né nelle
intenzioni". Al dittatore tedesco ispirò tre dipinti: L'enigma di Hitler (1939), Metamorfosi di Hitler in un
paesaggio al chiaro di luna (1958) e Hitler si masturba (1973). Dalì era sicuramente interessato a Hitler, ma
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non da un punto di vista morale, ma in quanto rappresentava un elemento davvero singolare e attore di un
capitolo davvero negativo.
Dalí insistette sul concetto che il surrealismo può esistere anche in un contesto apolitico e si rifiutò di
condannare esplicitamente il fascismo. Nel 1934, Dalí fu sottoposto a un "processo" a seguito del quale fu
formalmente espulso dal gruppo dei surrealisti. Come reazione Dalí dichiarò: "Il surrealismo sono io". Nel
1936 Dalí partecipò all'Esposizione internazionale surrealista di Londra. Tiene la sua conferenza, intitolata
Fantômes paranoïaques authentiques, vestito con tuta e casco da palombaro. Arrivò tenendo in mano una
stecca da biliardo e con due levrieri russi al guinzaglio. Si dovrà poi togliere il casco da palombaro perché
rimasto senza fiato. Commenta: "Ho solo voluto mostrare che mi stavo 'immergendo a fondo nella mente
umana." In quel periodo il principale mecenate di Dalí è il ricchissimo Edward James, che lo aiuta ad emergere
nel mondo dell'arte acquistando molte sue opere e supportandolo finanziariamente per due anni. I due
diventano buoni amici e il ritratto di James viene anche inserito da Dalí nel dipinto Cigni che riflettono
elefanti. Artista e mecenate collaborano anche nella realizzazione di due delle più celebri icone del
movimento surrealista: il Telefono aragosta e il Divano a forma di labbra di Mae West.
- Salvador Dalì travestito da palombaro per l’Esposizione Internazionale Surrealista di Londra del 1936
– si presentò alla mostra così.
Nel 1939 Breton conia per il pittore spagnolo il denigratorio soprannome di "Avida Dollars", anagramma di
Salvador Dalí che può essere tradotto come bramoso di dollari. Si tratta di un modo per deridere la crescente
commercializzazione delle opere di Dalí e la percezione che Dalí stesso abbia cercato di ingrandire la propria
figura grazie alla fama e al denaro. Alcuni surrealisti da allora in poi parlano di Dalí solo al passato remoto,
come se fosse morto. In Europa scoppia la seconda guerra mondiale e così i Dalí si trasferiscono negli Stati
Uniti, dove vivono per otto anni. Nel 1942 pubblica la propria autobiografia, La vita segreta di Salvador Dalí.
Nel 1948 visita il Parco dei mostri di Bomarzo, il quale parco ha evidenti richiami simbolico-esoterici. Dalì
ripreso dalle telecamere dell'Istituto Luce si mostra in posa davanti ai principali monumenti. A partire dal
1951 Dalí tornò a vivere in Catalogna. La scelta di vivere in Spagna mentre questa era ancora governata da
Franco gli attirò critiche da parte dei progressisti e pure da diversi altri artisti.
Nel 1954 è ospite della città di Roma dove organizza uno spettacolo facendo trasportare per le strade della
capitale un cubo pitagorico, infine con un ricevimento al palazzo Pallavicini pronuncia un discorso in latino
con cui inaugura così una sua mostra con illustrazione della Divina Commedia. Nel 1959 Andrè Breton
organizzò una mostra chiamata Omaggio al surrealismo, fatta per celebrare il quarantesimo anniversario del
movimento, che comprende anche opere di Dalí. L'anno seguente Breton si batté con forza contro
l'inserimento della Madonna Sistina di Dalí nell'Esposizione internazionale surrealista di New York. Nei suoi
ultimi anni, giovani artisti come Andy Warhol definiscono Dalí una delle più importanti influenze sulla Pop
art. Dalí si interessa molto anche di scienze naturali e di matematica. Quest'interesse si vede in diversi dei
suoi dipinti, in cui dipinge i propri soggetti come se fossero composti da corni di rinoceronte. Secondo Dalí il
corno di rinoceronte rappresenta la geometria divina perché cresce secondo una spirale logaritmica. Dalí è
affascinato anche dal DNA e dall'ipercubo (un cubo a quattro dimensioni); uno sviluppo dell'ipercubo è ben
visibile nel dipinto Crocefissione (Corpus Hypercubus). Il periodo di Dalí successivo alla seconda guerra
mondiale si caratterizza per il suo virtuosismo tecnico e per l'interesse per le illusioni ottiche, la scienza e la
religione. La sua devozione per la religione cattolica aumenta e, allo stesso tempo, rimane profondamente
impressionato da quanto successo ad Hiroshima e dalla nascita dell'"era atomica". Nel 1960 Dalí iniziò a
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lavorare al Teatro Museo Dalì nella sua cittadina natale di Figueres. Nel 1980 la salute di Dalí riceve un colpo
durissimo; la moglie Gala gli somministrò per errore un pericoloso cocktail di medicinali senza che gli fossero
prescritti, danneggiandogli il sistema nervoso e provocando la precoce fine delle sue capacità artistiche. La
moglie Gala morì il 10 giugno 1982. Dopo la sua morte, perse la maggior parte della voglia di vivere. Morì il
23 gennaio del 1989.
- Salvador Dalì, La persistenza della memoria, 1931, MoMA (New York) – gioca con gli orologi che si
sciolgono. Evidentemente lavora sul tempo, una dimensione su cui noi non possiamo agire. La figura
su cui si adagia l’orologio è un profilo con un occhio chiuso. Quando noi sogniamo, infatti, noi
alteriamo la linearità del tempo: quando sogniamo non seguiamo una logica. E così l’orologio diventa
un oggetto gommoso, che si adatta alla superficie su cui si adagia. Ci sono due elementi ossessivi che
Dalì è solito mettere nelle sue opere: una è l’orologio, l’altra è il tempo.
Durante l’intera giornata, seduto davanti al cavalletto, fissavo la tela come un medium per vederne sorgere
gli elementi della mia immaginazione. Quando le immagini si collocavano esattamente nel quadro, io le
dipingevo immediatamente a caldo. Ma, a volte, dovevo aspettare delle ore e restare in ozio con il pennello
immobile in mano prima di veder nascere qualcosa.
- Studio per la venere a cassetti, 1936, collezione privata – ci sono due movimenti che precedono il
surrealismo: il Dada, che vede oggetti nonsense, e la Metafisica, che si gioca tutta sul filo della
memoria e della razionalità, e non al sogno. La Venere a cassetti potrebbe essere sicuramente un
oggetto DaDa se trasposta materialmente.
- Salvador Dalì, La venere a cassetti, 1936, collezione privata
- Salvador Dalì, Costruzione molle con fave bollite: presagio di guerra civile, 1936, Museum of Art
(Philadelphia) – affronta lo stesso tema della Guernica di Picasso.
- Salvador Dalì, Apparizione di un volto e di una fruttiera sulla spiaggia, 1938, Museum of Art di
Hartford (Connecticut)
- Salvador Dalì, L’enigma Hitler, 1939, Museo Reina Sofia (Madrid) – fa riferimento a una conferenza
in cui si discusse l’annessione dei Sudeti, e fu il primo tentativo da parte di Hitler di ampliare il suo
controllo territoriale. La regione per Hitler era estremamente importante per la presenza di miniere.
Hitler in questa conferenza voleva l’approvazione degli stati europei. Chamberlain, che in questo caso
è rappresentato dall’ombrello (poiché in Inghilterra piove sempre) si fece accondiscendente a Hitler,
fidando anche della mediazione di mussolini che in quel momento aveva la fiducia anche di
Inghilterra e Francia. Quella conferenza fu completamente inutile e di fatto preparò la Seconda
guerra mondiale, come disse Churchill che entrò in collisione con Chamberlain. Un’opera molto
chiara, anche se di matrice surrealista. Deduciamo quindi che quello che aveva detto Bretòn poteva
funzionare nell’ambito surrealista, ma non nell’ambito di impegno sociale e di accusa
sull’attaccamento di Dalì a Hitler.
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- Francisco de Zurbaran, Crocefissione, 1650, Museo del Prado (Madrid) – una delle possibili influenze
iconografiche, capolavoro della cultura barocca che si trova a Madrid.
Nato a Barcellona dove compì i primi studi, si trasferì a Parigi nel 1920 dove frequentò il circolo DaDa di
Tristan Tzara e conobbe Picasso. Nel 1926 collaborò con Max Ernst per la scenografia di Romeo e Giulietta e
realizzò il celebre Nudo. L'anno successivo, dopo la morte del padre, Miró si trasferì alla Cité des Fusains ed
ebbe come vicini, oltre ad Ernst, anche Jean Arp e Pierre Bonnard. Sempre a Parigi, nel 1928, la sua
esposizione nella galleria Georges Bernheim lo rese famoso. Iniziò in questi anni la sperimentazione artistica
di Miró, che si cimentò con le litografie, l'acquaforte e la scultura, nonché con la pittura su carta catramata e
vetro, e con il grattage. Con lo scoppio della guerra civile spagnola tornò a Parigi, dove si dedicò a raccogliere
fondi a favore della causa repubblicana, ma fece ritorno in Spagna al momento dell'invasione nazista della
Francia. Da questo momento visse stabilmente a Maiorca o a Montroig. Miró fu uno dei più radicali teorici
del surrealismo, al punto che André Breton, fondatore di questa corrente artistica, lo descrisse come “il più
surrealista di noi tutti”. Tornato nella casa di famiglia, Miró sviluppò uno stile surrealista sempre più marcato;
in numerosi scritti e interviste espresse il suo disprezzo per la pittura convenzionale. Nel 1954 Miró vinse il
premio per la grafica alla Biennale di Venezia e nel 1958 il Premio Internazionale Guggenheim. In questi anni
fece molti viaggi ed esposizioni negli Stati Uniti. Fin dal 1956 si stabilì definitivamente a Palma di Maiorca. In
età avanzata Miró accelerò il suo lavoro, creando ad esempio centinaia di ceramiche, tra cui i Murales del
Sole e della Luna presso l'edificio dell'UNESCO a Parigi. Joan Miró morì a Maiorca all'età di 90 anni e venne
sepolto a Barcellona.
- Joan Mirò, Nudo con specchio, 1919, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen (Dusserdolf) – opera di
esordio vicina alla frammentazione e alla scomposizione cubista.
- Joan Mirò, Montroig, la chiesa e il paese, 1919, collezione Mirò de Punyet
- Pierre Bonnard, Paradiso terrestre, 1920, Art Institute (Chicago)
- Joan Mirò, Il carnevale di Arlecchino, 1924-25, Albright-Knox Art Gallery di Buffalo
- Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, 1490-1500, Museo del Prado (Madrid) – è una possibile
opera riconducibile al quadro di Mirò.
- Joan Mirò, collage, 1929, Centre Pompidou (Paris) – la tecnica surrealista non vede solo la pittura,
ma è attratta da ogni forma di aggregazione quanto più possibile meccanica. E’ come se la mano
dell’artista nel comporre come nel dipingere fosse guidata dall’inconscio.
- Joan Mirò, La scala dell’evasione (costellazioni), 1940, MoMA (New York) – Costellazioni è una serie
di lavori che hanno lo stesso titolo.
- Joan Mirò, Blu III, 1961, Centre Pompidou (Paris) – forme biomorfe galleggiano nell’immacolato blu.
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Dei surrealisti è quello più vicino ai metafisici. Nacque in Belgio, a Bruxelles. Dopo gli studi classici, si volse
alla pittura e si iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Bruxelles. I suoi inizi di pittore si muovono nell'ambito
delle avanguardie del Novecento, assimilando influenze dal cubismo e dal futurismo. Secondo quanto
affermato da lui stesso, la svolta surrealista avviene con la scoperta dell'opera di Giorgio de Chirico, in
particolare dalla visione del quadro Canto d’amore, nel quale compaiono, sul fianco di un edificio, un calco
della testa dell'Apollo del Belvedere, un gigantesco guanto in lattice da chirurgo e una palla. Fu proprio
l’ideale dell'artista intento a dipingere semplicemente ciò che vede, che lo portò sempre più verso la
sperimentazione, e nel 1925 all'adesione al gruppo surrealista di Bruxelles, e a dipingere il suo primo quadro
surrealista, Le Jockey perdu (Il fantino perduto), mentre lavora a diversi disegni pubblicitari. Magritte si rende
conto che quello che dipinge non è la realtà bensì ne sta creando una nuova, come avviene nei sogni; cerca
così di creare qualcosa più reale della stessa realtà. Nel 1926 prende contatto con Andrè Breton, leader del
movimento surrealista, l'anno successivo si tiene la sua prima mostra personale, presso la galleria Le
Centaure di Bruxelles, nella quale Magritte espone ben sessanta opere; successivamente si trasferisce con la
moglie a Perreux-sur-Marne, nei pressi di Parigi nel 1927.
- Giorgio de Chirico, Il canto d’amore, 1914, MoMA (New York) – questa fu per Magritte l’opera
rivelazione. Questa ricomposizione senza memoria di oggetti della memoria, come se la collana della
memoria di fosse rotta, affascinò tantissimo l’artista. Da qui Magritte si avvicinerà sempre più alla
metafisica, ma rimase con le radici nel surrealismo e nell’inconscio.
Nel 1930, dopo l'esperienza parigina, Magritte decise di tornare a Bruxelles. Si trasferì con la moglie al 135
della rue Esseghem di Jette (nel nord di Bruxelles), in cui Magritte visse il suo periodo più prospero per 24
anni e creando circa la metà di tutte le sue opere. Inoltre è qui che si svilupparono i più importanti momenti
del surrealismo belga, poiché l'appartamento di Magritte fungeva da punto d'incontro del gruppo surrealista
bruxellese e fu anche il teatro di numerosi eventi (feste in maschera). Dal 1999 questo appartamento è stato
trasformato nella casa museo dedicata al celebre artista belga. Nel 1940, per timore dell'occupazione
tedesca, si trasferì con la moglie nel sud della Francia. In questi anni sperimenta un nuovo stile pittorico,
detto alla Renoir o solare, che porta avanti sino al 1947. Dopo un ultimo lungo viaggio fra Cannes,
Montecatini e Milano, avvenuto nel 1966, muore il 15 agosto del 1967 a Bruxelles. Magritte è l'artista
surrealista che gioca con spostamenti del senso utilizzando sia accostamenti inconsueti sia deformazioni
irreali. Del tutto estraneo al suo metodo è l'automatismo psichico: la sua pittura non vuole far emergere
l'inconscio dell'uomo, bensì valorizzare oggetti usuali i quali decontestualizzati appaiono inusuali, estranei
all'esperienza. Questo il tema attraverso il quale lo stile svela tratti affini alla Metafisica: il suo periodo
surrealista ha inizio con la scoperta delle opere di de Chirico. Da qui il bisogno di creare universi fantastici e
misteriosi e pitture sulla natura basate su contenuti apparentemente indecifrabili ed enigmatici. I suoi quadri
suggeriscono uno stile da illustratore, e conservano volutamente un aspetto pittorico, senza alcuna ricerca
di illusionismo fotografico. In questo si ravvisa una delle costanti poetiche di Magritte: tradurre in immagine
l'insanabile distanza che separa la realtà dalla rappresentazione. Il surrealismo scaturisce a volte esattamente
dal cortocircuito che egli opera tra i due termini. In altri quadri invece il rapporto tra immagine naturalistica
e realtà si svolge in soluzioni pittoriche dove il quadro nel quadro ha identico aspetto della realtà che
rappresenta, al punto da confondersi in essa.
- René Magritte, Il tradimento delle immagini, 1928-29, County Museum of Art (Los Angeles) – non è
una pipa, ma la rappresentazione di una pipa. Va ad affondare le mani nel grande dibattito che è di
tutte le avanguardie sul senso della rappresentazione. Questa è l’estrema critica al senso della
rappresentazione: le immagini ci vanno a tradire.
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- René Magritte, l’impero delle luci, 1954, Musées Royaux des Beaux Art (Bruxelles) – metafisicamente
vediamo una casa illuminata, ma senza porta. Se fossimo in un ambito surrealista si tratta di
un’immagine onirica che non deve avere alcuna spiegazione razionale.
- René Magritte, Le grazie naturali, 1963, collezione privata (Bruxelles)
E’ un surrealista sui generis, sicuramente non un surrealista del manifesto di Bretòn. Nacque a Borgonovo di
Stampa nel Cantone dei Grigioni in Svizzera, il 10 ottobre 1901. Dopo gli studi di arte a Ginevra, nel 1920
compì un importante viaggio in Italia rimanendo impressionato dalla pittura di Giotto: «la cui forza mi si
imponeva irresistibilmente, ero annientato da quelle figure immutabili, dense come basalto, dai gesti
misurati ed esatti, gravi d’espressione e sovente d’infinita tenerezza». Ancora in Italia alla fine del medesimo
anno soggiornò a Firenze e a Roma. Dopo aver sperimentato la pittura decise di farsi scultore e nel 1922 si
trasferì a Parigi dove frequentò i corsi di scultura di Émile-Antoine Bourdelle. Nel 1928 Giacometti entrò a far
parte del gruppo surrealista (con cui ruppe nel 1935, pur partecipando alle mostre fino al 1938). La sua opera
degli anni successivi tende a chiudere la parentesi surrealista. Nel decennio successivo lavora appartato
occupandosi prevalentemente di scultura. Il suo interesse si spostò dal mito e dal sogno all'osservazione
diretta della realtà, che si accompagna a una più consapevole preoccupazione per i materiali e le tecniche e
implica una notevole trasformazione stilistica che lo conduce ad una sorta di naturismo schematico. Dopo
il secondo conflitto mondiale riprese a dipingere e disegnare intensamente, continuando a lavorare dal vero.
I temi preferiti, pochi e di continuo rivisitati, sono i familiari (la madre e il fratello Diego), gli oggetti che lo
circondano, paesaggi visti e vissuti. Le figure sono fisse, immobili, rigidamente frontali: la cornice che
Giacometti costruisce attorno ad esse ha la funzione di allontanarle isolandole dallo spazio, creando attorno
ad esse vuoto. È vicino alle problematiche esistenzialista; non a caso della sua pittura è stato interprete
attento Sartre, che ne ha colto i riferimenti all'inaccessibilità degli oggetti e delle distanze esistenti tra gli
uomini. Lo strumento stilistico scelto per tradurre in immagini le apparenze della realtà visibile è, in pittura,
un segno che si infittisce e si dirada per esprimere la trama di relazioni degli oggetti fra loro e con loro nello
spazio circostante, mentre in scultura grumi di materia apparentemente informi si coagulano lungo
fondamentali linee di forza. La sua vita si è costruisce quindi da una parte con la conoscenza di grandi persone
colte e intellettuali del tempo, dall’altra in una vita solitaria nel suo umile studio, che mai abbandonerà.
Giacometti morì a Parigi l’11 gennaio del 1966.
Gli esordi alla scultura di Giacometti appartengono alla sfera della riduzione astratta della figura e lo scultore
dichiara l’impossibilità di scolpire semplicemente ciò che si palesa ai suoi sensi. Alla vista subentra il processo
della creazione a memoria, constatata l’impossibilità di cogliere l’insieme e i particolari della figura, soltanto
la memoria potrà ricostituire l’insieme e la scultura diviene sempre più sintetica. La memoria è l’elemento
guida del percorso di scultore di Giacometti, poiché solo attraverso la memoria lui ritiene di assemblare le
figure che altrimenti gli sembrano frammentate. Giacometti non riesce a vedere un uomo intero, nella sua
integrità di essere umano. All’inizio è profondamente influenzato, nella seconda metà degli anni venti,
dall’arte africana, cicladica o primitiva giunge alla rarefazione dell’immagine: «quel che veramente provavo
si riduceva a una piastra posta in un certo modo nello spazio e in cui c’erano due fessure, che costituivano in
un certo modo la verticale e la verticale di ogni figura». Nel 1930 espose a Parigi Testa che guarda e Sfera
sospesa assieme ad opere di Mirò e di Jean Arp suscitando l’attenzione di Dalì.
- Alberto Giacometti, Donna cucchiaio, 1926, Kunsthaus (Zurigo) – si ispira a un cucchiaio rituale
africano. La parte del cucchiaio per Giacometti diventa il ventre di una donna, che lui può percepire
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nella sua interezza – in questo momento si incentra sul ventre, simbolo della sua fertilità. Il rapporto
con le donne è stato particolare per Giacometti, da una parte misogino dall’altra profondamente
attratto dall’altro sesso.
- Alberto Giacometti, Uomo e Donna, 1926
- Alberto Giacometti, Testa che guarda, 1928, Kunsthaus (Zurigo)
- Alberto Giacometti, Testa sospesa, 1930, Kunsthaus (Zurigo) – inserisce il tema della gabbia: l’uomo
è come in una gabbia che non gli permette di uscire. Quell’inconscio che è stato segno della nostra
esperienza umana del mondo non riesce a uscire e ad entrare in contatto con gli altri esseri umani. Il
destino dell’inconscio nel mondo non c’è secondo Giacometti – la traccia della nostra vita è una
traccia assurda – non sappiamo perché siamo al mondo, non siamo in grado di comunicare col
prossimo e non sappiamo come andrà a finire. La testa sospesa è una scultura che si muove. Il tema
del movimento scultoreo verrà ripreso da Calder.
- Alexander Calder (1898-1976), Ragno, 1939, MoMA (New York)
Nel 1932 tenne la prima mostra personale, esponendo tra l’altro Punta nell’occhio con le fotografie di Man
Ray. Le successive Tavolo surrealista e Mani che afferrano il vuoto del 1933 sono l’una il punto di arrivo e
messa in crisi della ricerca giacomettiana in ambito surrealista e l’altra l’inizio di una nuova esperienza in
scultura: «Ricominciare a lavorare in modo assolutamente indipendente senza controllo, libertà totale, e
unicamente quel che mi attira, quel che mi piace, in tutti i campi». «Spingersi oltre, ricominciare tutto,
sculture, disegni, scrittura».
- Alberto Giacometti, Punta nell’occhio, 1932, Centre Pompidou (Paris) – è l’ultima opera di Giacometti
che si ritiene appartenere al surrealismo.
- Luis Bunuel (Dalì), Le chien andalou, fotogramma, 1929 – preso dal film surrealista al quale aveva
lavorato Dalì.
- Man Ray, Alberto Giacometti, mostra surrealista del 1932 – foto della mostra a cui partecipò
Giacometti.
- Alberto Giacometti, tavolo surrealista, 1933, Centre Pompidou (Paris) – composizione onirica.
- Alberto Giacometti, L’oggetto invisibile (mani che afferrano il vuoto), 1934, MoMA (New York) – è il
cambio di rotta: sulla base di un ritorno all’arte statuaria africana vuole riniziare da capo. Ricomincia
dalla percezione fisica delle cose. Ha in mente Cimabue, Maestà di Parigi, 1280, Louvre (Paris). Nel
mistero dell’essere madre Maria tiene in braccio Dio, non un bambino proveniente da lei in toto –
tiene quindi il vuoto.
«Tra i surrealisti e me c’è stato un malinteso, hanno considerato le mie scultura come un punto d’arrivo; ora,
per me, esse erano solo un momento di passaggio […] mi trovavo in un vicolo cieco».
«Atterrito, erano somiglianti soltanto se piccole, e tuttavia trovavo disgustosa la loro piccolezza, e
instancabilmente ricominciavo per ritrovarmi, mesi dopo, al medesimo punto. Una figura grande era per me
falsa e una piccola ugualmente intollerabile, e poi divenivano così minuscole che con un ultimo colpo di
temperino spesso sparivano per sempre nella polvere». Quando si trova a dover riniziare da capo, perché gli
era parsa quella una solta di facile scorciatoia, Giacometti non trova più la misura. Secondo lui non aveva più
senso fare sculture piccole o grandi. Diminuendo sempre più le sculture in grandezza prova a cogliere
l’integrità umana.
- Alberto Giacometti, il Naso, 1947, Kunsthaus (Zurigo) – dopo una lunga pausa, vediamo un’opera
seguente alla guerra. Il teschio che si evince da questa scultura si rifà a episodi propri della sua vita.
Una fu la perdita di un suo amico. L’altra fu il pensiero che il teschio è una sorta di straordinario
meccanismo quale lo scheletro, l’impalcatura entro la quale abita la nostra essenza umana. Il naso
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rompe la gabbia, entro la quale noi siamo imprigionati. Un naso che, non si sa come, cresce su un
teschio e buca la gabbia: per Giacometti tutto sommato si può ricominciare e cercare di afferrare
l’integrità umana. Quest’opera è certamente una possibilità di andare avanti, a seguito di un forte
baratro che nel 1947 era appena concluso. Questa spada, questa lancia, rappresenta un tentativo di
andare oltre e di rappresentare l’uomo non come parti incollegabili, ma come una volontà di
interezza.
- Alberto Giacometti, La mano, 1947, Kunsthaus (Zurigo) – sono le grandi prove di ricomporre l’essere
umano.
«Come faccio a rendere quell’uomo coi pantaloni blu che sta camminando sul marciapiede di fronte? Fargli
una testa, degli occhi, delle scarpe, una giacca è falso. Tutto ciò non è stato affatto visto, e invece l’occhio ha
registrato una vaga macchia blu in movimento. È questa, che bisogna rendere, e a dieci metri di distanza.
Bisogna che, a scultura finita, si abbia la sensazione che si trovi a dieci metri e che stia camminando».
- Alberto Giacometti, L’uomo che cammina, 1947, Kunsthaus (Zurigo) – è riuscito a ricomporre l’uomo,
importante nella sua fisicità e interezza. Lo ha scarnificato, ridotto a una struttura semplificata ma
che comunque ci fa capire di cosa si tratta. (riferimento a Ombra della Sera dell’arte etrusca)
- Alberto Giacometti, Donna seduta, 1950, Centre Pompidou (Paris) – gambe e sgabello formano la
medesima cosa.
«La scultura riposa nel vuoto. È nello spazio che scaviamo per costruire l’oggetto, e a sua volta l’oggetto
finisce col creare uno spazio. Ed è sempre lo spazio che si trova fra il soggetto e lo scultore.» Giacometti,
1952. La donna seduta, ad esempio, è tanto volume quanto spazio.
- Alberto Giacometti, Uomo che cammina II, 1960, Fondazione Beyeler (Basilea)
Jean Genet: «Tranne i suoi uomini in cammino, tutte le statue di Giacometti , hanno i piedi come presi in un
solo blocco inclinato , molto spesso, che assomiglia abbastanza ad un piedistallo. A cominciare da lì, il corpo
sostiene molto lontano, molto in alto, una testa minuscola. Questa massa di gesso e di bronzo, enorme in
proporzione alla testa, potrebbe lasciar credere che questi piedi sono carichi di tutta la materialità di cui si
sbarazza la testa […] Niente affatto; fra questi piedi massicci e la testa ha luogo uno scambio incessante.
Queste signore non si divelgono da un fango pesante: al crepuscolo discendono, scivolando, un pendio
annegato nell’ombra».
- Henri Cartier Bresson, Giacometti, 1961 – le ultime sculture di Giacometti sono molto alte: è
finalmente riuscito a trovare un equilibro tra piccolo e grande e comunque presentarci l’interezza
umana.
«Se il mio sguardo sottrae il viso a tutto ciò che lo circonda, se il mio sguardo impedisce a questo viso di
confondersi con il resto del mondo, sfumando all’infinito, in significati sempre più vaghi, fuori da se stesso, e
se invece si produce questa solitudine che permette al mio sguardo di ritagliarlo dal mondo, ciò che, alla fine,
affluirà o si concentrerà in questo viso sarà solo il suo significato. Voglio dire che la conoscenza di un viso, se
vuole essere estetica, deve rifiutarsi di essere storica». Jean Genet
Siamo sempre nel surrealismo ma nella sua seconda generazione, un po' come per Giacometti.
- Francis Bacon, Tre studi per figure alla base di una crocefissione, 1944, Tate Gallery (London) – in
queste predelle Bacon immagina personaggi tratti da un sogno o un immaginario comunque surreale
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e mostruoso. E’ come se, ritornando alla gabbia di Giacometti, le pulsioni intime dell’essere umano,
gravide di terrore, fossero intrappolate in mostri tremendi.
«Non tenevo più a niente, in un certo senso, ero calmo. Ma era una calma orribile, a causa del mio corpo: il
mio corpo, io vedevo coi suoi occhi, udivo con le sue orecchie, ma non era più me; sudava e tremava da solo,
e non lo riconoscevo più» Jean Paul Sartre, Le mur, in Le mur, 1939
«Un giorno i suoi tratti [di Pietro] si altererebbero, egli lascerebbe pendere la mascella e aprirebbe solo a
metà i due occhi lagrimosi. Eva si chinò sulla mano di Pietro e vi posò le labbra: "Ti ucciderò prima".» Jean-
Paul Sartre, La Chambre, in Le mur, 1939
- Francis Bacon, Ritratto di Innocenzo X da Velàzquez, 1953, Des Moines Art Center (Des Moines) – ne
ha fatto più di cinquanta elaborazioni.
- Diego Velàzquez, Innocenzo X, 1650, Galleria Dora Pamphilj (Roma)
- Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, La corazzata Potemkin, 1925 – si ispira a Velazquez ma sicuramente
anche a questo film.
«Mi chiamo Louise Josephine Bourgeois. Sono nata il 24 Dicembre a Parigi. Tutto il mio lavoro degli ultimi
cinquant’anni, tutti i miei soggetti hanno tratto ispirazione dalla mia infanzia. La mia infanzia non ha mai
perso la sua magia, non ha mai perso il suo mistero e non ha mai perso il suo dramma». Proprio per Freud,
ricollegandoci a ciò che ha scatenato il surrealismo, nel corso dell'infanzia si sviluppano le strutture
fondamentali della personalità.
I suoi genitori, Josephine Fauriaux e Louis Bourgeois, restauravano arazzi. Il suo carattere orientato al rigore
e all’ordine la orienta verso la facoltà di matematica, che abbandona dopo qualche tempo – sembrandole
troppo teorica – per iscriversi all’Acadèmie des Beaux-Arts. In seguito frequenta l’Atelier di Fernand Léger,
avvicinandosi alle poetiche surrealiste.
Nel 1938 si trasferisce negli Stati Uniti. Qui frequenta l’ambiente
artistico internazionale e in particolar modo Duchamp, Le Corbusier e A. Ozefant. Nel 1945 si tiene la sua
prima mostra di pittura alla Berta Schaefer Gallery di New York e nel 1947 realizza una serie di nove incisioni
dal titolo He disappeared Into complete silence.
Nel 1949 mostra i primi esempi delle sue opere
tridimensionali alla Peridot Gallery, abbandonando la pittura per la scultura.
Dopo essersi trasferita negli Stati Uniti nel 1928, nel 1951 diventa cittadina americana. Negli anni Cinquanta
e Sessanta sperimenta un’infinità di materiali e di ipotesi, mette in discussione le leggi della geometria,
distrugge e ricostruisce, leviga e cuce – «un cesello appuntito […] consente gli estremi della tenerezza e
dell’aggressività». Affronta diversi materiali: gesso, cemento, caucciù, marmo e bronzo. Tra il 1960 e il 1964
realizza una serie di formazioni in gesso esposte alla Stable Gallery di New York dal titolo Lair (tana). Nel
1968 realizza Fillette (Ragazzina), la scultura sospesa che poi terrà sottobraccio nel bellissimo ritratto
fotografico di Robert Mapplethorpe del 1982.
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- Louise Bourgeois, Fillette, 1968, MoMA (New York) – è in modo evidente un organo sessuale
maschile. Sempre secondo una visione Freudiana, lei amava profondamente il padre, ma ebbe
relazione extraconiugali in presenza della figlia, che la madre invece di rifiutare assorbì per
mantenere integra la famiglia, secondo la visione tradizionale. Questa per la Bourgeois è una traccia
che ha piegato che ha tormentato la sua vita e il suo rapporto con gli uomini.
- Robert Mapplethorpe, Louise Bourgeois, 1982
Nel 1974 realizza The Destruction of the Father, un’opera cruenta e significativa che dà il titolo a una sua
raccolta di scritti. Usa pezzi di carne macellata – pezzi di agnello, pezzi di pollo – che immerge nel gesso e nel
lattice per rappresentare un banchetto cannibale e vendicatore. La Bourgeois spiega: «più mio padre si
pavoneggiava, più noi ci sentivamo insignificanti. Improvvisamente si creava una tensione terribile, e noi lo
afferravamo – mio fratello, mia sorella, mia madre e io, […] lo trascinavamo sul tavolo e gli strappavamo le
gambe e le braccia – lo smembravamo. […] Fantasie, ma talvolta la fantasia è vissuto». Torna in quest’opera
l’eco delle vicende vissute in famiglia. L’amatissimo padre, infatti, stabilisce una relazione speciale con la tata
assunta proprio per allevare Louise e i suoi fratelli. La madre, nerbo dell’attività familiare, fa finta di niente,
portando avanti un ménage familiare doloroso, soprattutto per Louise che non perdonò mai suo padre per
quella rottura dell’incanto infantile. Il mito classico per la Bourgeois era fortemente presente, quello del
padre che viene fatto a pezzi e i cui pezzi fertilizzano la terra: un contatto fortissimo tra morte e vita.
- Louise Bourgeois, The destruction of the father, 1974, MOCA (Los Angeles)
Nel 1982, il MoMA di New York organizza una sua grande retrospettiva consacrando Louise Bourgeois in
campo internazionale: è la prima personale che il museo abbia mai dedicato a una donna, e il numero e la
natura delle opere esposte sono impressionanti. I temi delle sue sculture sono sempre gli stessi: l’infanzia in
Francia, le amanti del padre, la madre e lei bambina impegnate nel restauro di arazzi antichi, le tecniche e i
materiali, gli istinti distruttivi, la sublimazione, la paura, l’essere artista, il processo di creazione, lo specchio,
il ragno, l’amore e l’erotismo.
- Louise Bourgeois, Femme Maison, 1947, Tate Gallery (London) – “La donna casa”. La figura della
donna si trasforma in casa, un’allusione alla madre che ha snaturato la sua forma per trasformarsi in
casa, che accoglie.
- Louise Bourgeois, Femme Maison, 1984, Spencer Museum of Art, The University of Kansas
(Lawrence)
- Louise Bourgeois, Femme Maison, 1994, The Easton Foundation/VAGA at ARS (New York) – la donna
qui è evidentemente in stato interessante.
- Louise Bourgeois, Femme Maison, 2004, The Easton Foundation/VAGA at ARS (New York) – il
materiale utilizzato qui è tessile (feltro).
- Louise Bourgeois, Cella (occhi e specchio), 1989-1993, Tate Modern (London)- ritornano le gabbie di
Giacometti: celle nelle quali sono custoditi nostri frammenti. Giacometti sottolinea l’impossibilità di
uscirne, Louise la vede come un rifugio per le componenti più intime della nostra vita.
- Louise Bourgeois, Cella Ragno, 1997, MoMA (New York) – il ragno è una creatura femminile: tesse
immense tele che sono prigione, rifugio, gabbia, avviluppamento.
L’Europa si costella di Spiders, giganteschi ragni d’acciaio installati in diverse città, come il Centre Pompidou
di Parigi, e che la stessa artista paragona alla madre, perché il ragno è un animale che va a intrappolarsi negli
angoli, dove trova sicurezza. Ma lei non è intrappolata, anzi, cerca di intrappolare gli altri. «Vengo da una
famiglia in cui si riparavano i tessuti. Il ragno ripara la sua tela. Se tu distruggi la sua opera, il ragno si mette
all’opera e la ricostruisce»; la serie dei tredici Handkechiefs, ovvero fazzoletti che fanno parte del suo corredo
personale e sono stati liricamente rivisitati con disegni, cuciture, applicazioni di piccoli oggetti.
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- Louise Bourgeois, La parola pietà mi ha calmato, 2002, MoMA (New York) – affida al tessuto,
nuovamente, messaggi intimi.
POP ART
Siamo soliti pensare che la Pop Art sia prettamente statunitense, ma in realtà nacque a Londra. Londra
esprime una centralità per la cultura degli anni 50 e 60. La cultura pop non riguarda solo l’arte visiva, ma
anche quella musicale e teatrale. I Beatles, i Rolling Stones nascono proprio nei pressi di Londra proprio
perché c’è un clima davvero produttivo e nuovo.
L’atto di nascita della Pop Art coincide con la mostra This is Tomorrow alla Whitechapel Gallery di Londra del
1956. Il termine Pop art era stato coniato due anni prima dal critico inglese Lawrence Halloway e
successivamente dal pittore Richard Hamilton, che della mostra londinese fu il principale protagonista.
Hamilton aveva del resto ben chiarito le caratteristiche salienti dell’estetica pop: massificata, transitoria,
facile, seriale, ingegnosa, sexy, suggestiva, commerciale. L’opera Just What Is It That Makes Today’s Homes
So Different, So Appealing? (Ma cosa rende le case oggi così diverse, così attraenti?) suscitò un ampio
dibattito. Tra i precursori citiamo anche Eduardo Paolozzi e David Hockney.
Nato a Londra, conobbe il successo con la mostra This is Tomorrow. Nel 1962 si recò negli Stati Uniti, dove,
oltre ad incontrare altri grandi esponenti della Pop Art, fece amicizia con Marcel Duchamp. Il ‘62 è un anno
veramente fondamentale perché vede mostre concatenate che definirono ancor meglio l’ambito pop. La pop
senza il grande mercato americano, i grandi galleristi, che fecero da megafono rumorosissimo per questa
nuova tendenza visiva, non avrebbe avuto il risuono con cui ancora oggi facciamo i conti. Pensiamo che siamo
anche in contemporanea con l’informale, che fa del silenzio la sua sigla. Per conto in concomitanza la Pop è
rumorosa, starnazzante, colorata. Sono facce della stessa medaglia. Da questo incontro Hamilton curò la
prima, retrospettiva britannica sull'opera di Duchamp. La mostra si tenne alla Tate Gallery nel 1966. Dalla
metà degli anni '60 Hamilton espose alla Invicta Gallery e produsse anche una serie di stampe intitolate
Swingeing London basate sull'arresto di Mick Jagger per possesso di droga. Questo collegamento con la scena
musicale pop degli anni '60 proseguì nell'amicizia con Paul McCartney, che portò Hamilton a progettare la
grafica del White Album dei Beatles. Del resto il bianco assoluto risale anche all’infomale e come abbiamo
detto il movimento è contemporaneo a questi anni. Hamilton è come se, con l’ideazione visiva di questo
album, avesse cucito insieme l’informale e il pop. Negli anni settanta Richard Hamilton godette di un successo
internazionale con un numerose esposizioni. Nel 1981 cominciò a lavorare su una trilogia di dipinti basati sui
conflitti in Irlanda del Nord dopo aver visto un documentario televisivo sulla protesta organizzata dai
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prigionieri dell'IRA nella prigione di Longcech. The Citizen del 1981/1983 mostra un dimostrante sporco, con
lunghi capelli e con una barba sistemata in modo tale da farlo assomigliare ad un martire cristiano. The
Subject del 1988/1989 rappresenta un "Orangeman", cioè un membro dell'ordine fondato nell'Irlanda del
Nord per la tutela dell'ascendenza politica e religiosa del protestantesimo. The State del 1993 ritrae un
soldato britannico impegnato in un pattugliamento solitario lungo una strada. Nel 1993 Hamilton
rappresentò la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia e fu premiato con il Leone d'Oro.
- Poster della mostra This is tomorrow del 1956 alla White Chapel Gallery
- Richard Hamilton, Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing? (Ma cos’è che
rende le case di oggi così diverse, così attraenti?), 1956, Kunsthalle (Tubingen) – In questa opera
vediamo tutti gli elementi banali della cultura pop – è una sorta di collage di banalità e ovvietà, come
se fosse lo specchio di quello che ciascuno di noi vorrebbe essere nella propria vita. Ecco che se siamo
uomini desideriamo essere muscolosissimi, contornati da oggetti che sono la proiezioni dei nostri
desideri. La guerra è finita da 11 anni: la nuova cultura pop si è insinuata ma c’è già una critica terribile
a questo nuovo modo di vivere.
- Richard Hamilton, Swingeing London, 1968-69, Tate Gallery (London)
- Richard Hamilton, Swingeing London, 1968-69, Tate Gallery (London) – Denuncia l’eccesso di pena
della star della musica Pop. Alla fine degli anni ’60 si stava parlando della legalizzazione della droga e
Hamilton critica così la prassi comune.
- Richard Hamilton, White album, 1968-9 – all’interno vediamo i ritratti dei quattro musicisti. Questo
venne a seguire il precedente album che era più colorato di quanto si potesse immaginare.
- Richard Hamilton, The Citizen, 1981-3, Tate Gallery (London) – è una critica alla violenza militare e
guerrigliere contro l’Irlanda da parte dell’Inghilterra. L’uomo raffigurato ricorda iconograficamente
Cristo, anche in segno della posizione di Hamilton riguardo alla guerra.
- Richard Hamilton, The Subject, 1988-90, Tate Gallery (London)
- Richard Hamilton, The State, 1993, Tate Gallery (London)
Il gruppo degli anticipatori inglesi annovera questo artista, che nonostante il nome è inglese. Nato a
Edinburgo nel 1924, e completata la propria formazione, dopo la prima mostra londinese, nel 1947 si recò a
Parigi, dove conobbe Jean Arp, Constantin Brancusi, Georges Braque, Alberto Giacometti, Fernand Léger e
Tristan Tzara. Le prime sculture e i primi collages sono vicini sia ai surrealisti che all’Art Brut di Dubuffet. A
Londra fondò il Gruppo Indipendente (1952-55) e lavorò su temi tratti dalla cultura contemporanea e dalla
fantascienza. Nel 1953 organizzò con Nigel Henderson la mostra Parallel of Life and Art all’Institute of
Contemporary Arts di Londra. Sperimentò in quest’occasione la sovrapposizione di icone della cultura pop a
opere di maestri contemporanei, da Klee a Dubuffet, anticipando in tal modo molte delle soluzioni che
saranno proprie della Pop Art. Tra il 1960 e il 1970 la sua ricerca lo condusse a contaminare elementi tratti
dalla cultura contemporanea sino a costruire sculture di grande dimensione con procedimenti industriali.
Furono gli anni delle installazioni pubbliche (nella Tottenham Court Road di Londra) e Piscator (1980),
collocata all’esterno della Euston Road Station. Nel 1960 espose nel padiglione inglese alla Biennale di
Venezia e successivamente al MoMA (1964), alla Tate Gallery di Londra (1971) e alla Royal Scottish Academy
di Edinburgo (1984). Nel 1999 la Scottish National Gallery of Modern Art di Edinburgo ha ricostruito come
omaggio all’artista lo studio che Paolozzi aveva a Londra. Morì a Londra nel 2005.
- Nigel Henderson, Eduardo Paolozzi, Studio per Parallel of Life and Art, 1952, Tate Gallery (Londra)
- Parallel of Life and Art, 1953 – l’idea della contaminazione di elementi diversi è alla base della Pop
Art.
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- Catalogo della mostra
- Eduardo Paolozzi, Experience, 1964, Tate Gallery (London)
- Eduardo Paolozzi, Wittgeinstein in New York, 1965, Scottish National Gallery of Modern Art
(Edinburgh)- è un collage la cui citazione è in modo evidente dalle avanguardie.
- Eduardo Paolozzi, Wittgeinstein in New York, 1965, Scottish National Gallery of Modern Art
(Edinburgh) – in basso vediamo una sequenza come se fosse un rullo fotografica Mickey Mouse. Nell
sua grande foga di prendere tutto dal patrimonio visivo disponibile, la Pop non è interessata a
prendere immagini nuove, che non esistono, ma immagini che già esistono. La Pop è quindi seriale,
un po' sulla scia di Duchamp, e non vede unicità nelle opere. In questo modo viene a cadere uno dei
luoghi sacri dell’artista, secondo cui l’artista elabora cose nuove, ma si può riprodurre all’infinito – i
quadri stessi della pop sono oggetti. L’uomo si fa accerchiare dalle cose e in questa maniera ci hanno
contaminato, facendo diventare noi stessi cose. Ecco che la Pop ha davvero raramente solo una
componente leggera: riflette sulla vita in una visione molto critica e malinconica.
- Eduardo Paolozzi, Piscator (o Testa Euston), 1980, Euston Road Station (London) - riegè
- Eduardo Paolozzi, Tottenham Court Road underground, 1984, London
E’ inglese ma la sua poetica si americanerà molto. David Hockney trascorse l’infanzia e la giovinezza a
Bradford, contornato dal clima austero dell’immediato dopoguerra. Fu il cinema di Hollywood con il suo
sfavillante technicolor, a fornire una delle prime fonti d’ispirazione e di sollievo dal grigiore urbano: «Sono
cresciuto a Bradford e ad Hollywood» dirà più tardi l’artista. Nel 1953 si iscrisse alla Bradford School of Art,
dove studiò la pittura tradizionale, basata sulla fedele riproduzione della realtà. Nel 1959, si trasferì a Londra
per frequentare il prestigioso Royal College of Art. In questo periodo, la fonte di ispirazione primaria per la
maggior parte dei giovani artisti era la scuola dell’Espressionismo Astratto americano; anche se Hockney ne
fu inizialmente influenzato, in seguito sposterà il suo interesse verso un’arte figurativa. Nel 1961, grazie
all’esposizione Young Contemporaries organizzata dal Royal College of Art, il lavoro di Hockney venne notato
dal gallerista John Kasmin, che acquistò il dipinto Doll Boy (1960-61). L’inaspettato successo dette all’artista
la possibilità di visitare gli Stati Uniti, un viaggio documentato in A Rake’s Progress del 1961-63, basato sulla
celebre sequenza Carriera del libertino di William Hogarth del 1735. Soltanto un anno dopo aver lasciato il
Royal College of Art, Hockney fu protagonista della mostra Paintings with People In alla Kasmin Gallery, in cui
espose una serie di ritratti di coppie maschili. Nel 1963, Hockney e le abbaglianti luci di New York si
incontrarono nuovamente; fu in questa occasione che l’artista conobbe l’icona pop Andy Warhol e il curatore
del Met Henry Geldhazer, soggetto ricorrente nei futuri quadri del pittore. Ancor prima di visitare Los
Angeles, Hockney era affascinato dalle sue atmosfere. La città degli angeli concretizzava l’immaginazione
sessuale dell’artista; d’altronde – come scrisse Edmund White – le spiagge della California diventarono in
quegli anni l’epicentro dell’omosessualità moderna. Los Angeles necessitava di un artista che dipingesse i
suoi colori, le strade illimitate, le piscine e i corpi abbronzati dal sole.
- David Hockney, Doll Boy, 1960, Kunsthalle (Amburgo) – se ne vedono in trasparenza le fonti
dall’espressionismo.
- David Hockney, A Rake’s progress, 1961-63, MoMA (New York), Tate Gallery (London) – David
Hockney in queste 16 chine dà la sua personale interpretazione alla figura del libertino.
- David Hockney, the drinking scene, 1961-63, MoMA (New York) –William Hogarth, La taverna
(Carriera di un libertino), 1735, Sir John Soane's Museum (London)
- David Hockney, Domestic scene, 1963, collezione privata – Hockney è fieramente omosessuale e ha
sempre espresso il suo orientamento, mai taciuto. E’ un interno in cui i protagonisti sono una coppia
omosessuale ma separata dal silenzio.
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Sul finire degli anni ’60 e l’inizio della decade successiva, Hockney si concentrò su una serie di ritratti; tra
questi c’è il celebre Portrait of An Artist (Pool with Two Figures), in cui un giovane osserva una figura che
nuota. Il soggetto del quadro è il compagno di Hockney, Peter Schlesinger, rappresentato in maniera
introspettiva e distante rispetto a chi osserva. In Mr and Mrs Clark and Percy (1970-71), Hockney dipinge gli
amici Ossie Clark e Celia Birtwell nella loro abitazione di Notting Hill, separati da una grande finestra e con
attorno degli oggetti. Il ritratto dei Clark rappresenta per Hockney l’apice del suo interesse per il naturalismo;
nel realizzare l’opera però, l’artista incontrò numerosi ostacoli. La difficoltà nel dipingere le due figure,
ritratte quasi rispettando le loro dimensioni naturali, fece abbandonare ad Hockney, almeno
temporaneamente, la pratica del doppio ritratto. Il naturalismo, che inizialmente aveva rappresentato una
via d’uscita dall’ossessione contemporanea per le immagini piatte, era diventato un limite per l’artista. Fu in
questo periodo che Hockney iniziò ad interessarsi alla fotografia, un medium che utilizzerà sempre più
frequentemente in futuro. Una volta abbandonata la pittura naturalistica, Hockney si dedicò a nuove forme
di rappresentazione. Nel 1974, l’Opera di Glyndebourne lo incaricò di realizzare la scenografia per The Rake’s
Progress di Stravinsky. Nella decade successiva, il pittore tornerà a lavorare nei set teatrali, attratto dalla
possibilità di collocare figure reali in spazi artificiali. Fin da quando era studente al Royal College Art, Hockney
ebbe come modello e fonte d’ispirazione Pablo Picasso. Nel 1980, dopo aver visitato una retrospettiva del
MoMA dedicata all’artista spagnolo, Hockney produsse sedici dipinti sul tema della danza e della musica.
L’influenza di Picasso e del cubismo è però soprattutto riscontrabile nelle opere successive, in cui Hockney
torna a dipingere Los Angeles attraverso un nuovo stile. Hockney realizzò una serie di opere basate su vedute
da vari punti di osservazione. In Mulholland Drive: The Road to the Studio ad esempio, l’artista dipinge una
delle strade più celebri di Los Angeles attraverso linee sinuose che accentuano l’idea di movimento. Il pittore
fa lo stesso in Nichols Canyon (1980), in cui utilizzando colori d’ispirazione fauve, crea una scena vivida che
porta lo spettatore a spostare lo sguardo da un punto all’altro
- David Hockney, Ritratto di un artista, 1972, collezione privata – la persona raffigurata sott’acqua era
il compagno del pittore.
- David Hockney, Mr and Mrs Clark and Percy, 1971, Tate Britain (London)
- Rousseau il Doganiere, La carrozza di Père Junier, 1908, Musée de l’Orangerie (Paris) – è un artista
che ha molto influenzato Hockney, lavorava all’ufficio delle dogane ma la pittura era la ragione della
sua vita. Dà l’idea di un realismo magico, un pittore di grande sapienza nonostante il suo apparente
lavoro. Sicuramente Hockney l’ha ammirato, come ha ammirato anche i fauves.
- David Hockney, Mulholland Drive: the Road to the studio, 1980, LACMA (Los Angeles)
- David Hockney, Nichols Canyon, 1980, collezione privata
- Henri Matisse, Armonia in rosso, 1908, Hermitage (San Pietroburgo)
Le esplorazioni visuali di Hockney culminarono nel 1982 con la mostra Drawing with Camera; realizzando dei
collage di polaroid – per mezzo di una tecnica da lui definita joiners – l’artista riuscì a catturare ancora una
volta l’illusione del movimento. Le decade degli anni ’80 fu forse la più difficile per Hockney. Sul finire dei ’70,
il suo udito iniziò a diminuire notevolmente e in seguito, l’artista perse numerosi amici colpiti dalla piaga
dell’AIDS; tra questi Tony Richardson e il modello Joe MacDonald. Nonostante tutto, Hockney continuò a
lavorare, realizzando verso la fine del millennio, alcune tra le sue opere più straordinarie. Nel 1997, il pittore
tornò nel nativo Yorkshire per visitare l’amico John Silver, affetto da una malattia allo stato terminale; fu
Silver a proporre i paesaggi circostanti come soggetto di una nuova collezione. Nello Yorkshire, Hockney
rimase particolarmente colpito dagli scenari che si presentavano ai suoi occhi; decise così di ritrarre la
vibrante natura della regione en plein air, secondo lo stile proprio agli Impressionisti. Nel 2012, la mostra
della Royal Academy A Bigger Picture, esponeva il risultato del lavoro: immense tele dai colori accesi
adornavano le pareti della prestigiosa galleria londinese. Nell’ammirare i quadri dell’artista, lo spettatore
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pensava a Matisse, ma soprattutto all’ammirazione per la natura che permea i dipinti di Vincent Van Gogh.
L’influenza dell’olandese è soprattutto rintracciabile in The Woldgate Woods (2006), in cui le tre diverse
prospettive ricordano lo stile impiegato da Van Gogh in Campo di grano con volo di corvi (1890). Nei sette
quadri della serie incentrata sui boschi di Woldgate, Hockney ritrae lo stesso scenario registrando i
cambiamenti da una stagione all’altra. Ognuna delle sette opere è composta da sei tele: l’effetto, nel
trovarvisi davanti, è maestoso. I lavori dedicati allo Yorkshire – per la sperimentazione e le tecniche utilizzate
– rappresentano uno dei punti più alti toccati da Hockney nei suoi viaggi pittorici.
- David Hockney, Nathan swimming Los Angeles March 11° 1982, 1982, collezione privata – è una
giustapposizione in sequenza di una serie di polaroid, una scelta compositiva che adotta dagli anni
80.
- David Hockney, Gregory, 1982, collezione privata
- David Hockney, Woldgate Woods, 6 & 9 novembre 2006, 2006, collezione privata
- Vincent Van Gogh, Campo di grano con volo di corvi, 1890, Museo Van Gogh (Amsterdam)
Nato a New York nel 1882, una volta terminato il corso di studi, nel 1906 compì il suo primo viaggio a Parigi.
Dopo Parigi, nel 1907 si recò a Londra, Berlino e Bruxelles. Durante il suo terzo e ultimo viaggio all'estero, a
Parigi e in Spagna nel 1910, Hopper perfezionò il suo particolare e ricercato gioco di luci e ombre e il tema
centrale della solitudine e dell'attesa. Tornato stabilmente negli Stati Uniti, che non lasciò più, Hopper ebbe
modo di esporre i lavori parigini in alcune mostre promosse dall'amico Guy Pène du Bois ma senza successo.
Pur rimanendo francofilo per tutto il resto della vita (oltre ad avere un'assoluta padronanza della lingua,
Hopper amava leggere i classici della letteratura francese in versione originale), alla ricerca di uno stile
autenticamente americano, abbandonò le nostalgie europee che lo avevano influenzato sino a quel
momento ed iniziò ad elaborare soggetti legati alla vita di tutti i giorni. Tra i soggetti che prediligeva vi erano
soprattutto immagini urbane di New York e le scogliere e spiagge del vicino New England, in particolare
paesaggi di Ogunquit e dell'isola di Monhegan nel Maine. Nel 1913 si tenne a New York l'Armory Show, la
prima mostra che introduceva al pubblico degli Stati Uniti la pittura delle avanguardie europee. Hopper
partecipò a questa mostra con il suo dipinto Sailing che fu venduto per 250 dollari. Edward Hopper si trasferì
all'ultimo piano del numero 3 di Washington Square, dove avrebbe lavorato e vissuto per tutto il resto della
sua vita. Nel 1918 fu uno dei primi membri del Whitney Studio Club, il più vitale centro per gli artisti
indipendenti americani dell'epoca. Proprio al Whitney Studio nel 1920 tenne la sua prima mostra personale,
dove fra gli altri lavori venne esposto Soir bleu. Il titolo del dipinto si ispira al primo verso di Sensation, poesia
di Arthur Rimbaud che parla dei piaceri del vagabondaggio. Hopper mette in scena sulla terrazza di un café
parigino un insieme di personaggi eterogenei: a destra una coppia di borghesi, a sinistra un protettore. Al
centro, di spalle un ufficiale, di profilo un personaggio barbuto, probabilmente un artista, di fronte un Pierrot
e sullo sfondo una prostituta. Questo lavoro segna in qualche modo l'addio all'atmosfera felice che aveva
segnato i suoi soggiorni francesi e all'Europa che lo aveva fino ad allora ispirato. Fortemente criticata e perciò
disconosciuta dall'autore, la tela, arrotolata e dimenticata, fu ritrovata nel suo studio solo dopo la sua morte
ed è stata oggetto di un'attenta rivalutazione alla luce delle successive esperienze dell'artista e delle sue
influenze europee. Nel 1924 alcuni suoi acquerelli furono esposti a Gloucester nella galleria di Frank Rehn.
La fortuna critica e il successo di pubblico diedero una significativa svolta alla carriera di Hopper, che finora
si era guadagnato da vivere come illustratore di riviste. In quello stesso anno Hopper sposò Josephine
Verstille Nivison, che fu l'unica modella per tutti i personaggi femminili che avrebbe dipinto da allora in poi.
Il successo ottenuto con la mostra alla Rehn Gallery contribuì a fare di Hopper il caposcuola dei realisti che
dipingevano la scena americana. Nel 1925 la sua tela intitolata Apartment Houses venne acquistata dalla
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Pennsylvania Academy. Questo fu il suo primo lavoro a olio a entrare in una collezione pubblica. Nel 1930 la
famosa House by the railroad che sarebbe servita ad Alfred Hitchcock come modello per la casa in stile
secondo impero americano di Psyco, venne donata dal collezionista Stephen C. Clark al MoMA di New York,
entrando a far parte della collezione permanente del museo. Dopo tre anni, lo stesso MoMA dedicò ad
Hopper la prima retrospettiva. Nel 1934 Hopper acquistò una casa a Truro, nella penisola di Cape Cod, dove
da allora iniziò a passare regolarmente i mesi estivi. Il paesaggio di Cape Cod, con le sue dune, case e fari, si
ritrova in molti suoi dipinti, come The House on The Hill, Cape Cod Evening o Cape Cod Morning. Il Whitney
Museum of American Art gli dedicò la seconda retrospettiva nel 1950, e nel 1956 la rivista Time gli rese
omaggio con una copertina. Hopper morì all'età di 84 anni nel suo studio nel centro di New York. Oggi è
considerato uno dei grandi maestri americani, citato in qualche caso come precursore della Pop art.
- International exhibition of modern art (Armory Show), 1913 – se si leggono i nomi partecipanti
troviamo Degas, Cezanne.. e anche Hopper partecipò con un’opera.
- Edward Hopper, Sailing, 1911, Carnegie Museum of Art (Pittsburgh)
- Edward Hopper, Soir Bleu, 1914, Whitney Museum of American Art (New York)
- Edward Hopper, Apartment Houses, 1923, PAFA (Philadelphia) – comincia per lui l’interesse verso la
quotidianità statunitense, l’occhio rivolto a quello che si fa tutti i giorni.
- Edward Hopper, House by the railroad, 1925, MoMA (New York) – è la casa che Hitchcock
rappresenta nel suo film Psycho, secondo una visione vittoriana americana.
- Edward Hopper, Lighthouse hill, 1927, Museum of Art (Dallas)
- Edward Hopper, Cape Code morning, 1950, National Museum of American Art, Smithsonian
Institution (Washington DC) – è la casa estiva dove Hopper viveva nelle sue ultime estati.
La pittura di Hopper predilige architetture nel paesaggio, strade di città, interni di case, di uffici, di teatri e di
locali. Le immagini hanno colori brillanti ma non trasmettono vivacità, gli spazi sono reali ma in essi c'è
qualcosa di metafisico - altro elemento di corrispondenza con le lunghe esposizioni fotografiche coeve - che
comunica allo spettatore un forte senso di inquietudine. Non a caso André Breton, nel suo esilio a New York,
lo accostava a Giorgio de Chirico in un'intervista pubblicata su View nel 1941. In realtà i due possono apparire
simili sono all’inizio, ma se uno lavora sull’interruzione della collana della memoria e nella riorganizzazione
di oggetti, Hopper fa altro. Hopper ci restituisce un’istantanea, bloccata, congelata di un momento di
quotidianità americana. Per questo anticipa la pop, in questa idea della contaminazione, della
giustapposizione e dell’impossibilità di relazione. La composizione dei quadri è talora geometrizzante,
sofisticato il gioco delle luci fredde, taglienti e volutamente artificiali, sintetici i dettagli. La scena è spesso
deserta, immersa nel silenzio; raramente vi è più di una figura umana, e quando ve ne è più di una, sembra
emergere una drammatica estraneità e incomunicabilità tra i soggetti. La direzione dei loro sguardi o i loro
atteggiamenti spesso "escono dal confine del quadro", nel senso che si rivolgono a qualcosa che lo spettatore
non vede. Di lui è stato detto che sapeva "dipingere il silenzio". Particolare spazio nelle sue opere trovano le
figure femminili. Cariche di significato simbolico, assorte nei loro pensieri, con lo sguardo perduto nel vuoto
o nella lettura, si offrono spesso seminude ai raggi del sole trasmettendo solitudine, attesa, inaccessibilità.
Una dimensione psicoanalitica che ha permesso di interpretare meglio le emozioni dell'artista.
La sua prima personale è del 1951 a New York. L'anno successivo espose in Europa: a Roma e a Firenze,
suscitando vivaci polemiche; espose quindi con sempre maggior frequenza negli Stati Uniti. Si legò dal 1958
alla galleria Leo Castelli di New York, dove presentò quelli che egli stesso definì combines paintings, che
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esposti nello stesso anno al Festival di Spoleto dettero luogo a violente reazioni. Leo Castelli sarà colui che
individuerà un motivo di interessamento verso quella che ancora non era definita con il nome Pop Art e che
ne organizzerà nei primi due anni del ‘60 tantissime mostre. A partire dal 1958 fu costantemente presente
nelle più note manifestazioni artistiche a livello mondiale. Particolarmente significativa la sua presenza alla
mostra Le Nouveau Réalisme à Paris et à New York (Parigi, galleria Rive Droite, 1960) e alla grande rassegna
The art of assemblage (MoMa)del 1961), entrambe importanti punti di riferimento per il nascente Nouveau
Réalisme francese e per il New Dada americano. Nel 1964 ricevette il Gran Premio della Pittura alla Biennale
di Venezia.
Nei primi anni Cinquanta, elaborò la serie White painting (1951), ampie superfici monocrome incise con cifre
e linee irregolari. A New York cominciò a collaborare, in qualità di scenografo e decoratore, con la Merce
Cunningham dance company e presentò la serie Black e Red Paintings (1952-53); del 1954 sono i suoi primi
combine paintings (Charlene del 1954 e Odalisca del 1955-58); opere d'ispirazione neodadaista basate sulla
pratica sistematica del collage di materiali eterogenei (animali impagliati, stracci, fotografie e ritagli, oggetti
d'uso quotidiano, ecc.) fusi a brani pittorici di matrice astratta che presentano soluzioni espressive
totalmente nuove. Sperimentatore instancabile, dopo una serie di ricerche condotte anche nell'ambito dei
rapporti tra arte e tecnologia (Oracolo, installazione sonora di elementi meccanici di recupero, 1962-65), ha
introdotto nei suoi dipinti immagini ottenute per mezzo della serigrafia o del frottage. Tra le personali dei
primi anni della sua carriera, quella alla galleria Leo Castelli dove nel 1960 presentò i suoi disegni per illustrare
l'Inferno di Dante, la grande retrospettiva al Jewish Museum di New York nel 1965 e nello stesso anno alla
galleria Sonnabend a Parigi, che rappresentò il suo lancio in Europa. Dal 1984 ha avviato il progetto ROCI
(Rauschenberg overseas culture interchange), mostra itinerante costantemente arricchita da opere eseguite
danei paesi visitati.
- Robert Rauschenberg, White Painting (four panel), 1951, Met (New York)
- Robert Rauschenberg, Merce Cunningham dance company, 1958
- Robert Rauschenberg, Senza titolo (glossy black painting), 1951, SfMoMA (San Francisco)
- Robert Rauschenberg, Charlene, 1954, Rauschenberg Foundation (New York)
- Robert Rauschenberg, Odalisk, 1955-1958, Rauschenberg Foundation (New York) – assolutamente
New Dada
- Robert Rauschenberg, Oracle, 1962-65, Rauschenberg Foundation (New York)
- Robert Rauschenberg, Dante’s Inferno, 1958-1960, MoMA (New York)
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intero si riversa nella pittura. I combine painting con il loro vocabolario fatto di giornali, animali impagliati,
sedie, sgabelli, valigie, scarpe, lampadine elettriche etc. spesso vengono esposti sul pavimento – laddove gli
oggetti cadono- con Bed del 1955 Rauschenberg espose un letto con la coperta e il cuscino macchiato con
schizzi di colore ponendolo su una impalcatura di legno e poi lo appese al muro. «L’orizzontalità del letto si
rapporta al ‘fare’, mentre la verticalità del piano del quadro del Rinascimento si rapportava al fatto di
‘guardare’ » scriveva Steinberg nel 1972.
Johns nasce nel 1930 ad Augusta. Nel 1948 si trasferì a New York. Arruolato, rientrò a New York nel 1953
dove strinse amicizia con Robert Rauschenberg, con John Cage e il coreografo Merce Cunningham dando così
vita a un originale sodalizio artistico. Nel 1955 il pittore realizzò Flag, Bandiera, la prima delle quattro versioni
di bandiera a collage ed encausto su tela, un soggetto molto familiare a Jasper Johns, familiare come i soggetti
che lo ispireranno in seguito: i bersagli, i numeri stenciled, le lattine di birra, gli oggetti d'uso comune e, poco
più tardi, le mappe degli Stati Uniti. Nel 1957 quando prende parte alla collettiva “Artists of the New York
School: Second Generation”, il suo quadro Target with plaster casts attira l’attenzione del gallerista Leo
Castelli che l'anno dopo realizza per Jasper la prima personale che riscuote grandi consensi: Il MoMA acquistò
diverse opere, e la Biennale di Venezia lo invitò ad esporre in Italia. Dal 1959 espose in importanti Gallerie a
Parigi e Milano, e prese parte alla collettiva “Sixteen Americans”, realizzata dal MoMA. Negli anni '60
partecipò alla mostra "Le Nouveau Réalisme à Paris et à New York", organizzata dalla Galerie Rive Droite di
Parigi, esponendo con Leslie, Rauschenberg, Stankiewicz o in collettive al Modern Museet di Stoccolma, alla
Kunsthalle di Berna, al Guggenheim Museum di New York, al Jewish Museum di New York e alla Whitechapel
Art Gallery di Londra, alla Biennale di Venezia e alla Dokumenta di Kassel. Negli anni '70 adottò uno schema
a "tratteggio incrociato" mentre negli anni ‘80 inserì nei suoi lavori oggetti tridimensionali, calchi del corpo
umano e immagini di interesse percettivo, accentuando il carattere autobiografico delle sue opere
cominciando a ispirarsi alle opere di altri artisti, come Grünewald e Picasso, intersecando così la sua storia
personale con la storia dell’arte.
Johns fabbrica da sé gli elementi extra pittorici , tridimensionali che aggiunge ai suoi quadri estranei a
qualsiasi intento mimetico. Se il modernismo condanna ogni intento mimetico, Johns adotta come motivo
delle sue composizioni oggetti comuni, caratterizzati da evidente banalità. Gli espressionisti astratti
utilizzavano preferibilmente scatole da caffè per ripulire i pennelli nell’acquaragia e Johns fa ricavare da tutto
ciò un calco in bronzo e poi lo dipinge completamente. Si tratta di un Trompe l’oeil al contrario che fa il verso
ai grumi di pittura dell’estetica espressionista oramai ritenuta superata (Painted Bronze, 1960). Nel 1955,
quando dipinge le prime flag, dichiara: «dipingere una bandiera significa occuparsi di una bandiera, ma non
meno di quanto ci si occupi della pennellata o di un colore o della fisicità della pittura».
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- Jasper Johns, Painted bronze, 1960, Museum Ludwig (Colonia)
Roy Lichtenstein nel 1961 presenta i suoi ultimi lavori a Leo Castelli che nello stesso periodo vede i lavori di
James Rosenquist e di Andy Warhol. Castelli intuisce l’enorme potenziale di questi lavori. La prima personale
dedicata al lavoro di Lichtenstein viene inaugurata nel febbraio del 1962. Nello stesso periodo inaugura una
mostra di Jim Dine alla Martha Jackson Gallery mentre alla Green gallery inaugura la sua prima personale
James Rosenquist. Sempre nello stesso anno George Segal presenta i suoi lavori ancora una volta alla Green
Gallery, seguito da Claes Oldenburg. Nel 1962 al MoMA viene organizzato un simposio sul tema, si passa così
dall’espressionismo astratto alla Pop Art. Concetto di kitsch per Clement Greenberg (1939) è: cultura di
massa, fenomeno pericoloso, pervasivo, il primo fenomeno culturale universale. Per i New Dada e poi per la
Pop il kitsch va preso di petto, va manipolato. I New Dada adottano l’estetica del ‘prelievo’, i Pop si
sottomettono interamente al kitsch, lo riproducono, prendono di petto l’intero sistema onnipotente dei mass
media. La grande collettiva internazionale del 1962 alla Sidney Janis Gallery dedicata ai Nuovi realisti decretò
infine la nascita della Pop americana con Warhol, Segal, Wesselmann, Dine, Lichtenstein, Rosenquist,
Oldenburg accanto agli europei Spoerri, Tinguely, Klein, Baj, Festa, Rotella ed altri. «L’autentico artista pop
offre una coincidenza di stile e soggetto, cioè rappresenta immagini e oggetti di massa attraverso uno stile
che si fonda sul vocabolario visivo della produzione di massa». (Robert Rosemblum, 1964) All’enorme
successo della pop americana corrisposero ovvie posizioni critiche, in primo luogo da parte dei sostenitori
della corrente astratta (Barbara Rose) e di coloro che ne criticavano l’assenza di impegno di alcun tipo come
Max Kozloff fotografo e critico americano: «uno stile disprezzabile e sciocco di coloro che masticano
chewingum, portano calzini corti, peggio ancora, si comportano da delinquenti.» Hilton Kramer, critico
americano ebbe a dire che la pop art è legata soltanto a facili clichés e così «invade, colonizza e fa esplodere
il silenzio di Duchamp».
Nato a New York dal 1940, frequenta il corso di laurea in storia dell’arte dell'Università dell'Ohio. Dopo la
guerra riprende gli studi che conclude nel 1949. Nel 1951 tiene la sua prima mostra personale a New York e
lo stesso anno si trasferisce a Cleveland. Nel 1957 torna a New York, dove viene assunto dalla New York
University. In questo periodo, la sua pittura si avvicina all'espressionismo astratto e nei suoi quadri iniziano
a comparire personaggi dei fumetti o dei cartoni animati, come Topolino, Paperino e Bugs Bunny. Dal 1960
al 1963 insegna al Douglass College, nel New Jersey. Conosce Allan Kaprow, Claes Oldenburg, George Segal e
frequenta anche gli artisti di Fluxus, tra cui George Maciunas e Dick Higgins. Dal 1961 inizia ad inserire
sistematicamente nei suoi lavori elementi tipici del mondo pubblicitario e dei fumetti, e ad utilizzare la
testura puntinata, che diventerà una sua cifra stilistica inconfondibile. Lichtenstein esaspera la tecnica
tipografica usando retini di grandi dimensioni per dare l'idea di una realtà mediata dalla mole di immagini
che nella realtà contemporanea vengono stampate e trasmesse. Nel 1962 espone alla collettiva New
Paintings of Common Objects organizzata dal Pasadena Art Museum. Nel 1962 espone da Leo Castelli a New
York. Nel 1963 Philip Johnson gli commissiona un murale destinato al New York State Pavillon per
l'Esposizione Universale del 1964. Crea le prime sculture in metallo smaltato. Nel 1965 realizza numerosi
lavori in ceramica e si dedica ai dipinti della serie intitolata Brushstroke, dove ripropone, in modo
personalissimo, la matericità e l'irruenza gestuale dell'Espressionismo Astratto. Nel 1966 tiene una
retrospettiva al Museum of Modern Art di Cleveland e partecipa alla Biennale di Venezia, dove è presente
anche nel 1968 e nel 1970. La retrospettiva organizzata dal Pasadena Art Museum nel 1967 si sposta anche
ad Amsterdam, Londra, Berna e Hannover.
- Roy Lichtenstein, Look Mickey, 1961, National Gallery of Art (Washington, D.C.)
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- Roy Lichtestein, Eddie Diptych, 1962, Sonnabend Collection (New York)
- Roy Lichtenstein, Takka Takka, 1962, Museum Ludwig (Colonia)
- Roy Lichtenstein, As I opened fire (come feci fuoco…), 1964, Stedelijk Museum (Amsterdam)
- Roy Lichtenstein, Sunrise, 1965, collezione privata (New York)
- Roy Lichtenstein, Girl with tear III (ragazza con lacrima), 1977, Fondazione Bayeler (Basilea) – in modo
evidente ripreso da Dalì.
- Roy Lichtenstein, pennellata gialla e verde, 1966, Museum fur Modern Kunst (Frankfurt)
Partecipa alle Documenta di Kassel del 1968 e del 1972. Nel 1969 il Solomon R. Guggenheim Museum di New
York gli dedica una retrospettiva. Comincia a interessarsi al cinema sperimentale e realizza tre film sui
panorami marini. Crea i primi dipinti di specchi e lavori sulle piramidi. Nel 1970 realizza un murale per la
Facoltà di Medicina dell'Università di Düsseldorf, espone al Museum of Contemporary Art Chicago e al Seattle
Art Museum. Dal 1972 al 1981 lavora a numerose "nature morte" e realizza opere ispirate al Futurismo, a De
Stijl, al Costruttivismo russo, al Surrealismo e all'Espressionismo tedesco. Numerose sono anche le mostre.
Nel 1972 espone al Contemporary Art Museum di Houston, nel 1975 al Centre National d'Art Contemporain
di Parigi, nel 1978 all'Institute of Contemporary Art di Boston. Nel 1979 gli viene commissionata la prima
scultura pubblica: realizza The Mermaid per il Theatre for the Performing Arts di Miami Beach. Nel 1981 il
Saint Louis Art Museum organizza una retrospettiva che si sposta in altre località americane, in Europa e in
Giappone. Roy Lichtenstein muore il 29 settembre del 1997 a New York.
Tutta l’opera di Roy Lichtenstein potrebbe venire letta come un processo di addomesticazione e
manipolazione del kitsch. Pittore già maturo, nel 1961 ha quaranta anni, mette a fuoco il proprio interesse
per il fumetto: si tratta di un interesse tecnico. La riproduzione meccanica che prevede ovviamente campiture
piene di poche tinte e il retino tipografico, una tecnica di riproduzione che ha la stessa fonte scientifica
(Chevreul) dei puntinisti francesi (Look Mickey, As I Opened Fire, Eddie Diptych, Takka, Takka). Sposta dopo
il 1965 la sua attenzione a soggetti tratti dai capolavori del passato e a soggetti che evocano gli anni
cinquanta, tempo recente che sollecita tutti i Pop. «Io copio nominalmente in effetti ripeto la cosa copiata in
altri termini. Nel farlo l’originale acquista una struttura completamente differente. Non è una pennellata più
o meno spessa, si tratta di punti, colori uniformi e linee rigide. Potrebbe sembrare anti arte, ma io non la
penso così. Non ho mai pensato che fosse DADA in quel senso, sebbene credo che potrebbe sembrarlo».
Nacque a Pittsburgh, in Pennsylvania, da una famiglia di immigrati slovacchi. Mostrò subito il suo talento
artistico, e studiò arte pubblicitaria a Pittsburgh. Dopo la laurea, ottenuta nel 1949, si trasferì a New York che
gli offrì subito molteplici possibilità di affermarsi nel mondo della pubblicità; lavorò per riviste come Vogue e
Glamour. Il 3 giugno 1968 una femminista radicale sparò a Warhol e al suo compagno di allora, Mario Amaya.
Entrambi sopravvissero, nonostante le gravissime ferite riportate da Warhol avessero fatto temere il peggio.
Le apparizioni pubbliche di Warhol dopo questa vicenda diminuirono drasticamente: l'artista si rifiutò di
testimoniare contro la sua assalitrice e la vicenda passò in second'ordine per via dell'assassinio di Bob
Kennedy, avvenuto due giorni dopo. Morì cinquantottenne a New York il 22 febbraio 1987. Nel 1989 il MoMA
di New York gli dedicò una grande retrospettiva.
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Andy Warhol, a New York dal 1949 e una carriera di successo nel mondo della pubblicità, vide i lavori di Jasper
Johns e scelse una pittura fredda, impersonale, che pesca a piene mani dall’immaginario dai mass media.
Dopo aver visto Lichtenstein da Castelli cercò altri soggetti: bottiglie di coca cola, banconote, lattine di zuppa
Campbell, bustine di fiammiferi che riprodusse con una tecnica piatta, meccanica, cui aggiunse la ripetizione
e l’ingrandimento (manipolazione del kitsch). La prima monografica di Warhol a Los Angeles vide esposte
trentadue tele e con trentadue tipi di zuppa… la zuppa divenne così un’icona! Utilizzò la serigrafia per le
Marylin e per Death of Disasters: «mi resi conto che qualsiasi cosa stavo facendo doveva essere morta». La
morte è il contenuto delle sue opere ma è anche la morte dell’autore come essere senziente che si esprime
tramite la pittura. «Quando osservi all’infinito una immagine terrificante, non ha più alcun effetto». La
Factory, tra industria e bottega medievale è del 1963 (Eat, 1963; Kiss, 1964; Flowers 1964); The Chelsea Girl
film del 1966. Clavin Tomskin così definì il ‘fenomeno’ Warhol: «La, chiave, credo, stia nella risonanza. Di
tanto in tanto appare un individuo, spesso, non necessariamente, un artista, che sembra essere in armonia
con certe vibrazioni-segnali che le apparecchiature comuni non sono ancora in grado di ricevere. La
chiaroveggenza di Andy ha toccato i nervi della moda e dell’arte commerciale, l’energia che ha ricevuto Dio
solo sa dove, l’inarticolatezza e ingenuità , il profondo mistero e il vuoto del suo personaggio – tutto ciò
suggerisce la presenza di un intuito fuori dal comune. Mantenendosi sempre come qualcosa di
sovrannaturale, Warhol diventò negli anni ’60 una sorta di oracolo muto e abbastanza terrificante. Portò alla
luce quello che stava succedendo da qualche parte intorno a tutti noi».
- Andy Warhol, 129 die in jet, 1962, Museum Ludwig (Colonia) – il mezzo televisive esiste: vedere le
tragedie quotidianamente, molte volte, alla fine crea una sorta di anestetizzazione – non abbiamo
più la capacità di emozionarci e tendiamo addirittura a sovrapporre queste immagini con quelle del
cinema. Warhol in qualche maniera vuole sottolineare questo dato di fatto. Andy Warhol stesso si è
disumanizzato, ha cambiato i suoi connotati ed è lui stesso la più grande opera creativa della sua vita,
ma è un’opera a cui è arrivato con fatica e sofferenza.
- Andy Warhol, 100 cans, 1962, Albright-Knox Art Gallery (Buffalo) – dagli anni 50 non sono si inizia ad
essere contornati da oggetti, ma non sono più oggetti che hanno un significato poiché sono dati per
scontato. Nella facilità da un lato di avere un oggetto tra le mani e la sua istantanea consumazione
niente ha più un vero significato. Si collega con le immagini di morte: vedere sia oggetti che immagini
tragiche continuamente sostituite non fa provare più niente.
- Andy Warhol, Big Campbell soup can, 19 cents, 1962, The Menil Collection (Houston)
- Andy Warhol, Marylin Monroe’s lips, 1962, Hirshhorn Museum (Washington DC) – la bocca è
l’aspetto più forte della sua sensualità e desiderabilità. Questo aspetto è una reiterazione tragica del
suo volto. E’ come fare un calco, come diceva Jasper Johns.
- Andy Warhol, Brillo box, 1964, MoMA (New York)
- Andy Warhol, Triple Elvis, 1963, Virginia Museum of Fine Arts (Richmond)
- Andy Warhol, Flowers
Nato a Grand Forks, in Dakota, si trasferì a New York verso la metà degli Anni Cinquanta, cominciando a
frequentare i maestri dell’Espressionismo Astratto, e poi Robert Rauschenberg, Jasper Johns. Ma i suoi
compagni d’avventura e di rivoluzione sarebbero stati, su tutti, Andy Warhol e Roy Lichtenstein: tre pionieri
straordinari, nel cuore dell’America del Vietnam, della réclame, di J.F. Kennedy, dell’ossessione televisiva e
dell’usa-e-getta come valore economico (e dunque culturale). L’universo di Rosenquist assomigliava a una
celebrazione dell’effimero talmente spinta da rasentare l’orrore, la claustrofobia. Un giganteggiare di
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immagini vuote, veloci, elette a feticci di un nuovo credo collettivo: mega rossetti puntati come proiettili,
arsenali di stoviglie e cibi fast-food, fiori di plastica, congegni meccanici, frammenti di corpi, pistole, billboard.
E nel trionfo di una sintesi grafica che uccideva ogni pretesa di spessore, di narrazione, di empatia, la pittura
diventava fumetto, pubblicità, ostentazione dell’oggetto: tutto e niente, in una ubriacatura percettiva.
Tuttavia, a proposito di Pop, ci teneva a fare le dovute distinzioni: «Non sono come Andy Warhol», aveva
affermato in un’intervista del 2007. «Lui ha fatto bottiglie di Coca Cola e panni Brillo. Io ho usato immagini
generiche senza marchio per fare un nuovo genere di pittura»: più che la simulazione del mondo, così come
il mercato lo stava raccontando e confezionando, si trattava di una nuova genesi pittorica, in cui l’oggetto
comune divenissero pretesti per ripensare il mondo stesso e la sua rappresentazione. «Ho spinto il mio
intrinseco interesse per l’astrazione, dentro immagini prive di un bagaglio di immagini, e ho spinto il colore e
la forma intorno per creare la superficie più eccitante che potessi immaginare, provando a tirare fuori la luce
da un pezzo di carta. Un pezzo di carta è bianco e vuoto, ma se tu ci metti ogni molteplicità di colori nelle
giuste combinazioni, la luce si irradierà da esso. Come luce che trabocca da una tazza».In occasione della
mostra From the collection: 1960-69, al MoMA di New York, a incarnare il mito della Pop Art fu scelto – tra
molte opere iconiche dell’epoca – F-111, custodito nella collezione del museo. Un monumento al Capitalismo
e alla sua schizofrenia implosiva, eccitante, minacciosa. Del resto così descriveva il suo modo di lavorare:
«Vorrei far capire che siccome era cresciuto durante gli anni cinquanta , ero stato bombardato dalla
pubblicità dei media, della radio, della televisione, che aveva come un effetto di intontimento. E poi quando
dipingevo i cartelloni, qui io raffiguravo le strutture di quegli enormi , vividi annunci, dipingendoli il più
realisticamente che potevo, e il mio naso stava appena a mezzo metro dal muro e lavoravo con questo
intontimento in un settore in cui si potevano distinguere tutti i colori ma non si vedeva certamente
l’immagine».
Tom Wesselmann (1931 – 2004) Nato a Cincinnati, Tom Wesselmann fu tra i primi artisti della Pop Art ad
avere successo. Già nel 1960 egli si impose con i grandi nudi che, come ha scritto Lucy Lippard, «fondono gli
arabeschi e la brillantezza cromatica di Matisse con la linea sinuosa di Modigliani e con la struttura rigorosa
di Mondrian». La prima mostra dei Great American Nudes risale al 1961 a New York. Naturalmente anche
Wesselmann, come i suoi colleghi della Pop Art, passa attraverso l’espressionismo astratto e, prima ancora,
attraverso l’acquisizione dei moduli surrealistici. Ma il suo stile divenne ben presto nitido e inequivocabile.
Egli si impose negli anni Settanta, con la serie delle Still life, le nature morte tipicamente americane costruite,
sempre a campiture piatte e giustapposizioni di colore, sulla base di oggetti comuni della vita americana:
scatole di birra, apparecchi radio, bottigliette di bibite, pacchetti di sigarette, finte facciate di edifici: il tutto
prelevato dai cartelloni giganti della pubblicità stradale. Spesso le immagini sono applicate, a mo’ di collage,
su intelaiature. Si tratta di opere, fredde, volutamente impersonali, eppure nitide e brillanti, esempi di
un’interpretazione artistica del consumismo popolare americano. Seguirono poi gli Smokers, gigantesche
labbra femminili da cui pendono sigarette accese e fumanti. Dal 1985 l’artista usò il laser per incidere i suoi
disegni su lastre di alluminio tagliate e lavorate con filigrane colorate.. Naturalmente lunghissima è la sua
bibliografia; centinaia sono le sue mostre personali; e la sua fama è diffusa da decenni in tutto il mondo. Il
tema principale del lavoro dell’artista è la ricostruzione dell’ambiente interno americano, a sottolineare come
la comunicazione di massa sia penetrata fino nella nostra intimità e arrivi a ridisegnare e a condizionare la
nostra vita privata (Great American Nude No. 54, 1964; Bathtub 3, 1963).
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- Tom Wesselmann, bathtube 3, 1963, Museum Ludwig (Colonia) – composto sia da pittura che da
oggetti reali.
- Tom Wesselmann, Still Life 30, 1963, MoMA (New York) – sul tavolo è apparecchiato ogni prodotto
possibile di quello che è il benessere ideale americano, che può raggiungere ogni tipo di prodotto.
L’abbondanza di cibo industriale appare allora, con la miriade di confezioni di cibi che all’interno sono
tutti uguali. Questa è una cosa massiccia, forte, che parte dagli Stati Uniti e che dilaga nel mondo.
- Tom Wesselmann, Great American Nude 75, 1965, MoMA (New York)
- Tom Wesselmann, smoker 1 (mouth 12), 1967, MoMA (New York)
Lo possiamo definire uno scultore. Svedese di nascita ma naturalizzato statunitense, ha studiato alla Yale
University e all'Art Institute di Chicago; a New York, dal 1956, è stato in contatto con A. Kaprow, la cui
influenza lo ha spinto alla sperimentazione di nuove tecniche espressive (happening, environment).
Protagonista della pop art, ha elaborato in dipinti e sculture (spesso in scala gigante) tematiche legate alla
civiltà dei consumi (Vetrina di pasticcere I del 1961-62; Soft toilet, 1966). Ha reso poi gli oggetti delle sue
sculture in modi più astratti e metaforici (Topo geometrico - Scala A, 1975; serie di strumenti musicali, 1992).
La collaborazione con la moglie C. van Bruggen inizia nel 1976 con Trowel I (Cazzuola I) collocato nel parco
del Kröller-Müller Museum a Otterlo. Da allora hanno realizzato insieme oltre quaranta grandi progetti
commissionati da città e musei di tutto il mondo. Tra i più recenti si ricordano: Knife ship I, 1985, Bilbao,
Guggenheim Museum; Lion's tail, 1999, Venezia, Musei civici veneziani; Needle, Thread and Knot , 2000,
Milano, Piazzale Cadorna; Cupid's span, 2002, Rincon Park, San Francisco; Claes Oldenburg, Coosje van
Bruggen, scultura per caso, 2006-07, Rivoli; Claes Oldenburg. The Sixties, 2012, Museo Mumok, Vienna. Nel
2012 il Museo Ludwig di Colonia ha allestito un'ampia retrospettiva della sua produzione scultorea. Nella sua
prima produzione il tema più ricorrente è il cibo: i suoi cheesburgher ingigantiti , di cartapesta, gocciolano
mostarda e poi i grossi coni gelato e il cibo sui fornelli tipici delle cucine anni ’60. Passò poi alle sculture da
collocarsi in spazi pubblici: un paio di forbici, un obelisco dedicato a Washington, la molletta da bucato alta
14 metri nella Center Square di Philadelfia, una sorta di riferimento al Bacio di Brancusi. La sua prima opera
chiaramente pop è la finta camera da letto nella quale tutti i mobili sono riprodotti ingranditi, deformati.
«Sono per un’arte che cresca senza sapere se essa sia arte o no, un’arte alla quale venga data la possibilità di
incominciare da un punto zero». Tra espressionismo astratto e Jasper Johns nel 1961 Oldenburg dichiara:
«Sono per un’arte che prende le sue forme dalla vita, che si contorce e si estende impassibilmente e accumula
e sputa e sgocciola, ed è dolce e stupida come la vita stessa. Sono per l’artista che sparisce e rispunta con un
berretto da muratore a dipingere insegne e cartelloni…». Con la mostra del 1963 alla Green Gallery Oldenburg
rientra nella galassia pop. Presenta nell’occasione un hamburger , un pezzo di torta e un cono gelato, molli,
enormi posati a terra produssero un effetto surreale e grottesco. Molli e fuori scala furono anche una
macchina da scrivere, un telefono, (Soft Pay-Telephone, 1963). L’idea degli oggetti molli probabilmente la
mediò da Dali. Fu comunque molto importante per Morris e la sua ricerca dell’antiform. A partire dal 1965
progetta oggetti giganteschi con finalità monumentali (Lipstick) per la Yale University.
Dopo un esordio come pittore, si dedicò alla scultura presentando, nel 1961 a New York, le prime figure
monocrome di gesso a grandezza naturale (calco dal vero), che diventarono caratteristiche della sua
produzione. Presente alle più significative manifestazioni legate alla pop art, espresse la sua visione critica
della società con la riproduzione tridimensionale di frammenti di vita quotidiana (The diner, 1964-66,
Cassiera, 1966-67), tendendo, dopo il 1971 e l'adozione del colore, a una definizione iperrealista della realtà
(Walk don't walk, 1976). Dal 1976 ottenne commissioni pubbliche per opere di bronzo che affrontarono temi
d'impegno sociale e politico (Abraham and Isaac: In memory of may 4, 1978-79, Princeton, New Jersey; The
gay liberation, 1980, New York). Proseguì nel suo impegno artistico realizzando ancora importanti opere
monumentali: The Holocaust (1984, San Francisco), The fireside chat, Breadline e Rural couple per il F. D.
Roosevelt memorial (1997, Washington). Tra le sue mostre personali: George Segal, a retrospective:
sculptures, paintings, drawings, aperta nel 1997 a Montreal, Museum of fine arts, e portata poi a Washington,
New York, Miami; George Segal. The artist's studio, Roma, Museo d'arte contemporanea, 2002. Intorno al
1960 in ambito New Dada e Nouveaux réalisme la scultura ritorna ad occuparsi del corpo umano. Vengono
proposte ‘sculture’ che sono, in realtà, calchi di persone reali e così l’opera divente espressione diretta della
realtà senza più bisogno di alcuna intermediazione. Precursore fu al solito Duchamp con Feuille de vigne
fermelle del 1950 e con With my Tongue in my Cheek del 1959. Con Duchamp ovviamente Jasper Jhons con
i Target calchi del corpo di Cage, Ives Klein con le Anthropométrie de l’epoque bleue, performance del 9 marzo
del 1960 e l’italiano Piero Manzoni con .. . Klein arriva poi alla scultura come calco con il progetto dei Portrait-
relief prpri e dei suoi amici tra cui Arman. Un calco in gesso intero sino alle coscie, completamente blu cobalto
su fondo oro. Il blu per l’artista come abbiamo già detto, era il colore simbolico per eccellenza poiché rimanda
all’assoluto cosmico cappella degli scrovegni e di questa assolutezza voleva impregnare tutta la realtà. Per lo
statunitense Segal l’uso del calco è finalizzato alla realizzazione di ritratti ‘veri’ di persone nella loro
quotidianità, un modo cioè di penetrare il flusso della vita. «Qualcuno mi aveva regalato delle bende di garza.
Ho immediatamente capito che quello che volevo fare. Ho preso me stesso come primo modello. Mi sono
avviluppato con le bende e mia moglie ha applicato il gesso. Ho fatto molti sforzi a staccare il tutto e a
rimettere insieme le parti […] Avevo trovato il mio modo d’espressione.»
- George Segal, the diner, 1964-66, Walker Art Center (Minneapolis) – porta all’estremo l’idea di calco:
lui stesso si immerge nel gesso e riproduce interi calchi di persone come oggetti.
- George Segal, la cassiera, 1966-67, Centre Pompidou (Paris)
- George Segal, Walk don’t walk, 1976, Whitney Museum of Art (New York)
- George Segal, Abraham and Isaac: in memory of May 4, 1978-79, Princeton University
- George Segal, the gay liberation, 1980, New York
Il lavoro di George Segal si confronta non tanto con l’immaginario veicolato dai mass media quanto con il
quotidiano americano ed ha come diretta sorgente il realismo urbano della pittura americana (Hopper). «Io
ho avuto delle riserve su alcune definizioni critiche della Pop Art che hanno accentuato una piuttosto insipida
esaltazione dell’America volgarmente materialistica, svolta con marcata assenza di sensibilità e adoperando
vari aspetti della tecnica d’arte commerciale».
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POP ART ITALIANA
Come abbiamo detto la Pop nasce a Londra e poi negli Usa. La Pop ha a sé di avere contatti assolutamente
privilegiati con il mondo della musica, del teatro e del cinema, casse in cui essa risuona. L’Italia non ha avuto
un ruolo secondario in questo. Anche in Italia si è fatta Pop art, e la città di riferimento è Roma. Il 1960 a
Roma fu l’anno delle olimpiadi e de La Dolce Vita di Federico Fellini e la capitale, fluida e in movimento, fu
pronta ad assorbire le grandi novità internazionali e a promuovere linguaggi specificatamente nazionali. La
Dolce Vita inserisce l’icona Anita Ekberg e inserisce elementi culturali differenti, anche contrastanti, che non
solo fanno la fortuna del film, ma anche di Roma, che era per l’appunto la capitale del cinema italiano con
Cinecittà. La galleria La tartaruga di Plinio De Martiis avviò una importante collaborazione con Leo Castelli,
forte sostenitore della Pop, e con il collezionista Giorgio Franchetti e insieme portarono artisti quali Franz
Kline, Mark Rothko, Robert Rauschenberg e Cy Twombly. Di lì a poco Franchetti spostò il proprio interesse
dalle star internazionali alla avanguardia romana, quindi italiana, e La Tartaruga divenne avamposto di un
radicale mutamento del sistema culturale cittadino inaugurando nuovi rapporti con le gallerie La salita, Appia
Antica e L’Obelisco. A corollario della attività di galleria fu determinante l’azione della galleria di Arte
Moderna diretta da Palma Bucarelli e della Rome-New York Foundation della collezionista statunitense
Frances McCann. Nel 1963 La Tartaruga inaugurò la nuova sede di Piazza del Popolo con una mostra dal titolo
Tredici pittori a Roma, esponendo tra gli altri lavori di: Franco Angeli, Tano Festa, Jannis Kounellis, Fabio
Mauri, Renato Mambor, Gastone Novelli, Achille Perilli, Mimmo Rotella. Il catalogo ebbe contributi di Nanni
Balestrini, Gillo Dorfles, Umberto Eco, Edoardo Sanguineti ed altri.
A differenza della Pop inglese o americana, la figurazione d’avanguardia italiana guarda alla storia stessa
delle immagini e all’influenza che ha l’arte sull’immaginario collettivo, dando così vita a una nuova mitologia
del quotidiano. La nuova figurazione ha questa attenzione al collettivo, cosa che la pop americana non aveva
perché fortemente individualistica. Nella Pop italiana sono impegnati per il gruppo e anche per il settore
politico. Fu dunque espressione di un paesaggio culturale complesso (la pop italiana non prescinde
dall’italianità), sfaccettato e molto permeabile capace di districarsi tra immagine dipinta e mezzi di
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comunicazione di massa (rotocalchi, fotografia, cinema, televisione) con l’obiettivo di individuare una storia
collettiva in contrasto con l’individualismo che è evidentemente il tratto dell’estetica informale.
Due elementi caratterizzano l’avanguardia pop italiana: raccontare in modo collettivo e l’atro è descrivere la
massa in un substrato tanto profondo da essere difficilmente eluso. Si i linguaggi dei mass media ma con
sempre a mente in substrato italiano.
Nato a Catanzaro nel 1941 è chiamato alle armi. Nel 1945 si trasferisce a Roma dove frequenta la giovane
avanguardia costituita dagli esponenti del Gruppo Forma 1 (Carla Accardi, Ugo Attardi, Pietro Consagra, Piero
Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo e Giulio Turcato). Il gruppo Forma fu una rivista, 1
perché uscì solo un numero, che usci nel 1947. Questo gruppo mette insieme che è astratta, che predilige la
forma in quanto tale, senza aggiungere alla forma alcun racconto o impulso etico, e che si ponte in dialogo a
distanza con la linea strettamente figurativa. L’Italia del secondo dopo guerra ha due linee: una figurativa, di
racconta popolare, come Guttuso, con una forte componente politica, appoggiato dal partito comunista, sulla
base non solo della guerra mondiale ma anche civile. Dall’altra è la corrente astratta: nascono i primi
manifesti a Firenze, come il Manifetto dell’astrattismo classico (1950). Il Gruppo Forma si attiene alla pura
forma astratta ma si schierano anche dalla parte popolare e marxista. Anche se non si tracciano raconti
popolari figurativi ci si può schierare verso il popolare. Vivono però il figurativo come una compressione della
libertà, per questo usano le forme e basta. Dopo gli inizi figurativi e le prime sperimentazioni, inizia a
dipingere quadri astratto-geometrici ispirati alle opere di Vasilij Kandinskij e Piet Mondrian. Nel 1949 si dedica
ad esperimenti di poesia fonetica, che denomina epistaltica (un neologismo inventato dall'artista), del quale
nello stesso anno redige il Manifesto. Nel 1950 espone a Parigi al Salon des Réalités Nouvelles. Nel febbraio
1951 partecipa alla mostra Arte astratta e concreta in Italia - 1951 organizzata da Palma Bucarelli e Giulio
Carlo Argan alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Nel 1951 grazie a una borsa
di studio si reca negli Stati Uniti. Nel 1952 dopo la seconda personale alla William Rockhill Nelson Gallery of
Art di Kansas City e dopo aver portato a compimento un pannello murale sul tema dell’astronomia presso il
dipartimento di Fisica e Geologia dell’università, rientra a Roma.
- Mimmo Rotella davanti al pannello pittorico dipinto per la Kansas City University nel 1952
- Piero Dorazio, Tutta Praga, 1947, collezione privata – in parallelo un’opera di un componente del
Gruppo Forma, nella stessa temperie espressiva
- Pietro Consagra, Monumento al partigiano, 1947, collezione privata – anche questo è sulla stessa
temperie. Vi sono testimonianze dell’eroismo dei partigiani che attraverso la loro perseveranza
riuscirono a portare l’Italia verso la salvezza. Il racconto figurativo e popolare si fa forma, senza però
distaccarsi dalla narrazione. Anche Arturo Martini realizza una scultura di un giovane che guarda in
alto in segno di futuro, a favore dei partigiani.
Nel 1953 Rotella comprende che il mezzo pittorico non è più un mezzo adatto per l'espressione della sua
poetica e scopre il manifesto pubblicitario come espressione artistica. Così nasce il décollage: Rotella preleva
dai muri di Roma e incolla sulla tela pezzi di manifesti strappati per strada rielaborandoli poi in studio,
adottando il collage dei cubisti e contaminandolo con elementi mutuati da una matrice informale vicina ad
Hans Arp e a Jean Fautrier e con il ready-made dadaista. Nel 1955, a Roma, nella mostra I Sette pittori sul
Tevere a Ponte Santangelo, invitato da Emilio Villa, espone per la prima volta il manifesto lacerato. In quegli
anni si serve anche dei retro dei manifesti, ricavandone delle opere astratte denominate retro d'affiches.
Ancora nel 1955 Carlo Cardazzo organizza una mostra dedicata interamente ai décollages e ai retro d’affiches
nella sua Galleria del Naviglio a Milano, mentre Leonardo Sinisgalli pubblica sul numero di settembre-ottobre
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di Civiltà delle Macchine un’ampia riflessione sulla nuova tecnica inventata da Rotella, paragonando il suo
lavoro con quello di Lucio Fontana e Alberto Burri. Dal 1956 al 1957 le sue opere sono presenti in numerose
mostre personali e collettive in Italia e all’estero, in particolare a Londra, presso l’Institute of Contemporary
Arts (ICA). Verso la fine degli anni cinquanta i suoi décollages iniziano a far intravedere dei dettagli figurativi.
Nel 1958 partecipa alla mostra Nuove tendenze dell'arte italiana organizzata da Lionello Venturi nella sede
della Rome-New York Art Foundation. L'anno successivo conosce il critico francese Pierre Restany, con il
quale inizia un lungo sodalizio che durerà fino alla morte del critico francese, avvenuta nel 2003.
Un incredibile legame con il passato: quale città ha mai stratificazione così profonda nel tempo? Forse Atene,
ma ce ne sono meno perché ha vissuto periodi di annichilimento. Roma invece è sempre stata in vigora, senza
cesure – una continuità assolutamente straordinaria. Andare a strappare un manifesto dalle mura di Roma è
un gesto assolutamente da ricordare. Nel 1960 aderisce al Nouveau Réalisme (anche se non ne firma il
manifesto), del quale è teorico Pierre Restany e che riunisce, fra gli altri, Yves Klein, Spoerri, Tinguely, César,
Arman, Christo e Niki de Saint Phalle. Insieme ai décollages, Rotella esegue anche assemblages e ready-made
con oggetti acquistati da rigattieri come tappi di bottiglia, corde, ceste di vimini e pezzi di stoffa. Questo
rimando all’oggetto di uso comune e quotidiano lo avvicina alle pratiche coeve della Pop Art britannica e
statunitense. Nel maggio 1961 espone nella storica mostra À 40° au-dessus de Dada, curata a Parigi da
Restany presso la Galerie J. La stessa galleria francese ospita nel 1962 la serie di opere ispirate al mondo del
cinema in occasione dell’esposizione Cinecittà. I suoi décollages, dall’inizio degli anni sessanta, si
caratterizzano per la presenza dei divi del grande schermo e della musica come Marilyn Monroe, Liz Taylor,
Marlon Brando ed Elvis Presley. Anche perché proprio Roma sta iniziando ad essere tempestata di manifesti
di tipo cinematografico. In questo periodo intensifica il suo rapporto con gli stati uniti partecipando alle
mostre collettive The Art of Assemblage al MoMA di New York nel 1961 e nel 1962 alla New realists della
Sidney Janis Gallery sempre a New York cui parteciparono tra gli altri: Arman, Christo, Yves Klein, Daniel
Spoerri, Jean Tinguely, Enrico Baj, Tano Festa, Mario Schifano, Jim Dine, Robert Indiana, Roy Lichtenstein,
Claes Oldenburg, James Rosenquist, George Segal, Andy Warhol, Tom Wesselmann. Espose nell’occasione
due décollages, La tazza di caffè e Birra, che nascono da manifesti pubblicitari in cui il prodotto è enfatizzato,
divenendo assoluto protagonista della composizione.
- Mimmo Rotella, Petit Monument à Rotella, 1961, MoMA (New York) – di derivazione new Dada, è
assaporabile anche il contatto con Warhol.
- Mimmo Rotella, Europa di notte (décollage), 1961, Museo Ludwig (Vienna) – una delle prime opere
che hanno a che vedere con i manifesti.
- Mimmo Rotella, Marylin (décollage), 1963, collezione privata – icona tragicamente famosa.
- Mimmo Rotella, Tazza di caffé, (décollage), 1962
- Mimmo Rotella, Birra!, (décollage), 1962
Nel 1963 Restany presenta la prima monografia dedicata a Rotella durante la mostra personale organizzata
alla Galleria Apollinaire a Milano. Nel 1964 è invitato ad esporre alla Biennale di Venezia con una sala
personale. Tra l’altro la Biennale del ’64 ha visto una presenza pervasiva della Pop, anche con Rauschenberg
e altri artisti. Dopo l’incriminazione per detenzione di stupefacenti si trasferisce a Parigi dove prosegue la
produzione dei riporti fotografici (o reportages), già iniziata nel 1963, in cui si avvale di procedimenti
fotomeccanici di riproduzione dell’immagine. La prima mostra dedicata a questa nuova serie di opere ha
luogo nell’aprile 1965 alla Galerie J di Parigi dal titolo "Vatican IV". Parallelamente alla tecnica del riporto
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fotografico realizza quelli che chiama artypos: nelle tipografie seleziona le prove di stampa dei manifesti per
applicarli sulla tela. In seguito, nei primi anni settanta, alcuni artypos vengono fatti plastificare, ottenendo
così gli artypos-plastique. Nel 1966 inizia a tenere un diario che verrà pubblicato nel 1972 con il titolo
Autorotella. Autobiografia di un artista. Alla fine del 1967 si trasferisce a New York, ospite degli amici Christo
e Jeanne-Claude e conosce Andy Warhol. Rotella in questo periodo vive al Chelsea Hotel, dove frequenta
artisti come Claes Oldenburg, Robert Indiana, Roy Lichtenstein. Tornato a Parigi alla fine del 1968, continua
la sua attività espositiva. Agli inizi degli anni settanta produce alcune opere intervenendo sulle pagine
pubblicitarie delle riviste con l'impiego di solventi e riducendole o allo stadio di impronta (frottage) o
cancellandole (effaçage). Nel 1973 una grande mostra retrospettiva è organizzata presso la Rotonda di Via
Besana a Milano.
- Mimmo Rotella, Violenza segreta, 1963 - La tecnica consiste nel fotografare pagine di riviste o di
quotidiani. I negativi vengono poi proiettati su tela emulsionata.
- Mimmo Rotella, ritratto di Lucio Fontana, 1967 - Nel caso dei ritratti la fotografia è di Rotella, il
procedimento tecnico è il medesimo. Prende tutto ciò che è scarto della società bulimica, e come i
Noveau Realiste assume gli scarti come interesse visivo. Così Rotella assume scarti di tipo fotografico,
e con questi scarti, queste prove, Mimmo Rotella lavora.
- Mimmo Rotella, Interno (artypos), 1965
- Mimmo Rotella, Nuovo, 1966
- Mimmo Rotella, Senza titolo (frottage), 1972
- Mimmo Rotella, Volto 2 (frottage), 1972 - Muovendo dal tradizionale frottage, Rotella ne elabora una
variante: cosparge del solvente sulle pagine di riviste o rotocalchi, e poi le trasferisce su fogli bianchi.
- Mimmo Rotella, Ciquita (effacage), 1972
Nel 1980 lascia definitivamente Parigi per stabilirsi a Milano. Nel capoluogo lombardo elabora i blanks o
"coperture": manifesti pubblicitari azzerati, ricoperti da fogli monocromi, come avviene per la pubblicità
scaduta. Nel 1984 realizza grandi tele a pittura acrilica dedicate al cinema: Cinecittà 2 allo Studio Marconi di
Milano . Nel 1986 realizza le "sovrapitture", ispirandosi al graffitismo: interviene pittoricamente su manifesti
lacerati ed incollati su un supporto. Vi traccia scritte e simboli come quelli che si possono leggere sui muri
cittadini . Nello stesso anno realizza la scultura in travertino Omaggio a Tommaso Campanella per la città
siciliana di Gibellina. Nel 1990 partecipa al Centre Pompidou di Parigi alla mostra Art et Pub e al MoMa di
New York all'esposizione High and Low. È invitato al Guggenheim Museum di New York nel 1994 per la mostra
The Italian Metamorphosis 1943-1968 curata da Germano Celant, poi nuovamente al Centre Pompidou nel
1996 in occasione di Face à l'Histoire. Nel 1996 al Museum of Contemporary Art di Los Angeles organizza
organizza Art and Film since 1945: Hall of mirrors, mostra itinerante che tocca varie tappe in tutto il mondo.
Nel 1998, dedica al cinema di Federico Fellini il ciclo di lavori chiamato Felliniana. Ancora in piena attività, si
spegne a Milano l'8 gennaio 2006 all'età di 88 anni.
- Mimmo Rotella, Blank viola, 1980, Fondazione Mimmo Rotella (Milano-Roma) – sui manifesti,
quando hanno finito il loro corso, ci si passa sopra della vernice azzerandoli.
- Mimmo Rotella, Lezione di anatomia (sovrapittura), 1987
«Strappare i manifesti dai muri è l’unica rivalsa, l’unica protesta contro una società che ha perduto il gusto
dei mutamenti e delle trasformazioni strabilianti. Io incollo i manifesti, poi li strappo: nascono forme nuove,
imprevedibili. Ho abbandonato la pittura da cavalletto per questa protesta. Se avessi la forza di Sansone
incollerei piazza di Spagna, con certe sue tinte autunnali, morbide e tenere, sui piazzali rossi al tramonto sul
Gianicolo». Rotella, 1957 Intravediamo nell’atto di strappare di Rotella la ancora vivissima memoria futurista
che cogliamo nell’azione di strappar via l’accumulo di immagini (di cultura dunque?). «Si parlava anche (molto
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generalmente, e non solo per Schifano) di pittura segnaletica e, ancora, di neo-metafisica. La prima
indicazione poteva servire a correggere il tiro, o a restringere il campo, della debordante ipotesi ‘novo-
realistica’ suggerendo, direi, non tanto un’idea di identificazione, quanto un tipo di parallelismo del quadro
con l’oggetto: il dipinto provoca la nostra attenzione allo stesso modo, e nella stessa misura, di un insegna.»
M. Calvesi, 1963
Roma in questo caso ancora più di Rotella gioca un ruolo di primissimo piano. Sul finire degli anni ’50 Schifano
partecipò al movimento artistico Scuola di Piazza del Popolo assieme ad artisti come Francesco Lo Savio,
Mimmo Rotella, Giuseppe Uncini, Giosetta Fioroni, Tano Festa e Franco Angeli. Il gruppo si riuniva al Caffè
Rosati, bar romano allora frequentato fra gli altri da Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia e Federico Fellini e
situato a piazza del Popolo, da cui presero il nome. Nel 1960 i lavori del gruppo vengono esposti, in una
mostra collettiva, presso la Galleria La Salita. Nel 1961 tiene la sua prima personale alla Galleria La Tartaruga
a Roma. A New York nel 1962 entrò in contatto con Andy Warhol frequentando la Factory. In questo periodo
partecipò alla mostra New Realists alla Sidney Janis Gallery. Al suo ritorno da New York, dopo aver partecipato
a mostre a Roma, Parigi e Milano, fu presente, nel 1964, alla XXXII Biennale di Venezia. In questo periodo, i
suoi quadri definiti Paesaggi Anemici, nei quali è la memoria a evocare la rappresentazione della natura con
piccoli particolari o scritte allusive, compaiono in embrione le rivisitazioni della storia dell'Arte che lo
portarono più tardi alle famose opere pittoriche sul futurismo. Cineasta sperimentale conobbe e frequentò
Marco Ferreri per il quale realizzò i titoli di testa e di coda per L’harem del 1967 e grazie al quale produsse
Trilogia per un massacro, formata dai tre lungometraggi Satellite (1968), Umano non umano (1969), a cui
collaborarono Adriano Aprà, Carmelo Bene, Mick Jagger, Alberto Moravia, Sandro Penna, Rada Rassimov e
Keith Richards e Trapianto, consunzione, morte di Franco Brocani (1969). In questi anni strinse amicizia con i
Rolling Stones.
- Mario Schifano, Paesaggio anemico, 1965 – paesaggi informali con parti di scrittura che lo ancorano
a una poetica altra.
- Mario Schifano, Paesaggio anemico, 1965 (?)
- Nicolas De Stael, Plage (Souevenir du midi), 1952
Nel 1969 l'appartamento, sito in piazza in Piscinula a Roma che allora apparteneva a Schifano, fu usato da
Ferreri come set del film Dillinger è morto, che vede alcuni dipinti dell'artista alle pareti. Nel 1969 i Rolling
Stones dedicano a Mario Schifano il brano Monkey Man. Molti dei suoi lavori, i cosiddetti monocromi,
presentano solamente uno o due colori, applicati su carta da imballaggio incollata su tela. L'influenza di Jasper
Johns si manifestava nell'impiego di numeri o lettere isolate dell'alfabeto, ma nel modo di dipingere di
Schifano possono essere rintracciate analogie con il lavoro di Robert Rauschenberg. In un quadro del 1960 si
legge la parola "no" dipinta con sgocciolature di colore in grandi lettere maiuscole, come in un graffito
murale. Tra le opere più importanti di Mario Schifano vanno ricordate le Propagande, serie dedicate ai marchi
pubblicitari (CocaCola ed Esso) chiaramente pop. Negli anni ‘80 entrò in contatto con il gruppo di creativi
(illustratori, scrittori, fumettisti, reporter) della rivista Frigidaire (Stefano Tamburini, Vincenzo Sparagna,
Andrea Pazienza, Tanino Liberatore, Massimo Mattioli, Filippo Scozzari).
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- Mario Schifano, Santa Tecla, 1961
- Mario Schifano, Vero amore incompleto, 1962
- Mario Schifano, NO, 1960, Galleria d’Arte Niccoli (Parma
- Mario Schifano, Propaganda, 1962
- Mario Schifano, Esso, 1962 (?)
- Copertina di Frigidaire del 1988, in memoria di Andrea Pazienza – schifano si lega anche alla grafica
d’avanguardia, questa opera in memoria di Pazienza.
Nel 1984 Schifano realizzò il Ciclo della natura, composto da dieci grandi tele donate al Museo d'Arte
Contemporanea di Gibellina. Il 27 marzo 1997 l'artista, che negli anni ottanta aveva subito delle condanne
per possesso di sostanze stupefacenti, ottenne dalla Corte d'Appello penale di Roma la completa
reintegrazione giudiziaria perché "la droga era solo per uso personale". Morì a 63 anni, mentre si trovava nel
centro di rianimazione dell'ospedale Santo Spirito di Roma, a causa di un infarto.
- Mario Schifano, Ciclo della natura per il Museo Civico di Arte Contemporanea di Gibellina, 1984
«La pittura di Schifano propone un nuovo modo di vedere; a voler essere più precisi, di percepire. Le sue
immagini sono mediate da altre immagini, soprattutto fotografiche. Eppure il loro pregio è quello
dell’immediatezza.» Calvesi, 1963
Pur non avendo frequentato regolari studi d’arte, inizia a dipingere nel 1957. «Quando una persona ha un
malessere profondo deve cercare un modo per non essere più sola, deve in definitiva, trovarsi un interesse
che l’accompagni per la vita». Nel 1955 entra in contatto con lo scultore Edgardo Mannucci che frequenta
fino al 1957, amico di Alberto Burri. Profondamente affascinato dall’opera di quest’ultimo, tanto da
riprenderne la matericità consunta dei Catrami come nell’opera Da una ferita scaturì la bellezza del 1957 –
che prende spunto dal ricordo del trauma vissuto la notte del bombardamento di San Lorenzo, il 19 luglio
1943. Dirà: «La materia per me è un frammento di questa enorme lacerazione che ha travolto l’Europa; i miei
primi quadri erano così, come una ferita dalla quale togli dei pezzi di benda [...] dove il sangue si è rappreso
ma non è più una macchia rossa». Questi primi approcci con la pittura sono anche segnati dalla militanza nel
Partito comunista: si iscrive al Partito Comunista Italiano, conoscendo nella sezione di Campo Marzio, prima
Tano Festa e, successivamente, Mario Schifano con i quali condivide il ricordo del dramma della guerra.
Abbandona questa posizione politica dopo l’invasione dell’Ungheria, dimostrandosi più vicino alla sinistra
extraparlamentare e ai movimenti maoisti. Nel 1959 espone le sue prime opere nella collettiva alla Galleria
La Salita di Roma con Festa e Uncini. Nell’autunno dello stesso anno compare insieme ad Agostino Bonalumi,
Jasper Johns, Yves Klein, Robert Rauschenberg e Mimmo Rotella sulla rivista Azimuth, fondata da Piero
Manzoni e da Enrico Castellani. Frequenta, inoltre, in quegli anni il bar Rosati dove allaccia significativi
rapporti con Renato Guttuso, Pino Pascali, Jannis Kounellis, Fabio Mauri.
- Franco Angeli, Da una ferita scaturì la bellezza, 1960, collezione privata – vediamo la falce e il
martello, simbolo del comunismo internazionale.
Erano giovani, belli, talentuosi e sulle tele dipingevano ad armi pari con la New York della Pop Art, dove Andy
Warhol muoveva i primi passi per conquistare il mondo...ma il mondo dell'arte li conosce come i ragazzi di
piazza del Popolo, sostenuti da galleristi visionari come Plinio De Martiis (galleria la Tartaruga) e da
collezionisti appassionati come Giorgio Franchetti.
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Nel 1960 Angeli inaugura la sua prima personale alla stessa Galleria La Salita in Roma con una serie di opere
caratterizzate da veli di pittura a olio e calze di nylon tese, ricoperte di garze, simili a ricordi e ad assenze che
Cesare Vivaldi descrive come «lagrime delle cose». Nello stesso anno, sempre alla Salita, partecipa alla
collettiva 5 pittori. Roma 60: Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano, Uncini a cura di Pierre Restany. Nel 1962,
partecipa alla mostra Nuove Prospettive della Pittura Italiana presso la Galleria Comunale d'Arte Moderna di
Bologna, dove presenta una serie di opere in cui iniziano a comparire le simbologie del potere, inizialmente
svastiche, croci e mezzelune. «Come scrive Boatto coprendo i suoi simboli con un velo Angeli tendeva
alterarne la violenza oggettiva», la violenza degli accadimenti reali che per lui assumono un’importanza
centrale e che non smette di passare nelle proprie opere; basti pensare alla serie dei Cimiteri dei primi anni
sessanta, sequenze di croci bianche che rievocano la potenza degli Schermi di Mauri e degli Achrome di Pietro
Manzoni, con i quali era in stretto contatto. Angeli ritrae i frammenti della storia e sembra tenere traccia
degli eventi contemporanei, dando vita a opere come 25 luglio del 1963, che commemora il giorno della
caduta del fascismo nel 1943. È un discorso collettivo.
- Franco Angeli, Ipocrisia, 1959 – utilizza delle calze di nylon, variamente tirate e elaborate.
- Franco Angeli, Ostinazione, 1959
- Franco Angeli, Cimitero francese, 1962 – vediamo le svastiche. Vi è il senso del collettivo, dell’azione
collettiva
- Franco Angeli, Cimitero nazista, s.d.
- Fabio Mauri, Schermo, 1957 – uno schermo televisivo vuoto – dietro c’è Malevic, ma anche una presa
di posizione molto dura ne confronti dei mass media.
- Franco Angeli, 25 luglio 1943, 1963, Fondazione Arnaldo Pomodoro (Milano) – il racconto collettivo
ritorna, i due protagonisti, gli americani e la falce e il martello, simbolo del comunismo, che sono
stati gli attori principali alla fine del nazismo. È il periodo in cui si manifesta la guerra fredda e sono i
due poteri di grande incertezza che o salvano tutti o rovinano tutti. La crisi di Cuba porto alle soglie
della terza guerra mondiale e l’atomo era già stato sperimentato. Furono proprio Kennedy e
Krushionv che fermarono le rispettive corrazzate.
- Franco Angeli, Stelle, 1961, collezione Valerio De Paolis
- Franco Angeli, La bestia, 1963, Collezione Laureati Briganti – l’aquila è il simbolo di potere da che
esiste l’impero: siamo di fronte all’opposizione verso l’imperialismo americano. C’è chi si schierò con
La Russia, con la sua dittatura, o con Mao in Cina. Fa parte del dibattito del tempo.
Nel 1963 Angeli espone nella collettiva 13 pittori a Roma alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis. Nello
stesso anno inaugura una personale sempre a La Tartaruga. Nel 1964, per la personale alla Galleria dell’Ariete
di Milano Angeli utilizza simboli ideologici stereotipati, tratti dall’arredo urbano, sintetizzando il carattere
retorico e celebrativo dei reperti di una Roma eterna e capitale: «I miei primi quadri sono la testimonianza
del contatto quotidiano con la strada. Vidi i Ruderi, le Lapidi, simboli antichi e moderni come l’Aquila, la
Svastica, la Falce e Martello, obelischi, statue Lupe Romane, sprigionare l’energia sufficiente per affrontare
l’avventura pittorica». Tutto ciò che gli serve già c’è (elemento comune alla Pop), basta che io lo prenda e
diventa quella il pragma della mia lingua. È come l’alfabeto: le lettere ci sono già – e così ci sono ancora gli
oggetti come i ruderi, la falce. Sono quei frammenti capitolini che presenterà nella mostra romana
dell’ottobre 1964 allo Studio d’arte Arco d’Alibert, mentre a marzo espone con Bignardi, Festa, Fioroni,
Kounellis, Lombardo, Mambor e Tacchi alla Galleria La Tartaruga. Nel 1964 partecipa alla Biennale di Venezia.
L'anno successivo è tra i protagonisti della mostra Una generazione alla Galleria Odyssia di Roma; in autunno
espone quasi contemporaneamente in due personali – alla Galerie J a Parigi e alla Galleria Zero di Verona –,
alla IX Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma e nella mostra L’art actuel en Italie: semaines italiennes al
Casino Municipal di Cannes. Si datano intorno a questi anni una serie di tazebao (Compagni, Berlino 1945,
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Compagno vietnamita, Occupazione di un monumento equestre e Abbraccio eterno) nella cui estrema
poetica rivoluzionaria Dario Micacchi individua un fare politicamente pittura, ovvero un «vedere e far vedere
politicamente la realtà». «Angeli ha trovato nella moneta il “piccolo mondo simbolico” che da anni cercava e
credeva di aver trovato nelle bandiere, poi negli stemmi, poi nelle iscrizioni lapidarie. La moneta, nelle mani
di Angeli, diventa qualcosa di totale, anche se è soltanto una immagine emblematica, anche se è soltanto una
base convenzionale di scambi, anche se cioè è soltanto il simbolo di un simbolo»; lo dimostrano la personale
dal titolo Half Dollar che Angeli inaugura all’Arco d’Alibert a Roma nel gennaio 1966 e le partecipazioni alle
mostre Artisti italiani d’oggi a Bucarest Aspetti dell’arte italiana contemporanea alla Galleria Nazionale d’Arte
Moderna di Roma e Moderne Kunst aus Italien a Dortmund. A ottobre inaugura America America (Half Dollar)
alla Galleria dell’Ariete, presentando delle grandi aquile dorate velate sui toni del blu, del bianco e del rosso.
Lo stesso titolo è usato per la personale allo Studio d’arte Arco d’Alibert a Roma inaugurata nel marzo 1967;
ad aprile partecipa alla collettiva 8 pittori romani alla Galleria de’ Foscherari di Bologna e a giugno alla mostra
Undici artisti italiani degli anni Sessanta nell’ambito del Festival dei Due Mondi di Spoleto.
- Franco Angeli, La lupa, 1974, collezione privata – è simbolo di Roma, anzi un simbolo esaltato durante
l’epoca fascista con il recupero dell’iconografia imperiale evidentemente farlocca. Qui siamo dopo
ma questo era radicato.
- Franco Angeli, Corteo, 1968, Mambo (Bologna) – il ’68 è l’anno della rivolta degli intellettuali contro
le dittature, con l’episodio a Praga. È anche il periodo della Guerra del Vietnam. Questo malessere
etico fu recepito da artisti di tutto il mondo.
- Franco Angeli, L’abbraccio eterno, 1968, Collezione Dello Schiavo (Roma)
- Mario Schifano, Compagni compagni, 1968, Fondazione Marconi (Milano) - affratellamento
- Franco Angeli, Souvenir, 1970 (?), collezione privata – c’è tutto: Roma, le stelle degli Stati Uniti
- Franco Angeli, Half Dollar, 1966, Collezione privata (Montecarlo) – è la trasposizione di un mezzo
dollaro.
Negli anni 1968-1970, partecipa al fermento politico ed artistico di quegli anni in particolare manifestando
attivamente contro la Guerra del Vietnam. Quegli anni sono caratterizzati dagli abusi di alcool e droghe che
fanno di lui e degli altri componenti della Scuola di Piazza del Popolo un gruppo di artisti maledetti. A
settembre partecipa alla IX Biennale di San Paolo del Brasile e realizza il suo primo Giornate di lettura, cui
seguirà una lunga attività di ricerca e commistione tra video, fotografia ed arti visive, testimoniata da Schermi
(1968), New York (1969), Viva il Primo Maggio (1968), Souvenir (1984), solo per citarne alcuni. In quel periodo
si avvicina alla fotografia, prevalentemente in bianco e nero, privilegiando soggetti intimi. Nel suo studio di
via dei Prefetti a Roma ritrae sé stesso in compagnia dei suoi amici Jannis Kounellis, Achille Bonito Oliva, il
gallerista Pio de Martiis, il poeta Sandro Penna nonché di una giovanissima Isabella Rossellini. Queste
immagini furono raccolte in una mostra curata da Carlo Ripa di Meana del 2011. Nel 1968 interpreta nei
panni del protagonista il film Morire gratis di Sandro Franchina. Nel gennaio 1969 è per la prima volta negli
Stati Uniti, dove esporrà nella collettiva Italian Art Show: Franco Angeli, Cesare Tacchi, Tano Festa and Lorri
Whiting, allestita tra ottobre e novembre alla Contemporary Arts Gallery, Loeb Student Center di New York.
Nei primi anni settanta Angeli, continuando la ricerca sul dato reale, apre la propria pittura alla serie di
paesaggi Dagli Appenini alle Ande e Canto popolare delle Ande, di ispirazione geometrica, dedicati al golpe
cileno dell’11 settembre 1973; riprende il tema della guerra del Vietnam nelle opere Anonimo euroasiatico
(1969), Compagni (Giap e Ho Chi Minh) e Vietcong (1971) e affronta anche il colpo di stato in Grecia. Nel 1978
partecipa alla Biennale di Venezia curata da Achille Bonito Oliva. Negli anni ottanta, Franco Angeli si dedica
maggiormente alla figurazione: capitelli, piazze deserte e "marionette", quest'ultime interpretate come
autoritratti. Iniziano, infatti, a comparire nei suoi paesaggi «gli aeroplanini, infantilmente gioiosi, che portano
la morte nel Vietnam», che sembrano richiamare i bombardamenti della seconda guerra mondiale: «È infatti
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in lui evidente, per chi lo conosce e lo frequenta a causa di questa attitudine, la tensione narrativa in cui i li
del vissuto personale sono inestricabilmente intrecciati con quelli della storia». Il forte interesse sociale e
popolare prosegue nelle opere degli anni ottanta, quando l’artista riprende il tema della guerra nella serie di
paesaggi esotici con piramidi, obelischi e aerei che diventeranno poi vere e proprie Esplosioni (1986). Le
forme divengono stilizzate e lasciano affiorare guglie, capitelli e piazze deserte come in «un senso grandioso
e struggente di scavo durante il quale storia ed esistenza riemergono come perfetti ed inalterati solidi geo-
metrici che irradiano nuovi colori della vita freschi, fragranti, puri verdi, blu, rossi». Il tema della marionetta,
frequente a partire dal 1984, è una sorta di autoritratto che sembra preludere alla fase finale della sua vita.
Angeli, infatti, si spegne a Roma il 12 novembre 1988.
Fin dagli inizi della sua carriera, i compagni di Tano Festa furono i coetanei Mario Schifano e Franco Angeli.
Con loro maturò un’amicizia destinata a durare a lungo, un sodalizio che si estese ad altri giovani artisti,
Giosetta Fioroni, Cesare Tacchi, Jannis Kounellis, Mario Ceroli, Umberto Bignardi, e che segnò una stagione
felice dell’arte a Roma. Renato Mambor, che divise lo studio con Tano Festa tra il 1959 e il 1961, ricorda:
«Eravamo tutti attratti dal Surrealismo e Tano all’inizio faceva delle cose un po’ surreali, tante piccole
‘zoomorfe’, così le chiamava, erano come piccoli insetti. Eravamo tutti e due innamorati del primo Matta ».
Nel 1959 Tano Festa approda alla galleria La Salita di Gian Tomaso Liverani, all’epoca una delle sedi espositive
più prestigiose a Roma per l’arte contemporanea. Espone, inizialmente, in una collettiva, insieme a Franco
Angeli e a Giuseppe Uncini. «Fin dalle sue prime esperienze», è scritto di Tano Festa nel cartoncino distribuito
in occasione della mostra, «ha rivelato particolare interesse verso alcune tendenze del surrealismo astratto
europeo e americano». Nel 1960 Festa abbandona la gestualità informale e realizza i suoi primi dipinti
monocromi. Privilegia il colore rosso solcato da strisce di carta, imbevute dello stesso colore, che scandiscono
verticalmente la superficie del quadro. Il rosso di Tano Festa non é sensuale ed elegante come i colori di
Mario Schifano, che in contemporanea con il suo amico realizzava lo stesso radicale azzeramento. Quello di
Festa è un rosso che ricorda una materia organica come il sangue, ma anche la luce utilizzata nella camera
oscura nella fase dell’impressione fotografica.
Nel 1960 Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano e Uncini presentano al pubblico, con una serie di mostre, la loro
nuova pittura antirappresentativa, aniconica, monocroma. Una prima mostra è documentata alla galleria
Appunto di Roma, in aprile espongono nella galleria Il Cancello di Bologna, presentati dal poeta Emilio Villa,
l’esegeta più sensibile, autore e ideatore della rivista Appia Antica (1959-1960). Gli stessi artisti, infine, nel
novembre del 1960, inaugurano a La Salita la nota mostra Roma 60. 5 pittori, presentata da Pierre Restany,
il critico francese che situò questi giovani tra Parigi e New York, tra i neodadaisti e gli artisti del Nouveau
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Realisme, da lui tenuto a battesimo proprio in quegli anni. Nel 1961 Festa comincerà a scandire la superficie
dei suoi quadri non più con la carta, ma con listelli di legno disposti verticalmente a intervalli irregolari. Sono
questi i nuovi lavori che l’artista presenta alla sua prima personale nel maggio 1961 alla galleria La Salita, in
occasione della quale viene pubblicato un catalogo con testo di Cesare Vivaldi. Il legno, sostituendo la carta,
contribuisce a dare un aspetto più oggettuale al quadro e l’uso di vernici industriali allontana definitivamente
ogni partecipazione emotiva dell’autore.
Nel 1962 fanno il loro ingresso, nell’arte di Tano Festa, gli oggetti. Finestre, Porte, Armadi, oggetti del comune
mobilio, ricostruiti dal falegname secondo il disegno dell’artista, privi di cardini, maniglie, serrature,
perennemente chiusi. La Finestra rossa e nera è esposta per la prima volta nel maggio del 1963, in una mostra
collettiva intitolata La materia a Roma a La Tartaruga di Plinio De Martiis, che segna l’inizio di una lunga
collaborazione con questa importante galleria romana, dove in quegli stessi anni esponevano Kounellis e
Twombly, Rauschenberg, Rothko, Kline. Lì Festa incontrò Giorgio Franchetti, che allora collaborava con Plinio
De Martiis e che diventerà il più importante collezionista dell’artista e rimarrà negli anni suo amico e
sostenitore. Nel 1963 soggiorna a Parigi ed è invitato alla mostra New Realists alla galleria Sidney Janis di
New York, dove propone Persiana.
Al 1963 risalgono anche i suoi primi quadri con citazioni da artisti del
passato. Nel settembre del 1963 Francesco Lo Savio tentò il suicidio e morì dopo un’agonia di venti giorni.
«C’è un prima e un poi nel destino di Tano. Prima della morte di Francesco a Marsiglia. Dopo la morte di
Francesco a Marsiglia. (…) Tano così mi raccontò, rimase giorni e giorni, forse diciotto, al capezzale del fratello
moribondo. Si allontanò solo quando i medici gli dissero che c’era un certo miglioramento. Fece appena in
tempo ad arrivare in albergo (…) che gli telefonarono dall’ospedale: ‘Venez: votre frère est très fatiguè’.
Francesco era morto (…)».
Il 1965 è l’anno del primo viaggio di Tano Festa a New York. Il soggiorno a New York è ben documentato da
una serie di lettere di Festa a Giorgio Franchetti, il collezionista degli italiani, che fa la triade con La Tartaruga
(Plinio de Martis) e Leo Castelli. che svelano la tensione nel mettere a frutto la sua permanenza in una delle
città più ambite per un artista, in quegli anni: «(…) Tu sai bene che venire qua è stato per me per molto
tempo un lungo sogno (…)»; vi si legge anche la difficoltà di Tano Festa di affermare a New York l’identità
d’artista che egli si era creata a Roma, la delusione di non riuscire ad entrare nel mercato americano:«(…)
Leo Castelli, come ho scritto a Plinio, è stato molto cortese, ma a Plinio mi sono dimenticato di aggiungere
che è stato molto freddo. (…) sono certo che con lui non ci sia niente da fare (…).» Ma in queste lettere il
giovane artista dimostra anche di saper cogliere criticamente gli aspetti più interessanti di New York: «(…)
fino alla fine di maggio qui a New York (…) ci sono una serie di spettacoli, balletti e happening fatti dagli artisti:
Rauschenberg, Dine, Oldenburg ecc. ai quali io assisto puntualmente. (…) Tempo fa sono stato nello studio di
Lichtenstein (…).» È stato molto gentile, di una gentilezza autentica, modesta e non affettata. Ho incontrato
pure Oldenburg, il quale è stato molto cordiale, e uno di questi giorni lo vado a trovare. (…) L’unico che non
si vede è il grande Jim che sarebbe Dine, di cui ho visto da Janis un quadro formidabile in una collettiva (…)».
Sempre a New York nel 1965, realizza una serie di cieli, Cielo meccanico, Cielo newyorkese, Grande nuvola.
Qui il cielo azzurro con nuvole, che era un tema caro a Tano Festa già dal 1963, diventa più dinamico si divide
in riquadri, viene attraversato da strisce e palline: «(…) A New York, in quel momento, era talmente tutto pop
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che anche il cielo finiva per essere visto a palline, a strisce, a quadrettini (…)» ha dichiarato Festa in
un’intervista. Nel 1966 presenta un’antologia del suo lavoro alla Galleria Schwarz di Milano, accompagnata
da un catalogo con un testo di Maurizio Fagiolo dell’Arco e partecipa alla mostra “Cinquant’ anni Dada. 1916-
1966” che si tiene presso il Civico Padiglione d’Arte Contemporanea a Milano a cura di Arturo Schwarz. Risale
al 1967 un nuovo lungo soggiorno a New York, cominciato negli ultimi mesi dell’anno precedente ed
interrotto da un breve ritorno a Roma nell’aprile del 1967, quando Festa presiede all’apertura di una sua
nuova mostra antologica a La Salita, allestita con le opere della collezione di Gian Tommaso Liverani e
presentata in catalogo con una intervista all’artista di Giorgio De Marchis.
A New York, nel 1967, in uno studio al Chelsea Hotel, Festa dipinge solo immagini da Michelangelo,
soprattutto dall’Aurora delle Tombe Medicee ed intitola tutte le opere: Michelangelo according to Tano
Festa. Ne scrive Furio Colombo, presentando una selezione di queste opere nella mostra personale alla
Galleria Arco d’ Alibert a Roma nell’ottobre del 1968, poi riproposta alla galleria Il Punto di Torino: «(…) La
testa di Michelangelo sproporzionatamente grande per le strisce di luce, per i fondi di colori, (quello smalto
più smagliante e più duro che si trova solo a New York), per le invenzioni grafiche, per le soluzioni formali,
per le citazioni op e pop restate sul fondo degli occhi gremiti di immagini. Si è portato un’ossessione in classe
turistica da Roma a New York e da New York a Roma, come si porta una malattia, un sogno ricorrente o una
storia d’amore (…)». Nell’ottobre del 1967 apre la grande rassegna intitolata Lo spazio dell’immagine
dedicata alle opere ambientali, allestita a Palazzo Trinci a Foligno e ordinata da un comitato di curatori
composto da Umbro Apollonio, Maurizio Calvesi, Giorgio De Marchis, Gillo Dorfles. Festa partecipa con Il
Cielo (Monumento celeste per la morte di un poeta – dedicato a Francesco Lo Savio), una grande struttura in
legno dipinto: una sorta di muro ottenuto con cinque elementi a incastro, che la pittura trasforma in un cielo
solcato da nuvole. Si conosce un altro monumento di Festa dedicato al fratello, il Monumento ad un poeta
morto, una scultura in metallo verniciato e parzialmente dipinto con il motivo del cielo, costituita da una
cornice attraversata da una barra che dà profondità a una visione altrimenti frontale. In occasione della
mostra personale alla galleria Mana Art Market di Roma, che si inaugura il 6 novembre 1969, l’artista realizza
una edizione d’arte della scultura in metallo e una versione in plexiglass di grandi dimensioni. Il 24 giugno
del 1989 nell’ambito del progetto Fiumara d’arte, ideato da Antonio Presti, verrà inaugurata una grande
versione della scultura realizzata in cemento sulla spiaggia di Villa Margi, in provincia di Messina. In molti
dipinti realizzati tra il 1967 ed il 1969, su uno sfondo bianco o azzurro, è tracciato, in nero o in blu, un disegno
compositivo essenziale e geometrico che contiene scritte con il normografo o sagome di immagini proiettate.
Appartengono a questa serie i dipinti: Gli amici del cuore del 1967 e Per il clima felice degli anni sessanta, del
1969, dove compaiono i nomi di artisti, collezionisti e galleristi a fianco dei quali Tano Festa aveva
intensamente vissuto: Schifano, De Martiis, Franchetti, Rotella, Castellani, Lo Savio, Manzoni, Angeli. Lo
stesso impianto, con numerose varianti, si trova nei dipinti intitolati, con spirito metafisico, Solitudine nella
piazza, con la sagoma dell’ammiraglio Horatio Nelson in cima al monumento di Trafalgar Square a Londra.
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- Tano Festa, Gli amici del cuore, 1967, collezione privata
- Tano Festa, Solitudine nella piazza n.4, 1969, collezione privata – elaborazione della colonna
dell’ammiraglio Nelson a Trafalgar square - estrapolazione di un passaggio storico importante e ne
fa elemento di un racconto popolare, anche in senso critico.
- Tano Festa, Monumento ad un poeta morto, 1989, (Reitano) – Dedicata a Francesco lo Savio, il
fratello di Festa che si suicidò ed questo episodio è rimasto nella sensibilità dell’artista una ferita mai
rimarginata.
Nel marzo del 1988, poco dopo la scomparsa dell’artista, viene inaugurata una mostra antologica, a cura di
Achille Bonito Oliva, ospitata dal Comune di Roma nei locali dell’ex Stabilimento Peroni, oggi Museo di Arte
Contemporanea di Roma. Un altro importante omaggio al lavoro dell’artista è stata la mostra antologica
ospitata nell’ambito della XLV Biennale di Venezia, nel 1993, nella sede di Ca’Pesaro intitolata: Fratelli, perché
vi furono esposte, insieme alle sue, anche le opere del fratello Francesco Lo Savio, su invito di Achille Bonito
Oliva e curata da Maurizio Fagiolo Dall’Arco. L’ampio regesto del curatore, pubblicato in quell’occasione,
rimane uno strumento indispensabile per l’esegesi dell’artista.
Firenze non è stata molto importante per il Novecento, ma un episodio in particolare va preso in
considerazione. I portatori di questa meravigliosa utopia sono giovani intellettuali che fondano nel 1963, a
Firenze, il Gruppo 70, che si scioglierà nel 1968. Sono gli artisti della poesia, non tanto della pittura: il
linguaggio poetico non è più sufficiente: il mondo è cambiato troppo e il linguaggio non è più lineare – ha a
che vedere come una massa di oggetti visivi. Per comporre un testo occorre la parola, ma anche l’immagine.
Niente sembrava allora adatto a quella modernità che stupiva e travolgeva. Non era sufficiente la pittura,
non era sufficiente la letteratura, né soddisfaceva la musica tradizionale. La ricerca di nuove soluzioni
"comunicative" era divenuta ineludibile. Immagini stravolte, tagliate, ricomposte a suggerire altri significati,
ma allo stesso tempo così familiari, così nostre, pienamente riconoscibili per noi figli della comunicazione
pubblicitaria, del linguaggio televisivo, della cultura per immagini. Parole forti, piene di senso, ironiche, che
dallo slogan prendono la forma incisiva, lapidaria e dalle contraddizioni del loro tempo i contenuti.
Appartennero al Gruppo storico della Poesia Visiva: Ketty La Rocca, Roberto Malquori, Lucia Marcucci,
Eugenio Miccini, Luciano Ori, Michele Perfetti e Lamberto Pignotti.
- Ketty La Rocca (1938-1976), Intellettuali in collegio, 1965-66 – l’opera è costruita con una parte
letterale, e una parte è costituita da delle immagini: entrambe fanno parte di uno stesso linguaggio.
- Ketty La Rocca (1938-1976), Top Secret, 1965
- Ketty La Rocca (1938-1976), Elettro…addomesticati, 1965 – è estremamente critico verso il ruolo
della donna che negli anni ’60 viene costruito – colei che manda avanti la famiglia con tutti gli
elettrodomestici che vanno acquistati. La donna è “pertanto felice” perché ha gli elettrodomestici,
ma proprio questi la conducono al silenzio - non deve faticare e non ha più voce, non deve aver più
niente da dire.
- Lucia Marcucci (1933), La poltrona del diavolo, 1965 – ha lavorato a Firenze in una corrente di cinema
sperimentale. Oltre a fare collage con ritagli dei rotocalchi, faceva i film collage: entrò in un deposito
di pellicole dismesse, che venivano tagliate a pezzi, incollate tra loro in maniera casuale e proiettate
in analogico. ( ricorda le poesia Dada, ma non sono solo più parole, ma immagini).
- Lucia Marcucci (1933), Punto, 1965, collezione privata
- Eugenio Miccini (1925-2007), L’uomo, 1963, collezione privata – le immagini non illustrano una
scrittura ma sono parte dello stesso discorso.
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- Eugenio Miccini (1925-2007), Un amore difficile, 1963, collezione privata
- Eugenio Miccini (1925-2007), L’uomo, 1963, collezione privata
- Luciano Ori (1928-2007), Il filo della bellezza, 1963, Museo del Novecento (Firenze) – legato al canone
di bellezza femminile
- Luciano Ori (1928-2007), Io c’era, 1966-67
- Lamberto Pignotti (1926), Carlo Marx ha detto no alla coesistenza letteraria, 1965
Se la Pop italiana ha sede a Roma, la poesia visiva ha luogo a Firenze. Firenze è una città restia all’arte
contemporanea, per l’immenso e incommensurabile patrimonio che ha avuto. Allora analizziamo questo
importante movimento fiorentino, che si nomina Gruppo 70. I portatori di questa meravigliosa utopia sono
giovani intellettuali che fondano nel 1963, a Firenze, il movimento. Niente sembrava allora adatto a quella
modernità che stupiva e travolgeva. Non era sufficiente la pittura, non era sufficiente la letteratura, né
soddisfaceva la musica tradizionale. La ricerca di nuove soluzioni "comunicative" era divenuta ineludibile.
Immagini stravolte, tagliate, ricomposte a suggerire altri significati, ma allo stesso tempo così familiari, così
nostre, pienamente riconoscibili per noi figli della comunicazione pubblicitaria, del linguaggio televisivo, della
cultura per immagini. Parole forti, piene di senso, ironiche, che dallo slogan prendono la forma incisiva,
lapidaria e dalle contraddizioni del loro tempo i contenuti. Appartennero al Gruppo storico della Poesia
Visiva: Ketty La Rocca, Roberto Malquori, Lucia Marcucci, Eugenio Miccini, Luciano Ori, Michele Perfetti e
Lamberto Pignotti. Il movimento si è sciolto nel .. , anche per una cecità del contesto fiorentino in cui è nato.
- Ketty La Rocca (1938-1976), Intellettuali in collegio, 1965-66 – Ketty la Rocca è una figura che ha
importante rilievo nel valore della donna. Utilizzano la tecnica del collage, che ha un excursus che
parte dal cubismo. La parola scritta ha lo stesso peso dell’immagine: è un’idea piuttosto singolare,
perché hanno viaggiato in due rette parallele fino a questo momento. La parola scritta dalle nostre
parti ha avuto addirittura un primato a fronte di un’immagine visiva che può accompagnarla.
- Ketty La Rocca (1938-1976), Top Secret, 1965 – estrapola dai rotocalchi elementi simobili della
donna: l’uso della cosmesi, l’uso della bellezza, e quando tutto sembra andare per il meglio ecco che
questa figura femminile viene posta dentro una grata. Il rossetto in alto a destra dovrebbe enfatizzare
le labbra, ma del resto le labbra sono proprio dietro una sbarra e non sono visibili.
- Ketty La Rocca (1938-1976), Elettro…addomesticati, 1965 – è il momento del tentativo di proporre
alla massa l’elettrodomestico, una sorta di facilitatore e catalizzatore della felicità. La donna ancora
qui ha la bocca chiusa, come a voler sottolineare che la donna non ha parola.
- Lucia Marcucci (1933), La poltrona del diavolo, 1965 – il collage allude a Hitler e alla seduzione nel
modo più tradizionale. “Fotoromanzo giallo” è un periodico di grandissima popolarità e i poeti visivi
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si ispirano molto a questi prodotti. Era pieno di riferimenti a personaggi famosi e loro fotogrammi
che prendevano piega in una storia, con immagini e didascalie. Una stampa popolare estremamente
diffusa e veicolo di diffusione culturale di grande importanza.
- Lucia Marcucci (1933), Punto, 1965, collezione privata – Lucia Marcucci ha inventato il cinecollage.
In quei tempi era in voga il cinema sperimentale. Vicino alla stazione centrale di Firenze c’era un
deposito di vecchie pellicole cinematografiche, in particolare quelle dei cinegiornali. Dopo un giorno
queste pellicole non avevano più senso perché parlavano del quotidiano. Lucia ebbe l’occasione di
poterli prendere, li tagliava a pezzi e li rincollava, costruendo un collage visivo di grande impatto.
- Eugenio Miccini (1925-2007), L’uomo, 1963, collezione privata – nella poesia visiva c’è sicuramente
un impronta politica.
- Eugenio Miccini (1925-2007), Un amore difficile, 1963, collezione privata
- Luciano Ori (1928-2007), Il filo della bellezza, 1963, Museo del Novecento (Firenze) – c’è un contatto
con Andy Warhol sul volto di Marylin Monroe. Questo lavoro non è assolutamente da meno di ciò
che faceva Warhol nella sua Factory – è in piena contemporaneità.
- Luciano Ori (1928-2007), Io c’era, 1966-67 – fa riferimento all’alluvione del 1966, un lutto
massacrante che ebbe una ribalta mondiale per il fatto che Firenze è universalmente nota. La città
reagì in maniera assolutamente eroica e la politica non seppe far fronte. I fiorentini si fecero i capofila
e restaurarono loro stessi la città.
- Lamberto Pignotti (1926), Carlo Marx ha detto no alla coesistenza letteraria, 1965
I Dada in questo merito sono difficili da non ricordare. Scrive infatti Tristan Tzara: Indicazioni per fare una
poesia dadaista: • Prendete un giornale • Prendete un paio di forbici • Scegliete nel giornale un articolo
che abbia la lunghezza che voi desiderate dare alla vostra poesia • Ritagliate l’articolo • Tagliate con cura
ogni parola che forma tale articolo e mettete tutte le parole in un sacchetto • Agitate dolcemente • Tirate
fuori le parole una dopo l’altra disponendole nell’ordine con cui le estrarrete • Copiate
coscienziosamente • l’opera vi rassomiglierà.
La parola stessa diventa un oggetto. Le ricerche verbo-visuali affondano le proprie origini sia nel
futurismo (le parolibere di Marinetti) sia ovviamente nel DADA. Tristan Tzara nel Manifesto trasformò il
componimento lineare in una sorta di collage i cui elementi costitutivi sono le parole, ognuna conclusa
in sé come se queste potessero assumere valenza oggettuale. Riveste nell’ambito di tali ricerche un
grande interesse la riflessione di Emilio Isgrò, artista italiano nato nel 1937.
Emilio Isgrò
Nato nel 1937 a Barcellona Pozzo di Gotto, di formazione letteraria, esordisce nel 1956 con una raccolta
di poesie. Pochi anni dopo (1964) realizza le prime cancellature, inserendosi a pieno titolo nelle ricerche
verbo-visuali che in quegli anni coinvolgono larga parte della cultura letteraria internazionale. Nel 1966
pubblica Dichiarazione 1, nella quale precisa la propria concezione di poesia che, oltre a essere
espressione del pensiero poetico, è soprattutto “l’arte generale del segno”. Se tutti gli artisti verbo visuali
prendono la parola, la giustappongono e la rincollano, Isgrò le cancella. Non lavora in presenza della
parola in quanto parola, ma sull’assenza della parola. E’ una poetica del levare, un po' come faceva
Malevic. Nel mio togliere, a ciò che rimane dò un concetto forte. Nel 1974 esce l’Avventurosa vita di
Emilio Isgrò nelle testimonianze di uomini di stato, scrittori, artisti, parlamentari, attori, parenti, familiari,
amici, anonimi cittadini, candidato al Premio Strega. Negli anni seguenti l’artista è presente sia a
manifestazioni a carattere artistico (Biennale d’arte di San Paolo del Brasile, Biennale di Venezia) sia a
eventi teatrali (Festival Internazionale delle Orestiadi, Teatro della Scala di Milano). Nel 1992 partecipa
alla mostra The Artist and the book in XX Century Italy organizzata dal MoMA e nel 1994 alla rassegna I
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libri d’artista italiani del Novecento alla collezione Guggenheim di Venezia. Il 2001 è l’anno della prima
antologica: Emilio Isgrò 1964-2000, allestita nel Santa Maria dello Spasimo a Palermo. Nel 2008 il Centro
per l’arte contemporanea di Luigi Pecci di Prato allestisce l’antologica Dichiaro di essere Emilio Isgrò. Nel
2014 l’autoritratto: Dichiaro di non essere Emilio Isgrò entra a far parte della collezione dei ritratti degli
Uffizi. Nel 2016 a Milano ha luogo una mostra in tre sedi (Palazzo Reale, Gallerie d’Italia, Casa Manzoni)
interamente dedicata a Emilio Isgrò; data al 2019 l’antologica curata da Germano Celant nella sede della
Fondazione Giorgio Cini a Venezia.
EMILIO ISGRÒ — Oggi vedo la cancellatura in un modo completamente opposto a come la si vede in
genere: non si tratta infatti di un gesto distruttivo sia delle parole sia delle immagini e del segno iconico.
Non ho guidato io la cancellatura ma, avuta la prima intuizione nei primi anni Sessanta, mi sono lasciato
guidare da essa, nel senso che essa dettava le regole. La percepisco come grande creatrice di segni iconici,
e di immagini, ma non di segni astratti come poteva essere una certa arte concreta, una certa letteratura
delle avanguardie, bensì di segni potentemente comunicazionali: quindi anche, paradossalmente,
figurali. Questa è una contraddizione che la cancellatura salda in sé stessa perfettamente.
ISGRO’ - Ora tuttavia mi aspetto che sia il mondo a spiegarmi che cosa ho fatto fino in fondo, perché è
giusto che un artista non lo sappia, se no non sarebbe tale. La cancellatura salda astrazione e concretezza
e, secondo me, non è uno stile ma un linguaggio. Se si guarda un’opera informale, anche le più potenti
di Jackson Pollock o di Mark Rothko, alla fine diventano emblema di uno stile, pur salvaguardando la
grandezza dell’artista che c’è dietro. La cancellatura invece è un linguaggio, l’altra faccia della pittura e
della scrittura, per questo ho potuto adoperarla fino ad oggi senza esserne completamente spiazzato, nel
senso che era come imparare a parlare dal niente. Io mi resi conto che quando facevo le prime
cancellature queste rischiavano di essere appannaggio delle nuove e delle vecchie avanguardie, e il mio
amor proprio, che coincideva con uno spirito innovativo che alla mia epoca era pressoché naturale, mi
fece capire che dovevo liberarmi da ogni retaggio neo e vetero-avanguardistico.
CELANT — In ogni caso l’aspetto dirompente, a metà degli anni Sessanta, non viene affidato al contenuto
dell’opera ma al processo con cui viene messa in scena, tanto che i lavori riducono il loro impatto visivo
impegnandosi sulla monocromia, dal bianco di Robert Ryman al nero e al rosso di On Kawara, dallo
schermo di Mario Schifano a quello di Fabio Mauri. Sembra quasi che gli artisti tendano a citare il
riduzionismo fenomenico dei nuovi media, come la televisione e la fotografia. Di fatto l’interesse verso
questi media è già insito nella Pop Art, in particolare nella produzione meccanica e seriale, e rispecchia
l’applicazione di un sentire artificiale e impersonale, come in Andy Warhol. È una nullificazione non più
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del messaggio, ma dell’attore-artista che evita la partecipazione personale per affidarsi a un’estetica
impersonale. Di fatto anche le cancellature d’immagini, da Jacqueline Kennedy a Fidel Castro e a Karl
Marx, sottratti allo sguardo mediante superfici grigie o gialle o rosse, fanno ricorso a uno sviluppo
industriale: la carta fotografica. È l’«appropriazione» di una figura iconica, popolare, per renderla un
fantasma immaginario, evidenziato da un segnale, la freccia, che induce alla sua «ricerca», che è tuttavia
soltanto interiore. Il tuo monocromo è nuovamente «rivelatorio», funziona da «maschera» per cui
l’osservatore è spinto a scoprire la figuravolto che sta sotto.
ISGRÒ — Prendiamo quelli che possono essere considerati come monocromi classici del mio lavoro anche
se vanno letti con più ampiezza. Prendiamo ciò che più assomiglia al monocromo, dalla serie di Alma in
poi. Schifano realizzò dei monocromi, Piero Manzoni i suoi Achromes. Hai visto mai associare una scritta
ai loro monocromi come invece ho fatto io? Che bisogno c’era di scrivere «Alma (a sinistra) corre nel
rosso vestita di rosso»? Se penso a On Kawara o a Roman Opalka, che elencano date su date e numeri su
numeri, che differenza c’è con l’ossessione della cancellatura? Il Cristo cancellatore, ad esempio, alla fine
di ogni puntata «continua»... Se c’è qualcosa che mi ha distanziato dal concettuale, è stato secondo me
il suo eccesso di mentalismo, troppa testa. La cancellatura era anche una cosa un po’ di pancia, era una
cosa eclatante. Allora a un certo punto mi sono detto: “Ma se un artista è solo intelligente, cosa ci fa al
mondo?”. Per questo bastano i filosofi, gli economisti di un certo tipo. Un artista, in qualche modo, deve
essere capace di mettersi la propria intelligenza sotto i piedi nel momento in cui non gli serve. Deve
riflettere prima, mai mentre fa l’opera, e neppure dopo.
CELANT — Sotto la stesura univoca di un colore sboccia quindi la parola o la figura. Se Manzoni e Yves
Klein si muovevano verso l’affermazione di una superficie auto-significante e auto-rappresentante, nel
senso che adottavano tecniche di realizzazione dove il caolino — in Manzoni — essiccandosi, produceva
e fissava le forme oppure — in Klein — il rullo e l’impronta definivano una traccia di un passaggio
spirituale o carnale, la tua trasformazione tende a una supposta sintesi tra visibile e invisibile, palpabile
e a-fisico. Il tracciare una superficie nera o monocroma su una parola o su un’immagine rende corporale
e palpabile l’assenza di tali entità invisibili. Come abbiamo sottolineato, il risultato deriva da un equilibro
tra le due epidermidi che si toccano, per cui la cancellatura sprofonda nell’identità altra e viceversa. La
negazione è metamorfosi, mette in scena una teatralità di entrambe, come nel quadrilatero o nel cerchio
nero di Malevich che spettacolarizza il bianco. Ma lo stesso si potrebbe dire dell’oscuramento dello
schermo attuato da Jean-Luc Godard, in Week-end, 1967, in cui interrompe la proiezione di immagini,
facendo entrare in campo il nero così da sottolineare la modalità illusoria del cinema e il valore del
racconto figurale. Lo fa regredire al suo stato oscuro: un ribaltamento dell’apparenza normale del film
che smaschera la sua irrealtà, immettendo il silenzio e il nero. Usa l’urto comunicativo per interrompere
il flusso narrativo e far emergere l’altra epidermide della proiezione luminosa.
- Kazimir Malevic, Quadrangolo (quadrato nero su fondo bianco), 1915, Galleria Tret’Jakov (Mosca)
- Jean Luc Godard, dal film Le Weekend, 1967 – è un film la cui narrazione lineare viene interotta da
schermi vuoti , secondo una riflessione in absentia.
- Emilio Isgrò, Dichiaro di non essere Emilio Isgrò, 1971, Centro Tool (Milano)
- Emilio Isgrò, i Promessi Sposi non erano due, 1967
- Emilio Isgrò, L’occhio di Alessandro Manzoni, 2016
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CELANT — La Pop Art immette nell’arte una strategia d’uso e di appropriazione della comunicazione di massa.
Si lascia influenzare dal linguaggio del cartoon e della pubblicità. Si appropria dei loro stereotipi e fa collassare
il soggetto intellettuale per cercare una somiglianza con il mondo artificiale e simulato dei media. Mettere in
connessione la poesia con la cronaca del giornale oppure l’inserto promozionale di un’automobile ti ha
permesso di compiere una disgressione dalla scrittura manuale a una stesura meccanica, quella della rotativa,
che si affidava a un inchiostro tipografico nero. È forse da questa liquidità monocroma che scaturisce la tua
copertura, a mano, delle parole. Nuovamente un concatenamento e un equilibrio tra due logiche
immaginarie, pubblica e privata. È la messa in discussione di un allineamento processuale unico, così che i
compartimenti identitari, tra immagine e parola, poesia e arte, iniziano a cadere. O meglio cominciano a
riconoscersi l’uno nell’altro. Stabiliscono un rapporto aperto, in nome della comunicazione.
ISGRÒ — Non ho mai negato la comunicazione come uno dei fini dell’arte e non perdevo di vista che
stranamente le mie opere cominciavano ad assumere anche uno spessore pittorico, sono arrivato a
cancellare le immagini come Il buon seminatore e mi accorgevo di andare in quella direzione. Cosa è cambiato
oggi? Oggi so perfettamente di saper fare il pittore. Sono molto attento a che non prevalga solo il significato
delle parole, facendo in modo che nello spazio del libro abbiano un loro equilibrio. A un certo punto mi sono
accorto che le parole avevano troppo peso. Allora come potevo agire? Mi inventai un tipo di velatura che
offuscava le parti verbali che dovevano emergere meno per mia scelta. Questo era chiaramente un discorso
pittorico e lo sapevo. Però ho sempre resistito dal precipitare le cose pensando che alcune cose avrei dovuto
farle solo da vecchio, e così ho fatto. Il mio lavoro è sostanzialmente ridire la stessa parola riportandola alle
origini del linguaggio. La cancellatura è un’immagine essa stessa, è un segno iconico sia nel suo complesso
sia singolarmente. Non ho mai abusato di questa tecnica fino a toccare punte di informale.
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- Kill roy wash ere – i soldi americani tracciavano sulle pareti la scritta “io sono stato qui”. Anticipatore
inconsapevole del graffitismo, che nasce da una pulsione umanissima di segnare la propria presenza
in un posto dove si va.
Uno studio al quinto piano di un palazzo newyorkese, al 231 East 47th Street, tra il 1962 e il 1967 fu il primo
cuore pulsante della Factory dove Andy Warhol creava di giorno in giorno il proprio mito. A cavallo tra officina
e bottega medievale, fu un centro di aggregazione e produzione artistica cui inevitabilmente affluirono artisti
votati a ogni espressione creativa: musicisti, pittori, designers, uomini di teatro, tutti attratti da Andy Warhol
che fu al centro di una stagione incendiaria. Alla Factory si producevano serigrafie, si dipingeva, talvolta gli
uni sul lavoro degli altri, si allestivano set fotografici e cinematografici, e le energie esplodevano in party i cui
ingredienti erano sesso, droga e creatività. In realtà la Factory ebbe tre sedi, che coprirono un periodo lungo
22 anni: nel 1967 si trasferì al sesto piano del Decker Building sulla Union Square; nel 1973 si trasferì infine
lungo la Broadway, in due edifici diversi. Keith Haring, Jean-Michel Basquiat, i Velvet Underground di Lou
Reed, David Bowie furono la punta di un iceberg la cui base affondava nella cultura underground newyorkese.
Vorrei farmi una pera di cemento Essere un cinema permanente Travestire i miei amici tanto per fare Vederli
come sono in realtà Mettermi uno spioncino nel cervello Due penny per dare un’occhiata Vorrei essere una
galleria Mettervi tutti nel mio spettacolo Andy Warhol sembra spassoso Appendetelo al muro Andy Warhol,
Grande Schermo Non li si può assolutamente distinguere Andy che cammina, Andy stanco Andy che fa un
sonnellino Legatelo mentre dorme profondamente Fategli fare una piacevole crociera Quando si sveglia sul
mare Siate certi di pensare a me e a te Lui penserà alla tinta e penserà alla colla Che cosa incredibilmente
noiosa da fare - David Bowie, Andy Warhol dall’album Hunky Dory (1971)
Per me Andy Warhol è stato un amico e un mentore al tempo stesso. Tutta la sua vita è stata arte. Ogni cosa
era una metafora di qualcos’altro. Tutto era arte, in un certo senso. Andy è stata la persona che ha costituito
il vero precedente di ciò che faccio, in un modo che gli ha dato legittimità e integrità. E l’ha sostenuto
attivamente. Mi ha anche insegnato a essere un artista e una star, a come fare della tua esistenza la tua
opera. - Haring, 1987
Keith Haring nacque il 4 maggio 1958 a Reading, in Pennsylvania; ancora bambino rivelò una forte inclinazione
per il disegno, incoraggiato dal padre, il quale aveva per tempo intuito le inclinazioni e il talento artistico del
figlio. Furono i personaggi dei fumetti a esercitare su di lui un'influenza duratura. Decisiva fu la visita al museo
Hirshhorn di Washington D.C., dove era esposta la produzione grafica di Andy Warhol. Nel 1977 entrò in
contatto con Pierre Alechinsky, in quell'anno protagonista di una mostra al museo d'arte di Pittsburgh. Nel
1978 Haring organizzò la sua prima mostra personale, riscuotendo un grande successo. Nel 1979 strinse
amicizia con Jean-Michel Basquiat, col quale rimase amico fino alla morte di quest’ultimo. Si trasferì a New
York, alla ricerca di nuove sfide e di artisti con idee e interessi affini; fu in questo periodo che iniziò a diventare
consapevole del proprio orientamento omosessuale, che avrebbe poi riconosciuto apertamente in seguito.
A New York frequentò i corsi della School of Visual Art (SVA); in questo periodo si legò di molta amicizia con
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Kenny Scharf e realizzò inoltre diverse opere, fondendo le influenze esercitate dal poster Truisms di Jenny
Holzer con la tecnica cut-up di William S. Burroughs. Ben inserito nella scena artistica newyorchese, Haring
interruppe gli studi. Intanto, essendo insofferente alle forme espressive e ai sistemi di diffusione artistica
tradizionali, per esprimere la propria vocazione Haring scelse la scena urbana cittadina, riconoscendo nel
tessuto metropolitano di New York un luogo ricco di fermenti e di indirizzi. Fu proprio sotto l'egida del
graffitismo che Haring iniziò a definire la propria identità artistica; celebre l'icona del cane angoloso che
abbaia, immagine di vitalità per eccellenza. Nel frattempo, nel giugno 1980 Haring venne invitato a
partecipare al Times Square Show, la prima mostra dedicata all'arte underground statunitense; qui ebbe
l'opportunità di confrontarsi e stringere amicizia con i più significativi esponenti della street art, tra cui Lee
Quinones, Fab Five Freddy e Futura 2000. Successivamente Haring decise di intervenire sugli spazi pubblicitari
vuoti della metropolitana di New York, che divenne un «laboratorio» pubblico dove sperimentare infinite
soluzioni grafiche.
Nel 1982, al vernissage della mostra monografica di Haring allestita nella galleria di Tony Shafrazi
parteciparono Roy Lichtenstein, Robert Rauschenberg, Francesco Clemente, Sol LeWitt e Richard Serra. La
mostra ebbe un notevole successo e l'artista poté esporre in Francia al CAPC Museé d'art contemporain de
Bordeaux e alla Nouvelle Biennale di Parigi nel 1985, nei Paesi Bassi allo Stedelijk Museum di Amestardam
nel 1986, in Italia alla galleria di Lucio Amelio a Napoli nel 1983 e alla Biennale di Venezia nel 1984, in Belgio,
in Germania e in Gran Bretagna, lasciando segni di sé e della propria arte nei paesaggi urbani visitati. Haring
consacrò definitivamente il proprio talento nell'aprile del 1986 con l'inaugurazione a SoHo del Pop Shop; si
tratta di un punto vendita di gadget e magliette con riproduzioni delle sue opere, così da mettere il proprio
operato a disposizione di tutti. Dalla metà degli anni 1980 la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS)
cominciò a mietere vittime nell’effervescente mondo artistico newyorkese, e Haring si ammalò. L'artista era
consapevole di «camminare sulla linea molto sottile che divide la vita dalla morte» per via della «promiscuità
presente in ogni angolo di New York» e traspose in diverse sue opere il tema della malattia, come nel dipinto
AIDS eseguito nel 1985. La salute di Haring si fece via via sempre più malandata, fino a quando gli fu persino
impossibile dipingere. L'ultima opera pubblica che eseguì fu Tuttomondo, sulla parete esterna del convento
di Sant'Antonio a Pisa; si tratta dell'ultimo inno alla vita di Haring, e di uno dei «progetti più importanti che
abbia mai fatto». Haring fondò la Keith Haring Foundation, che si propone di continuare la sua opera di
sostegno alle organizzazioni a favore dei bambini e della lotta contro l'AIDS. Keith Haring, infine, morì il 16
febbraio 1990 a New York. Aveva solo trentuno anni.
«Penso di essere nato artista; penso di avere la responsabilità di riuscirci. Ho trascorso la mia vita sino a
questo punto cercando solo di capire che cosa sia questa responsabilità. Ho imparato studiando le vite degli
altri artisti […] disegnerò il più possibile, per tutte le persone possibili, il più a lungo possibile. Disegnare è
fondamentalmente sempre la stessa cosa dai tempi della preistoria. Unisce l’uomo e il mondo. Vive
attraverso la magia.» 18 marzo 1982
- Keith Haring, Senza titolo (testa attraverso l’ombelico), 1988, collezione privata
L’immagine dell’uomo con il buco nella pancia mi fu suggerita dalla notizia dell’assassinio di John Lennon
(1980). Qualcuno entrò al Mudd (the Mudd Club) e disse che gli avevano sparato. Nessuno voleva crederci.
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La morte di Lennon ebbe l’effetto di disilludere l’intera città. La mattina dopo mi svegliai con in testa
l’immagine dell’uomo con il buco nella pancia.
- Keith Haring, Senza titolo (particolare di 3 pannelli di 140x260 cm ciascuno), 1984, collezione privata
– in questo nastro si mette un episodio narrativo.
- Arazzo di Bayeux, 68 m, XI secolo – celeberrimo manufatto medievale che racconta la battaglia di
Hastings. Si può associare il raccontare l’episodio narrativo anche a un’opera come la colonna di
Traiano.
- Keith Haring, Senza titolo, 1982, collezione privata
- Lupa capitolina (V secolo a.C.), Romolo e Remo XV secolo
Il ruolo del creatore di immagini non può essere visto nello stesso modo in cui lo era cento anni fa, o anche
solo dieci anni fa. Il ritmo del cambiamento sta accelerando a velocità sempre crescente così che l’artista
deve adattarsi. Gli artisti contemporanei non possono ignorare l’esistenza dei media e al tempo stesso non
possono abbandonare la cultura rituale e popolare.
Sono corso a vedere il Giardino delle delizie di Bosch. Ho un libro con le riproduzioni dei particolari e
dell’intero dipinto, e periodicamente lo guardo, ma è incredibile come sia intenso se lo vedi in originale. È
difficile figurarsi cosa significasse vedere e pensare in questo modo nel Cinquecento. Prima che la macchina
fotografica rimpiazzasse la nostra idea della realtà, con un momento congelato e tangibile del tempo reale
che ora noi consideriamo realtà. - 14 febbraio 1989. La macchina fotografica congela un momento e per noi
è quella la realtà, ma la realtà non è assolutamente congelabile o tangibile.
Andy Warhol era morto all’inizio del 1987, l’anno dopo morirà Jean-Michel Basquiat; Haring è solo e su di lui
si concentra tutta la pressione del mercato. Poco più che trentenne, è al centro della scena pop, conteso da
grandi galleristi come Tony Shafrazi e Leo Castelli, prodotto di merchandising e di brand, con gli occhi della
musica e della comunicazione addosso, ma lui, che era nato in Pennsylvania, in un contesto “protetto” e
genuino, manteneva un sincero interesse per le cose semplici.
Tuttomondo, ultima opera di Keith Haring, sarebbe dovuto nascere a Firenze, ma l’amministrazione comunale
era disposta a concedere soltanto palazzi periferici, ancora una volta sottolineando il suo essere restìa nei
confronti del contemporanea. Un giovane pisano lo vuole incontrare e lo convince a realizzarlo nella città.
Haring è solo, voleva stare al centro delle persone, realizzare una performance live in grado di dialogare con
il territorio e modellata su misura del territorio stesso, ricollegandosi con la tradizione artistica italiana. Aveva
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in mente di realizzare un affresco. Si presentò così Pisa, l’allora sindaco Giacomino Granchi e l’assessore alla
Pubblica Istruzione e alla Cultura, Lorenzo Bani, si attivarono per rintracciare una parete che rispondesse alle
esigenze di spazi senza porte e senza finestre e in una zona fruibile da quante più persone possibili. Con 180
metri quadrati, 10 in lunghezza e 18 d’altezza, la parete ideale è quella posteriore del Convento dei Frati Servi
di Maria, dietro alla chiesa di Sant’Antonio Abate, che dà sulla stazione degli autobus extraurbani. Strappano
un incredibile sì, la sera precedente l’inizio dei lavori Keith decide di passarla nel refettorio con i frati: un
artista di rottura, che non nascondeva la sua omosessualità, critico e duro verso la religione, a banchettare
con un gruppo di frati. Una congiunzione quasi mistica.
Dice: «Sto seduto sul balcone a guardare la cima della Torre Pendente. È davvero molto bello qui. Se c’è un
paradiso, spero che assomigli a questo».
Jean-Michel Basquiat nacque a Brooklyn, New York, da padre haitiano e da madre statunitense. Iniziò a
manifestare interesse per il disegno fin da quattro anni, ispirato dai cartoni animati televisivi. Un amore per
l'arte trasmessogli dalla madre, la quale lo accompagnava spesso al Brooklyn Museum, al Metropolitan
Museum ed al MoMA di New York. Dopo il divorzio dei genitori, avvenuto quando Basquiat aveva 7 anni, nel
1975 scappò di casa e andò a dormire su una panchina pubblica: arrestato per vagabondaggio, l'anno
seguente iniziò a frequentare la City-as-School a Manhattan, per ragazzi dotati a cui non si addice il
tradizionale metodo didattico. Basquiat iniziò a fare uso di droghe pesanti, e cominciò a produrre graffiti per
le strade di New York firmandosi come SAMO, acronimo di "Same Old Shit" ("solita vecchia merda"). Nel 1978
lasciò gli studi alla City-as-School, ritenendoli inutili, ed abbandonò la casa del padre, guadagnandosi da
vivere vendendo delle cartoline da lui decorate. Un giorno, entrato in un ristorante di SoHo, Basquiat avvicinò
Henry Geldzahler ed Andy Warhol il quale comprò alcune delle sue opere. Basquiat era cliente fisso dei due
club più esclusivi nella scena socio-culturale di New York: il Club 57 ed il Mudd Club, frequentati anche dallo
stesso Warhol e da Keith Haring, con il quale strinse un'amicizia che durò fino alla morte. Nel 1980 Jean-
Michel partecipò al Times Square Show, retrospettiva organizzata da un gruppo di artisti alla quale fece il
formale debutto newyorkese anche Haring. Questo evento riconosce la nascita di due nuove avanguardie
della Grande Mela: la downtown (Neo-pop) e la uptown (rap e graffiti). Nel 1981 partecipò alla retrospettiva
New York/New Wave, insieme ad altri artisti come Robert Mapplethorpe, Keith Haring e Andy Warhol. Il
poeta e critico d'arte Rene Ricard pubblica "The Radiant Child" sulla rivista Artforum, pubblicizzando Basquiat
ed il suo percorso artistico. La prima mostra personale di Jean-Michel avvenne nel maggio del 1981 a
Modena, nella galleria d'arte Emilio Mazzoli. Si trattò della prima personale di Basquiat e della prima mostra
europea, che venne però accolta negativamente e con sarcasmo dai critici e collezionisti locali. Quasi un anno
dopo, nel marzo del 1982 riscosse grande apprezzamento da parte di pubblico e critica nella personale di
New York, nella galleria d'arte di Annina Nosei. La Svizzera ospitò una sua retrospettiva presso la Galerie
Bischofberger e allo stesso modo espose in dicembre alla Delta di Rotterdam. Nel 1983 strinse una forte
amicizia con Andy Warhol, il quale lo aiutò a sfondare nel mondo dell'arte come fenomeno mondiale
emergente. I dipinti di Jean-Michel erano caratterizzati da immagini rozze, infantili, facendo riferimento alla
Art Brut di Jean Dubuffet. Nel 1984, insieme ad Andy Warhol e a Francesco Clemente, iniziò una serie di
collaborazioni, di dipinti a "sei mani" commissionati da Bruno Bischofberger. A scopo artistico personale
dipinse un altro ciclo di opere insieme al solo Warhol, eseguendo oltre cento quadri, nei quali è riconoscibile
l'apporto di entrambi, e allestendo una mostra comune il cui manifesto presentò in maniera eloquente i due
artisti come protagonisti di un incontro di boxe. La boxe era per Basquiat un modo di vivere, e paragonava
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spesso l'arte ad un ring su cui combattere. Nel settembre il New York Times definì Basquiat "la mascotte di
Warhol": questo fatto, unito all'eccesso nell'uso delle droghe e alla sua progressiva tossicodipendenza da
eroina che Warhol non riusciva ad arrestare, portò Basquiat a soffrire di frequenti disturbi psichici. Nel 1985
espose nuovamente alla Galerie Bischofberger di Zurigo, alla Mary Boone Gallery di New York ed alla Akira
Ikeda di Tokyo, ma oramai era schiavo della droga. Poco dopo si interruppero i rapporti con Mary Boone, fino
ad allora suo agente commerciale newyorkese; il pubblico ed i critici iniziarono ormai a non accettare più i
suoi lavori con l'entusiasmo di un tempo. Nel 1987, con la morte di Warhol dovuta ad una mal riuscita
operazione alla cistifellea, entra in una violenta fase di tossicodipendenza: il suo forte attaccamento al re
della Pop Art, che aveva manifestato fino alla fine, lo conduce all'abuso di eroina per superare il trauma.
Basquiat espose ancora a New York nella galleria del cugino di Tony Shafrazi, Vrej Baghoomian, il suo ultimo
mercante; poi iniziò un tentativo di disintossicazione che non portò mai a termine. Morì il 12 agosto del 1988,
a ventisette anni, per overdose di eroina, nel suo studio sito in 57, Great Jones Street, a Manhattan. Il corpo
viene ritrovato, nudo, in un cassonetto dell'immondizia.
Il dipinto fu realizzato nel 1983 su una parete dello studio di Keith Haring in ricordo di Michael Stewart, street
artist afroamericano colto in flagrante dalla polizia di New York mentre realizzava alcuni graffiti su un muro
della metropolitana di First Avenue. Stewart morì poco dopo il suo arresto, a causa dei pestaggi subiti dalla
polizia, diventando così emblema dei dibattiti e delle proteste contro gli abusi di potere esercitati dalle forze
dell’ordine.
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PROCESS ART
Il movimento che definiamo della Process art, che ebbe notevole vitalità tra il 1965 e il 1975 e che ebbe come
protagonisti Robert Morris, il teorico dell’Antiform, e con lui Eva Hesse, Richard Serra, Bruce Nauman e
Joseph Beuys, conta tra gli anticipatori la personalità di Allan Kaprow, il teorico dell’happening. Ovviamente
per Process Art si intende una visione che esalta il processo artistico a discapito dell’oggetto/arte.
Allan Kaprow è considerato uno dei precursori dell’arte concettuale e in particolare della performing art. Con
l’invenzione dell’happening, termine da lui stesso coniato, contribuì a modificare ulteriormente quell’idea di
pittura che già Pollock aveva trasformato con la action painting, ponendo l’accento più che sulla pittura stessa
(painting) piuttosto sull’azione (action), così che l’artista/autore e il pubblico/ utente finiscono per coincidere
poiché compiono insieme un’esperienza unica che li coinvolge entrambi sia fisicamente che
concettualmente. L’arte è un processo creativo che conduce all’opera e che ha per Pollock lo stesso
significato del quadro finale appeso al muro. Con i suoi oltre 200 happenings – ognuno dei quali doveva
rappresentare un’esperienza unica e raramente veniva perciò documentata - egli intese dare dimostrazione
di una arte concreta che facesse uso di materiali e di azioni tipici della quotidianità, la cui caratteristica era
soprattutto quella dell’interazione, del coinvolgimento, anche emozionale, di tutti i soggetti coinvolti.
Formatosi come artista e storico dell’arte alla New York University e alla Columbia University, studiò anche
composizione con John Cage che con la sua influenza contribuì a modificare la sua idea di pittura,
avvicinandolo alla sperimentazione. All’inizio degli anni ’60 fu tra i fondatori del gruppo Fluxus e diede inizio
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ad un’intensa attività accademica che culminò nei circa venti anni di insegnamento alla University of
California at San Diego, attività svolta parallelamente ad un’azione di ricerca teorica con numerosi scritti, e
con una continua attività sperimentale in cui egli intendeva suscitare la consapevolezza e stimolare la
creatività attraverso la partecipazione ad un qualsiasi accadimento, anche banale, tipico della quotidianità
più che del gesto artistico.
La prima esperienza è nel 1961, quando Kaprow sistemò nel cortile di una chiesa sconsacrata di New York
centinaia di copertoni dismessi e il pubblico fu invitato a camminarci sopra, in modo da alterarne la
disposizione. Yard gli fu ispirata dalla visione delle opere di Pollock nelle quali l’azione quasi predomina sulla
pittura. Le riflessioni di Kaprow furono anticipate da Cage, che nel 1953 presso il Black Mountain College mise
insieme un quadro di Rauschemberg, un balletto di Merce Cunningham, un poema recitato da Richard e
Olson e un pezzo al pianoforte eseguito da David Tudor. Un’opera collettiva che ancora non prevedeva la
partecipazione del pubblico introdotto poco dopo proprio da Kaprow nell’idea della Process Art, una
espressione artistica dove prevale il divenire a discapito del prodotto finito. Siccome la vita non è
programmabile né prevedibile, allora anche l’arte deve essere allo stesso modo.
Robert Morris sulla rivista Artforum dell’aprile 1968 scrisse: «Recentemente hanno cominciato a venir fuori
materiali diversi da quelli industriali rigidi. Oldemburg fu uno dei primi a farne uso. È in corso una ricerca
diretta sulla proprietà di questi materiali […] In molti casi queste ricerche si spostano dal fare degli oggetti al
fare del materiale stesso. A volte si sperimenta una manipolazione diretta di un materiale dato senza usare
alcuno strumento. In questi casi le considerazioni sulla forza di gravità diventano importanti come quelle
sullo spazio. Il focalizzarsi sulla materia e sulla gravità si esplica in forme che non erano state progettate in
anticipo (sottolinea l’imprevedibilità della vita) […]. Mucchi disordinati, cataste casuali e sospensioni creano
forme accidentali per il materiale. Il caso è accettato e l’indeterminatezza è sottintesa dal momento che la
ricollocazione darà esito a un'altra configurazione. Lo sganciarsi da forme e ordini preconcetti e stabili per le
cose è una rivendicazione positiva.» Ricordiamo quando con Van Gogh non si era più soddisfatti di
rappresentare: questa linea continua e con una forte ambizione si vuole andare sempre più in là, come a
voler incarnare Dio. Fu questo il contributo centrale per la teoria dell’antiform cui aderirono Eva Hesse,
Richard Serra, Bruce Neuman e Joseph Beuys.
La forma per la forma - Elementi base dell'opera Anti-Form sono le caratteristiche stesse della realtà
oggettiva, forma, superficie, dimensioni, con una attenzione specifica per l'insieme ed una voluta sommarietà
nei particolari, nel più puro spirito del movimento minimalista, del quale Morris fu uno dei più esponenti. Di
particolare importanza il rapporto dell'opera con lo spazio circostante, che origina talvolta, per la
monumentalità dimensionale, vere e proprie installazioni, in un linguaggio che, pur ridotto ad una
elementarità estrema ed a concetti primari, è sempre fortemente connotato. Gli anti-formisti utilizzano
spesso materiali industriali o da costruzione quali acciaio, vetroresina, gomma, compensato o rottami di
scarto, preferendo materiali malleabili ed elastici da potersi esporre alla sollecitazione di forze naturali quali
la gravità o l'elettromagnetismo in grado di alterarli. Sottoposti ad azioni semplici ed elementari come il taglio
e la caduta secondo la forza di gravità, riciclati in un'arte sottraente che ne muta l'utilizzo e la funzione, i
materiali si ricompongono in installazioni che cambiano assetto in occasione di ogni nuova esposizione. I
Feltri di Morris sono strisce di tessuto tranciato, scarto di lavorazioni industriali cadute dai macchinari sul
pavimento, che l'artista tratta in vario modo, ricavandone una composizione complessiva dal profilo rigoroso
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seppure risultante da tanti singoli elementi irregolari, a suggerire un'idea senza tuttavia ricomporre un
oggetto che corrisponda alle usuali letture percettive. Dietro l'Antiform non ci sono significati né intenzioni
progettuali, perché qualunque tipo di premeditazione dello sviluppo di un'opera ne altera il significato,
cosicché il risultato del lavoro dell'artista, al quale non è richiesta alcuna abilità, è del tutto superfluo ed
inutile. L'Antiform non fa che rendere visibili le proprietà tautologiche dei materiali utilizzati, lasciati liberi di
assumere l'andamento più naturale possibile, non costruito dall'azione dell'artista, acquistando in tal modo
una anti-forma, cioè una forma non forzata né stabilita a priori, per un'arte puramente visiva che non vuole
suggerire nulla, non vuol essere né emotiva né allusiva e che la mente dell'osservatore analizza compiendo
collegamenti propri. L’artista si pone in una situazione di sottrazione, ma in realtà è comunque una situazione
creata da mano umana, di cui l’artista si fa creatore.
Nel 1968 Leo Castelli accettò di affittare uno scantinato (passato alla storia come il Leo Castelli Warehouse)
per consentire a Robert Morris di organizzarvi l’esposizione Nine (il titolo allude ai nove artisti che vi esposero
- Giovanni Anselmo, Joseph Beuys, William Bollinger, Rafael Ferrer, Eva Hesse, Stephen Kaltenbach, Bruce
Nauman, Alan Saret, Richard Serra, Keith Sonnier, Gilberto Zorio), nello stesso periodo il gallerista italiano
Fabio Sargentini (1939) cercò insieme all’artista Pino Pascali un garage che poi, dopo la morte prematura di
quest’ultimo, aprì le porte al pubblico con l’ironico nome L’Attico. Questi luoghi avevano il pregio di adattarsi
a operazioni quali lo Splashing di Richard Serra (gettare metallo fuso contro un angolo di una stanza per poi
farlo raffreddare, 1968) o l’esposizione da parte di Jannis Kounellis di cavalli vivi come memoria rinnovata
della statuaria equestre (1969). Parallelamente a gallerie internazionali si cominciano ad aprire dei luoghi
marginali, underground, veri garage dove è possibile dare luogo a queste sperimentazioni che hanno bisogno
di spazi grandi e fortemente manipolabili.
Morris cominciò a lavorare sui suoi feltri (Felt Pieces) nel 1967 in contrapposizione con i suoi precedenti lavori
minimalisti. Disponeva pezze di feltro, scarti di lavorazione industriale, in maniera casuale nell’idea della
libera espressività dei materiali. Esponendo nel 1968 da Leo Castelli volle azzerare ogni possibile rischio di
formalizzazione mutando nell’arco del mese di apertura dell’esposizione ogni giorno l’installazione dei
materiali. Concentrò così l’attenzione al progetto in opposizione all’oggetto finito e statico.
- Robert Morris, Senza titolo (Pink Felt), 1970, Guggenheim Museum (New York)
Nata ad Amburgo da una famiglia di ebrei osservanti nel dicembre del 1938, i suoi genitori, sperando di
fuggire dalla Germania nazista, inviarono lei e sua sorella maggiore in Olanda per sfuggire alla Germania
nazista. Dopo quasi sei mesi di separazione, la famiglia riunita si trasferì in Inghilterra e poi, nel 1939, emigrò
a New York, dove si stabilirono. Dopo il primo percorso formativo si laureò alla Università Yale. Mentre era a
Yale, la Hesse studiò sotto Josef Albers e fu fortemente influenzata dall'Espressionismo astratto. Tornò a New
York, dove diventò amica di molti altri giovani artisti minimalisti, tra cui Sol LeWitt, Donald Judd, Yayoi
Kusama e altri. La sua stretta amicizia con Sol LeWitt continuò fino alla fine della sua vita. I due si scrivevano
spesso l'un l'altra e nel 1965 LeWitt consigliò ad una giovane dubbiosa Eva di «Smettere [di pensare] e solo
FARE!». Nel 1962 Eva Hesse sposò lo scultore Tom Doyle e nel 1965 i due si trasferirono in Germania dove
vissero e lavorarono in una fabbrica tessile abbandonata nella regione della Ruhr. Iniziò a lavorare con
materiali che erano stati lasciati nella fabbrica abbandonata. L'edificio conteneva ancora parti di macchine,
utensili e materiali dal suo uso precedente e le forme angolari di queste macchine e strumenti in disuso
servivano da ispirazione per i disegni e i dipinti meccanici della Hesse. La sua prima scultura fu un bassorilievo
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intitolato Ring Around Arosie, caratterizzato da corde ricoperte di stoffa, fili elettrici e masonite. L’anno
trascorso in Germania segnò un punto di svolta nella carriera della Hesse. Tornata a New York nel 1965, iniziò
a lavorare e sperimentare i materiali non convenzionali che sarebbero diventati caratteristici del suo lavoro:
lattice, fibra di vetro e plastica. I primi due lavori di Hesse con il lattice, Schema e Sequel (1967-68) usano il
lattice in un modo mai immaginato dal produttore. Il lattice industriale era pensato per la fusione: Hesse lo
trattava come una vernice per la casa, sfiorando uno strato dopo l'altro per creare una superficie liscia ma
irregolare, raggrinzita ai bordi come carta intrecciata.
- Eva Hesse, Schema, 1967, Philadelphia Museum (Philadelphia) – Joseph Albers è sicuramente
l’origine di questa speculazione, ma anche il numero e la matematica come linguaggio più vicino a
Dio.
- Eva Hesse, Sequel, 1968, Saatchi Gallery (London)
In una dichiarazione sul suo lavoro, la Hesse descrive il suo pezzo intitolato Hang-Up, «Era la prima volta che
veniva fuori la mia idea di assurdità o di un sentimento estremo... L'intera cosa è assolutamente rigida, un
cavo netto attorno all'intera cosa... È estremo ed è per questo che mi piace e non mi piace... È la struttura
più ridicola che abbia mai realizzato ed è per questo che è veramente buono».
Le sculture di Eva Hesse sono state oggetto di dibattito durante i tentativi di comprendere come preservare
i pezzi che si sono deteriorati con il passare del tempo. Per gli Happenings certe volte ci sono solo delle
fotografie, ma anche queste opere ci si chiede come conservarle. Le opere d’arte vengono fatte per i posteri,
ma questi nuovi artisti che lavorano nella sfera del concettuale, non dovrebbero neanche interrogarsi sulla
conservazione della loro opera. Essendo però una opera che ha una consistenza materica, ci si chiede come
preservarla. Una volta in cui discusse di questo argomento con i collezionisti scrisse: «A questo punto mi
sento un po' in colpa quando la gente vuole comprarlo, penso che lo sappiano, ma voglio scrivere loro una
lettera e dire che non durerà. Non sono sicura di quale sarà veramente la mia durata. Parte di me ritiene che
sia superfluo e se ho bisogno di usare la gomma è perché è più importante. La vita non dura, l'arte non dura».
“Se la vita non dura, perché dovrebbe durare l’arte?” afferma. La Hesse fu tra i primi artisti degli anni '60 a
sperimentare con i contorni fluidi del mondo organico della natura, nonché i più semplici gesti artistici.
Nell'ottobre 1969 le fu diagnosticato un tumore al cervello e morì venerdì 29 maggio 1970. La sua morte
all'età di 34 anni pose fine a una carriera di soli 10 anni.
Dal 1965 realizza sculture che mettono in crisi la fredda rigidità della lezione minimal ed utilizza elementi
morbidi, fluidi, incongrui di valenza organica (Several del 1965 e Not Yet del 1966). Addendum del 1967
consta in una serie di corde attaccate a una barra orizzontale e pendenti fino a terra. Sans II del 1968 è una
installazione a muro di una doppia fila di scatole di vuote in lana di vetro, mentre Ascension II del 1967 è un
cubo aperto in alto, pieno di filamenti plastici, come fossero una peluria sintetica una sorta di versione
minimal della tazza di Meret Oppenheim (1913 - 1985).
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- Meret Oppenheim, Object (Dejeneur en fourrure), 1936, MoMA (New York) – in ambito surrealista e
musa di Man Ray, è una designer nota soprattutto per questa tazza da colazione ricoperta di pelo. In
qualche modo, con questa strana peluria artificiale, sottace all’opera di Eva Hesse.
Artista geniale e complesso, uso a cimentarsi con ogni processo creativo, con i lavori eseguiti tra il 1956 e il
1967 è vicino ai procedimenti Antiform o processuali. Utilizza elementi molli e informi, gomma o lattice
appesi o semplicemente appoggiati e che non intendono significare niente oltre se stessi, come Flour
Arrangements del 1967, un mucchio di farina sul pavimento di cui resta soltanto il documento fotografico.
Studia matematica, fisica e arte. La formazione scientifica si rivela fondamentale nel suo approccio analitico
allo studio del linguaggio e delle sue potenzialità. Altrettanto rilevante è lo studio della filosofia, in particolare
la lettura del filosofo austriaco Wittgenstein e della musica. La passione per quest’ultima lo porta ad
approfondire la teoria musicale, rimanendo affascinato dalla figura di Arnold Schönberg. Dopo le prime
sperimentazioni in pittura, dal 1965 inizia a dedicarsi alla scultura e a sondare le potenzialità del corpo
umano, attraverso la performance art, e del linguaggio mediante l'uso dei neon. Sono note le collaborazioni
cinematografiche con i registi sperimentali William Allan e Robert Nelson, che lo portano a concepire alcune
delle sue maggiori performance come veri e propri film, come Art Make-Up, del 1968. Al 1966 risale la prima
mostra personale a Los Angeles, presso la Nicholas Wilder Gallery. Nel 1968 avvia una lunga e proficua
collaborazione con la galleria d'arte di Leo Castelli a New York e la Konrad Fischer di Düsseldorf. Nello stesso
anno partecipa a Documenta 4 a Kassel. Nel 1970 partecipa alla decima edizione della Biennale di Tokyo. Nel
1972, il Los Angeles County Museum of Art e il Whitney Museum of American Art organizzano la sua prima
mostra in un museo, tra gli Stati Uniti e l'Europa. Il testo diventa l'oggetto attorno a cui ruotano le nuove
realizzazioni finalizzata ad evidenziare tematiche associate a disturbi psicologici e fisici. Questa riflessione
sulla condizione umana è in parte influenzata dalla lettura di Samuel Beckett. Nel 1980 si trasferisce nel
Nuovo Messico.
- Bruce Nauman, Flour Arrangements, 1967 – la documentazione del processo è solo una foto. La
farina per caduta va ad appoggiarsi in modo del tutto imprevedibile sul pavimento.
- Bruce Nauman, Art Make-Up: No. 1 White, No. 2 Pink, No. 3 Green, No. 4 Black, 1967-68, MoMA
(New York) – utilizza il proprio corpo il colore secondo un procedimento creativo.
- Bruce Nauman, Perfect door/perfect odor/perfect rodo, 1972, MoMA (New York) – l’uso del neon
forma parole: sono giochi di parole che, per mezzo del neon, è l’elemento fondante dell’aspetto
commericiale affascinante della cultura americana, come fortemente ipnotico e abbagliante.
- Bruce Nauman, Human/Need/Desire, 1983, MoMA (New York) – in un momento si accende una
scritta, dopo poco l’altra, di volta in volta, come in ciascuno di noi: il desiderio, il bisogno si alternano.
Nauman ritiene che il linguaggio sia uno strumento potentissimo; nell’eleggere il neon come
strumento di comunicazione si è voluto avvicinare al comune linguaggio della pubblicità, soprattutto
per il carattere ipnotico del mezzo. In queste opere veicola attraverso l’aura commerciale del neon
per evidenziare momenti fondamentali dell’esperienza umana.
Nato a San Francisco, Serra frequenta la Yale University (1961-64), dove, in contatto in particolare con J.
Albers, s'interessa alle ricerche sulle interazioni cromatiche. In Europa dal 1964 al 1966, vive
prevalentemente tra Parigi e Roma accostandosi alle contemporanee esperienze della pop art e dell'arte
povera; nel 1966 presenta le sue opere (serie di gabbie contenenti animali vivi e impagliati) in una prima
mostra personale allestita dalla galleria romana La Salita. Tra il 1967 e il 1969, stabilitosi definitivamente a
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New York, lavora a contatto con Robert Morris e con altri esponenti del West Coast antiform group,
svolgendo le tappe più significative della sua ricerca gradualmente orientata a un maggior rigore formale.
Elabora opere dirette a indagare le potenzialità espressive offerte dalla materia e le tensioni latenti di
materiali eterogenei: opere in gomma, fibra di vetro e neon (Plinths, 1967; God is a loving father, 1967); la
serie Splash pieces consiste in colate di piombo fuso disposte orizzontalmente sul pavimento o in ammassi di
solidi geometrici in legno, piombo, acciaio e pietra (Cutting device: Base plate measure, 1969); infine la serie
Prop pieces (Prop, 1968; Equal (corner prop piece, 1969-70; 5:30, 1969), grandi lastre e tubolari in metallo
assemblati in composizioni dagli equilibri in apparenza precari, che anticipano le soluzioni successive.
Esponente di rilievo del minimalismo, negli anni Settanta, oltre alla serie dei disegni di grande formato, a
pastello o a carboncino, nelle quali vengono riproposte le monolitiche forme delle sue sculture (Heir, 1973),
propone opere destinate all'aperto volte all'analisi delle possibili interazioni tra spazio e volume, espandendo
così il proprio progetto creativo all'ambito architettonico e paesaggistico nel tentativo d'instaurare un
rapporto tra l'opera d'arte e l'ambiente circostante secondo un programma di ricerca che diverrà una
costante del suo lavoro (Shift, 1970-72; Sigth Point, 1971-75; Slat,1979-83). Archi e strutture primarie di
dimensioni monumentali, generalmente in piombo o in acciaio, rielaborate in numerose varianti, ciascuna
specificamente progettata per una precisa collocazione ambientale, caratterizzano infatti anche la
produzione dell'ultimo decennio (Clara Clara, 1983; La Palmera, 1982-84; Afangar, 1990; Stacks, 1990).
E’ un personaggio trasversale e anticipa in qualche modo l’arte povera. L’11 settembre del 1968 moriva a
Roma, tragicamente e prematuramente, Pino Pascali. La carriera artistica di Pascali è breve e folgorante. Si
era diplomato all’Accademia di Belle Arti di Roma nel 1959 e aveva cominciato subito a farsi notare come
scenografo. Aveva eseguito bozzetti, disegni e corti per Carosello (mito della televisione italiana degli anni
60, un pacchetto commerciale di pubblicità che accoglieva sketch pubblicitari nello stesso contenitore, di una
creatività stratosferica) e altre trasmissioni tv, oltre che disegni e plastici di velieri, treni, corazze. Per suo
conto sperimentava intensamente. Nel 1965 aveva tenuto la sua prima personale, a Roma nella prestigiosa
Galleria La Tartaruga. In soli tre anni si impose all’attenzione dei maggior critici d’arte italiani (Vivaldi, Calvesi,
Grandi, Rubiu, Boatto, Bucarelli, De Marchis) e di galleristi d’avanguardia, come Sargentini, Sperone, Iolas
(che lo presentò nel 1968 a Parigi). Espose i suoi lavori in due fondamentali collettive Lo spazio degli elementi:
Fuoco, Immagine, Acqua, Terra alla Galleria L’Attico di Roma per la cura di Alberto Boatto e Maurizio Calvesi
nel giugno del 1967 con Ceroli, Kounellis , Pistoletto e Schifano e Lo spazio dell’Immagine per la cura di Giorgio
De Marchis nel luglio del medesimo anno a Foligno in palazzo Trinci. Alla mostra parteciparono Fontana con
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un Ambiente spaziale, Enrico Castellani con Ambiente bianco, Pistoletto con I Pozzi e Luciano Fabro con In
cubo. Nella prima collettiva Pascali espose 9mq di pozzanghere e 1 metro cubo di terra e 2 metri cubi di terra.
Nella seconda 32 mq di mare circa. Alla fine del 1967, espose con Eliseo Mattiacci alla Galleria Nazionale di
Arte Moderna di Roma e presenta Campi arati, Canali d’irrigazione. Nell’estate del 1968 partecipò su invito
con una sala personale alla XXXIV Biennale di Venezia. Fu la sua consacrazione: dopo la sua scomparsa, a
mostra ancora aperta, gli fu conferito il Premio internazionale per la Scultura.
Nella sua libertà creativa non solo attinge a qualsiasi cosa che sia possibile, ma riesce a evocare con una
potenza rara tutta la cultura mediterranea, non italiana e basta. Quel Mediterraneo che ha visto intrecciarsi
i romani, i greci, gli arabi. Forse perché pugliese, forse perché abituato a respirare l’arte medievale della
Puglia, contrariamente ai process, molto studiato a livello intellettuale, a discapito dell’espressività più
sensibile, più umana, Pascali arriva subito e le sue opere hanno il profumo delle nostre terre.
- Pino Pascali, Campi arati, 1967, per la mostra alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma – ebbe
la fortuna di incontrare Palma Bucarelli, che rischiò la vita per mettere in salvo opere durante la
guerra e che che aprì alle punte più interessanti dell’arte contemporanea e in particolare Pino Pascali.
Adesso sì è normale ospitare arte contemporanea nei musei, ma farlo nel 1968 era davvero singolare.
Scultore, scenografo, performer, Pascali coniuga in modo geniale e creativo forme primarie e mitiche della
cultura e della natura mediterranee (la Grande Madre e Venere, il Mare, la Terra, i Campi, gli attrezzi e i riti
agricoli) con le forme infantili del Gioco e dell’Avventura (animali della preistoria, dello zoo e del mare,
giocattoli di guerra, il mondo di Tarzan e della giungla, bruchi e bachi, travestimenti, Pulcinella). Traduce
questo mondo dell’immaginario in forme monumentali e strutture essenziali, concise, come il romanico
pugliese e il bestiario medievale delle sue chiese; ma nel contempo rimandano alle icone della dilagante
cultura di massa (il fumetto, il cinema, la moda). Realizza le sue false sculture con materiali fragili ed effimeri
(tela, legno, lana d’acciaio, pelo acrilico, paglia, raffia). In questo modo dà una sua originale risposta critica
(italiana e meridionale) alle nuove tendenze che venivano dall’America: la Pop Art, la Minimal Art. Precorre
l’Arte Povera, la Body Art, l’arte concettuale degli anni Settanta.
- Pino Pascali, Attrezzi agricoli, 1967, GAM (Roma) – sono attrezzi agricoli ma di quelli antichi, hanno
la forza e il sapore dei grandi miti del Mediterraneo.
- Pino Pascali, contropelo (pelo), 1967, GAM (Roma) - Pascali aveva esposto due lavori Pelo e
Contropelo alla 34 Biennale Internazionale d'Arte di Venezia. Le opere si presentavano come due
enormi funghi ricoperti di una fibra acrilica filamentosa che ricordava il pelo di un animale. Il primo
elemento era basso, con il cappello ovale e con un pelo liscio e pettinato, il secondo invece era più
alto con un cappello tondo e la superficie arruffata. Presentati ancora insieme alla retrospettiva che
Palma Bucarelli dedicò nel 1969 all'artista, subito dopo la sua morte, i lavori furono probabilmente
divisi subito dopo, perché solo "Contropelo" è entrato nelle collezioni della Galleria Nazionale d'Arte
Moderna mentre l'altro, dopo vari passaggi di proprietà, è attualmente nella collezioni della
Fondazione Prada. E’ successa la stessa cosa della trappola dell’arte di Duchamp: l’arte che si divide
tra pelo e contropelo e uno si compra l’una e l’altro si compra l’altra. L'opera fa parte della serie
"Ricostruzioni della natura", a cui Pascali lavora dall'inizio del 1968. Portando a completo sviluppo la
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problematica del rapporto natura- realtà industriale, già emersa negli "Elementi naturali" del 1967,
Pascali si serve ora di materiali artificiali e seriali per dare forma, non senza accenti ludici e ironici, ad
un immaginario tratto dal mondo agricolo e campestre, carico di rimandi alla memoria mitica del
passato.
- Pino Pascali, Botole ovvero lavori in corso, 1968, GAM (Roma) – qui sotto c’è il mare, la terra, il sogno,
la magia.
Se l’Arte Povera è conosciuta a livello internazionale accanto alla Process art e all’arte concettuale lo
dobbiamo a Germano Celant. Germano Celant nacque a Genova nel 1940. Alla fine degli anni Sessanta dette
vita al movimento di Arte povera, coniandone la definizione e raccogliendo a sé un gruppo di artisti italiani:
Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Pino Pascali ed Emilio Prini, esposti nella prima
mostra alla Galleria La Bertesca di Genova, dal 27 settembre al 20 ottobre del 1967. «Là un’arte complessa,
qui un’arte povera, impegnata con la contingenza, con l’evento, con l’astorico, col presente, con la
concezione antropologica, con l’uomo ‘reale’ (Marx), la speranza, diventata sicurezza, di gettare alle ortiche
ogni discorso visualmente unico e coerente (la coerenza è un dogma che bisogna infrangere!), l’univocità
appartiene all’individuo e non alla ‘sua’ immagine e ai suoi prodotti», ha scritto Germano Celant in Appunti
per una guerriglia, testo teorico fondamentale stilato nel 1967. Il movimento da lui fondato si basa su una
riappropriazione del rapporto Uomo-Natura non in senso ascetico, bensì in contrapposizione con la
imperante cultura dei consumi. La mercificazione dell’artista e della sua opera fu una minaccia contro la quale
Arte povera si scagliò, utilizzando materiali poveri appunto, ossia organici, deperibili, privi di valore
intrinseco. Certo anche la process art utilizzò materiali poveri, ma con Arte Povera vi è anche un fondamento
politico. Alla galleria Bertesca di Genova presentò anche un’altra mostra: Im-Spazio, con i lavori di Umberto
Bignardi, Mario Ceroli, Paolo Icaro, Renato Mambor, Eliseo Mattiacci e Cesare Tacchi. «Non invento niente»,
diceva, intervistato da Antonio Gnoli per Repubblica, «Arte Povera è un’espressione così ampia da non
significare nulla. Non definisce un linguaggio pittorico, ma un’attitudine. La possibilità di usare tutto quello
che hai in natura e nel mondo animale. Non c’è una definizione iconografica dell’Arte Povera». Arte povera
resta tutt’oggi tra i movimenti artistici italiani più conosciuti in ambito internazionale dal secondo
dopoguerra. Tra il novembre e il dicembre del 1967 Celant pubblica su Flash Art¸ una rivista appena uscita e
attenta alle novità dell’arte visiva, Arte povera. Note per una guerriglia, il primo testo programmatico del
nuovo movimento: «Un nuovo atteggiamento per ripossedere un reale dominio del nostro esserci, che
conduce l’artista a continui spostamenti dal suo luogo deputato, dal cliché che la società gli ha stampato sul
polso. L’artista da sfruttare diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del combattimento, possedere i
vantaggi della mobilità, sorprendere e colpire con l’opposto». Precisa poi il suo pensiero sul testo di
accompagnamento alla mostra Arte Povera che si terrà di lì a poco alla Galleria De’ Foscerari di Bologna
(febbraio-marzo 1968): «Un arte che trova nell’anarchia linguistica e visuale, nel continuo nomadismo
comportamentistico il suo massimo grado di libertà ai fini della creazione, arte come stimolo a verificare
continuamente il proprio grado di esistenza (mentale e fisica)…». Nell’occasione della presentazione della
mostra Arte Povera alla Galleria la Bertesca di Genova nel 1967 Celant aveva scritto: «I lavori di Paolini, Boetti,
Fabro, Prini, Kounellis e Pascali riguardano fondamentalmente archetipi mentali e fisici, tentano di evitare
ogni complicazione visuale, pere offrirsi come dati di fatto. I singoli lavori dimostrano una tendenza generale
all’impoverimento e alla decultura dell’arte. Sono un contenitore di carbone (Kounellis), una catasta di tubi
di eternit (Boetti), una tautologia di pavimento (Fabro,) due cubi di terra (Pascali), la lettura dello spazio
(Paolini), il perimetro d’aria di un ambiente, annotato visivamente e sonoramente (Prini)». Dal 4 al 6 ottobre
del 1968 organizza ad Amalfi Arte Povera+Azioni Povere, uno dei momenti culmine della fase emergente del
movimento. Gli artisti espongono lavori, realizzano installazioni e interventi nel contesto della città ei critici
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danno vita a dibattiti sul proprio ruolo e sulla nuova dimensione dell’arte in grado di agire direttamente sulla
componente sociale e politica della realtà. Vi partecipano tra gli altri : Boetti, Mario Merz, Marisa Merz,
Paolini, Pistoletto, Kounellis e Luciano Fabro. Cura poi Conceptual Art. Arte povera.Land Art alla Galleria
Civica d’arte moderna di Torino tra il giugno e il luglio del 1970 con la partecipazione di Nauman, Beuys, Klein
, Morris, Flavin, Andre, Pascali, Boetti e Paolini tra gli altri.
- Arte Povera + Azioni Povere, 1968, Arsenali della Repubblica (Amalfi) – è davvero un happening che
Celant porta nel contesto italiano.
Così mi sono reso conto che noi abbiamo un enorme potere in mano: che è quello di inventare il mondo, di
mettere al mondo il mondo. Avevano ragione gli Etruschi a fare le foglie blu: dipingere una foglia blu è un
atto di invenzione del mondo, dato che la foglia verde esiste già come tale nel regno delle cose e sarebbe
meno interessante come rappresentazione.
In fondo ognuno di questi artisti ambiscono a creare un altro mondo che non c’è.
Alighiero e Boetti, come si firma a partire dal 1971, nasce a Torino dove esordisce nell’ambito dell’Arte Povera
nel gennaio del 1967. Torino è insieme a Roma la sede privilegiata dei poveristi, perché vi operano gallerie
molto aperte a nuovi linguaggi. Nel 1972 si trasferisce a Roma, contesto più affine alla sua predilezione per il
Sud del mondo. Già l’anno precedente ha scoperto l’Afghanistan e avviato il lavoro artistico che affida alle
ricamatrici afghane, tra cui le Mappe, i planisferi colorati che riproporrà lungo gli anni, come registro dei
mutamenti politici del mondo. Artista concettuale, versatile e caleidoscopico, moltiplica le tipologie di opere
la cui esecuzione – in certi casi – viene delegata con regole ben precise ad altri soggetti e altre mani,
assecondando il principio del ‘la necessità e il caso’: così le biro (blu, neri, rossi, verdi) in cui la campitura
tratteggiata mette in scena il linguaggio; così i ricami di lettere, piccoli o grandi, e multicolori; o i Tutto, fitti
puzzle in cui si ritrovano silhouette eterogenee tra cui sagome di oggetti e di animali, immagini tratte da
riviste e carta stampate, e molto altro, davvero ‘tutto’. Ci sono inoltre i lavori postali giocati sulla
permutazione matematica dei francobolli, l’aleatoria avventura del viaggio postale e la segreta bellezza dei
fogli contenuti nelle buste. Il tempo, il suo scorrere affascinante e ineluttabile, è il tema unificante della
pluralità tipologica e iconografica di Boetti, il che lo pone in relazione con la process art. La prima personale
ebbe luogo alla Galleria Stein di Torino nel gennaio deol 1967. Espose nelle mostre più emblematiche della
sua generazione, da When attitudes become form (1969) a Contemporanea (1973), da Identité italienne
(1981) a The italian metamorphosis 1943-1968 (1994). Più volte invitato alla Biennale di Venezia nel 1990
ebbe una sala personale. Nel 2017 la Fondazione Cini di Venezia organizzò una importante retrospettiva. Tra
le mostre più significative degli ultimi anni la grande retrospettiva Game Plan in tre prestigiose sedi (il MoMA
di New York, la Tate di Londra, il Reina Sofia di Madrid).
- Alighiero Boetti, io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969, 1969, Fondazione Boetti
- Alighiero Boetti, penna a biro blu su carta, 1973 ca, Fondazione Boetti
- Alighiero Boetti, Mappa, 1979, Fondazione Boetti
- Alighiero Boetti, Tutto, 1992-94, Fondazione Boetti – se io navigo dentro questo tutto chissà cosa
mai ci troverò: niente è determinato, tutto è possibile, a me l’esperienza di ciò che io voglio trovare.
Riporta leggerezza nella libertà come Pascali che però ha un senso di tragico. Pascali è come se
rappresentasse la parte gioiosa ed evocativa mentre Kounellis la parte più drammatica del Mediterraneo.
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Nato a Pireo, nell'Attica in Grecia, nel 1956, poco più che ventenne, lascia la Grecia e si trasferisce in Italia, a
Roma dove si iscrive all'Accademia di belle arti sotto la guida di Toti Scialoja, al quale deve l'influenza
dell'espressionismo astratto che insieme all'arte informale costituisce il binomio fondamentale dal quale
prende le mosse il suo percorso creativo. Esordisce nel 1960 allestendo sempre a Roma la sua prima mostra
personale alla Galleria La Tartaruga. Mostra subito un'urgenza comunicativa molto forte che lo porta al rifiuto
di prospettive individualistiche, estetizzanti e decadenti e all'esaltazione del valore pubblico, collettivo del
linguaggio artistico. Nelle sue prime opere, infatti, dipinge dei segni tipografici su sfondo chiaro che alludono
all'invenzione di un nuovo ordine per un linguaggio frantumato, polverizzato. Risalgono al 1967 le prime
mostre ideologicamente vicine al movimento dell'Arte povera nelle quali l'uso di prodotti e materiali di uso
comune suggeriscono per l'arte una funzione radicalmente creativa, mitica, priva di concessioni alla mera
rappresentazione. Evidenti sono anche i riferimenti alla grecità delle sue origini. Le sue installazioni diventano
delle vere e proprie scenografie che occupano fisicamente la galleria e circondano lo spettatore rendendolo
attore protagonista in uno spazio che inizia anche a riempirsi di animali vivi, contrapposti alle geometrie
costruite con materiali che evocano la produzione industriale. Nella "Margherita di fuoco" appare appunto
anche il fuoco, elemento mitico e simbolico per eccellenza, generato però da una bombola a cannello. Nel
1969 l'installazione diviene vera e propria performance coi Cavalli legati alle pareti della galleria L'Attico di
Fabio Sargentini, in un sontuoso scontro ideale tra natura e cultura nel quale il ruolo dell'artista è ridotto al
livello minimo di un'operosità sostanzialmente manuale, quasi da uomo di fatica. Col passaggio agli anni
settanta l'entusiasmo volitivo di Kounellis si carica di una pesantezza diversa, frutto del disincanto e della
frustrazione di fronte al fallimento delle potenzialità innovative dell'arte povera, inghiottita suo malgrado
dalle dinamiche commerciali della società dei consumi, presidiate dagli spazi tradizionali di fruizione come
musei e gallerie. Tale sentimento viene espresso dalla famosa porta chiusa con delle pietre presentata per la
prima volta a San Benedetto del Tronto e quindi nel corso degli anni, con significative variazioni strutturali
dense di significati poetici, a Roma, Baden-Baden, Londra, Colonia. Nel 1972 Kounellis partecipa per la prima
volta alla Biennale di Venezia. Gli anni dell'amarezza proseguono con installazioni nelle quali alla vitalità del
fuoco subentra l'oscura presenza della fuliggine mentre gli animali vivi cedono il passo a quelli imbalsamati.
Il culmine di questo processo è forse il grandioso lavoro presentato all'Espai Poblenou di Barcellona nel 1989,
caratterizzato da quarti di bue appena macellati fissati mediante ganci a lastre metalliche e illuminati da
lanterne a olio. Negli anni più recenti l'arte di Kounellis si è fatta virtuosamente manieristica e ha ripreso temi
e suggestioni che l'avevano caratterizzata in precedenza con uno spirito più meditativo, capace di
interpretare con una rinnovata consapevolezza la primitiva propensione all'enfasi monumentale. Esempi di
questa nuova direzione di ricerca sono l'installazione Offertorio del 1995 in piazza del Plebiscito, a Napoli e
la mostra in Messico nel 1999. Napoli, anno 1998 Mulino in ferro esposizione permanente in Piazza Ponte di
Tappia. Realizza nel cortile antico dell'edificio centrale dell'Università degli Studi di Padova un monumento
per il cinquantennale della Resistenza, nel 1995, splendido assemblaggio di assi di legno, raccolte nelle
vicinanze della città, per evocare la fatica e la coralità della Resistenza, a cui l'Università dette un contributo
tale da essere l'unica sede premiata in Italia con la medaglia d'oro al valor militare. Continuano le grandi
mostre in Sud America, come quelle in Argentina (2000) e Uruguay (2001). Nel 2002, l'artista ripropone
l'installazione dei cavalli alla Whitechapel di Londra e, poco dopo, alla Galleria nazionale d'arte moderna di
Roma costruisce un enorme labirinto di lamiera lungo il quale pone, quasi fossero altrettanti approdi, gli
elementi tradizionali della sua arte, come le "carboniere", le "cotoniere", i sacchi di iuta e i cumuli di pietre
("Atto unico"). Nel 2004 realizza un'installazione nella Galleria dell'Accademia di Firenze, all'interno
dell'esposizione temporanea Forme per il David, nata per celebrare i cinquecento anni dalla creazione del
David di Michelangelo. Nel 2007 realizza due installazioni in Calabria: Con Mattia Preti alla Galleria Nazionale
di Palazzo Arnone a Cosenza, e Un tocco leggero come le ali di un passerotto.... al Museo Nazionale
Archeologico della Sibaritide a Sibari. Nel 2007 lavora alla realizzazione del 383° festino di Santa Rosalia a
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Palermo disegnando il carro trionfale della Santa. Sempre nel 2007 inaugura a Roma la Porta dell'Orto
Monastico della Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, una imponente cancellata di ferro impreziosita da
elementi cromatici realizzati in pietre di vetro. Nel 2009 la Galleria Fumagalli e il Museo Adriano Bernareggi
(Bergamo) dedicano rispettivamente all'artista una personale e un'unica installazione realizzata site specific.
L'artista realizza uno speciale allestimento di opere proponendo una riflessione sull'arte e sull'uomo,
testimonianza delle riflessioni poetiche da sempre al centro del suo lavoro e per le quali è stato indicato come
possibile ospite alla Biennale di Venezia 2011 del primo padiglione della Città del Vaticano. Nel 2012, inoltre,
una sua famosa opera è esposta al museo d'arte contemporanea Riso nella città di Palermo. In un'intervista
che poneva l'evidenza sulla sua cittadinanza italiana, si qualificò come artista italiano a tutti gli effetti: «Tale
sono e tale mi considero da sempre». Nella stessa, a proposito di pittura, pur non avendo quasi mai fatto
«quadri» in senso stretto, Kounellis si definì pittore: Perché la pittura è costruzione di immagini. Ed è tale se
è rivoluzionaria, senza freni per l'immaginazione. Sicuramente tra gli artisti dell’arte povera è colui che ha
mantenuto una verginità creativa.
- Jannis Kounellis, Margherita di fuoco, 1967 – la bombola a gas in basso serve a tener acceso il fuoco.
- Jannis Kounellis, 12 cavalli, 1967, Galleria L’Attico di Roma – originario della Grecia ha ben in mente
l’iconografia del cavallo nella storia e nel suo paese natale, ma in generale del Mediterraneo. Siamo
nel momento in cui si manifestano le prime dichiarazioni di arte povera.
- Jannis Kounellis per la Galleria l’Attico di Roma (1967) – L’attico da ricordare che era un garage. Il
fiore è una margherita nera, la margherita di fuoco che abbiamo visto prima.
- Jannis Kounellis, Atto unico,2002, GAM (Roma)
Nasce a Biella nel 1933 e inizia a esporre nel 1955, nel 1960 tiene la sua prima personale alla Galleria Galatea
di Torino. La sua prima produzione pittorica è caratterizzata da una ricerca sull’autoritratto. Nel biennio 1961-
1962 approda alla realizzazione dei Quadri specchianti, che includono direttamente nell’opera la presenza
dello spettatore, la dimensione reale del tempo e riaprono inoltre la prospettiva, rovesciando quella
rinascimentale chiusa dalle avanguardie del XX secolo. Con questi lavori Pistoletto raggiunge in breve
riconoscimento e successo internazionali, che lo portano a realizzare, già nel corso degli anni Sessanta,
mostre personali in prestigiose gallerie e musei in Europa e negli Stati Uniti. I Quadri specchianti costituiranno
la base della sua successiva produzione artistica e riflessione teorica. Tra il 1965 e il 1966 produce un insieme
di lavori intitolati Oggetti in meno, considerati basilari per la nascita dell’Arte Povera, movimento artistico di
cui Pistoletto è animatore e protagonista. A partire dal 1967 realizza, fuori dai tradizionali spazi espositivi,
azioni che rappresentano le prime manifestazioni di quella collaborazione creativa che Pistoletto svilupperà
nel corso dei decenni successivi, mettendo in relazione artisti provenienti da diverse discipline e settori
sempre più ampi della società. Tra il 1975 e il 1976 realizza nella Galleria Stein di Torino un ciclo di dodici
mostre consecutive, Le Stanze, il primo di una serie di complessi lavori articolati nell’arco di un anno, chiamati
continenti di tempo, come Anno Bianco (1989) e Tartaruga Felice (1992). Nel 1978 tiene una mostra nel corso
della quale presenta due fondamentali direzioni della sua futura ricerca e produzione artistica: Divisione e
moltiplicazione dello specchio e L’arte assume la religione. All’inizio degli anni Ottanta realizza una serie di
sculture in poliuretano rigido, tradotte in marmo per la mostra personale del 1984 al Forte di Belvedere di
Firenze. Dal 1985 al 1989 crea la serie di volumi “scuri” denominata Arte dello squallore. Nel corso degli anni
Novanta, con Progetto Arte e con la creazione a Biella di Cittadellarte-Fondazione Pistoletto e dell’Università
delle Idee, mette l’arte in relazione attiva con i diversi ambiti del tessuto sociale al fine di ispirare e produrre
una trasformazione responsabile della società. Nel 2003 è insignito del Leone d’Oro alla Carriera alla Biennale
di Venezia. Nel 2004 l'Università di Torino gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze Politiche. In tale
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occasione l'artista annuncia quella che costituisce la fase più recente del suo lavoro, denominata Terzo
Paradiso. Nel 2007 riceve a Gerusalemme il Wolf Foundation Prize in Arts, “per la sua carriera costantemente
creativa come artista, educatore e attivatore, la cui instancabile intelligenza ha dato origine a forme d'arte
premonitrici che contribuiscono ad una nuova comprensione del mondo”.
- Michelangelo Pistoletto, quadri specchianti, 1962 – si tratta di specchi sui quali vengono serigrafate
persone di spalle, con un gioco interessante di prospettiva pseudo-rinascimentale. Il pubblico vi si
specchia con grande interesse e divertimento, entrando in comunicazione con l’opera. Ricordano in
ambito rinascimentale Piero della Francesca, con la sua prospettiva fortemente matematica.
- Michelangelo Pistoletto, Mappamondo, 1966-68, Collezione Lia Rumma
"Mi pare, con i miei recenti lavori di essere entrato nello specchio, entrato attivamente in quella
dimensione del tempo che nei quadri specchianti era rappresentata. I miei recenti lavori testimoniano la
necessità di vivere e agire secondo questa dimensione, cioè secondo l'irripetibilità di ogni attimo, di ogni
luogo e quindi di ogni situazione presente (...) I lavori che faccio non vogliono essere delle costruzioni o
fabbricazioni di nuove idee, come non vogliono essere oggetti che mi rappresentino, da imporre o per
impormi agli altri, ma sono oggetti attraverso i quali io mi libero di qualcosa - non sono costruzioni ma
liberazioni - io non li considero oggetti in più ma oggetti in meno, nel senso che portano con sé
un’esperienza percettiva definitivamente esternata.” (M. Pistoletto, Gli oggetti in meno, op. cit.)
La ricerca di Pistoletto varia e multiforme, si esprime nell’ambito di una serrata dialettica tra arte e vita.
L’esperienza degli Oggetti in meno fu fondamentale per la definizione del concetto di arte povera: «Sono
oggetti attraverso i quali io mi sono liberato di qualcosa; io non li considero oggetti in più , ma oggetti in
meno, nel senso che portano con sé un’esperienza percettiva definitivamente esternata. A differenza dei
quadri specchianti, questi non rappresentano ma sono. Il materiale è scelto di volta in volta a seconda di
una particolare necessità percettiva . Tutti i materiali per me sono idonei , non ci sono materiali più
moderni o meno moderni». I lavori successivi tra il 1967 e il 1968 sono oggetti spesso di carattere
effimero e legati ad azioni teatrali come per esempio Sfera di giornali una grande palla di carta pesta fatta
rotolare per le strade con il coinvolgimento del pubblico. Muro di stracci, Orchestra di stracci e la Venere
degli stracci sono installazioni pervase da ironica e gioiosa vitalità.
Nel 2017 viene pubblicato il suo testo Ominiteismo e Demopraxia. Manifesto per una rigenerazione della
società. Prendete Ominiteismo e Demopraxia come un manuale per una trasformazione responsabile
della società. Una guida necessaria all’equilibrio della convivenza civile, dove ognuno esercitando la
Demopraxia, dalle piccole occupazioni del quotidiano saprà estenderla alle grandi relazioni sociopolitiche
della vita comune. Siamo giunti a un traguardo della storia ora dobbiamo compiere il passaggio
necessario al proseguire di questa nostra civiltà. A Cittadellarte è nato un simbolo che indica la via verso
il cambiamento della società. È il disegno del triplo cerchio. Esso rappresenta il Terzo Paradiso, ovvero il
Terzo Tempo dell’umanità. L’arte ha animato ogni passo della vicenda umana con la forza della creazione
che le è propria. In questo frangente epocale essa traccia le prospettive del nuovo percorso, ne avvia il
cammino e ne assume, anche praticamente, la guida. Il cambiamento inizia da due aspetti fondamentali,
la religione e la politica. L’Ominiteismo pone sia le persone sia le istituzioni religiose di fronte a se stesse
per un giudizio che non arriva dall’alto, ma mette ciascuno e tutti direttamente davanti alle proprie
responsabilità. La responsabilità diviene così la prassi che regola e unisce tutte le parti della società. Un
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utopia di un nuovo umanesimo, un nuovo percorso che riparte dall’uomo, e non nei massimi sistemi, ma
nelle loro azioni quotidiane. L’arte è la grande insegna che indica la strada. La Demopraxia sostituisce il
termine “potere”, dal greco krátos (da cui deriva democrazia), con il termine “pratica”, dal greco pràxis
(da cui demopraxia), per arrivare con la demo-pratica là dove non si è potuti arrivare con l’imposizione
del demopotere. Questo manifesto si conclude con le indicazioni indispensabili per realizzare
demopraticamente quello che è stato il sogno della Democrazia.
Nel 2017 viene pubblicato il suo testo Ominiteismo e Demopraxia. Manifesto per una rigenerazione della
società: Prendete Ominiteismo e Demopraxia come un manuale per una trasformazione responsabile
della società. Una guida necessaria all’equilibrio della convivenza civile, dove ognuno esercitando la
Demopraxia, dalle piccole occupazioni del quotidiano saprà estenderla alle grandi relazioni sociopolitiche
della vita comune.
Siamo giunti a un traguardo della storia ora dobbiamo compiere il passaggio necessario al proseguire di
questa nostra civiltà. A Cittadellarte è nato un simbolo che indica la via verso il cambiamento della
società. È il disegno del triplo cerchio. Esso rappresenta il Terzo Paradiso, ovvero il Terzo Tempo
dell’umanità. L’arte ha animato ogni passo della vicenda umana con la forza della creazione che le è
propria. In questo frangente epocale essa traccia le prospettive del nuovo percorso, ne avvia il cammino
e ne assume, anche praticamente, la guida. Il cambiamento inizia da due aspetti fondamentali, la
religione e la politica. L’Ominiteismo pone sia le persone sia le istituzioni religiose di fronte a se stesse
per un giudizio che non arriva dall’alto, ma mette ciascuno e tutti direttamente davanti alle proprie
responsabilità. La responsabilità diviene così la prassi che regola e unisce tutte le parti della società. La
Demopraxia sostituisce il termine “potere”, dal greco krátos (da cui deriva democrazia), con il termine
“pratica”, dal greco pràxis (da cui demopraxia), per arrivare con la demo-pratica là dove non si è potuti
arrivare con l’imposizione del demopotere. Questo manifesto si conclude con le indicazioni indispensabili
per realizzare demopraticamente quello che è stato il sogno della Democrazia.
Nacque a Milano da famiglia di origine svizzera e crebbe a Torino. Antifascista e aderente al movimento
Giustizia e Libertà fu costretto ad abbandonare gli studi di medicina e venne incarcerato. Nel 1954 tenne
la prima personale presso la Galleria La Bussola di Torino, dove espose disegni e quadri i cui soggetti
rimandano all’universo organico e dai quali emerge la conoscenza dell’Informale e del linguaggio
dell’Espressionismo Astratto americano. Nel 1959 sposa Marisa, artista che diventerà sua compagna
inseparabile. La coppia si trasferisce in Svizzera, poi a Pisa, per tornare a Torino dove Merz realizza una
serie di “strutture aggettanti”, opere volumetriche intese come possibile fusione dei mezzi espressivi di
pittura e scultura. Partecipa a mostre collettive in Italia e all’estero inclusa la Società Promotrice delle
Belle Arti a Torino. Dalla metà degli anni Sessanta il desiderio di lavorare sulla trasmissione di energie
dall’organico nell’inorganico lo porta a realizzare opere in cui il neon trapassa oggetti di uso quotidiano
quali un ombrello, un bicchiere, una bottiglia, il proprio impermeabile. Incontra a Torino il critico
Germano Celant, che conia il termine Arte Povera e lo include tra gli esponenti del nuovo linguaggio.
Partecipa alle prime mostre del gruppo. Con l’adozione della forma dell’igloo, intorno al 1968, avviene lo
sganciamento definitivo dal piano bidimensionale della parete. I primi igloo vengono presentati al
Deposito d’Arte Presente a Torino. Negli anni produce ciascun esemplare utilizzando i materiali più vari,
sviluppando ogni volta nuove relazioni con i contesti incontrati. A partire dal 1970 inizia a usare la serie
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numerica di Fibonacci, all’interno della quale riconosce un sistema capace di rappresentare i processi di
crescita del mondo organico. A Berlino, dove soggiorna per un anno nel 1973, indirizza la propria ricerca
sul tema dei tavoli, intesi quali elementi unificanti, fondamentali per la costruzione di una possibile Casa
Fibonacci. Le principali collettive includono Kunsthalle, Berna (1969), Biennale di Tokyo (1970),
Kunstmuseum, Lucerna (1970), Documenta 5, Kassel (1972), Biennale di Venezia (1972). Tiene la prima
personale negli Stati Uniti presso il Walker Art Center, Minneapolis (1972). Dalla seconda metà degli anni
Settanta sviluppa una rinnovata frequentazione con la pratica pittorica e si dedica a una serie di opere
dove l’igloo, le fascine, i numeri al neon, i tavoli e gli ortaggi includono pacchi di giornali. La prima
personale in un museo europeo è alla Kunsthalle, Basilea, seguita dalla mostra all’Institute of
Contemporary Art, Londra (1975). Partecipa alla Biennale di Venezia (1976 e 1978). Nel corso degli anni
Ottanta il repertorio pittorico si arricchisce di immagini di animali primitivi e notturni. Si susseguono
importanti retrospettive in musei internazionali tra cui Museum Folkwang, Essen, Stedelijk van
Abbemuseum Eindhoven (1979) Whitechapel, Londra (1980), ARC/Musée d’Art Moderne de la Ville,
Parigi (1981), Kunsthalle, Basilea (1981), Moderna Museet, Stoccolma, Palazzo dei Congressi, San Marino
(1983), Kunsthaus Zurigo (1985) e tra le collettive partecipa alle Biennali di Sydney (1979), Documenta 7,
(1982), Biennale di Venezia (1986). I suoi scritti vengono pubblicati in Voglio fare subito un libro (1985),
raccolta curata da Beatrice Merz. Realizza numerose installazioni in spazi esterni a Torino, Parigi, Ginevra,
Sonsbeck e Münster e opere di grandi dimensioni al Museo di Capodimonte, al CAPC Musée d’art
contemporain, Bordeaux e alla Chapelle Saint-Louis de la Salpêtrière, Parigi (1987). I riconoscimenti
internazionali includono personali al Guggenheim Museum, New York (1989), al Castello di Rivoli Museo
d’Arte Contemporanea, al Centro Luigi Pecci, Prato (1990) e alla Galleria Civica d’Arte Contemporanea,
Trento (1995) e proseguono gli inviti a realizzare installazioni per spazi pubblici, tra cui la metropolitana
di Berlino, la stazione ferroviaria di Zurigo, la linea tramviaria di Strasburgo. Altri importanti
appuntamenti di questi anni includono Documenta IX Kassel (1992), Biennale di Venezia (1997).
- Mario Merz, Che fare?, 1968 – è una delle prime opere e riprende la famosa frase di Lenin.
- Mario Merz, Sentiero per qui, 1986, La Caixa Collection – approccia ai primi igloo.
- Mario Merz, Igloo
- Mario Merz, un segno nel foro di Cesare, 2003 – questa è la spirale dei numeri di Fibonacci.
Nella seconda metà degli anni ’60 tutti i movimenti di cui stiamo parlando hanno un periodo di massima
espressione. La fine degli anni ’60 è stato uno di quei momenti topici. Riprendiamo personalità di cui abbiamo
già parlato perché ci servono come ponte verso la Land Art e la Body Art.
Gli artisti legati alla ricerca processuale e poverista, così come i minimal, considerano di cruciale importanza
nelle loro installazioni la relazione con il contesto spaziale, sino ad arrivare, non di rado, alla messa in scena
di lavori specificatamente ambientali. Si annulla la scultura come memento ma come parte integrante dello
spazio dove si installa. Jannis Kounellis (1936-2017) con l’attivazione sensoriale di un ambiente con lungo le
pareti fonti di fuoco, un lavoro presentato la prima volta nel 1969 e poi più volte riproposto, e con i cavalli
messi in scena nell’Attico di Sargentini a Roma nel 1969; il pubblico qui diventa parte integrante – siamo ai
limiti della performance. Mario Merz (1925- 2003) con i primi igloo (1968) prediletti dall’artista per essere
privi di piano murale o aggettante (non assertivi ma adattabili), per la loro qualità di spazi assoluti, non
modellati, soltanto semplici sfere appoggiate a terra, per la possibilità di rivestirne lo scheletro con ogni sorta
di materiale. Quanto la minimal è assertiva quanto l’igloo di Mario Merz è modellabile e adattabile. L’igloo è
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una metafora del rapporto tra dimensione interna ed esterna, tra dentro e fuori, sia dello spazio umano
dell’esistenza sia in quello astratto dell’immaginazione (dentro) e quello della realtà fisica (fuori).
«Non m'interessa un'arte narrativa. Non voglio rappresentare, voglio affermare, tutte le mie opere nascono
da un gesto assertivo nel quale la tensione ha un valore dialettico, libera da qualsiasi connotazione simbolica
o narrativa». Jannis Kounellis. Il pubblico deve entrare il dialettica, in dialogo, con l’artista – non resta altro
che coglierla.
- Jannis Kounellis, senza titolo (Libertà o Morte. W Marat W Robespierre), 1969, opera presentata a
Napoli da Lucio Amelio
- Jannis Kounellis, 12 cavalli vivi, 1969, Galleria L’Attico (Roma)
«Un igloo è una fusione di tanti linguaggi e pensieri, di osservazioni geometriche, aritmetriche e geografiche
(...) L’igloo dà un’interpretazione di un posto, sfugge alla necessità meccanica di un rapporto con il luogo e
quindi diventa più visionario. Anzi, sceglie la visionarietà perdendo la volontà di servire a qualcosa». Mario
Merz. L’igloo è una casa sia per qualsiasi persona viva che per una persona morta.
Accanto al motivo costante, dal 1967, delle costruzioni a forma di igloo, presentò operazioni e installazioni
ispirate alla successione di Fibonacci (matematico pisano vissuto tra 1200 e 1300 ) - (indica una successione
di numeri interi in cui ciascun numero è la somma dei due precedenti, eccetto i primi due), la cui progressione
numerica (che nello spazio dà luogo a un tracciato curvilineo o a un movimento a spirale) è proposta da Merz
come principio universale di accrescimento vitale. E’ rappresentabile come una spirale infinita, una
rappresentazione dell’universo e della sua vitalità.
Marisa Merz (1926-2019), unica rappresentante femminile del movimento dell’Arte Povera e protagonista
della scena artistica italiana dalla fine degli anni Sessanta, si è distinta nel tempo per un personale percorso,
sviluppato in una forma autonoma e indipendente. La sua ricerca si avvale di mezzi espressivi sempre diversi,
che vanno dal disegno alla scultura, dalla pittura all’installazione. Insistendo sull’importanza della manualità
del fare artistico, recupera tecniche proprie dell’artigianalità femminile, come il cucito e l’intreccio. L’opera
di Marisa Merz cristallizza l’effimero e si muove oscillando tra la sfera pubblica e quella privata, fatta di
memorie personali. I primi lavori, realizzati alla metà degli anni Sessanta, sono nati come estensione della
propria sfera domestica: si tratta di sculture di lamine di alluminio, strutture spiraliformi mobili e irregolari
(Living sculptures) e di oggetti leggeri realizzati con fili di rame e ferri da maglia. A metà degli anni Settanta,
l’artista inizia a modellare una serie di piccole teste realizzate in argilla non cotta talvolta rivestite con
pigmenti luminosi o dorature, e racchiuse nella cera.
- Marisa Merz, in occasione della mostra “The sky is a great space” all’Hammer Museum di Los Angeles
e al MET di New York – gli oggetti sono gli oggetti della memoria che sono il linguaggio scelto da
Marisa Merz. Ha lasciato piccoli oggetti della sua vita domestica, anche relativi alla figlia che Mario e
Marisa ebbero, che creano una sorta di via di Pollicino, una via della strada e del ricordo che
sottolineano la vita di ognuno di noi. Una serie di piccole cose che hanno bisogno di piccoli oggetti.
Questi oggetti si inseriscono in perfetta sintonia con la spirale di Mario Merz. Questa è la poetica di
Marisa Merz, che aderì al movimento di Arte Povera.
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Joseph Beuys (1921 – 1986)
Nel 1971 Lucio Amelio a Napoli ospitò la prima mostra in Italia di Joseph Beuys, intitolata La rivoluzione siamo
Noi. Nato a Krefeld il 12 maggio 1921, Beuys è uno dei personaggi più complessi del XX secolo, sia per la sua
personalità che per la ricerca artistica intrapresa. L’artista tedesco ha infatti da sempre unito intimamente la
propria vita con l’attività creativa, secondo il pensiero che «Arte = vita». Medium delle sue opere è stato
principalmente l’happening di cui lui si è reso protagonista e all’interno del quale ha da sempre inserito
elementi appartenenti alla sua esistenza. La storia di Beuys è particolare: arruolatosi nell’aviazione tedesca
durante la Seconda Guerra Mondiale, l’artista si trova coinvolto in uno scontro con i nemici russi e il suo aereo
viene colpito. In fin di vita e quasi assiderato, riuscì a sopravvivere e trasformò la vicenda in un racconto
epico, una delle sorgenti della sua vocazione artistica. Raccontò di essere stato soccorso da un gruppo di
tartari nomadi, che lo curarono utilizzando un espediente naturale, grasso e feltro, nei quali venne avvolto.
L’episodio segnerà in modo significativo l’attività artistica di Beuys, utilizzerà questi materiali in diverse
opere. La possibilità di poter generare calore tramite elementi naturali sarà un tema costante del suo lavoro.
Nelle sue opere pian piano ci accompagna per mano verso la Land Art.
Quando parliamo ci Beuys ci viene in mente l’essere sciamano, una sorta di antenna in grado di catturare
l’energia dell’universo per ricreare un’armonia totale. Vuole una visione non più antropocentrica. L’interesse
per l’ecologia e la politica furono fondamentali nella sua vita, tanto che negli anni Ottanta egli produsse opere
a tema ambientale: esempio tra tutte è 7000 eichen, un lavoro del 1982 realizzato in occasione della mostra
Documenta 7 tenutasi presso la città tedesca di Kassel. Beuys, dopo aver accumulato davanti al Museo
Federiciano 7000 pietre di basalto, invitò il pubblico a versare una somma di denaro per “adottare” una pietra
così da permettere, con il ricavato della vendita, di piantare una quercia. Con il trascorrere del tempo, ad
ogni pietra è stato sostituito un albero di quercia, con lo scopo di rivalutare una zona della città e perpetuare
il progetto ecologista dell’artista tedesco. A metà degli anni Sessanta, Joseph Beuys manifesta la sua
concezione di creatività con la frase «Ogni uomo è un artista»: secondo lui l’atto della creatività e quello di
libertà coincidono. Il pubblico acquistano le pietre va sullo stesso piano dell’artista. Il pensiero di Beuys è
stato tradotto spesso nelle sue opere, con le quali egli ha cercato di trovare una via di uscita al malessere
della società contemporanea: nel 1983, ad esempio, in occasione di un’esposizione organizzata da
un’associazione di artisti newyorchesi ed intitolata Subculture, egli realizza un manifesto da affiggere sulle
carrozze della metropolitana di New York. Il lavoro che Beuys compie è quello di riprendere una lavagna sulla
quale era stata trascritta con un gessetto bianco una lezione sulla creatività artistica e aggiungere in rosso lo
slogan «CREATIVITY = CAPITAL».
Beuys ha partecipato attivamente alla vita politica con manifestazioni, organizzando sit-in, lezioni sulla
democrazia, condannando l’oppressione comunista della Germania Est, fino a candidarsi alle elezioni per il
Parlamento Europeo nel 1979 con il partito dei Verdi. Le sue idee sono tutte contenute nella frase La
Rivoluzione Siamo Noi che appare sul manifesto della mostra del 1971 a Napoli. L’uomo, essendo un’entità
vitale e creativa, può impegnarsi per plasmare e dar forma alla società in cui vive. Per Beuys è essenziale
l’accurata strategia di installazione degli oggetti e dei materiali delle sue opere spesso in stretta connessione
con le sue azioni performative, creando così ambienti caratterizzati da totalizzante coinvolgimento
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sensoriale, emotivo e mentale. Uno degli esempi più significativi è sicuramente Plight , realizzato pochi mesi
prima di morire ma derivato da una intuizione del 1958. Si tratta di due sale a formare una planimetria a elle
rivestite da rotoli di feltro. Nella prima stanza si trova un pianoforte a coda, sul quale è posta una lavagna
appena segnata dalle linee di un pentagramma, con sopra un termometro. «Un’associazione possibile per il
mio spazio di Plight è quella di isolamento. Un'altra è quella del calore del materiale. Senza dubbio questo
distacco di sé stessi dalla società è un elemento di non comunicazione; un elemento negativo, un sentimento
di disperazione come lo si trova nel teatro di Beckett. Il feltro ha, tuttavia, un'altra qualità: protegge gli uomini
dalle cattive influenze che vengono da fuori. È dunque anche un isolante in senso positivo […] è così che è
saltata fuori l’idea d’una sala da concerto senza risonanza, dunque totalmente negativa, concepita come
dimostrazione dell’esistenza d’una frontiera dove tutto si articola attorno a un punto critico.»
Artista/sciamano vuole riconnettersi con il tutto. Diviene una sorta di sensibile antenna in grado di catturare
ogni energia sprigionata dall’universo, come fosse un totem vivente.
Il tortuoso percorso iniziato con Van Gogh, che voleva afferrare la vita e superare la rappresentazione che ne
è un pallido sembiante, ha finalmente trovato approdo. L’incessante andare e tornare ha trovato nella Terra
e nel Corpo gli unici terreni di sperimentazione possibile. La terra, socia dell’artista che vi si assoggetta, e il
corpo, ancora una volta alleato e del quale si prova ad accettare la fragilità e la caducità sino, nei casi estremi,
ad accelerarne la morte; entrambi ci consentono di rientrare nell’infinita circolarità della Vita.
Il tortuoso percorso iniziato con Van Gogh, che voleva afferrare la vita e superare la rappresentazione che ne
è un pallido sembiante, ha finalmente trovato approdo. L’incessante andare e tornare ha trovato nella Terra
e nel Corpo gli unici terreni di sperimentazione possibile. La terra, socia dell’artista che vi si assoggetta, e il
corpo, ancora una volta alleato e del quale si prova ad accettare la fragilità e la caducità sino, nei casi estremi,
ad accelerarne la morte; entrambi ci consentono di rientrare nell’infinita circolarità della Vita.
Land Art è il titolo di un film di Gerry Schum che documenta i lavori di Walter de Maria, Robert Smithson,
Dennis Oppenheim, Michael Heizer, ed altri. Alle definizione di Land Art subito si aggiunse quella di
Earthworks che fu titolo di una mostra che si tenne alla Dwan Gallery di New York nel 1968. Abbandonati gli
spazi urbani, scenario privilegiato della scultura costruita della Minimal, la Land si rivolge a spazi naturali e il
paesaggio con la sua mutevolezza diviene socio alla pari dell’artista che volentieri si assoggetta alla caducità
del proprio lavoro. Anzi, la non permanenza ne diviene tratto distintivo. Artisti come De Maria e Smithson,
pur provenendo dalla Minimal, ad essa si oppongono. Ai primi artisti aggiungiamo Christo, Alan Sonfist senza
dimenticare le esperienze Land di Morris e di Serra.
La terra non è più lo spazio con cui entrare in dialogo, ma è qualcosa di più: è proprio la terra la protagonista.
Non si tratta di mettere qualcosa nella terra ma far sì che sia proprio la terra il centro di tutto.
- Robert Morris per Earthworks alla Dwan Gallery di New York nel 1968 – sul pavimento insieme a della
terra vediamo dei feltri.
Dagli esordi Minimal (Balldrop del 1961) Walter De Maria (1935-2013) già nel 1968 spostò la propria
attenzione alla Land con Mile Long Drawing. Si tratta di un lavoro costituito da due linee parallele
tracciate con il gesso, per la lunghezza di un miglio. Il percorso prevedeva la costruzione di due mura
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parallele in cemento, una sorta di ambiente minimalista fortemente estraniante. L’intervento più
spettacolare di De Maria è sicuramente Lightning Field (1973 -79). In un altopiano arido del New Messico
installò 400 pali metallici disposti in sequenza regolare su un’area rettangolare. Durante i frequenti
temporali i fulmini si scaricano a terra attirati dai pali metallici, creando straordinari quanto imprevedibili
effetti di luce. Sempre nel 1968 a Monaco di Baviera De Maria organizzò la mostra Land show: Pure Dirt,
Pure Earth, Pure Land. Riempì per l’occasione tutto lo spazio espositivo di terra creando continuità con
le spazio esterno.
- Walter De Maria, Mile Long Drawing, 1968, Deserto del Mojave, California
- Walter De Maria, Lightning field, 1973-79, New Messico – ha installato 400 pali metallici in una zona
deserta del New Messico, zona particolarmente soggetta a temporali. Essi sono dei catalizzatori
incredibili per i fulmini. L’artista è il fulmine. Potrebbe essere il manifesto della Land Art, poiché è la
terra che realizza quest’opera d’arte. Da specificare che la Land Art è approdata soprattutto negli
Stati Uniti anche grazie all’enorme disponibilità di spazi che questo paese ha.
Robert Smithson (1938 -1983), tra i più noti esponenti della Land Art nordamericana, ha influenzato
successive generazioni di artisti anche per le sue ricerche e i suoi studi come critico, incentrati sugli aspetti
diversi del territorio e sui possibili interventi su di esso. Inizialmente pittore, influenzato soprattutto dalla
Pop Art, si avvicinò poi ai minimalisti con un tipo di scultura che studiava i riflessi e le strutture cristalline.
Il concetto di entropia, è fondamentale per il suo lavoro, è la ricerca di un equilibrio tra opposti quale
l’ordine e il caos, la distruzione e il rinnovamento, i non-luoghi (non sites) e i possibili interventi sul
contesto (earthworks). Luoghi e non-luoghi (sites/non-sites) definiscono il suo lavoro. I non site sono dei
contenitori da varia forma che contengono materiali grezzi (pietre, minerali, ghiaia) raccolti dall’artista
in determinati luoghi da lui esplorati, i site. Dato che un non site è posto in un contesto artistico (galleria)
il pubblico che vedrà il non sito sarà stimolato a raggiungere il site di provenienza dei materiali
ampiamente documentato in galleria da immagini fotografiche, carte geografiche e disegni.
- Robert Smithson, Senza titolo, 1969, Marian Goodman Gallery (New York, Paris, London)
- Robert Smithson, non-site/site, 1969, Oberhausen (Ruhr, Germany) – I contenitori sono in galleria
ma sulla parete c’è il rilievo dove questi materiali sono stati presi.
Durante un viaggio nello Yucatan nel 1969 Smithson installò in diversi luoghi naturali i suoi Mirror
Displacements, lastre specchianti installate in configurazioni regolari sulla sabbia, nella terra, tra la
vegetazione in modo da riflettere a livello del terreno la luce, il cielo ed altri elementi naturali. Di questa
esperienza rimane soltanto il reportage pubblicato su Artforum. Nel 1970 portò a termine Spiral Jetty,
una grande installazione a forma di spirale nel Great Salt Lake nello Utah, costruita accumulando 60.000
tonnellate di terreno. Accettando la evidente caducità dell’opera della quale rimane oggi
documentazione fotografica la inserisce nella sua riflessione sulla casualità dell’aggregarsi o del
disgregarsi della materia indifferentemente se naturale o costruita da mano umana. Oltre ai suoi famosi
earthworks come Asphalt Rundown, realizzato in Italia nel 1969, Partially Buried Woodshed (1970),
Broken Circle/Spiral Hill (1971), di fondamentale importanza furono i suoi studi sul Central Park di New
York e sulla landscape architecture, in cui si proponeva costantemente il parallelo/confronto tra il
‘pittoresco’ del XIX° secolo (e le invenzioni di F.L.Olmsted) e la realtà del contesto fisico degradato, prima
della costruzione del parco stesso, e in seguito, per le conseguenze del suo inserimento in un contesto
urbano in continua evoluzione.
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- Robert Smithson, Mirror displacement (Yucatan, Messico), 1969, Guggneheim Museum (New York)
– attraverso lo specchio vuole riconnettere ciò che è stato spezzato dall’intervento umano. Una
ricucitura del paesaggio naturale.
- Robert Smithson, Mirror displacement (Yucatan, Messico), 1969
- Robert Smithson, Spiral Jetty, 1970, Great Salt Lake (Utah) – una grande spirale viene installata nello
Yutah, soggette all’estrema caducità del passare del tempo.
- Robert Smithson, Colata d’asfalto, 1969, Roma
Michael Heizer (1944) cominciò a progettare nel 1967 quando realizzò nella Sierra Nevada il suo primo grande
scavo cubico (il primo dei quattro corrispondenti ai quattro punti cardinali). Tra il 1968 e il 1969 realizzò
Dissipate, cinque enormi fosse rettangolari, rivestite all’interno da lastre d’acciaio. Nel 1971 ultimò
l’intervento più spettacolare: Double Negative, uno sbancamento di 240.00 tonnellate di terreno per
realizzare due scavi di forma regolare, uno di fronte all’altro, lungo lo stretto canyon scavato dal Virgin River
Mesa nel Nevada.
Christo (1935) e Jeanne - Claude Denat de Guillebon (1935-2009), noti al mondo per gli impacchettamenti di
manufatti umani o di emergenze naturali, hanno fasciato: un grattacielo di Manhattan, la fontana della piazza
principale di Spoleto, il monumento a Vittorio Emanuele II a Milano, Porta Pinciana a Roma, il Pont Neuf a
Parigi, il Reichstag di Berlino e numerosi scenari naturali (Wrapped Cost, Little Bay, Sidney, 1969; Valley
Curtain, Colorado, 1972; Running Fence, California, 1976; Surrounded Islands, Miami, 1984; The Gates,
Central Park, New York, 2004-05). Nel 2011 Christo ha ottenuto, dopo decenni di attesa, l'autorizzazione per
realizzare l'ambiziosa opera di copertura dell'Arkansas River, nelle Rocky Mountains (Colorado): il progetto,
che avrebbe dovuto essere ultimato entro l'agosto 2014 ma che ha subìto numerose interruzioni per
controversie legali, prevede l'allestimento nell'area di cavi e pali a sostegno di una struttura di tende
argentate, per una lunghezza totale di 62 km. Nel 2016 l'artista ha progettato sul Lago d'Iseo The floating
piers, installazione consistente in un pontile provvisorio che per 16 giorni, dal 18 giugno al 3 luglio 2016, ha
collegato Sulzano alle isole di Montisola e San Paolo, richiamando oltre un milione di visitatori, mentre dal
19 giugno al 9 settembre 2018 ha allestito nel lago Serpentine di Hyde Park a Londra The London Mastaba,
struttura galleggiante di grandi dimensioni composta da 7506 barili colorati poggianti su una piattaforma di
cubetti di plastica.
Quello dei due artisti è un lungo discorso cui tutti possiamo prendere parte, su ciò che il mondo contiene
senza alcuna idea preconcetta e a pari dignità tra naturale e artificiale. Sono andati per il mondo e ora che
Jeanne-Claude non è più in vita, il viaggio lo prosegue Christo. Sottolineano il mondo come con un gigantesco
evidenziatore e improvvisamente quel luogo tutti lo vedono, senza bisogno di parole, come quando una
persona vede una carta che nasconde un regalo. Improvvisamente si fa attento, immaginandone il contenuto.
L’impacchettamento porta per forza a una riflessione, che attiva la creatività e l’immaginazione di tutti.
Nel 2015 il regista James Crump ha realizzato il documentario Troublemakers. Questo progetto è nato con
l’intento di far conoscere le origini e gli sviluppi della Land Art. Uno dei promotori del progetto è stato
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Germano Celant, che ha contribuito inoltre a proiettare il documentario-film nelle sale della Fondazione
Prada.
Artista di gradissimo interesse, opera su edifici destinati alla demolizione. Perfora con carotaggi circolari
di forma minimalista o taglia a metà le case (Splitting del 1974) con azioni di poetico estraniamento.
Come se la vita che quegli edifici hanno contenuto potesse riversarsi fuori dalle ferite che l’artista pratica,
come se da un corpo ferito fuoriuscisse la vita.
Tra le esperienze performative degli anni ’60 quelle del gruppo degli Azionisti viennesi sono sicuramente
le più violente e gli artisti (Hermann Nitsch tra gli altri) hanno toccato drammaticamente il limite tra arte
e vita.
Tra le esperienze performative degli anni ’60 quelle del gruppo degli Azionisti viennesi sono sicuramente
le più violente e gli artisti (Hermann Nitsch tra gli altri) hanno toccato drammaticamente il limite tra arte
e vita. E’ assolutamente in parallelo: la terra e il corpo, il corpo e la terra.
Il corpo della donna ha sicuramente un potere espressivo straordinario, anche perché il corpo della
donna è simbolo di fertilità e di vita. Singolare destino quello di Gina Pane (1939 -1990), artista italo-
francese che ha costruito tutta la sua poetica attraverso linguaggi differenti, ma con la costante di
comunicare amore verso il prossimo, vicinanza, partecipazione. Nel 1969 con Enforcement d’un rayon
de soleil si indirizzò al dialogo poetico tra uomo e natura. Espose le prime installazioni (La Pêche
endeuillée alla Galleria Diagramma) e l’anno dopo, nel 1969, realizzò opere fondamentali come Stripe
Rake. Dessin verrouillé in cui all’interno di una scatola di ferro si nasconde un disegno sconosciuto, sono
momenti di una stagione artistica dura e pura come era Gina Pane. Sconcerto lo produssero le sue azioni
come Death Control, Psychè (1974) o Azione sentimentale (1973) in cui le spine delle rose sono simboli
di un tormento sospeso tra la religiosità e la condizione femminile.
- Gina Pane, La Pêche endeuillée, 1968, collezione Frac des Pays de la Loire, Carquefou, Francia
L’installazione La peche endeuilée si origina da un fatto di cronaca accaduto il 1° marzo 1954: ventitrè uomini
dell’equipaggio di un peschereccio giapponese al largo delle isole Marshall nel Pacifico furono investite dal
fall out di un esperimento nucleare americano. L’esplosione di Bikini è rimasta nella memoria di tutto
l’Occidente e Gina Pane realizzò un’opera che può essere considerata a metà tra il monumento alla memoria
degli anonimi pescatori vittime delle radiazioni nucleari e una sorta di cimitero dedicato alla follia della corsa
agli armamenti. L’installazione, di oltre 50 metri quadri, è un monito permanente a quante persone innocenti
sono morte e moriranno a causa del militarismo e della ricerca scientifica finalizzata solo a interessi
economici.
Convinta che l’artista possa cambiare la società Gina Pane ha costantemente cercato di influire sugli
spettatori e di trasformare il suo e il loro rapporto con il mondo. Intorno al 1968-69 cominciò a camminare
nella natura, con il desiderio di: «Trovare una nuova relazione tra il corpo e l’ambiente e così poter meditare
sul ruolo dell’artista nella società ». Da questo periodo in poi abbandonò la pittura e cominciò ad intervenire
direttamente sul paesaggio. Si trattò di esperienze che si sono svolte tra il 1968 e il 1970 sotto forma di
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camminate e azioni minime per ottenere relazione tra corpo e natura. Stripe-rake è centrale alla produzione
di questo periodo, è la memoria di una installazione partecipata composta da un quadrato di 4 mq di sabbia
e 1 mq di humus. In origine lo spettatore era invitato a « attivare questo spazio », tracciandovi delle righe
aiutandosi con un rastrello (rake) fabbricato dall’artista. Il visitatore partecipava completamente all’azione e
diventava l’attore della scultura, non più semplice spettatore. Fra le prime sculture che invitano il corpo dello
spettatore, questa opera porta un messaggio ecologico ai disastri provocati dalla deriva della società
contemporanea e la oppone un altro modo di vita, più lento e più vicino alla natura: « Oppongo alle gesta
decadenti le gesta primitive, al dinamismo la lentezza, all’apparenza l’interiorità, al vuoto la profondità ».
Gina Pane è vicina agli artisti dell’arte povera che cercano di risvegliare l’uomo primitivo che dorme in
ciascuno di noi.
«È a voi che mi rivolgo perché voi siete questa unità del mio lavoro: l’altro (…) Il corpo ha un ruolo
fondamentale nel noi (…) Se apro il mio corpo affinché voi possiate guardarci il mio sangue, è per amore
vostro: l’altro. Ecco perché tengo alla presenza delle mie azioni». (Gina Pane, Lettera a uno/a sconosciuto/a,
“ArTitudes”, n. 15/17, ottobre-dicembre 1974)
«Vivere il proprio corpo vuol dire allo stesso modo scoprire sia la propria debolezza, sia la tragica ed impietosa
schiavitù delle proprie manchevolezze, della propria usura e della propria precarietà. Inoltre, questo significa
prendere coscienza dei propri fantasmi che non sono nient’altro che il riflesso dei miti creati dalla società… il
corpo (la sua gestualità) è una scrittura a tutto tondo, un sistema di segni che rappresentano, che traducono
la ricerca infinita dell’Altro».
L’artista era religiosa e la sua è un’arte sacra. Una spiritualità contemporanea in cui l’arte doveva avere un
ruolo determinante. Ha saputo utilizzare in modo simbolico il proprio corpo esattamente come Gesù Cristo,
al di là delle verità storiche e delle credenze. Per questo ha operato negli anni Settanta nella Body Art proprio
alla ricerca di un equilibrio dialettico con il pubblico, di un suo coinvolgimento fisico ma soprattutto mentale.
Ha scritto in Lettre à un(e) inconnu(e): «Oggi rivendico il religioso e tengo al fatto che questa parola sia
corretta etimologicamente parlando, rispetto al mio lavoro. Inutile dire che il termine non è legato a nessuna
pratica istituzionalizzata ma, al contrario, sono io a fornire gli indizi per cui questa dimensione religiosa sia
connessa alla vita comune degli esseri umani». La volontà di dare valore antropologico all’arte
contemporanea senza trascurare la Storia dell’Arte come memoria dei segni accumulati attorno all’idea della
rappresentazione dell’invisibile, è la caratteristica di una poetica sempre lucida e rigorosa. François d’Assise
trois fois aux blessure, stigmatisé. Vérification version 1 (1985-1987) mette insieme l’idea del corpo, del
passaggio dalla terra al cielo, dell’ascensione, della ferita o delle stimmate come collegamento con il divino
attraverso materiali come il ferro o il vetro che diventano altrettanti simboli di cambiamento. Le lastre di
rame, ottone e ferro recano le tracce dei corpi dei santi, delle lacerazioni, della sofferenza, dell’offerta del
proprio corpo come dono per l’umanità. Nella Chair ressuscitée (1988-1989) Gina Pane nei passaggi tra i
materiali e le simbologie del corpo di Cristo che muta attraverso vari stadi fino alla smaterializzazione, elabora
uno dei vertici dell’arte contemporanea per capacità espressiva e di sintesi, affrontando un tema di una
difficoltà straordinaria.
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- Gina Pane, Francois d’Assise trois fois aux blessures stigmat, 1985-87, Centre Pompidou (Paris)
- La veste di San Francesco, 1226 – le sante reliquie secondo il culto cattolico. I resti corporali dei santi
che le persone vanno a pregare sono pezzetti di ossa, di unghie. E’ attraverso il corpo che l’esperienza
cattolica si esprime, come anche Gina Pane.
L’artista non ha mai avuto paura di affrontare il sublime, l’indicibile, e tutte le soglie che mettono in
comunicazione il visibile dall’invisibile. Il divino è sempre visto dalla parte dell’umanità, ha sempre un legame
con il sangue e la terra, con la linfa del mondo. La Prière des pauvres et le corps des Saints (1989-1990) è
un’installazione di nove vetrine contenenti i simboli e i corpi di altrettanti santi. Sono bare di cristallo,
trasparenti e rarefatte. Con la chiarezza e icasticità che le sono state proprie, Gina Pane ha creato un suo
piccolo cimitero di eroi morti per la fede, ha racchiuso nelle teche tutto il suo amore per gli uomini e vi ha
riflesso la sua visione dell’arte e della propria vita. La misura di questa meditazione sta tutta nella capacità
dell’artista di dare emozioni e silenzio, limitando il pathos a pochi elementi, a evocazioni che non stringono
la gola ma parlano al cuore e alla mente. Mai l’arte contemporanea è stata così importante, così legata al
senso della vita e del destino dell’uomo, così carica degli enigmi che le religioni istituzionalizzate riducono a
catechismi e a baedeker per l’aldilà. In Gina Pane il mistero rimane ed è da condividere con gli altri attraverso
l’arte, che è contemporanea proprio perché non si mescola con la sociologia e non si consuma nel presente.
«Con queste azioni volevo indicare radicalmente il segno del corpo, e la ferita era il segno reale di questo
corpo di questa carne. Mi era impossibile ricostruire un’immagine del corpo senza che la carne fosse
presente, senza che essa fosse posta frontalmente, priva di veli e mediazioni».
Nella sua prima performance (Rhythm 10 del 1973), esplora elementi di ritualità gestuale. Usando dieci
coltelli e due registratori, l'artista esegue un gioco russo nel quale ritmici colpi di coltello sono diretti tra le
dita aperte della mano. Ogni volta che si taglia, deve prendere un nuovo coltello dalla fila dei venti che ha
predisposto e l'operazione viene registrata. Dopo essersi tagliato venti volte, l'esecutore fa scorrere la
registrazione, ascolta i suoni e tenta di ripetere gli stessi movimenti, cercando di replicare gli errori,
mescolando passato e presente. Tenta di esplorare le limitazioni fisiche e mentali del corpo.
La performance Rhythm 0 è avvenuta nello Studio Morra a Napoli. Abramović si presentò al pubblico posando
sul tavolo diversi strumenti di "piacere" e "dolore"; fu detto agli spettatori che per un periodo di sei ore
l'artista sarebbe rimasta passivamente priva di volontà e avrebbero potuto usare liberamente quegli
strumenti con qualsiasi volontà. Si era imposta tale prova in un tempo prefissato secondo una strategia di
John Cage, adottata da molti altri artisti performativi allo scopo di dare un inizio e una fine a un evento non
lineare. Ciò che era iniziato piuttosto in sordina per le prime tre ore, con i partecipanti che le giravano intorno
con qualche approccio intimo, esplose poi in uno spettacolo pericoloso e incontrollato; tutti i suoi vestiti
vennero tagliuzzati con le lamette; nella quarta ora le stesse lamette furono usate per tagliare la sua pelle e
succhiare il suo sangue. Il pubblico si rese conto che quella donna non avrebbe fatto niente per proteggersi
ed era probabile che potesse venir violentata; si sviluppò allora, tra il pubblico, un gruppo di protezione e,
quando le fu messa in mano una pistola carica e il suo dito posto sul grilletto, scoppiò un tafferuglio tra il
gruppo degli istigatori e quello dei protettori. Mettendo il proprio corpo in condizione di essere leso, anche
fino alla morte, la Abramović aveva creato un'opera artistica molto seria.
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- Marina Abramovic, Rhythm 0, 1974
Nel corso della performance Art Must Be Beautiful del 1975, l'artista si spazzola i capelli per un'ora con una
spazzola di metallo nella mano destra e contemporaneamente si pettina con un pettine di metallo nella
sinistra mentre ripete continuamente "L'arte deve essere bella, l'artista deve essere bello" fino a quando si
sfregia il volto e si fa sanguinare la cute.
In collaborazione con l'artista tedesco e suo compagno Ulay, Marina Abramović mostra a Bologna presso la
Galleria d'arte moderna la performance Imponderabilia. Entrambi sono in piedi, nudi, ai lati di una stretta
porta che consente l'ingresso nella galleria. Chi vuole entrare è costretto a passare in mezzo ai loro corpi,
decidendo con imbarazzo se rivolgersi verso il lato del nudo maschile o verso quello del nudo femminile.
In collaborazione con l'artista tedesco e suo compagno Ulay, Marina Abramović mostra a Bologna presso la
Galleria d'arte moderna la performance Imponderabilia. Entrambi sono in piedi, nudi, ai lati di una stretta
porta che consente l'ingresso nella galleria. Chi vuole entrare è costretto a passare in mezzo ai loro corpi,
decidendo con imbarazzo se rivolgersi verso il lato del nudo maschile o verso quello del nudo femminile.
Il caso Orlan
Orlan (Mireille Suzanne Francette Porte, 1947) ha sottoposto il suo volto a ripetute operazioni chirurgiche
per trasformarlo completamente. Queste operazioni sono effettivamente lavori di scultura su materia
vivente di forte interesse culturale sociale in un tempo quale il nostro che conosce il proliferare di interventi
di chirurgia estetica volti a modificare il corpo per farlo aderire a stereotipi commerciali imposti. Ha fatto il
passaggio successivo: il corpo è una scultura.
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