Le Reliquie Dei Santi
Le Reliquie Dei Santi
Le Reliquie Dei Santi
traslazione
Il culto delle reliquie è volontario. È, cioè, raccomandato, ma non imposto dalla Chiesa.
La sua origine è antichissima. Fin dai primi secoli i cristiani associavano alla memoria di
Cristo quella dei martires, che avevano testimoniato la propria fede con il sangue. E non
c’era, in questo comportamento, alcuna connotazione idolatrica, né si ravvisavano
deviazioni verso la superstizione. La venerazione è nata spontaneamente, sulla base della
pietas verso i defunti, che ha caratterizzato la storia dell’umanità fin dalle origini, e come
reazione alle grandi persecuzioni nei confronti dei seguaci del Nazareno. Dinanzi ai resti
mortali dei martiri, infatti, i cristiani traevano la forza per seguirne l’esempio e il coraggio
della coerenza.
In maniera altrettanto spontanea, il giorno in cui ricorreva l’anniversario del loro
sacrificio della vita per la fede (detto dies natalis, cioè giorno della nascita al cielo) i fedeli
si radunavano attorno alla tomba del martire per celebrare, in un clima festoso, la Messa
in sua memoria. Seguiva un’agape fraterna alla quale venivano ammessi i poveri. Sul
sepolcro del martire spesso si costruiva un arco di trionfo o una cappella o una sontuosa
basilica, come si verificò a Roma per gli apostoli Pietro e Paolo e per Lorenzo, Sebastiano,
Agnese, Cecilia, Susanna, ecc.
Con l’inizio del periodo di distensione religiosa che scaturì dall’editto “di libero culto”
emanato nel 313 dall’imperatore Costantino “il Grande”, la venerazione per i martiri si
diffuse ovunque. Tramontata, infatti, l’era delle catacombe, cominciarono a diffondersi le
agiografie dei martiri, incentrate sulla narrazione della loro morte eroica e sui supplizi che
avevano dovuto subire negli ultimi giorni della loro vita.
Già nel periodo delle persecuzioni dei cristiani, accanto a quella per i martires aveva
cominciato a diffondersi l’ammirazione verso i confessores, cioè coloro che erano stati
perseguitati dall’autorità civile per la loro fede, pur senza subire il martirio o essendone
sopravvissuti. Appartengono a questa categoria: Dionigi di Milano (morto nel 359),
Eusebio di Vercelli (morto nel 371), Atanasio di Alessandria (morto nel 373), Melezio
d’Antiochia (morto nel 381) e il più conosciuto Giovanni Crisostomo (morto nel 407). Dal IV
secolo il termine confessores, e la conseguente venerazione, vennero estesi a coloro che
avevano testimoniato la fede con penitenze, preghiere, sofferenze e esercizio delle virtù,
pur senza morire per mano di un carnefice o subire una persecuzione a causa della fede.
Rientrarono in questa schiera grandi asceti e famosi monaci come Ilarione (morto nel
372), Paolo di Tebe (morto nel 381), Simeone lo stilita (morto nel 459) e zelanti vescovi
come Basilio il Grande (morto nel 379), Gregorio Nazianzeno (morto nel 390) e Gregorio
Nisseno (morto nel 400). Anche presso le loro tombe, quindi, sorsero santuari che
divennero mete di pellegrinaggi; le loro reliquie furono venerate e ricercate; l’anniversario
della loro morte veniva celebrato liturgicamente con grande solennità.
Dal secolo V al secolo IX le sepolture dei martiri e dei confessori cominciarono a
diventare luoghi di aggregazione e di preghiera, fino ad essere inglobate in edifici di culto.
Si andava diffondendo, infatti, l’idea che i corpi dei santi fossero in grado di diventare un
trait d’union tra Dio e gli uomini, soprattutto nella prospettiva dell’ottenimento di miracoli.
L’interesse per le reliquie, secondo un’accreditata tradizione, ebbe uno sviluppo
particolare grazie all’opera di Elena, madre di Costantino, che avrebbe trascorso l’ultima
parte della sua vita raccogliendo e conservando resti e oggetti di santi. Per molti secoli
sarebbe bastato dimostrare che un reperto fosse appartenuto a lei per attribuirne
implicitamente l’autenticità.
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Nel 398 il V Concilio di Cartagine diede validità all’uso di porre le reliquie sotto le mense
degli altari per consacrarli. Una prassi che, poi, divenne obbligo con il II Concilio di Nicea,
svoltosi nel 787. Fu una sorta di consacrazione del culto. I frammenti dei resti mortali dei
santi divennero richiestissimi e, quando non erano disponibili, si veneravano i loro sepolcri
vuoti, la polvere raccolta vicino alle tombe, frammenti di pietra staccati dai loculi, l’olio delle
lucerne accese nei pressi.
La Chiesa cominciò a preoccuparsi delle distorsioni che potevano nascere da una
pratica ormai molto diffusa tra i fedeli e pose un freno alla traslazione e alla manomissione
dei corpi, cercando di rispondere alle richieste dei fedeli con la diffusione di reliquie e
contactu, cioè pezzi di stoffa poggiata sulle spoglie mortali dei santi o sulle loro tombe o
imbevuta nelle lampade votive. Inoltre, partire dal VI secolo, si cominciò a formare una
prassi più o meno uniforme per un riconoscimento “ufficiale” della santità: in occasione di
un sinodo diocesano, alla presenza del vescovo, si leggeva una vita del defunto e
soprattutto la storia dei miracoli. Se il sinodo approvava, si procedeva all’esumazione del
corpo per dargli una sepoltura più onorevole: la elevatio. Sovente, seguiva un altro passo:
la translatio, cioè la collocazione del corpo davanti o accanto ad un altare oppure sotto o
sopra l’altare, che da quel momento veniva indicato con il nome dal santo. In alcuni casi la
chiesa veniva ampliata o ricostruita o realizzata ex novo e intitolata precisamente al santo
elevato o traslato.
La prassi delle traslazioni ebbe un ulteriore impulso fino al XI secolo in conseguenza
delle incursioni barbariche. Si diffuse, infatti, la pratica di spostare i corpi dalle basiliche
cimiteriali, ormai divenute poco sicure ed esposte a profanazioni e furti sacrileghi, nelle
chiese urbane, ben protette dalle mura fortificate che circondavano le città.
Questo fenomeno produsse anche lo smembramento delle spoglie mortali e, tra il VII e
il XII secolo, una enorme circolazione di reliquie di dubbia origine che, ciò nonostante,
venivano richieste dai santuari, dalle chiese e dai conventi per incrementare la devozione
e l’affluenza dei pellegrini, sulla base di una sempre più diffusa convinzione che da esse
promanassero poteri taumaturgici straordinari. A questa speranza, in alcuni casi, si
aggiungeva la concessione delle indulgenze. Così, insieme ai resti dei santi, cominciarono
a comparire schegge della croce di Cristo e dei chiodi della crocifissione, capelli e
frammenti di veli della Madonna, pietre della mangiatoia di Betlemme.
Una prima analisi critica su questa dilagante venerazione fu fatta dal monaco francese
Guiberto, vissuto tra il 1053 e il 1124, che demolì l’autenticità di un dente da latte che, si
diceva, Gesù aveva perso all’età di nove anni, a cui si attribuivano prodigi eccezionali. Il
monaco non negava l’autenticità dei miracoli, ma ne attribuiva l’origine non alla reliquia,
evidentemente non autentica o almeno non autenticabile, ma alla fede di chi aveva
pregato. Una tesi suffragata da numerosi passi evangelici.
Il problema tornò d’attualità durante il periodo della riforma. I contestatori furono
particolarmente duri nel condannare tali pratiche devozionali. Così nel XVI secolo, da un
lato, per impulso di san Filippo Neri, vennero riprese le ricerche delle reliquie nei cimiteri e
trasferite nelle chiese di Roma. Dall’altro, il concilio di Trento (1545-63), nella sua
venticinquesima sessione, pose delle regole per il culto delle reliquie, stabilendo: «La
Chiesa, secondo la sua tradizione, venera i Santi, le loro reliquie autentiche e le loro
immagini». Ma precisando anche che per reliquie devono intendersi i resti mortali dei santi
canonizzati o dei beati venerati o anche degli oggetti a loro collegati come: strumenti di
martirio, vesti, utensili, che sono tanto più preziosi quanto più stati a contatto con il
cristiano esemplare.
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Grazie a Pio XI, che nel 1925 istituì il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, oggi si
ha il massimo rigore scientifico e storico nel riconoscere i martiri dai semplici cristiani
sepolti negli antichi cimiteri.
Già sotto il precedente pontificato, quello di Benedetto XV, nel 1917, era stato emanato
il Codice di diritto canonico nel quale si prevedeva il riconoscimento delle spoglie di un
servo di Dio, da effettuarsi obbligatoriamente prima che fosse portata a termine la causa di
beatificazione. Tale procedura è denominata ricognizione canonica (dal latino recognitio
che significa appunto riconoscimento e canon che significa regola) ed è un atto volto ad
accertare l’autenticità di una reliquia e a verificarne lo stato di conservazione. Può essere
effettuata più volte, anche a distanza di secoli, per riscontrare che le reliquie siano sempre
le stesse, che non siano state manomesse e, soprattutto, per assicurarne, nel tempo, un
ottimale stato di conservazione.
Il 25 gennaio 1983 Giovanni Paolo II firmava la Costituzione apostolica Sacrae
disciplinae leges con la quale promulgava il nuovo Codice di diritto canonico, redatto sotto
la direzione di don Tarcisio Bertone (all’epoca decano della Facoltà di Diritto Canonico
della Pontificia Università Salesiana), nel quale le norme relative alla «trattazione delle
cause di canonizzazione» sono state stralciate, per essere trattate nella Costituzione
apostolica Divinus perfectionis Magister, sottoscritta dal Pontefice nello steso 25 gennaio.
Nel documento si dava mandato alla Congregazione delle Cause dei Santi «di decidere su
tutte le questioni circa l’autenticità e la conservazione delle reliquie». A partire da questa
data, dunque, si è continuato a osservate comunque la norma del vecchio codice per
prassi.
Sulla base della disposizione del 1917 e della successiva consuetudine sono stati
esumati, tra gli altri (per citare solo i nomi più conosciuti), i corpi dei due pastorelli di
Fatima morti qualche mese dopo le apparizioni. «Il giorno 12 settembre 1935, i resti
mortali di Giacinta furono rimossi da Vila Nova de Ourém e portati a Fatima. Aperta la
bara, si accertò che il volto della veggente si manteneva incorrotto. Fu scattata una
fotografia e Sua Ecc. il vescovo di Leiria D. José Alves Correia da Silva, ne mandò una
copia a Suor Lucia, che rispose ringraziando e parlando delle virtù della cugina. Ciò
indusse il vescovo a ordinare di scrivere tutto quello che sapeva sulla vita di Giacinta. Così
è nata la “prima memoria”, che era pronta a Natale del 1935». Dell’esumazione del corpo
di Francesco, invece, non è trapelato molto. Si sa solo che avvenne il 13 marzo 1952 per
la traslazione nel Santuario di Fatima.
Sotto il pontificato di Giovanni Paolo II sono avvenute le esumazioni di santi e beati
molto popolari: Papa Giovanni XXIII (16 gennaio 2001, quattro mesi dopo la beatificazione
avvenuta il 3 settembre 2000); Papa Pio IX (4 aprile 2000); i coniugi Luigi Beltrame e
Maria Quattrocchi (25 ottobre 1994). A queste si devono aggiungere: le tre esumazioni di
Luigi Orione (settembre 1980, 18 gennaio 1981 e 2 luglio 1990); l’ultima esumazione di
Chiara di Assisi (21 novembre 1986 – la precedente risaliva al 23 settembre 1850); l’ultima
esumazione di Antonio di Padova (6 gennaio 1981, dopo quelle del 1263 e del 1350);
mentre l’ultima esumazione di Francesco d’Assisi (24 gennaio 1978) è avvenuta alla fine
del pontificato di Paolo VI, a distanza un secolo e mezzo dalla precedente del 12 dicembre
1818.
Un altro santo molto venerato, Giovanni Bosco, si inserisce in questa lista. La prima
esumazione è «avvenuta nel pomeriggio del 16 maggio [1929], presenti Mons. Salotti,
Promotore della Fede, il Postulatore D. Tomasetti. Vi assistettero pure S. Em. il Card.
Gamba, Mons. Filippello, il Podestà di Torino Conte Thaon di Revel col Segretario e Capi
Uffici del Comune, vari medici, i membri del Capitolo Superiore della Pia Società, e una
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rappresentanza delle Figlie di Maria Ausiliatrice». Ce n’è poi stata un’altra il 12 novembre
2005.
Come abbiamo visto per i piccoli beati Giacinta e Francesco di Fatima, in alcuni casi
l’esumazione e la ricognizione canonica precedono la traslazione in una chiesa e, nella
maggior parte dei casi, in una chiesa intitolata al santo. Per non dilungarci molto facciamo
solo quattro esempi.
Francesco d’Assisi morì il 3 ottobre 1226 e, appena due anni dopo, fu canonizzato.
Subito Papa Gregorio IX incaricò frate Elia di Bombarone di «provvedere alla costruzione
di una chiesa da riporvi il sacro corpo e d’un convento per i frati che avevano a custodirla,
nonché d’un palazzo per la persona sua e per i pontefici successori suoi». I lavori
iniziarono nel 1228 e la chiesa inferiore fu completata in soli due anni. Pertanto il 25
maggio 1230 avvenne la traslazione della salma del Santo dalla sua provvisoria sepoltura
nella chiesa di San Giorgio. Ma durante il trasporto, gli assisani si impadronirono del corpo
e lo occultarono, a quanto pare per timore di vederselo sottrarre dalle città vicine, in
particolare dai perugini. Il mistero sul corpo di san Francesco durò quasi sei secoli. Solo
nel 1818 le ricerche, fino a quell’anno tentate inutilmente, furono riprese con alacrità, per
segreto ordine di Papa Pio VII, e si giunse al ritrovamento del corpo. Era sepolto sotto
l'altar maggiore della chiesa inferiore, nella viva roccia. Il feretro non fu toccato. Sotto la
chiesa inferiore, già esistente, si scavò una cripta intorno al masso che custodiva la
salma, dando alla sepoltura l’aspetto attuale.
Antonio da Lisbona, più conosciuto come Antonio di Padova, fu sepolto nel 1231 nella
chiesetta di Santa Maria Mater Domini. L’8 aprile 1263, alla presenza di san Bonaventura,
ministro Generale dell’Ordine, il corpo fu portato nella nuova basilica, sotto la cupola
centrale, dove, aperto il sarcofago, fu ritrovata la lingua incorrotta. Un’altra traslazione
sicura avvenne il 14 giugno 1310, quando, ultimata la nuova cappella dedicata al Santo,
all’estremità sinistra del transetto, le sacre spoglie vi furono solennemente trasportate. Il
14 febbraio 1350 il cardinale Guido de Boulogne venne a Padova per sciogliere un voto al
Santo, dopo essere stato guarito dalla peste nera, e per donare un prezioso reliquiario in
cui fu posta la mandibola del Santo. Da quel giorno nessuna manomissione fu effettuata
all’Arca, fino al 1981. I resti di sant’Antonio, tra l’altro, furono esposti alla venerazione dei
devoti per 29 giorni, dalla sera del 31 gennaio alla sera della domenica 1° marzo 1981.
Colsero l’occasione oltre 650.000 persone, che si recarono a pregare dinanzi alle ossa del
Frate di Lisbona composte in un’urna di cristallo.
Don Giovanni Bosco morì il 31 gennaio 1888 nell’Oratorio di San Francesco di Sales a
Torino e fu tumulato il 2 febbraio nella chiesa del collegio salesiano delle missioni estere a
Valselice, a pochi chilometri dalla città. Il 9 giugno 1929, sette giorni dopo la
beatificazione, il suo corpo fu traslato presso l’altare a lui intitolato nella chiesa di Santa
Maria Ausiliatrice in Torino. Al corteo presero parte numerosi vescovi e due cardinali: il
primate di Polonia August Hlond e l’arcivescovo del capoluogo piemontese Giuseppe
Gamba. Ad attendere la salma c’erano molti altri vescovi e i cardinali Maffi, Ascalesi,
Nasalli Rocca e Vydal y Barraque.
Papa Giovanni XXIII morì il 3 giugno 1963 e fu sepolto il 6 giugno nelle grotte vaticane,
nel posto dove ora riposa il Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II. Terminato il trattamento
conservativo seguito all’esumazione e alla ricognizione canonica, il 3 giugno 2001 l’urna di
cristallo che conteneva il corpo del Beato fu portata in Piazza San Pietro, dove Giovanni
Paolo II ha presieduto l’Eucaristia. Poi è stata collocata all’interno della Basilica Vaticana,
all’altare di San Girolamo, nella parte destra della navata centrale.
Il corpo di Padre Pio da Pietrelcina è stato, invece, sottoposto a ricognizione canonica
sulla base della Sanctorum Mater, un’istruzione della Congregazione delle Cause dei
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Santi approvata da Papa Benedetto XVI il 22 febbraio 2007 e promulgata il 17 maggio
successivo. L’articolo 2 dell’appendice prevede la necessità di «accertare che le spoglie
mortali di un Servo di Dio, la cui causa è in corso, siano autentiche» e l’utilità «di particolari
trattamenti delle medesime» per «garantire la migliore conservazione delle reliquie di un
Santo».
Anche l’eventuale traslazione del corpo di Padre Pio avverrà secondo le norme della
stessa istruzione che, al riguardo, prevede: «Per rendere le reliquie di un Beato o le
spoglie mortali di un Servo di Dio più accessibili alla devozione del popolo di Dio, può
verificarsi l’opportunità di trasferirle in maniera definitiva da un luogo ad un altro». Per
procedere a questo trasferimento «il Vescovo diocesano o eparchiale, competente per il
trasferimento delle reliquie, deve chiedere il permesso della Congregazione», dopo aver
ottenuto «le autorizzazioni richieste dal diritto civile del luogo».
Perché, allora, sarebbe opportuno traslare il corpo di Padre Pio?
Anzitutto perché c’è una chiesa a lui intitolata, come per san Francesco e per
sant’Antonio.
Poi perché la nuova cripta ha una superficie di 500 metri quadrati, quasi il doppio di
quella del Santuario.
Inoltre perché alla nuova cripta disabili, ammalati, bambini e anziani possono accedere,
evitando le scale, tramite tre ascensori o immettendosi in un’ampia rampa, di recente
impreziosita dai mosaici del gesuita padre Marko Rupnik che illustrano, in parallelo, le vite
di Francesco d’Assisi e Pio da Pietrelcina, mentre la cripta di Santa Maria delle Grazie,
oltre che con le due rampe di scale, è raggiungibile con un solo ascensore, i cui ordinari
guasti diventano una limitazione alla discesa.
La nuova cripta, infine, è divenuta uno splendore di arte che parla allo spirito con il
linguaggio della teologia, grazie ai mosaici dello stesso padre Rupnik che illustrano la vita
di Gesù.
A proposito di questi mosaici si è parlato e si è scritto molto sull’onda della
disinformazione in merito all’oro. È «una cripta tutta d’oro», è stato affermato. Peccato che
sia una notizia falsa. L’oro è solo un sottilissimo rivestimento (foglia d’oro) delle tessere di
terracotta del soffitto. Inoltre è utile sapere che questo prezioso metallo è stato usato
nell’arte sacra fin dal primo millennio per esprimere la santità, la fedeltà di Dio e la
perfezione di luce. Lo ritroviamo nei mosaici della Basilica di San Marco a Venezia, del
duomo di Santa Maria Nuova di Monreale, del duomo di Cefalù e della basilica di San
Vitale a Ravenna, e anche nelle pitture di Bellini, Tiziano e Tintoretto. E ci fermiamo
all’Italia. Sarebbe troppo lungo, infatti, l’elenco delle opere in oro dell’iconografia e
dell’architettura religiose orientali, che trovano l’espressione più alta nella basilica di Santa
Sofia a Istanbul. Padre Marko, peraltro, ha utilizzato la stessa tecnica (tessere di terracotta
rivestite da foglia d’oro) per lo sfondo della grande parete absidale (500 metri quadrati),
raffigurante l’Apocalisse di san Giovanni, realizzata per la nuova chiesa della Santissima
Trinità di Fatima, consacrata il 12 ottobre 2007 dal cardinale Segretario di Stato Tarcisio
Bertone.
Se poi riteniamo che pochi chili di oro abbiano trasformato in lussuosa una chiesa
francescanamente costruita solo con pietra locale, legno e rame, devo ricordare che il
Santuario “Santa Maria delle Grazie”, realizzato quando Padre Pio era in vita con le offerte
che gli arrivavano per il convento, ha l’interno completamente rivestito da preziosi marmi: i
pilastri sono di breccia imperiale oscura, che riveste anche le pareti; il presbiterio è in
onice del Messico, mentre la balaustra che lo recinge è in onice del Pakistan e i gradini
dell’altare maggiore sono in onice di Saint Louis; la pavimentazione è in granito di tre tipi,
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“rosa di Sardegna”, “verde Alpi”, “rosa di Svezia”. Certamente il valore commerciale di
questi marmi è ben superiore a quello di 12 o 15 chili d’oro.
Infine è opportuno evidenziare che i frati hanno agito in perfetta continuità con
l’atteggiamento di Padre Pio, sempre attento al rispetto delle intenzioni degli offerenti.
Quando era in vita raccoglieva in due fazzoletti diversi, tenuti in due tasche separate, le
offerte destinate al Convento e quelle per Casa Sollievo della Sofferenza. L’oro fuso per il
soffitto della cripta era stato donato «per Padre Pio». Pertanto destinarlo ad altri fini, anche
alla carità per i bisognosi, avrebbe comportato il tradimento della volontà degli offerenti. Lo
si poteva lasciare come è stato donato, inutilmente chiuso in un luogo sicuro, o farlo
risplendere come segno della gloria di Cristo nel luogo destinato ad accogliere il corpo del
Santo. I frati hanno scelto la seconda opzione, destinando alle loro opere assistenziali (la
mensa dei poveri a Foggia e la missione in Ciad, uno dei Paesi più poveri del mondo,
flagellato da una dilagante diffusione dell’AIDS) le offerte libere o quelle specificamente
destinate alla carità.
Stefano Campanella