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CAPITOLO 2 SULLA FORMAZIONE DEI DOCENTI

La scuola oggi deve avere AUTONOMIA FUNZIONALE cioè la capacità di gestione della propria proposta
formativa, la ricerca e sperimentazione didattica, i rapporti col territorio e con le altre scuole con cui
condividere percorsi e progetti. Un importante introduzione con l’autonomia scolastica è il riconoscimento
ai docenti di un ruolo centrale, strategico e autonomo nelle decisioni e nelle scelte culturali, didattiche,
organizzative e gestionali. Ciò può portare al miglioramento dell’apprendimento, ma solo se il docente avrà
dentro di sé la competenza disciplinare pedagogica e psicologica necessaria a dialogare ed affiancarsi ai
suoi studenti e capacità organizzative per permettere ai suoi alunni (inscritti nel loro territorio culturale,
sociale, familiare) di crescere in un clima cooperativo.
Il rinnovamento della scuola può essere costruito solo riconoscendo e sostenendo la professionalità degli
insegnanti.

Le competenze indispensabili del far scuola (bene) sono


1. Le competenze disciplinari, ovvero quel bagaglio culturale che ogni docente deve possedere
relativamente alle materie di insegnamento. Tali conoscenze dovranno essere solide, ben strutturate, da
aggiornare continuamente.
2. Le competenze epistemologico-didattico legate alle singole discipline, che corrispondono alla capacità di
utilizzare le competenze disciplinari per fini educativi.
3. Le competenze psico-pedagogiche, necessarie per entrare in rapporto con gli allievi, per realizzare una
positiva comunicazione didattica, per riconoscere le dinamiche e i conflitti che nascono all’interno della
classe, per riconoscere i problemi e saperli gestire.
4. Le competenze relative alle tecnologie didattiche digitali, importanti per organizzare l’apprendimento in
aula e, specificamente per l’uso del computer e della rete, per insegnare ai ragazzi tutte le operazioni
didattiche che con tali tecnologie si possono fare.
5. Le competenze organizzative e di relazioni tra pari, fondamentali per costruire il proprio percorso di
lavoro con i colleghi del Consiglio di classe, di un Dipartimento disciplinare, con i propri alunni, con
l’extrascuola.
6. Le competenze di ricerca e sperimentazione, indispensabili a individuare i percorsi didattici più efficaci,
le metodologie e le strategie più utili.

PROBLEMA: qual è il percorso affinché la scuola possa sostenere l’autonomia di ricerca, per evitare che si
finisca per costruire ambienti marginali e votati all’improvvisazione?

Formazione iniziale: la formazione degli insegnanti che avviene a livello universitario, in realtà è importante
che questo percorso preveda una sinergia tra università e scuola, in cui l’università è responsabile della
formazione iniziale e la scuola di quella in servizio (sia nel 5 anni iniziali e poi per tutti gli anni a seguire).
Formazione in servizio: oggi sta subendo un calo ed è necessario far ripartire e sostenere 1) aggiornamento
culturale (curare l’aggiornamento delle proprie conoscenze disciplinari); 2) progetti nazionali/d’istituto volti
al miglioramento dell’apprendimento; 3)progettazione della formazione in servizio curata a livello
nazionale, regionale, provinciale o d’istituto; 4) ricerca e sviluppo.

Professionalità del docente e organizzazione del lavoro: Lo sviluppo della professionalità insegnante è
strettamente legato allo sviluppo del Collegio dei docenti; è fondamentale la valorizzazione e rafforzare
alcune importanti caratteristiche:
• la centralità nel processo di insegnamento-apprendimento;
• il passaggio da una prevalenza dell’aspetto trasmissivo a quello di mediazione culturale;
• l’emergere di nuove responsabilità, funzioni e compiti;
• il bisogno di conciliare l’autonomia culturale professionale del singolo insegnante con la collegialità e la
cooperazione.
È inoltre essenziale che lo sviluppo della professionalità e dell’autonomia del singolo insegnante resti in
perfetto equilibrio con la collegialità per evitare squilibri nel processo di apprendimento dei discenti. Quindi
il modello di scuola da costruire è quello nel quale il dirigente sa assumere tutte le prerogative del
proprio ruolo, ma non è dirigente di “sottomessi” bensì di una “organizzazione di professionisti” in grado
di assumersi responsabilità nel merito del proprio ruolo professionale.

CAPITOLO 3 DI IDEE PER LA FORMAZIONE DEGLI INSEGNANTI.

Per com’è impostata oggi la formazione dei docenti, la sola acquisizione dei 24 crediti di scienze
dell’educazione rappresenta una misura del tutto Insufficiente per garantire un solido profilo professionale
all’insegnante.
Oggi c’è la necessità di educare gli studenti come futuri cittadini democratici, ma allo stesso tempo individui
pronti per affrontare il mondo grazie a competenze tecnico-scientifiche.
Per la formazione degli insegnanti ci sono (stati) due modelli: scuola di specializzazione e laurea in scienze
della formazione primaria, entrambi dall’impronta organica con un buon equilibrio tra teoria e prassi
Entrambi i modelli sono caratterizzati da due assunti:
-CONCEZIONE COMPLESSA DELLA PROFESSIONALITA’ DOCENTE inteso come esperto avente competenze
culturali (alte indipendentemente dal grado di scuola in cui insegna per potersi muovere verticalmente tra
le scuole e non generare lacune negli alunni), didattiche (cioè la capacità di aderire ai bisogni formativi in
base al territorio) e relazionali (apertura e comprensione dei propri studenti). La competenza non è solo
sapere applicare una conoscenza, ma è un complesso intreccio di sapere, saper fare e il saper essere.
- CURRICOLO INTEGRATO: la formazione docenti deve comprendere lezioni, seminari, i laboratori e il
tirocinio, per garantire tanto la teoria quanto la prassi. Infatti, con i laboratori si costruiscono competenze
intelligenti e con il tirocinio si applicano le competenze nella loro naturale sede d’esercizio.

Teoria e pratica devono integrarsi vicendevolmente, infatti se si seguisse una logica gerarchica (prima teoria
e poi pratica) si rischierebbe di lasciare le conoscenze “accademiche”, perché la prassi non è semplice
applicazione delle conoscenze. Invece una mera logica empirica fraintende l’apprendimento
dall’esperienza.

L’apprendimento dall’esperienza, dice Dewey, non dev’essere solo meccanico, bensì riflessivo in modo da
evitare lo sviluppo di abitudini poco consapevoli e scarsamente flessibili.

Il modello che propone Baldacci a questo punto è quello della logica dell’integrazione: esso consente di
formare competenze culturali, didattiche e relazionali, ma presenta un valore aggiunto, cioè il processo
metariflessivo tanto da generare una competenza metacognitiva.
La competenza metacognitiva è da aggiungere a tutte le altre, ma non come appendice, bensì in una
posizione sovraordinata. Questo tipo di competenza è come la cabina mentale di regia del processo di
insegnamento: è connessa ad un atteggiamento riflessivo e ad una propensione investigativa verso la
propria pratica professionale, e in questo modo l’insegnamento diventa una ricerca-azione.

Il modello integrato quindi dà un set di competenze fondamentali e permette di imparare ad apprendere


dalla propria esperienza in maniera intelligente.

Quale insegnante?

Si deve aspirare alla figura di insegnante come intellettuale e ricercatore e le due figure prese
singolarmente non sono autosufficienti; infatti, è necessaria la cooperazione tra ricercatori e insegnanti,
ossia la ricerca collaborativa, in questo modo il docente può avere la consapevolezza della logica di ricerca
e usarla per affrontare i problemi nella pratica educativa.
La visione del docente come intellettuale può seguire due modelli distinti: quello sartriano, secondo cui
questo ruolo è riservato ai pochissimi che riescono, con il proprio prestigio culturale, a influenzare le
dinamiche politico-sociali; quello gramsciano, secondo cui tutti possono essere intellettuali e tra le
professioni intellettuali quella dell’insegnante rientra a pieno titolo in quanto cui vi è un rapporto di
persuasione e di direzione verso gli altri.
Il modello di Baldacci in definitiva è quello di un insegnante tanto intellettuale, quanto ricercatore,
(ricercatore perché ha la consapevolezza della logica di ricerca la usa per affrontare i problemi nella pratica
educativa/ intellettuale perché media un rapporto di persuasione e di direzione verso gli altri)e nonostante
la difficoltà della sfida, questo è l’unico modo, secondo l’autore, di ottenere in futuro una scuola della
Costituzione capace di curare la crescita intellettuale ed etico-sociale dei futuri cittadini.

IMPORTANTE LA METACOGNIZIONE, Cioè RIFLESSIONE SUL PROPRIO METODO DI LAVORARE

CAPITOLO 4 GLI INSEGNANTI E LA LORO FORMAZIONE INIZIALE: PROLEGOMENI TRA ISTITUZIONE E


SAPERE

La legge del 30 dicembre 2018, n. 145 ha eliminato la Formazione Iniziale e Tirocinio (FIT) che, fino a quel
momento, avrebbe dovuto rappresentare la via principale per la formazione iniziale degli insegnanti delle
scuole secondarie, lasciando però sopravvivere il PF24, che diviene un passaggio accademico fondamentale,
per costruire il bagaglio di conoscenze e competenze dell’area delle scienze dell’educazione e delle
metodologie disciplinari necessarie per entrare in classe. Ma non sono sufficienti.

Riflettere sul nostro sistema d’istruzione ha sempre implicato uno sguardo anche a ciò che avviene negli
altri Paesi, soprattutto grazie alla rapida diffusione delle indagini internazionali che ci garantisce una mole
impressionante di dati raccolti. Tuttavia, è avventato eleggere un paese con tradizioni e condizioni assai
differenti dalle nostre a modello da seguire, infatti esse vanno lette con sguardo critico. In questo modo
emerge che:
1. La programmazione degli ingressi in ruolo è ampiamente diffusa e influenza anche l’accesso alla
formazione necessaria per diventare insegnanti;

2. L’assunzione spesso è affidata ai singoli istituti scolastici, in accordo con le istituzioni locali;

3. Quasi nella metà dei Paesi la specifica formazione per diventare insegnanti è abilitante e non richiede
ulteriori prove, mentre in un’altra ampia casistica è richiesta una formazione aggiuntiva (in Spagna, Francia,
Italia, Lussemburgo, Albania e Turchia, occorre superare un concorso comparativo).

4. L’immissione in ruolo che, in diciassette Paesi, è condizionata dalla verifica delle competenze, attraverso
un periodo più o meno lungo di prova in servizio.

In Italia sono fondamentali per la formazione dell’insegnante:


1. Il percorso di formazione intrecciato indissolubilmente alle conoscenze disciplinari e alle
competenze pedagogiche, didattiche e psicologiche;

2. La richiesta e lo sviluppo di una formazione continua di supporto alla professione insegnante.

La mancanza di una solida preparazione nelle scienze dell’educazione e di un efficace tirocinio come
pratiche diffuse si riversa sulla minore preparazione didattica. Ciò è spiegabile con l’età media degli
insegnanti molto alta e l’avvio tardivo di una preparazione universitaria.
In base al quadro internazionale, emerge la necessità di immaginare soluzioni che restituiscano piena
dignità alla formazione iniziale degli insegnanti, in quanto - secondo l’autore - il PF24 è del tutto inadeguato
a creare un profilo atto a rispondere alle esigenze educative delle scuole secondarie.
Come prima cosa, occorre riconoscere le criticità del nostro sistema d’istruzione, che sono radicate nel
cronico sottofinanziamento. Occorre, inoltre, “porre un freno ai continui cambiamenti nella formazione
iniziale degli insegnanti” e prevedere una durata ragionevole, che intrecci sapere accademico, impegno
laboratoriale e apprendistato nel tirocinio, (e non più un’improvvisazione lasciata al buon cuore del singolo
individuo).

Ancora una volta si ribadisce l’esigenza che le competenze disciplinari e quelle proprie delle scienze
dell’educazione debbano essere acquisite e perfezionate grazie a un percorso specifico che parte
dall’istruzione superiore, per essere messo alla prova nel tirocinio.

CAPITOLO 5: I 5 PUNTI DELLA RICERCA-FORMAZIONE DOCENTI…

Nella formazione docenti sono diffuse lacune e criticità in due aspetti fondamentali: valutazione delle
competenze e valutazione formativa.
Riguardo la valutazione delle competenze le lacune che ricorrono con maggiore frequenza sono le
seguenti:
• la contrapposizione tra conoscenze e competenze, con la propensione a concepire le competenze
in funzione antagonistica rispetto alle conoscenze;
• la didattica per competenze esclude momenti di insegnamento frontale
• le prove strutturate, come i test INVALSI, sono considerate il mezzo più adatto per accertare lo
sviluppo delle competenze. Spesso, infatti, le prove INVALSI rappresenta un obiettivo dell'insegnamento sia da parte dei
docenti che da parte delle scuole che, quindi, mirano ad ottenere buoni risultati alle prove e sviluppare competenze. Questo luogo
comune, però, è dovuto soprattutto alla normativa e all'opinione pubblica che effettivamente assegnano a tali prove il compito di
valutare le competenze in
realtà però per definizione questi test standardizzati forniscono informazioni su
alcune conoscenze ed abilità che possono incidere sullo sviluppo di competenze ma non ne
costituiscono una misura valida.

Riguardo la valutazione formativa, invece, le lacune che ricorrono con maggiore frequenza sono le
seguenti:
processo valutativo concepito come premio o punizione finale cioè come valutazione sommativa in itinere,
di cui poi se ne fa la media e che ha come posta in palio la salvezza o la condanna dello studente ed
accompagna studentesse e studenti verso la ratifica di un giudizio finale che spesso miracolosamente
trasforma in sufficienza una serie di insufficienze senza che il livello di sufficienza venga effettivamente
raggiunto. Quindi, la valutazione formativa tende ad essere vissuta ed attuata come fine dei processi di
apprendimento e insegnamento piuttosto che come loro mezzo di regolazione ed orientamento.

la valutazione viene intesa:


1. come misurazione, accountability (responsabilità e dovere di chi esercita una funzione pubblica di
rispondere del proprio operato ed insieme di tecniche con cui possono essere misurati e giudicati i risultati
conseguiti) e controllo di apprendimenti, docenti e scuole;
2. come adempimento formale;
3. come processo di indagine che consente di migliorare l’apprendimento, sviluppando strategie
metacognitive (consapevolezza e controllo che l’individuo ha dei propri processi cognitivi) in chi apprende e
regolando la didattica di chi insegna.
Solo la terza visione, che comporta un attivo coinvolgimento di studentesse e studenti nel processo
valutativo e si incentra sull’uso di feedback analitici, tempestivi e rigorosi, ha evidenziato associazioni
positive con i livelli di apprendimento.
Da alcune indagini è emerso che i docenti sono stanchi di partecipare a corsi lunghissimi, di circa 30 ore
tutte frontali sull’importanza di abbandonare la lezione frontale

• molti docenti hanno difficoltà a venire a patti con la necessità di praticare quel che si predica
perché spesso è in contrasto con quello che è il contesto e con quelle che sono le esigenze della
propria classe;
• altri docenti lamentano il fatto che le esperienze formative rappresentino l’erogazione di ricette o
mezzi che identificano sempre strumenti che poi il docente nella realtà non potrà mai utilizzare o
anche l’erogazione di soluzioni semplici e standardizzate a problemi educativi complessi e situati.
Il Crespi propone 5 punti per collegare le molteplici linee di ricerca sulla professionalità del docente

1 una esplicitazione chiara della finalità della ricerca in termini di crescita e sviluppo della professionalità
degli insegnanti direttamente coinvolti. L’obiettivo di incidere sulla professionalità docente è perseguito
partendo da problemi autenticamente percepiti da chi insegna.

2 la creazione di un gruppo di Ricerca-Formazione di cui facciano parte ricercatore/i e insegnanti, nel quale
vengano chiariti i diversi ruoli dei partecipanti e in cui vengano negoziati e chiariti obiettivi della Ricerca-
Formazione convergono due esigenze politica e scientifica. Politica perché inserisce la Ricerca-Formazione
in una dimensione di gruppo, socio-costruttivistica. Il secondo aspetto è relativo alla dimensione scientifica.
Cosa guadagna la ricerca? Il vantaggio più significativo riguarda il repertorio di modelli teorici, dispositivi e
strumenti di ricerca forniti dai lavori tra docenti e formatori;

3 Centrare i contesti in cui si svolge la Ricerca-Formazione, che si concretizza in tutte le fasi della ricerca
attraverso un’analisi dei vincoli e delle risorse in essi presenti. Si tratta di uno dei nodi più complessi: come
identificare le forze che operano in una struttura al fine di facilitare processi di cambiamento? Talvolta il
bisogno di formazione è indotto dall’esterno: se non abbiamo alcuna possibilità di coinvolgere attivamente,
anche su input esterno, un gruppo di docenti a partire da problemi educativi realmente percepiti come tali,
sarà pressoché impossibile realizzare esperienze di Ricerca-Formazione. In questa fase è inoltre
fondamentale sfruttare una attenta analisi del contesto per evitare di presentare dispositivi o strumenti nei
termini di novità assolute.

4 un confronto continuo e sistematico fra i partecipanti alla ricerca sulla documentazione dei risultati e dei
processi messi in atto nei contesti scolastici e in quelli della formazione. Questa è una delle azioni che
definiscono il ruolo del ricercatore. Rendere sistematico il confronto significa contribuire a sviluppare
competenze metodologiche che renderanno autonomi i contesti.

5 l’attenzione alla effettiva ricaduta degli esiti nella scuola, sia per l’innovazione educativa e didattica, sia
per la formazione degli insegnanti. Rendicontare non significa solo compilare un Rapporto di
Autovalutazione, ma dare ragione, ovvero far emergere quanto fatto o non fatto di buono.

Concludendo La formazione docenti è agente di cambiamento se chiarisce i limiti e le potenzialità


scientifiche e politiche del nostro ruolo. Può farlo se ci aiuta ad affrontare due tendenze particolarmente
nocive, la prima è relativa alla propensione a conferire alla scuola la capacità di riequilibrare le iniquità
presenti nella società, ed è tipica di certe letture semplicistiche delle indagini PISA o INVALSI che quali sono
lette come se fossero ricerche sperimentali, come se studenti e docenti nelle scuole fossero distribuiti in
maniera randomizzata. Di contrasto, c’è la tendenza a negare la possibilità della scuola di incidere sulle
ineguaglianze, tipica di una certa deresponsabilizzazione consolatoria che serpeggia nella classe docente
per questo, la formazione docenti deve evitare di prescrivere ricette e impegnarsi a prospettare soluzioni
possibili ai problemi che sorgono nei contesti educativi.
CAPITOLO 6 FORMAZIONE INIZIALE DEGLI INSEGNANTI: L’ARABA FENICE

Il ruolo degli insegnanti, come “costruttori di cultura” è determinante per la qualità dei processi educativi e
dell’istruzione e, attraverso di essi, per la crescita culturale e lo sviluppo del Paese (è fondamentale,
soprattutto in questa fase storica, conoscere e comprendere le problematiche legate alla salute pubblica e
all’emergenza sanitaria, le problematiche ambientali, quelle legate ai processi migratori ecc).

Il tessuto professionale dell’insegnante è costituito da un intreccio complesso di saperi, competenze, valori,


visioni del mondo e attitudini personali: tutto deve convergere verso un unico scopo, cioè quello di tutelare
il diritto di ognuno/a al pieno sviluppo della personalità e fare della scuola un presidio di democrazia.
Nonostante tutto, le politiche per la formazione degli insegnanti della scuola italiana sono da decenni un accumulo di
questioni e problemi senza risposta. La pandemia di covid-19, tra l’altro, ha messo la scuola e gli insegnanti di fronte a
scenari inaspettati e difficili, costringendo tutti a trovare in breve tempo modalità alternative e nuove del “fare scuola”.
Agli insegnanti sono state richieste competenze tecnologiche e non solo, allo scopo di riuscire a garantire una continuità
pedagogica con gli studenti (bambini/e e ragazzi/e).

Gli insegnanti restano infatti ancorati all’idea di “programma” e all’approccio trasmissivo, ragion per cui
hanno difficoltà nel progettare e nell’individualizzare i percorsi formativi e si limitano ad utilizzare modalità
unidirezionali e a richiedere prestazioni individuali.

Governi danno percorsi di formazione sempre diversi e insufficienti (SSIS → TFA →FIT → 24CFU)

1. Ma a quale insegnante pensiamo?

Per la Pedagogia popolare, il corretto approccio educativo è sostanzialmente quello che favorisce, nel
rispetto delle differenze, lo sviluppo degli apprendimenti e delle potenzialità di ciascuno. Un insegnate
animato da una genuina passione per l’insegnamento è una persona che vive l’esperienza educativa
mantenendo un contatto fra le emozioni e le conoscenze. Tale insegnante concepisce la scuola come un
luogo di ricerca e non di passiva trasmissione di idee e saperi precostituiti: egli è capace di esercitare e far
esercitare la curiosità, stimolare la domanda e la riflessione critica nelle nuove generazioni e così facendo,
promuove un vero e proprio cambiamento cognitivo, nonché il successo formativo di tutti i discenti. Questo
tipo di insegnante ripone fiducia e rispetto nei confronti degli alunni, prova piacere nel rapporto che instaura
con loro ed è consapevole che da loro si impara e che non sono dei semplici contenitori, da riempire di
nozioni e convinzioni a proprio piacimento. L’insegnante riconosce la loro autonomia, i loro tempi e le loro
identità e per questo motivo, si avvale di una didattica come laboratorio di cittadinanza attiva e consapevole.
È anche in grado di valutare se il proprio lavoro stia favorendo o ostacolando in qualche modo il percorso di
crescita e apprendimento dell’intera classe; in quest’ultimo caso, egli opera degli accorgimenti metodologici
e contenutistici, in modo tale da consentire alla scuola di essere rispettosa dei tempi di ognuno e di non
lasciare nessuno indietro. Questo tipo di insegnante, inoltre, non lavora in solitudine ma collabora alle
diverse attività previste dalla collegialità docente, di cui ha chiare funzioni e compiti. L’insegnante a cui
pensiamo, infine, può essere definito come un “attore in formazione”, che vive la dimensione professionale
come un mestiere da inventare e costruire continuamente.

2. Percorso formativo: unitario, dinamico, aperto

Secondo il Movimento di Cooperazione Educativa (MCE) la formazione dovrebbe essere concepita come:

• un processo unitario, in cui le diverse fasi di formazione (iniziale, in ingresso, in servizio)


possano integrarsi;
• coerente, non frammentaria, così da permettere la creazione di un legame tra le competenze
(disciplinari, psico-socio-pedagogiche ecc.) e lo sviluppo di particolari propensioni personali;
• aperto e dinamico, perché costruito sull’interazione tra soggetti e competenze diversi che
intervengono nella formazione (Università, scuole, associazioni professionali);
• capace di dar luogo a un ciclo continuo di apprendimento “trasformativo”, per sostenere
nel tempo lo sviluppo di professionisti capaci di promuovere nella scuola un approccio attivo,
che stimoli i processi di ricerca.

3. Come cominciare?

i saperi disciplinari da soli non sono sufficienti per insegnare, se non inseriti nel quadro più ampio dei saperi
professionali.

Occorrono competenze pedagogiche, didattiche, metodologiche, relazionali e comunicative. Il docente ha


anche il compito di preparare l’ambiente di apprendimento, scegliere i dispositivi, le tecniche, i tempi
adeguati a favorire la comprensione e l’acquisizione di contenuti e concetti da parte dello studente.

Nonostante tutto, esiste ancora oggi una profonda differenza tra la qualità della formazione iniziale degli
insegnanti di scuola secondaria e quelli della scuola dell’infanzia e primaria, per i quali è consolidato un
percorso di laurea comprendente un consistente tirocinio di 600 ore.

Il tirocinio e il laboratorio sono ritenuti da tutti gli esperti del settore momenti estremamente qualificanti
l’esperienza formativa iniziale degli insegnanti. Sono pratiche indispensabili per favorire, oltre allo sviluppo
di riflessività, l’abitudine al lavoro di gruppo ed alla cooperazione. Ecco perché risulta sempre più evidente
la necessità di un percorso di specializzazione post-laurea per i futuri insegnanti della scuola secondaria. Non
è trascurabile poi la necessità che le università italiane dovrebbero rivedere i loro stessi approcci
metodologici-didattici ed operare, ove necessario, degli accorgimenti in modo da fornire ai futuri insegnanti
le giuste competenze professionali.

4. Formazione in servizio come raccordo tra esperienza e sua ricostruzione riflessiva

La formazione in servizio deve poter assumere come punto di partenza dei percorsi l’esperienza sul campo,
cioè quella fatta in classe, a scuola, perché sono questi i luoghi dove la professionalità si esprime, si interroga
ed è chiamata a dare risposte. Per produrre apprendimento la pratica del laboratorio adulto come modalità
di formazione in servizio è sicuramente da privilegiare. Per questo, secondo il Movimento di cooperazione
educativa, i caposaldi per la formazione di professionisti riflessivi sono:

• il coinvolgimento, la pratica di gruppo e il contare su dispositivi orizzontali di scambio, per costruire


ambienti integrati di apprendimento ed evitare la fruizione unidirezionale da parte dei formatori;
• le esperienze formative;
• la cura del sapere pedagogico.
CAPITOLO 7: LA FORMAZIONE INTERCULTURALE DEGLI INSEGNANTI

Per intraprendere una riflessione seria sulla formazione interculturale degli insegnanti bisogna fare
riferimento al concetto di educazione interculturale. Essa è una proposta pedagogica articolata e complessa
che via via si arricchisce attraverso la riflessione di vari soggetti e l'accumularsi di varie esperienze
didattiche nelle diverse scuole.

Sicuramente l'origine dell’educazione interculturale va rintracciata nello sviluppo dei fenomeni migratori
ma si è pian piano distaccata da questo terreno per diventare un approccio pedagogico innovatore per la
rifondazione del curricolo.

Secondo Ouellet 3 preoccupazioni fondamentali sono:


apertura alla diversità;
uguaglianza delle opportunità;
coesione sociale.
Ad esse si sono aggiunte la partecipazione critica alla vita e la preservazione della vita sul pianeta e lo
sviluppo durevole.

La presenza sempre crescente di alunni di cittadinanza non italiana pone gli insegnanti davanti ad un
problema concreto: la necessità di acquisire nuove competenze specifiche, di tipo interculturale. Bisogna
trovare nuovi strumenti didattici di intervento e procedere ad una organizzazione didattico-educativa ben
strutturata. L'impegno e la disponibilità non bastano, servono strumenti per una formazione adeguata:
tutto questo perché l’educazione interculturale non è una situazione di eccezione, bensì una nuova
modalità di educazione.

Serve dunque tutta una serie di competenze che permettono agli insegnanti di conoscere la cultura del
bambino “immigrato", di stendere un profilo cognitivo del bambino stesso, acquisire nuove competenze
legate al bilinguismo. Insomma, competenze didattiche e culturali di vario tipo (filosofico, antropologico,
storico-sociale, ecc.). Gli insegnanti non sono soddisfatti delle rare iniziative di formazione
sull’interculturalità.

Ouellet aveva già nel 1991 proposto e predisposto 3 percorsi formativi per gli insegnanti in servizio da
realizzarsi in appositi stage:
1) itinerari di tipo “autointerpretativo",
2) “eterointerpretativo",
3) di “relativizzazione critica" che miravano a mettere in discussione i propri pregiudizi.

La formazione professionale in servizio deve aiutare a ripensare le proprie modalità di insegnamento, a


adottare atteggiamenti favorevoli verso un clima scolastico di apertura e dialogo, ad accedere a nuove
conoscenze che permettano di gestire tale complessità, a adottare atteggiamenti critico-riflessivi rispetto
alle pratiche didattiche.

L’insegnante interculturalmente preparato dovrebbe svolgere determinate funzioni:

Stimolare la curiosità; Insegnare a documentarsi; Rendere critici nei confronti dei media; Superare i
pregiudizi; Sostenere gli allievi nella scoperta della propria identità; Valorizzare le differenze; Suscitare
consapevolezza dell'arricchimento reciproco degli scambi culturali

Ouellet suggerisce di adottare la “strategia della deviazione di rotta": ossia deviazione dal percorso
“regolare" attraverso l'esame critico delle grandi tematiche teoriche che permettono di teorizzare
l'apertura alla diversità etnoculturale, la ricerca di coesione sociale, la lotta contro la discriminazione e
attraverso l’esplorazione dell’estraneo (sia scolasticamente che socialmente, ecc.)
Senza una conoscenza delle diverse questioni sociologiche, politiche, etniche, uguaglianza di opportunità,
modelli di inserimento non è possibile intervenire in modo efficace in ambito interculturale. L’esplorazione
dell'universo estraneo deve toccare l'aspetto religioso, di usi e tradizioni, familiare, il sistema educativo,
problemi economici, attraverso testi e la consultazione di specialisti.

Una formazione realmente interculturale dovrebbe dotare gli insegnanti di competenze specifiche per
formulare giudizi critici, per raccogliere dati etnografici, per gestire la classe, valutare il funzionamento dei
gruppi di lavoro, gestione conflitti, ecc.

Tra le competenze e le capacità da acquisire e sviluppare vanno menzionate: “l'etnocentrismo critico"; il


“decentramento cognitivo, affettivo ed esistenziale”; la consapevolezza del proprio ruolo di mediatore
interculturale (shock culturali di Cohen-Emerique); il quadro delle competenze per l’insegnante per la
gestione della diversità (non è importante solo conoscere e comprendere le questioni ma anche i contesti).

CAPITOLO 8 FORMAZIONE E RECLUTAMENTO DEI DOCENTI IN ITALIA

Il sistema di reclutamento e di formazione iniziale dei docenti in Italia non è in grado di garantire i livelli di
apprendimento adeguati per i giovani e la sicurezza lavorativa e le competenze professionali per i docenti.
questo a causa di criticità nel sistema scolastico italiano e nel sistema di reclutamento e di formazione
iniziale e di formazione in servizio per i docenti.

le principali criticità del sistema scolastico italiano sono due: da un lato secondo i test nazionali come
l'invalsi, più del 40% degli studenti risultano impreparati nelle nozioni di base di matematica inglese e
italiano; in secondo luogo, entro il 2030 è prevista una diminuzione della popolazione demografica
scolastica e in particolare una riduzione di più di un milione di studenti. questo dato è importante perché se
rimangono stabili i rapporti numerici tra docenti e studenti il calo demografico porterà a una diminuzione di
circa 65.000 posti di lavoro.

il reclutamento degli insegnanti: una grande critica al sistema di reclutamento degli insegnanti è che negli
ultimi anni il numero di docenti assunti a tempo determinato, di solito da settembre a giugno, è in continua
crescita, nonostante la volontà della buona scuola di eliminare definitivamente il fenomeno del precariato
nelle scuole. al contempo però tantissime cattedre rimangono vuote nonostante tantissimi supplenti in
attesa di un posto di ruolo. ciò accade perché l’unico modo previsto dalla legge per l'assunzione in ruolo
degli insegnanti è quello del doppio canale:
- concorso nazionale, la via più naturale che però non riesce a garantire la regolarità biennale (e produce
mismatch)
- graduatorie provinciali a esaurimento GAE, cioè graduatoria di abilitati a cui era stata promessa
l'assunzione.

entrambi i canali sono prosciugati, quindi, poiché sono gli unici due modi in cui si può assumere a tempo
indeterminato un docente, questo non può avvenire e di conseguenza le scuole devono elargire contratti a
tempi determinati attingendo da graduatorie di seconda fascia, in cui ci sono tutti i docenti abilitati,
graduatorie di terza fascia, in cui ci sono aspiranti docenti non ancora abilitati, e le Mad, cioè le messe a
disposizione da parte di laureati e laureandi che spontaneamente presentano delle candidature agli istituti.

oggi la strada del doppio canale non è più percorribile. ecco dei suggerimenti per l’abilitazione alla scuola
secondaria (per le scuole primarie, infatti, l'abilitazione si ottiene con la laurea):
- laurea abilitante
- una commissione di abilitazione, magari attivata su richiesta del candidato
- concorso nazionale con abilitazione per chi supera una certa soglia anche se non vince.
il collo di bottiglia è rappresentato dall'università perché non attiva i corsi abilitanti, un po’ per mancanza di
risorse un po' per mancanza di informazioni sulla quantità di posti di ruolo disponibili.

ottenuta l'abilitazione poi l'assunzione si potrebbe avere secondo due modalità


-concorso nazionale con cadenza biennale, che avrebbe il vantaggio di essere equo e aperto a tutti coloro
che posseggono i requisiti, ma da altra parte condurrebbe a un mismatch cioè docenti che vengono
assegnati in posti molto lontani dalla residenza.
-chiamata diretta attraverso un concorso dalla singola istituzione scolastica, il cui iter potrebbe essere:
pubblicazione della posizione da riempire da parte della scuola, esaminazione dei curriculum lettere di
referenze e crediti ottenuti precedentemente da parte di una commissione scelta dal consiglio di istituto e
infine colloqui e prova pratica dei candidati più promettenti. in questo modo sicuramente si potrebbe
risolvere il mismatch, ma potrebbe essere percepito come un meccanismo non egualitario e a rischio di
favoritismi.

La formazione iniziale

La formazione iniziale degli insegnanti è stata sempre oggetto di modifiche da parte di governi italiani
perché ciascun governo vuole negare le scelte fatte dal precedente. il risultato e che non c'è un metodo
oggi valido per la preparazione di un aspirante docente, infatti dopo le scuole di specializzazione che sono
state frettolosamente abolite, il sistema di formazione iniziale docenti era diventato il tirocinio formativo
attivo (che prevedeva un percorso post laurea con un anno di tirocinio nelle scuole), poi si è passati al
percorso di formazione iniziale tirocinio FIT, con cui dopo un anno di specializzazione universitaria si
ipotizzavano due anni di tirocinio in aula, ma di fatto il FIT non è mai entrato in vigore ed è stato sostituito
dall'acquisizione dei 24 CFU.

i vari modelli di formazione iniziale hanno generalmente due errori: il primo e la scarsa enfasi posta sulle
conoscenze didattiche a favore di quelle disciplinari. sicuramente è importante conoscere la propria
materia di insegnamento, ma oggi sappiamo che un buon insegnante deve possedere anche strategie di
insegnamento che spaziano dalla didattica trasmissiva a quella esplorativa a quella collaborativa a quella
metacognitiva. il secondo difetto è che la formazione iniziale del nostro paese è organizzata in modo
sequenziale e non parallela: infatti dopo la laurea magistrale segue la formazione didattica (tranne che
nell'attuale percorso di 24 CFU) in aula. in altri paesi d'Europa, invece, la formazione dei docenti avviene in
parallelo alla formazione universitaria, così l'aspirante docente può immediatamente mettere in pratica le
nozioni apprese e capire se effettivamente portato per la pratica dell'insegnamento.
quindi un consiglio può essere quello di attivare in Italia corsi di specializzazione volti all'insegnamento che
includano tirocinio nelle scuole.

La formazione in servizio

Al giorno d'oggi anche la formazione dei docenti in servizio ha due criticità importanti: la prima riguarda
l'intensità e contenuti della formazione: i docenti italiani sono quelli in Europa che ricevano meno
formazione, pare per la mancanza di adeguati incentivi a seguirla. infatti in assenza di avanzamenti di
stipendio o di cartiera, gli insegnanti sono meno propensi e interessati a dedicare il proprio tempo e il
denaro all'aggiornamento professionale.
La seconda criticità è l'obbligatorietà della formazione in servizio: introdotta con la buona scuola, è stato
successivamente tentato di quantificare tale obbligatorietà in un numero di ore annuali, ma il tentativo è
fallito e il compromesso finale è stato tradurre l'obbligatorietà della formazione in servizio con ” coerenza
dell'attività formativa con i contenuti del piano triennale dell'offerta formativa”, lasciando di fatto la
formazione alla volontà dei singoli senza vincoli particolari.
Da questo punto di vista si potrebbero quindi creare opportuni incentivi a una maggiore formazione
attraverso la subordinazione di aumenti salariali o di passaggi di carriera, che impongono ai candidati di
acquisire competenze attraverso la formazione, competenze che poi andrebbero verificate.

CAPITOLO 9 GENERELE E DISCIPLINARE: LE DUE FACCE DELLA PROFESSIONALITÀ DIDATTICA

l’insegnante potrebbe rivestire quella che è una posizione a metà tra l’impiegato che opera all’interno di
un’organizzazione burocratica e il professionista, il cui profilo è caratterizzato da conoscenza specializzata,
autonomia e responsabilità. Ma in generale, si può affermare, che nel corso degli anni, la figura
dell’insegnante è stata vista e valutata sempre in modi diversi dagli studiosi.
Quattro sono nell’immaginario collettivo i possibili ruoli dell’insegnante:
Insegnante come professionista che fornisce servizi basati su competenze specifiche;

Insegnante come semplice impiegato;

Insegnante come funzionario che svolge una funzione pubblica sulla base delle proprie competenze;

Insegnante come persona che ha scelto volontariamente di svolgere una funzione sociale importante.

La tendenza alla fiducia nel professionismo è in parte legata all’introduzione, negli anni Novanta,
dell’autonomia scolastica e della formazione universitaria degli insegnanti attraverso l’istituzione del corso
di laurea abilitante in Scienze della formazione primaria e del biennio di Specializzazione
per l’insegnamento nella scuola secondaria. Al contrario, la mancata percezione del riconoscimento
sociale - che la formazione universitaria avrebbe dovuto garantire - è probabilmente il fattore responsabile
della tendenza ad affermare che l’insegnante svolge soprattutto un’importante funzione sociale.
La professionalità dell’insegnante deve prevedere:
La formazione iniziale, per l’acquisizione delle competenze di base
La formazione in servizio (intesa come primi anni di prova e aggiornamenti successivi), per l’acquisizione
della capacità di apprendere continuamente.

Nell’ambito della formazione degli insegnanti “la competenza” si trova al centro, tra percorsi
formativi basati sulle proprie discipline di insegnamento (padronanza del sapere insegnato) e
percorsi basati sulle pratiche sociali (capacità di saper insegnare). Sebbene il concetto di competenza,
automaticamente ci rimanda al “sapere pratico” dobbiamo tener presente che essa è sorretta anche da
un “sapere teorico”, che “passa” nelle pratiche come “attitudine” a saper vedere e a saper agire nel
contesto. Ciò ha permesso alla comunità pedagogica di andare verso un’interpretazione della
professionalità come caratteristica imprescindibile dell’essere insegnante. Ma quali e quante devono
essere queste competenze?
La competenza disciplinare;
La competenza didattica, (sia generale sia disciplinare);
Le competenze relazionali, (comunicazione, socializzazione e dimensione socioaffettiva);
Le competenze legate al saper essere (padronanza di sé, motivazione, coscienziosità, flessibilità,
l'autocontrollo, iniziativa, impegno, fiducia in sé, la spinta alla realizzazione).
Secondo l’autore nell’ambito dell’insegnamento nella scuola secondaria, l’esercizio di competenza
dell’insegnante si pone al centro di tre ambiti di studio distinti:
Il Sapere disciplinare, cioè la tua materia

La Didattica generale, cioè come approcciare l’insegnamento, conoscere allievi, metacognizione ecc
comune a tutte le discipline

La Didattica disciplinare specifica, cioè saper trasmettere la propria disciplina nello specifico.

Ma cosa sono questi ambiti?

La Disciplina o sapere disciplinare costituisce infatti un sistema organizzato di conoscenze scientificamente


fondato che “preesiste all’insegnamento”. Al contrario, la Didattica generale e le Didattiche disciplinari, si
danno come saperi emergenti da un campo professionale “preesistente, quello dell’insegnamento”. Il
primo movimento, di tipo interno, procede per progressiva specializzazione; Il secondo, di tipo esterno,
procede per progressiva costituzione delle professioni sociali di riferimento. Tali movimenti possono
assumere diversa dominanza l’uno sull’altro.
È importante la necessità del rapporto tra Università e Scuola, come sedi rispettivamente deputate alla
ricerca e all’esercizio della professionalità docente. La formazione degli insegnanti, oltre ad
essere arricchita dalla ricerca, diventa anche un dispositivo generativo per lo sviluppo di quest’ultima.

Quindi cosa dovrebbe saper fare un insegnante?

Progettare il curricolo;

Elaborare strategie didattiche e per la gestione della classe (didattica generale);

Selezionare il sapere da insegnare (strutturare unità didattiche p. es.),

Interpretare in chiave disciplinare il comportamento cognitivo dell’allievo e prevedere le difficoltà degli


allievi in relazione agli ostacoli che possono incontrare.

La qualità della scuola: quest’ultima difficilmente capace di sintetizzare le acquisizioni provenienti dai due
ambiti;
La rilevanza politica e sociale delle istituzioni deputate alla formazione: esse stentano a far valere posizioni
unitarie;
Lo sviluppo della ricerca didattica: che limita quelli che sono gli approcci interdisciplinari potenzialmente
fecondi;
La progettazione dei percorsi di formazione degli insegnanti: nei quali prevalgono logiche che si
sovrappongono, senza alcuna integrazione.
Tutti questi aspetti mostrano la necessità di integrazione fra approcci “generali” e “specifici” agendo sulle
politiche istituzionali, sulla ricerca e sul sistema di formazione degli insegnanti della scuola secondaria.

CAPITOLO 11

Il senso dell’educare si può trovare pensando al l'etimologia della parola educare, ex ducere, letteralmente
trarre fuori, cioè far emergere dall'individuo potenzialità, capacità, qualità desiderabili che non sono ancora
state espresse e quindi si configurano come qualcosa che ancora non c'è. il docente oggi ha il delicato
compito di trasformare lo sforzo degli allievi per raggiungere gli apprendimenti in piacere della
conoscenza. ma ci sono alcuni miti da sfatare: prima di tutto il docente non presenta una vocazione, non è
un missionario, ma un professionista della didattica. inoltre non è un eroe solitario, infatti il lavoro del
docente passa attraverso la collaborazione con la classe con il collegio di istituto con tutto il personale
scolastico.
la professione docente deve essere un equilibrio tra diverse componenti:
-possedere un solido bagaglio culturale → competenze disciplinari delle lez 9
-consapevolezza del ruolo del docente → simile a competenza didattica/ metacognizione
-Un'approfondita conoscenza disciplinare → competenze disciplinari
-profonda competenza pedagogica e didattica
-adeguata alfabetizzazione digitale
-capacità relazionali
-l'esigenza di fare ricerca nel campo della didattica, utilizzando metodi e approcci propri della pedagogia.
tutti questi elementi non si possono improvvisare, infatti educatori non si nasce si diventa. e lo si diventa
attraverso percorsi di studio, riflessione confronto, e approfondimento.

oggi c'è l'idea di scuola come comunità educativa democratica e pubblica, a proposito cioè bisogno di
mettere al centro la dimensione collegiale, democratica e partecipativa come chiave della crescita
professionale e come strumento indispensabile per raggiungere gli obiettivi culturali più ambiziosi che ci
diamo come società.

È ormai noto che percorso di formazione del docente ha subito profondi cambiamenti in base ai
cambiamenti di governi italiani: scuole di specializzazione SSIS, tirocinio formativo attivo TFA, formazione
iniziale tirocinio FIT e infine 24 CFU.
i vantaggi di percorsi di formazione abilitanti sono stati:
-collegare la scuola con l'università
-inquadrare per la prima volta la professione docente come l'esito di un percorso di specializzazione
-introduzione di laboratori e tirocini che coniugano la teoria alla prassi

i limiti dei percorsi di formazione abilitanti sono stati:


-costi molto alti
-eccessiva selettività in ingresso
-disparità di valutazione del titolo abilitante ai fini dell'assegnazione del punteggio nelle graduatorie

Quindi è strategico rilanciare la centralità di una formazione in ingresso solida per garantire una
preparazione adeguata ai docenti e l'accesso all'abilitazione con un percorso solido dal punto di vista
formativo e non una serie di ostacoli. un modello formativo efficace dovrebbe puntare sulla centralità della
didattica e dei laboratori come Lugo in cui s'impara come si insegna e come si fa a rallentar scuola. Per
essere efficace i laboratori hanno bisogno della collaborazione tra i docenti scolastici ai docenti universitari.

I nuovi percorsi abilitanti dovrebbero il prendere in parte i punti positivi dalle scuole di specializzazione e
dal tirocinio formativo attivo, ma a questi ultimi aggiungere delle importanti novità. Nell'area delle scienze
dell'educazione è fondamentale far acquisire le conoscenze competenze storico pedagogiche,
pedagogiche, psicologiche e di didattica generale; Nell'area delle didattiche disciplinari l'obiettivo è
acquisire conoscenza culturale disciplinare e didattica delle discipline, quindi scegliere le metodologie
migliori legate all'insegnamento delle singole discipline assieme agli strumenti tecnologici cioè adatti da
utilizzare nella didattica; Nell'area dei laboratori didattici è necessaria una riflessione critica sui moduli di
insegnamento e la sperimentazione pratica didattiche inclusive.

Tra scuola di specializzazione e tirocinio formativo attivo c'era una differenza sostanziale nell'ambito del
reclutamento: le scuole di specializzazione prevedevano una formazione abilitante che non consentiva il
diretto accesso all' immissione in ruolo, il FIT invece univa il percorso di formazione in ingresso all'
assunzione a tempo indeterminato. Nel definire una proposta organica di reclutamento oggi si consiglia un
sistema che: sappia programmare il numero dei posti per l'accesso alla formazione abilitante che rispecchi
in maniera corretta ai bisogni della scuola per non generare esuberi o carenze. Quindi il modello di
formazione-reclutamento che sembra più ragionevole è quello che prevede che i docenti che concludono il
percorso formativo abilitante possano entrare in una graduatoria da cui accedere alle immissioni in ruolo e
parallelamente dovrebbe essere mantenuta la possibilità di bandire dei concorsi a cui accedere previa
formazione abilitante. Questo modello consentirebbe la riduzione dei contratti a tempo determinato e
della crescita del precariato, farebbe della formazione del docente un prerequisito tramite il quale ci si
avvicina all'insegnamento e garantirebbe una formazione in ingresso adeguata alle sfide educative
moderne.

CAP. 13: LA FORMAZIONE DEGLI INSEGNANTI


In un momento storico in cui la formazione degli insegnanti sembra essere un tema accantonato dalla politica
nazionale, a favore di un rapido e massiccio reclutamento, diventa indispensabile ed urgente aprire uno
spazio di riflessione sulle forme e sui modi attraverso cui si immagina di poter formare gli insegnanti e
sostenerli nel loro sviluppo professionale.

La scuola, a partire dalla sua istituzione con l’avvio del progetto dell’Italia repubblicana, ha gradualmente
perso il suo impatto sociale e ridimensionato la sua funzione di crescita e di emancipazione, anziché
affermarsi (sulla scorta degli auspici costituzionali) come istituzione pubblica laica, libera e gratuita,
impegnata a combattere l’analfabetismo e a veicolare lo sviluppo sociale. Di fatto, le vicende politiche e
sociali che hanno accompagnato la storia del nostro paese dagli anni Cinquanta ad oggi, hanno determinato
brusche interruzioni ed inversioni di marcia del progetto costituzionale, che hanno portato la scuola ad essere
un’istituzione dall’identità confusa e priva di progettualità. Nel tempo le contraddizioni interne, unite a
problemi quali le difficoltà nel costruire percorsi di continuità tra la scuola primaria e la scuola media, hanno
indebolito la portata dell’azione dell’istituzione scolastica, compromettendo così anche la sua funzione
educativa.

Su queste basi, possiamo sviluppare una riflessione sulla scuola, prendendo a riferimento i discorsi che su di
essa si sono avvicendati in ambito culturale e politico nel corso degli anni. A partire dagli anni Ottanta, si è
avuta una confusa organizzazione delle pratiche educative e delle istituzioni, che ha contribuito a
determinare il sovrapporsi di differenti (e talvolta contrastanti) rappresentazioni dell’identità professionale
degli insegnanti. Questi ultimi sono stati in un primo momento definiti come “lavoratori della conoscenza”,
successivamente “mediatori e facilitatori dei processi di apprendimento”, poi “orientatori”, “educatori”,
“ricercatori” e via discorrendo. Tutto ciò, ha portato ad una progressiva rarefazione della funzione culturale
e educativa degli stessi insegnanti.

A questo proposito, possiamo riprendere ed analizzare i vari obiettivi su cui si è focalizzato il dibattito nel
nostro Paese, in seguito all’arresto del progetto di riforma avviato da Berlinguer alla fine degli anni Novanta
(progetto che aveva come obiettivo la progressiva rimozione dei dislivelli di partenza degli allievi, attraverso
un’articolazione in cicli del sistema scolastico ed il superamento del “modello classista”, di impronta
gentiliana e organizzato in ordinamenti scolastici rigidamente separati tra loro).

All’inizio degli anni Duemila, l’educazione viene identificata sostanzialmente con l’istruzione (affiancata alle
tre “i”: informatica, inglese, impresa, che hanno rappresentato lo slogan delle riforme Moratti e Gelmini tra
il 2000 e il 2011) e con lo sviluppo di competenze, che costituiscono la base per un “apprendimento
permanente” e sono fondamentali per l’ingresso nel mondo del lavoro. In questo scenario, i processi
educativi vengono valutati in termini di efficienza e di efficacia nella misura in cui producono risultati
certificabili e verificabili attraverso strumenti standardizzati, come i test invalsi. Su questa scia, la valutazione
delle “prestazioni” degli studenti viene utilizzata per valutare in maniera indiretta quelle degli insegnanti,
dovendo questi ultimi supportare i processi di apprendimento e di acquisizione delle conoscenze e
competenze.

In questo quadro, si ha anche l’impianto complessivo della legge 107/2015, la cosiddetta “Buona Scuola”,
che mette a fuoco un insieme di competenze connotative dell’identità professionale degli insegnanti:
competenze di ordine culturale e disciplinare; competenze psico-pedagogiche; competenze
metodologico/didattiche; competenze organizzative; competenze relazionali; competenze riflessive. A
queste si aggiungono le competenze necessarie allo sviluppo e al sostegno dell’autonomia delle istituzioni
scolastiche (secondo i principi definiti dal DPR 8-3-1999, n.275).

In questa cornice, la formazione iniziale dei docenti e il loro sviluppo professionale si sono articolati, per il
triennio 2016-2019, intorno a:

• competenze di sistema, che riguardano l’autonomia didattica ed organizzativa delle istituzioni


scolastiche, i dispositivi di valutazione e miglioramento, l’innovazione didattica e la didattica
per competenze;
• competenze per il ventunesimo secolo (lingue straniere, competenze digitali, capacità di
costruire e gestire nuovi ambienti di apprendimento);
• competenze per una scuola inclusiva (integrazione, competenze di cittadinanza e cittadinanza
globale, inclusione e disabilità).

I progetti formativi sono stati sviluppati a partire dall’indagine TALIS (Teaching and Learning International
Survey) realizzata in Italia dall’INDIRE (Istituto Nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa)
su un campione di quattromila insegnanti. Tale indagine ha permesso di definire l’insegnamento come una
“professione”, anziché un “lavoro” e gli insegnanti, di conseguenza, sono stati definiti dei “professionisti
dell’istruzione”, caratterizzati da uno specifico profilo che prevede un set di “skills” (conoscere la propria
materia e saperla insegnare, avere una conoscenza esperta dei processi di apprendimento e di sviluppo, saper
gestire una classe, essere disponibili ad aggiornare le proprie conoscenze e competenze lungo tutto l’iter di
crescita professionale ecc).

In questo scenario, quindi, l’attenzione ruota intorno ai processi di apprendimento ed ai loro risultati e l’agire
professionale dell’insegnante viene inscritto all’interno di un processo definito “learnification”: gli insegnanti
vengono visti come “facilitatori dei processi di apprendimento” e ciò ha progressivamente messo in secondo
piano il loro ruolo e la loro funzione riguardo agli obiettivi EDUCATIVI. La professionalità degli insegnanti
viene quindi a mancare di qualsiasi connotazione pedagogica e l’insegnamento, in particolare nel nostro
Paese, si configura sempre meno come una scelta vocazionale. Esso rappresenta sempre più spesso un
ripiego rispetto ad altre aspettative professionali (ricerca universitaria, libera professione ecc.), in virtù del
reddito sicuro e della posizione stabile che offre, con orari gestibili e conciliabili anche con altri impegni.

Come se ciò non bastasse a compromettere l’identità professionale dei futuri insegnanti, va detto che
all’insegnamento si accede attraverso percorsi lunghi e faticosi, ma non estremamente formativi: questi
ultimi, infatti, non sono concepiti lungo una linea di continuità (che si sviluppa a partire dalla scelta del
percorso di laurea), ma per accumulazione di esperienze di precariato, di certificazioni e titoli post-laurea,
che non hanno valore professionalizzante.

L’esperimento delle Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento (SSIS), durato un decennio e poi cancellato
senza possibilità di fare un bilancio valutativo dei suoi esiti, al di là di una serie di criticità, rappresentava un
progetto formativo solido, ben strutturato, in cui si coniugavano saperi didattici disciplinari e saperi di ordine
psico-pedagogico e di didattica generale, e in cui era possibile (attraverso esperienze di tirocinio) entrare in
contatto diretto con il mondo della scuola.

I tentativi successivi (TFA, FIT) si sono sforzati di proporre un percorso formativo più “snello” e più
direttamente legato al mondo della pratica, ma si sono rivelati fallimentari proprio perché non hanno
permesso il consolidamento dell’acquisizione di saperi e delle competenze professionali, né tantomeno della
consapevolezza pedagogica.

L’ulteriore semplificazione del percorso formativo, che si è tradotta nell’erogazione di 24 crediti non inseriti
in un impianto curricolare, ma in percorsi flessibili (che possono essere ridotti anche grazie al riconoscimento
di crediti acquisiti in altri contesti), ha avuto come esito l’acquisizione di nozioni e saperi frammentari e poco
organizzati, non integrati in nessuna esperienza di ordine pratico.

Una volta arrivati all’immissione in ruolo, che si raggiunge attraverso procedure concorsuali abbastanza
discutibili, gli insegnanti “novizi” risultano di fatto privi di competenze professionali, poco strutturati sul piano
pratico e carenti di consapevolezza pedagogica.

In questo scenario quindi, un ripensamento critico della formazione iniziale degli insegnanti e del loro
reclutamento risulta estremamente urgente e necessario. Bisogna innanzitutto ripensare al sistema
formativo e al ruolo che in esso gioca l’istituzione scolastica. L’attuale configurazione del sistema scolastico
non risponde, infatti, ai bisogni educativi emergenti dal contesto sociale né in termini di apprendimento, né
tantomeno in termini di capacità, consapevolezza e responsabilità. In secondo luogo, bisogna definire per gli
insegnanti un progetto chiaro, orientato non solo all’acquisizione di saperi ed allo sviluppo di competenze,
ma alla creazione di una vera e propria “identità professionale”, fondamentale per la costruzione di una
relazione educativa stabile e duratura.
ESERCITAZIONI

1) il candidato illustri le principali caratteristiche della professionalità docente così come oggi viene a
delinearsi

La professionalità dell’insegnante deve prevedere:

- La formazione iniziale, per l’acquisizione delle competenze di base

- La formazione in servizio (intesa come primi anni di prova e aggiornamenti successivi), per l’acquisizione
della capacità di apprendere continuamente.

Sebbene la figura del docente sia profondamente cambiata nel tempo, oggi non può più essere considerato
un mero portatore di conoscenze, ma deve possedere una commistione di competenze (che non devono
essere intese come l’applicazione pratica del sapere teorico), quali comunicative, cognitive, relazionali,
sociali, riflessive, empatiche, che permettano al docente stesso, in qualità di insegnante e di educatore, di
esprimete il sapere giusto nel momento giusto. A tal proposito il modello più plausibile di insegnante è
quello di intellettuale-ricercatore: intellettuale perché la sua professione sottende un rapporto di
persuasone e direzione verso gli altri; ricercatore perché internalizza la logica di ricerca e la sfrutta per
affrontale i problemi educativi moderni.
Un insegnate animato da una genuina passione per l’insegnamento è una persona che vive l’esperienza educativa
mantenendo un contatto fra le emozioni e le conoscenze. Tale insegnante concepisce la scuola come un luogo di
ricerca e non di passiva trasmissione di idee e saperi precostituiti: egli è capace di esercitare e far esercitare la
curiosità, stimolare la domanda e la riflessione critica nelle nuove generazioni e così facendo, promuove un vero e
proprio cambiamento cognitivo, nonché il successo formativo di tutti i discenti. Questo tipo di insegnante ripone
fiducia e rispetto nei confronti degli alunni, prova piacere nel rapporto che instaura con loro ed è consapevole che da
loro si impara e che non sono dei semplici contenitori, da riempire di nozioni e convinzioni a proprio piacimento.
L’insegnante riconosce la loro autonomia, i loro tempi e le loro identità e per questo motivo, si avvale di una didattica
come laboratorio di cittadinanza attiva e consapevole. È anche in grado di valutare se il proprio lavoro stia favorendo o
ostacolando in qualche modo il percorso di crescita e apprendimento dell’intera classe; in quest’ultimo caso, egli
opera degli accorgimenti metodologici e contenutistici, in modo tale da consentire alla scuola di essere rispettosa dei
tempi di ognuno e di non lasciare nessuno indietro

Quindi l’insegnante di oggi è una figura poliedrica di difficile definizione, che però ha il delicato compito di
stimolare la curiosità e la riflessione critica nelle giovani generazioni, al fine di curare la crescita intellettuale
ed etico-sociale dei futuri cittadini

2) il candidato illustri le strategie didattiche che consentono la gestione della classe partecipata

La classe va intesa come ambiente fisico e sociale caratterizzato da una serie di variabili che ne influenzano
l’andamento e di cui l’insegnante deve tener conto: 1) attenzione a più dimensioni comunicative e
comportamentali; 2) alla consapevolezza della simultaneità con la quale in classe molti fatti avvengono
contemporaneamente; 3) necessità di intervenire in modo tempestivo. Di fronte a tanta complessità è
dunque necessario riflettere su chi è e cosa è tenuto a fare l’insegnante in una scuola che cambia e che è in
continua evoluzione.

3) il candidato illustri le principali riforme della scuola italiana

• L’OBBLIGO SCOLASTICO IN ITALIA VENNE INTRODOTTO CON LA LEGGE CASATI (1860). in questo
periodo l’istruzione elementare divenne gratuita, obbligatoria solamente per i primi due anni su 4 ma
presente solamente nelle città aventi oltre 4.000 abitanti o sedi di istituti di istruzione secondaria.
quest’ultima era presente in tutti i capoluoghi di provincia.

• LA LEGGE COPPINO (1877) portò l’istruzione elementare da 4 anni a 5 e l’obbligo scolastico a 3


anni. tale legge è ritenuta importantissima per l’istruzione italiana in quanto contribuì ad innalzare il tasso
di alfabetizzazione.

• LA RIFORMA GENTILE (1923) la cui scuola si basa SU QUATTRO PILASTRI:

-centralità delle discipline scolastiche e della figura del maestro

-modello trasmissivo della didattica

-scuola elitaria (“poche scuole ma buone”)

-separazione tra il fare ed il pensare (tra scuole professionali e licei)

• LEGGE ERMINI (1955) prevedeva la dottrina cattolica come fondamento e coronamento


dell’istruzione; intuizione, fantasia, sentimento

• LA RIFORMA BERLINGUER (1997):

- autonomia scolastica, con introduzione dei Crediti formativi

- obbligo scolastico 15 anni

- obbligo formativo 18 anni

- ciclo dell'infanzia – triennale, non obbligatorio

- scuola di base dai 6 ai dodici anni

- ciclo di istruzione secondaria dai 12 ai 18 anni, con riduzione degli indirizzi sia liceali sia tecnico-
professionali

- Università/Istruzione post-secondaria/formazione tecnico-professionale

• LEGGE MORATTI 2003: delega al governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e
dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale. LA RIFORMA
MORATTI E GELMINI (2000-2011):

- autonomia scolastica

- privatizzazione delle scuole

- diritto-dovere all'istruzione ed alla formazione fino ai 18 anni di età

LA BUONA SCUOLA (2017): insieme integrato di competenze, connotative dell’identità e


dell’epistemiologia professionale degli insegnanti (competenze di ordine culturale e disciplinare,
competenze psicopedagogiche, competenze metodologico/didattiche, competenze organizzative,
competenze relazionali, competenze riflessive).

4) il candidato descriva i punti di forza e di debolezza della formazione di docenti così come si prospetta
nell'attuale sistema scolastico.
5) il candidato individui le competenze chiave della professionalità docente descrivendo la rilevanza per
l'efficacia della relazione educativa e didattica.

Le competenze indispensabili del far scuola (bene) sono


1. Le competenze disciplinari, ovvero quel bagaglio culturale che ogni docente deve possedere
relativamente alle materie di insegnamento. Tali conoscenze dovranno essere solide, ben strutturate, da
aggiornare continuamente.
2. Le competenze epistemologico-didattico legate alle singole discipline, che corrispondono alla capacità di
utilizzare le competenze disciplinari per fini educativi.
3. Le competenze psico-pedagogiche, necessarie per entrare in rapporto con gli allievi, per realizzare una
positiva comunicazione didattica, per riconoscere le dinamiche e i conflitti che nascono all’interno della
classe, per riconoscere i problemi e saperli gestire.
4. Le competenze relative alle tecnologie didattiche digitali, importanti per organizzare l’apprendimento in
aula e, specificamente per l’uso del computer e della rete, per insegnare ai ragazzi tutte le operazioni
didattiche che con tali tecnologie si possono fare.
5. Le competenze organizzative e di relazioni tra pari, fondamentali per costruire il proprio percorso di
lavoro con i colleghi del Consiglio di classe, di un Dipartimento disciplinare, con i propri alunni, con
l’extrascuola.
6. Le competenze di ricerca e sperimentazione, indispensabili a individuare i percorsi didattici più efficaci,
le metodologie e le strategie più utili.
7. Le competenze didattiche (specifiche e generali): La Didattica generale, cioè come approcciare
l’insegnamento, conoscere allievi, metacognizione ecc comune a tutte le discipline. La Didattica
disciplinare specifica, cioè saper trasmettere la propria disciplina nello specifico
8. La competenza metacognitiva, intesa non come appendice, ma in una posizione sopraelevata alle
precedenti, che consenta al docente di riflettere in maniera critica sulle modalità didattiche e sulle sue
strategie d’insegnamento, chiedendosi se sta favorendo o ostacolando lo sviluppo della classe. permette di
imparare ad apprendere dalla propria esperienza in maniera intelligente

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