Teorie Della Conoscenza (Riassunto Parziale)
Teorie Della Conoscenza (Riassunto Parziale)
Teorie Della Conoscenza (Riassunto Parziale)
PARTE PRIMA
LA NATURA DELLA CONOSCENZA
C’è una bella differenza fra credere che Gianni sia l’assassino e sapere che Gianni è l’assassino. Sembra
facile capire quale sia questa differenza, ebbene non è così e questo perché non è facile dare una buona
definizione di conoscenza.
Il primo che ha cercato di dare una risposta a tele problema fu Platone con quella che egli definisce analisi
tripartita, secondo la quale la conoscenza è una credenza vera giustificata. Se consideriamo S un qualunque
soggetto e p una qualunque proposizione, in base all’analisi tripartita S sa che p se e solo se:
1) p è vera
2) S crede che p
3) La credenza di S che p è giustificata
Le motivazioni a base di queste affermazioni sono intuitivamente condivisibili. In primo luogo non possiamo
conoscere preposizioni false. Il verbo “sapere” è un verbo fattivo; quindi se S sa che p allora è vero che p. In
secondo luogo, se sappiamo che p, allora crediamo che p: qualunque cosa sia la conoscenza, sembra avere
a che fare con una serie di condizioni che riguardano le nostre credenze. Queste due condizioni sembrano
essere necessarie per avere conoscenza, ma potrebbero non essere sufficienti. Una buona definizione di
conoscenza deve escludere che si possa avere conoscenza quando le nostre credenze vere sono ottenute
in maniere fortuita. Platone è così giunto alla conclusione che ciò che distingue la conoscenza dalla mera
credenza è la presenza di una giustificazione. Possiamo dire che la credenza di S che p è giustificata se S
possiede ragioni a supporto della sua credenza che p.
Nel 1963 in un articolo Edmund Gettier argomenta che l’analisi tripartita è errata perché le condizioni 1-3
non sono sufficienti per la conoscenza. Il suo argomento consiste nella costruzione di due controesempi alla
definizione tradizionale, nelle quali le condizioni della definizione sono soddisfatte, cioè S ha una credenza
vera e giustificata che p, ma non saremmo disposti a dire che S sa che p. Perciò la conoscenza non equivale
a credenza vera e giustificata.
Gattier fa due assunzioni sulla nozione di giustificazione. Una è il fallibilismo della giustificazione: è possibile
essere giustificati a credere che p anche se p è falsa. L’altra assunzione è la cosiddetta chiusura deduttiva
della giustificazione sotto inferenza nota. L’dea è molto semplice; se sono giustificato a credere che p, e se
sono giustificato a credere che p implica q, e se mi formo la credenza che q compiendo questa implicazione,
allora sono giustificato a credere che q.
Uno dei due esempi di Gettier è costruito sfruttando la nozione logica di disgiunzione, secondo la quale una
disgiunzione è vera se è vero almeno uno dei due disgiunti.
Es: Mario ricorda che Gianni possedeva una Ford e sa che recentemente ha avuto un passaggio da lui su
una Ford. Perciò, crede giustificatamente che
(p) Gianni possiede una Ford.
Supponiamo inoltre che Mario non sappia dov’è Pietro. Potrebbe essere a Parigi, a Barcellona on in tanti
altri posti. Mario deduce correttamente da p:
(r) Gianni possiede una Ford oppure Piero è a Barcellona.
Poiché Mario crede giustificatamente che p, crede giustificatamente anche che r, in base alla nozione logica
di disgiunzione.
Il caso vuole che sia vera:
(q) Piero è a Barcellona
soddisfa le condizione per l’analisi tripartita della conoscenza: è vera, Mario la crede, ed è giustificato a
crederla. Ma non saremmo disposti a dire che Mario sa che r. Credenza, verità, e giustificazione non sono
sufficienti per avere una conoscenza.
Un modo possibile per rispondere ai controesempi di Gettier è sostenere che alla definizione tripartita si
debba aggiungere qualche altra condizione relativa alla giustificazione. Ecco perché viene introdotta una
distinzione riguardante la natura della giustificazione, quella tra condizioni interniste ed esterniste. Chi ha
una concezione internista della giustificazione ritiene che la giustificazione sia qualcosa che ha a che vedere
con gli stati di credenza di un soggetto, o più in generale con elementi che gli sono interamente accessibili.
Chi ha una concezione esternista della giustificazione riterrà che la giustificazione sia una proprietà che la
credenza che p possiede non in virtù dello stato doxastico del soggetto, bensì in virtù di qualche relazione
presente tra la credenza che p e il mondo esterno al soggetto. Si può così distinguere tra una giustificazione
di primo livello e una di secondo livello. Parallelamente è possibile distinguere tra una conoscenza di primo
e di secondo livello: il fatto che S sa che p è diverso dal fatto che S sa di sapere che p.
MOLTE RISPOSTE A GETTIER FANNO RIFERIMENTO AD UNA CONCEZIONE INTERNISTA DELLA GIUSTIFICAZIONE.
Si è per esempio sostenuto che la credenza di S che p, per costituire conoscenza, non debba basarsi
su un’inferenza in cui occorrono credenze false. Nel caso di Gettier, Mario non sa che r perché la
sua credenza che r si basa sulla credenza falsa che Gianni possiede una Ford. Tuttavia possono
esserci casi in cui attribuiremmo a S conoscenza che p anche se non processo di giustificazione sono
coinvolte credenze false, se queste sono in qualche modo irrilevanti.
Si può allora sostenere che: una credenza non deve essere formata tramite un’inferenza in cui
occorrono credenze false rilevanti. Ma oltre al fatto che non è facile stabilire quando una credenza
falsa è rilevante, è facile trovare controesempi a questa definizione.
Es: supponiamo che Mario stia guardando un albero, ai cui piedi c’è un animale. Tramite l’osservazione,
Mario forma la credenza che p, cioè che sotto l’albero c’è un coniglio. In realtà quella che Mario sta
guardando, senza saperla distinguere da un coniglio, è una lepre. Tuttavia, a insaputa di Mario, dietro
l’albero c’è effettivamente un coniglio. Se è così la credenza di Mario che p è vera e giustificata, e non è
basata per inferenza su credenze false rilevanti, per il semplice fatto che è basata sull’osservazione diretta,
non su un’inferenza. Tuttavia non diremmo che Mario sa che p.
I soggetti di questi casi alla Gettier possiedono una giustificazione per una credenza vera che p, ma tale
giustificazione non è abbastanza robusta da garantire che la credenza costituisca una conoscenza.
Si potrebbe allora richiedere che il soggetto abbia ragioni conclusive per credere che p. Una
ragione R è una ragione conclusiva per credere che p se e solo se, se p non fosse vera, non si
darebbe il caso che R. La nozione di ragione conclusiva può portare ad una forma di infallibilismo
sulla giustificazione soprattutto se si sostiene anche che se R è una ragione conclusiva allora S non
avrebbe potuto sbagliarsi su p se crede che p sulla base di R. Inoltre sembra sempre possibile
fissare ciò che costituisce una ragione conclusiva in un dato contesto e poi formulare un caso alla
Gettier.
Es: assumiamo che una buona capacità visiva in ottime condizioni psicofisiche e ambientali fornisca ragioni
conclusive a Mario per la credenza p che davanti a lui c’è un vaso. Supponiamo che ci sia davvero un vaso
davanti a Mario, ma che quello che di fatto vede Mario è un ologramma che copre il vaso vero. Mario ha
ragioni conclusive per la credenza vera che p, ma no gli attribuiremo conoscenza. Se Mario sapesse, o
almeno credesse, che q, e cioè che qualcuno sta proiettando un ologramma, non crederebbe che p. In
questo caso la credenza che q sconfiggerebbe la giustificazione di Mario per p.
Si può allora sostenere che affinché una credenza vera giustificata sia conoscenza non ci devono
essere proposizioni q, dette defeater, tali che se venissero aggiunte al corpo delle credenze di S, S
vedrebbe sconfitta la sua giustificazione per p. Anche questa posizione ha i suoi controesempi; non
è infatti chiaro se vi possa mai essere un caso in cui la sequenza dei possibile defeater si ferma e
stabilire dunque cosa possa costituire conoscenza.
NATULARISMO DI QUINE:
una forma radicale di naturalismo è stata formulata da Quine; egli propone di rimpiazzare l’indagine
normativa dell’epistemologia tradizionale con un’indagine psicologica di tipo descrittivo. L’epistemologia
naturalizzata di Quine non si preoccupa di stabilire norme epistemiche, si limita a studiare descrittivamente
il processo di tipo causale che porta dalla stimolazione sensoriale alla formulazione di credenze. Essa
coinvolge essenzialmente nell’indagine epistemologica la nozione di causa.
NATURALISMO DI GOLDMAN:
una forma più moderata di naturalismo che coinvolge anch’essa la nozione di causa, viene avanzata da
Goldman sviluppata nella forma di una teoria causale della conoscenza. Goldman adotta una posizione
esternista secondo cui ciò che conta per avere conoscenza non ha a che vedere con le ragioni di un
soggetto cognitivo, ma con una qualche relazione tra le sue credenze e il mondo.
S sa che p se e solo se la credenza di S che p si trova in un’appropriata relazione causale con il fatto
che p.
Goldman sostiene che non si debba aggiungere una quarta condizione alla concezione tripartita di
conoscenza, ma anzi che si debba eliminare la condizione di giustificazione: per avere conoscenza è
sufficiente avere una credenza vera, a patto che questa stia nell’appropriata relazione causale con il fatto
che descrive. In realtà Goldman sta negando che a essere rilevante per la conoscenza sia la giustificazione
intesa in senso internista, essa dovrebbe essere intesa secondo la concezione esternista e affidabilista, così
intesa la giustificazione si rivela necessaria per la conoscenza e aiuta a risolvere numerosi casi alla Gettier.
Per quanto riguarda la conoscenza è chiaro che Gettier rifiuta il principio per cui una conoscenza di primo
livello implica una conoscenza di secondo livello. Affinché un soggetto S sappia che p, infatti, non è richiesto
che egli sia in grado di stabilire che si dà un’appropriata connessione causale tra la sua credenza che p e il
fatto che p: è sufficiente che tale connessione si dia. S può sapere che p senza sapere di sapere che p. Lo
stesso vale per la giustificazione, con la differenza che egli non propone di rimpiazzare l’epistemologia
normativa con un’indagine descrittiva. Il suo scopo è piuttosto quello di individuare condizione fattuali che
possano stabilire quando un’adeguata nozione normativa di giustificazione si applica.
Anche la teoria causale può cadere preda di controesempi. Supponiamo che Henry veda una serie di fienili
in un campo. Concentrandosi su un fienile in particolare, si forma la credenza “davanti a me c’è un fienile”.
Supponiamo però che, a sua insaputa, nel campo in questione si stia girando un film, e che quasi tutti quelli
che egli vede sono fienili di cartapesta indistinguibili da fienili veri. Se Henry, quando si forma la credenza,
sta guardando l’unico fienile vero nel campo, le condizioni della teoria causale sono soddisfatte. Tuttavia,
molti non attribuirebbero conoscenza a Henry. Ancora una volta bisogna evitare che le nostre credenze
vere siano tali solo fortuitamente. Goldman suggerisce allora che alla teoria causale debba aggiungersi
un’ulteriore condizione: affinché S sappia che p, oltre ad avere una credenza vera che p casualmente
connessa al fatto che p, S deve essere in grado di discriminare le alternative rilevanti a quella in cui p è vera.
La teoria delle alternative rilevanti afferma che si possono considerare conoscenze solo credenze vere
sulle quali un soggetto non potrebbe troppo facilmente sbagliare.
TEORIA DI NOZICK:
l’intuizione alla base della teoria delle alternative rilevanti, è ripresa anche da altre teorie esterniste di tipo
non causale, come la teoria condizionale di Nozick in base alla quale:
per poter attribuire a S conoscenza che p, S deve in qualche modo tenere traccia della verità di p.
Questo può essere espresso tramite due condizioni presentate da Nozick, che hanno la forma di
condizionali congiuntivi, cioè asserti della forma “se… allora…” in cui il verbo principale dell’antecedente è
al modo congiuntivo. La categoria dei condizionali è molto ampia, per stabilire dunque se tali condizionali
sono veri o falsi possiamo servirci dei cosiddetti mondi possibili: possiamo intendere un mondo possibile
come un insieme di proposizioni che descrivono un modo in cui la realtà avrebbe potuto essere. Possiamo
individuare un certo mondo come il mondo attuale, quello a partire dal quale valutiamo i condizionali. Dato
un certo mondo possibile, i mondi vicini sono quelli in cui ci sono meno cambiamenti, quelli più lontani
sono quelli che richiedono molti cambiamenti. Un condizionale congiuntivo è vero se in tutti i mondi
possibili vicini al modo attuale in cui è vero l’antecedente è vero anche il conseguente.
Nozick formula dunque due condizioni ulteriori per la conoscenza che vadano insieme a:
(1) p è vera
(2) S crede che p
Queste condizioni devono essere “necessarie” per la conoscenza, cosicché ogni caso che non riesca a
soddisfarle non sarà un esempio di conoscenza; e “congiuntamente sufficienti” per la conoscenza, cosicché
ogni caso che le soddisfa tutte sarà un caso di conoscenza.
La prima condizione formulata da Nozick, che prende il nome di sensibilità è:
Es: Nel mio ufficio ci sono altre due persone, e io sulla base di molte evidenze sono giustificato a credere
che la prima possieda una macchina Ford; sebbene costui ora non la possieda, la seconda persona che per
me è un estraneo, ne possiede una. Io crede veridicamente e giustificatamente che qualcuno nel mio ufficio
possiede una Ford, indipendentemente da chi, ma non so che qualcuno la possiede. Gettier ne concludeva
che la conoscenza non è semplicemente una conoscenza vera giustificata. Se noi applichiamo la condizione
3 di Nozick a questo caso alla Gettier, ci accorgiamo che questo non viene soddisfatto:
se nel mio ufficio nessuno possedesse una macchina Ford, io non crederei che qualcuno la possieda. La
situazione che si verificherebbe se nessuno nel mio ufficio possedesse una Ford è una in cui l’estraneo non
la possiede o non è nell’ufficio; e in quella situazione io tuttavia continuerei a credere che qualcuno nel mio
ufficio, cioè la prima persona, possiede una Ford. Quindi la condizione congiuntiva 3 esclude che questo
caso alla Gettier sia un caso di conoscenza.
Nonostante la forza intuitiva della condizione 3 , questa non esclude tutti i casi problematici. Rimane, per
esempio, il caso della persona nel serbatoio che, attraverso una stimolazione diretta elettrica del cervello, è
portata a credere che è nel serbatoio; costui non sa che questo è vero, sebbene la condizione congiuntiva
sia soddisfatta: se egli non stesse galleggiando nel serbatoio, non crederebbe di farlo. La persona nel
serbatoio non sa di essere lì, perché la sua credenza non è sensibile alla verità. Gli operatori del serbatoio
potrebbero aver prodotto qualsiasi credenza, inclusa la falsa credenza di non essere nel serbatoio: se
l’avessero fatto, egli l’avrebbe creduto.
Tale problema nasce dal fatto che la sensibilità specificata dal tale condizionale ci racconta solo metà della
storia riguardo al modo in cui la sua credenza è sensibile al valore della verità di p. Ci dice infatti quale
sarebbe il suo stato di credenza se p fosse falsa, ma non ci dice quale sarebbe se p fosse vera.
Certamente le condizione 1 e 2 ci dicono che p è vera e che egli la crede, ma da ciò non segue che il suo
credere che p sia sensibile all’essere vera di p. Questa sensibilità ci viene data da un ulteriore condizionale
congiuntivo introdotto da Nozick importate per eliminare casi di errata attribuzione di conoscenza che
hanno a che vedere con il problema scettico:
Tale condizione dice qualcosa in più rispetto alle condizione 1 e 2; non solo p è vera e S la crede, ma se
fosse vera S la crederebbe.
Tale condizione ci permette di risolvere il caso della persona nel serbatoio. Questo caso infatti non soddisfa
la condizione 4. Immaginiamo che sia attuale un mondo in cui essa è nel serbatoio ed è stimolata a credere
di esserlo, e si consideri in quali condizionali congiuntivi sono veri in quel mondo. Non è vero di lei, lì, che se
essa fosse nel serbatoio crederebbe di esserlo; questo perché nel mondo vicino al suo in cui è nel serbatoio
ma non le danno la credenza di esserlo o ancor meno gli instillano la credenza di non esserlo, essa non
crede di essere nel serbatoio. Della persona attualmente nel serbatoio e che crede di esserlo, non è vero
l’asserto ulteriore che se fosse nel serbatoio lo crederebbe – dunque essa non sa di essere nel serbatoio.
Una persona sa che p quando non solo la crede veridicamente, ma la crederebbe veridicamente e non la
crederebbe falsamente. Tale persona non ha una credenza vera solo attualmente ma anche
congiuntivamente. Di una persona che crede che p quando è vera, diciamo che, quando valgono la 3 e 4, la
sua credenza tiene traccia della verità di p. Conoscere significa avere una credenza che tiene traccia della
verità.
Tuttavia vi sono dei casi in cui le condizione 3 e 4 escluderebbero che il soggetto conosca realmente
l’evento avvenuto. Ciò dipende soprattutto dal modo o metodo attraverso il quale il soggetto ha acquisito
una determinata credenza.
Es: Supponiamo che a una persona sia solo capitato di vedere un certo evento o di imbattersi,
semplicemente, in un libro che lo descrive. Costui sa che tale evento è avvenuto. Ma, se non gli fosse
capitato di dare un’occhiata in quel modo o di imbattersi nel libro, egli non lo crederebbe, anche se è
accaduto. Così com’è formulata, la quarta condizione escluderebbe che questo sia un caso in cui costui sa
realmente che l’evento è avvenuto. Nozick aggiunge dunque che bisogna riformare le condizioni per
rendere conto esplicitamente dei modi con cui si arriva alla credenza.
Introduciamo dunque una nuova espressione tecnica: S sa che p attraverso il metodo (o modo di credere)
M. Riformuleremo dunque le quattro condizioni come segue:
(1) p è vera
(2) S crede, attraverso il metodo o modo di arrivare a credere M, che p
(3) Se p non fosse vera e S usasse M per arrivare a credere (o non credere) che p, allora S non
crederebbe, attraverso M, che p
(4) Se p fosse vera e S usasse M per arrivare a credere ( o non credere) che p, allora S crederebbe,
attraverso M, che p.
Colleghiamo dunque questa espressione tecnica alla nostra nozione di conoscenza; se un unico metodo M è
attualmente o congiuntivamente rilevante per la credenza di S che p, allora semplicemente S sa che p se e
solo se quel metodo M è tale che S sa che p attraverso M. Alcune situazione, tuttavia, coinvolgono metodi
multipli.
Prima situazione: la credenza di S che p è stata introdotta o rafforzata da due metodi, ciascuno dei
quali preso singolarmente sarebbe stato sufficiente a produrre in S la credenza che p. La credenza
di S che p attraverso uno di questi metodi soddisfa le condizione 1-4. Tuttavia la credenza di S che p
attraverso il secondo metodo non soddisfa le condizioni 1-4, e in particolare viola la condizione 3.
Un padre crede che suo figlio sia innocente rispetto ad un determinato crimine, sia perché ripone fiducia in
lui, sia perché ha assistito alla presentazione in tribunale di una prova conclusiva dell’innocenza del figlio.
Supponiamo che la sua credenza attraverso la prova in tribunale soddisfi le condizione 1-4, ma che la sua
credenza basata sulla fiducia non le soddisfi. Se suo figlio fosse colpevole, egli continuerebbe a crederlo
innocente, sulla base della fiducia che ripone in lui, Quindi la sua credenza che p, ovvero che il figlio è
innocente, attraverso la fiducia nel figlio viola la condizione 3. Per quanto riguarda la sola credenza che p, a
prescindere dal metodo usato, essa viola la terza condizione (cioè se p fosse falsa, S non la crederebbe), la
quale non fa menzione del metodo.
Seconda situazione: la credenza di S che p attraverso un certo metodo soddisfa le condizione 1-4.
Tuttavia, se p fosse falsa, S non userebbe quel metodo per arrivare a una credenza sul valore di
verità di p. Invece, userebbe un altro metodo, decidendo nonostante la falsità di p, che p è vera. La
credenza attuale di S che p non è in alcun modo basata sull’uso di questo secondo metodo, ma se p
fosse falsa egli crederebbe che p attraverso il secondo metodo. Il valore di verità di p influisce sul
metodo usato da S per decidere se p è vera.
S crede che un certo edificio sia un teatro e una sala concerti, avendo assistito a spettacoli e concerti in esso
(primo metodo). Tuttavia, se l’edificio non fosse un teatro, avrebbe ospitato un reattore nucleare che
avrebbe alterato l’aria circostante cosicché chiunque avvicinandosi al teatro sarebbe stato colto da nausea
e avrebbe abbandonato il tentativo di comperare un biglietto. La storia di copertura del governo sarebbe
stata che l’edificio era un teatro, una storia di copertura che si sapeva sarebbe stata sicura e tutti avrebbero
creduto a questa storia non potendosi avvicinare all’edificio. S crede che l’edificio sia un teatro perché ha
assistito a concerti e spettacoli al suo interno. Egli non crede che sia un teatro attraverso il secondo metodo
del leggere la storia di copertura del governo. Però se quello non fosse un teatro, sarebbe un reattore
nucleare, e ci sarebbero tali storie di copertura, e S crederebbe ancora che l’edificio è un teatro.
Ciononostante S, che ha realmente assistito a degli spettacoli sa che quello è un teatro.
a) Se si sostiene che una persona sa che p se esiste almeno un metodo M che soddisfa le condizioni 1-
4, attraverso il quale egli crede che p, allora si giudica che il padre sa che suo figlio è innocente.
b) Al contrario appare, appare troppo rigida la richiesta che le condizioni 1-4 siano soddisfatte da tutti
i metodi, inclusi quei metodi che non sono stati davvero usati ma che lo sarebbero in altre
circostanze; la persona che ha assistito a concerti e opere teatrali sa che l’edificio è un teatro.
c) E’ più ragionevole sostenere che il soggetto sa che p se tutti i metodi attraverso cui egli
attualmente crede che p soddisfano le condizioni 1-4.
Ma supponiamo che il nostro frequentatore del teatro creda solo in parte che quello è un teatro perché i
funzionari governativi prima di decidere a quale uso avrebbero destinato l’edificio annunciarono che
stavano costruendo un teatro. Non serve che tutti i metodi soddisfino le condizioni 1-4, ma abbiamo già
visto che la posizione più debole, secondo cui è sufficiente che ne soddisfi uno solo di essi, gestisce male il
caso del padre.
Sebbene a dargli la conoscenza che p sia il metodo della prova in tribunale, per il padre questo metodo è
superato dalla fiducia. Come primo tentativo di delineare questo superamento, potremmo dire che: il
metodo M è superato da altri metodi se quando M porterebbe la persona a credere che p, la persona crede
che non-p se gli altri metodi porterebbero alla credenza che non-p; o quando M porterebbe la persona a
credere che non-p, la persona crede che p se gli altri metodi porterebbero alla credenza che p. Questo ci
porta a proporre la seguente posizione:
S sa che p se c’è qualche metodo attraverso cui S crede che p che soddisfa le condizioni 1-4, e quel
metodo non è superato da nessun altro metodo attraverso cui S attualmente crede che p che non riesca a
soddisfare le condizioni 3 e 4. Tuttavia in base a questa posizione, in alcuni casi una persona ha conoscenza
anche quando attualmente crede attraverso un metodo M1 che non soddisfa 1-4, ammesso che esso sia
superato da un metodo che le soddisfa. Dovremmo allora dire che:
S sa che p se e solo se c’è un metodo M tale che (a) egli sa che p attraverso M, la sua credenza, attraverso
M, che p soddisfa le condizioni 1-4, e (b) tutti gli altri metodi M1 attraverso i quali egli crede che p e che
non soddisfano le condizioni 1-4 sono superati da M.
Possiamo valutare se questa ha raggiunto il suo obbiettivo, colpendo il bersaglio, valutare dunque
quanto accurata sia come scoccata
Se è competente, ovvero se manifesta abilità da parte dell’arciere
Tuttavia una scoccata può essere sia accurata sia competente senza che il suo successo sia
attribuibile al suo autore. Consideriamo una scoccata che in condizioni normali avrebbe colpito il
bersaglio. Il vento potrebbe essere eccezionalmente forte da far deviare la freccia lontano dal
bersaglio. Tuttavia, l’instabilità del vento finisce poi per guidarla gradualmente al centro del
bersaglio. La scoccata è quindi accurata e competente, ma non è accurata in quando competente,
ovvero non è appropriata e non è accreditabile all’arciere.
La scoccata di un arciere è quindi una prestazione che può essere valutata secondo la struttura AAA:
ACCURATEZZA (accuracy), COMPETENZA (adroitness), APPROPIATEZZA (aptness). Possono avere tale
strutture le prestazioni in generale , almeno quelle che hanno uno scopo, anche se questo non è
intenzionale.
Anche le credenze rientrano nella struttura AAA e possono quindi contare come prestazioni. Possiamo
infatti distinguere fra:
Accuratezza: la verità di una credenza
Competenza: il suo manifestare virtù o competenza epistemica
Appropriatezza: il suo essere vera in quanto competente
A queste idee centrali per l’epistemologia delle virtù è entrata a far parte anche quella della sicurezza di
una credenza. Una prestazione è sicura se e solo se essa non avrebbe potuto facilmente fallire essendo
falsa. Una credenza che p è sicura ammesso che essa sarebbe stata posseduta solo se p.
Non dipende dalla sensibilità: esse non si contrappongono. Una credenza può essere sicura senza essere
sensibile. Gli esempi sono forniti da scenari scettici radicali, cioè scenari che non si materializzerebbero
facilmente.
Es: consideriamo la credenza di qualcuno che egli non è un cervello in una vasca ingannato da evidenza
sensoriale fuorviante in maniera tale da credere di esserlo. Tale credenza non è sensibile ma è sicura e
questo perché non potrebbe essere falsa tanto facilmente.
Questa difesa contro lo scetticismo radicale è facilmente bloccata da credenze che sembrano non essere
sicure ma tuttavia ammontare a conoscenza.
Es: vengo colpito con forza e patisco un dolore straziante, forse, credendo su questa base di provare dolore.
Ma potrei facilmente aver patito solamente un debole colpo di striscio, e aver sperimentato solo un
malessere, pur continuando a credere che io provi dolore. Ciò potrebbe dipendere da una predisposizione o
da un’ipocondria. Cionondimeno, di certo io so che provo dolore quando il dolore è straziante, anche se la
mia credenza non è sicura perché troppo facilmente potrei aver creduto questo in presenza di un malessere
che non era veramente dolore.
Ciò che la conoscenza richiede non è una sicurezza completa, ma una sicurezza relativa alle basi. Quando
la tua credenza che stai provando dolore si basa sul tuo dolore straziante, essa soddisfa questo requisito:
tale credenza non avrebbe avuto così facilmente questa base a meno di non essere vera, avrebbe avuto
questa base solo se vera. E le cose stanno così nonostante il suo essere non completamente sicura, dato
che troppo facilmente potresti aver creduto di provare dolore quando invece soffrivi solo di un malessere e
non di un dolore. Quindi:
una credenza che p è sicura relativamente alla base se e solo se ha una base che essa avrebbe solo
se vera.
una credenza che p è sensibile relativamente alla base se e solo se essa è basato su una base tale
che se p fosse false, allora il soggetto crederebbe facilmente che p su quella stessa base.
Riguardo ad alcune credenze epistemologicamente cruciali, lo scettico radicale sostiene che esse non hanno
nessuna base che non avrebbero se fossero false; se tu venissi ingannato sulla base di un esperienza
radicalmente fuorviante, per esempio, continueresti a credere di non essere ingannato in tal modo, senza
bisogno che vi siano le basi che hai ora per quella credenza e che in tal caso perderesti. Ragionando in
questo modo lo scettico ci limita a basi che sono interne e psicologiche. Sosa decide invece di esplorare una
diversa linea di difesa, un’epistemologia delle virtù che sia compatibile con l’esternismo del contenuto o
della base. Tale linea di difesa:
1. rifiuta il requisito scettico della sensibilità completa e della sensibilità relativa alla base
2. evidenzia il vantaggio intuitivo dei requisiti di sicurezza rispetto a quelli di sensibilità
3. suggerisce che la plausibilità dei requisiti di sensibilità derivi dai corrispondenti requisiti di
sicurezza
4. conclude che lo scettico non confuta il senso comune, né individua un paradosso al suo
interno, dato che per il senso comune siamo vincolati al massimo alla sicurezza relativa alle
basi e non alla sensibilità relativa alle basi.
Sebbene sia plausibile contro gli scenari scettici radicali, questa difesa non raggiunge lo scopo contro lo
scenario scettico tradizionale che non dipende da possibilità remote, vale a dire lo scenario del sogno.
Ciò che i sogni rendono vulnerabile è o la competenza percettiva di colui che crede, o l’adeguata normalità
delle condizioni del suo esercizio (collegate entrambe alla sicurezza). Ci si rifà a due esempi:
a) l’esempio dell’arciere dove esso potrebbe aver ingerito un droga cosicché nel momento in cui ha
scoccato la freccia il contenuto di droga nel suo sangue potrebbe essere stato più elevato così da
ridurre la sua competenza al punto che avrebbe mancato il bersaglio; oppure potrebbe essersi
combinato un singolare insieme di condizioni meteorologiche in modo tale che troppo facilmente
una folata avrebbe potuto far deviare la freccia lungo il percorso verso il bersaglio.
b) l’esempio dell’angelo protettore che con una macchina del vento potrebbe, per esempio, assicurare
che la scoccata dell’arciere colpirà il centro del bersaglio. La folata causata dalla macchina
dell’angelo potrebbe compensare una folata naturale che aveva inizialmente deviato la freccia.
La prima prestazione è non sicura ma appropriata, la seconda sicura senza essere appropriata. In
conclusione né l’appropriatezza, né la sicurezza si implicano l’un l’altra.
L’esperienza del sognatore potrebbe essere frammentaria e indistinta, cosicché la sua base sensoriale
potrebbe non essere proprio la stessa di quella di un soggetto percipiente normale. Si ricordi Austin sulla
qualità “dreamlike” dei sogni e l’idea di Cartesio che i sogni sono insufficientemente coerenti.
Dormire può rendere le condizioni di qualcuno anormali e inadeguate all’esercizio delle facoltà percettive.
La possibilità vicina che qualcuno sia ora addormentato e stia sognando potrebbe, quindi, rendere fragili sia
la sua competenza sia, assieme o alternativamente, le condizioni adeguate per il suo esercizio. Questo è
però solo un ulteriore caso in cui la sicurezza è compromessa mentre l’appropriatezza rimane intatta. Le
credenze percettive ordinarie possono quindi mantenere il loro status di conoscenza animale appropriata
nonostante la possibilità di essere addormentati e di star sognando.
Per quanto non sicura possa essere la competenza di un esecutore e per quanto non sicure possano essere
le condizioni adeguate per il suo esercizio , se una prestazione riesce ad avere un successo tramite
l’esercizio di quella competenza nelle sue condizioni adeguate, allora essa è una prestazione appropriata,
una prestazione attribuibile all’esecutore.
Per quanto intuitivamente plausibile questo possa sembrare, incontriamo ben presto un problema con
l’esempio del burlone:
Consideriamo una superficie che sembra rossa in condizioni apparentemente normali. Si tratta però di una
superficie caleidoscopica controllata da un burlone che controlla anche la luce ambientale, e che potrebbe
averti presentato la combinazione luce-rossa + superficie-bianca tanto facilmente quanto la combinazione
attuale luce-bianca + superficie-rossa. Sappiamo noi allora che la superficie che abbiamo visto è rossa
quando ci viene presentata con la combinazione buona, nonostante il fatto che, ancora più facilmente, egli
avrebbe potuto presentarci la combinazione cattiva? Presumibilmente la nostra credenza che la superficie
sia rossa è una credenza appropriata, e in questo caso ammonta a conoscenza, o perlomeno lo fa secondo
la nostra teoria. Infatti, noi esercitiamo la nostra facoltà di visione del colore in condizioni generalmente
adeguate. Tuttavia non è facile insistere sul fatto che noi sappiamo che la superficie è rossa.
Se fossimo forzati a ritrarre su questa linea la nostra soluzione al problema del sogno risulterebbe
incompleta. Infatti non potremmo più affermare che nonostante la vicinanza della possibilità del sogno, le
credenze percettive sono nondimeno appropriate e quindi conoscenze. Potrebbero essere ancora
appropriate, ma non sarebbe più chiaro se siano conoscenze. Naturalmente potremmo tornare al modello
dell’immaginazione ma la nostra soluzione diretta attraverso un’epistemologia delle virtù sarebbe allora
vanificata.
Sosa spinge allora sulla distinzione fra i due tipi di conoscenza quella animale e quella riflessiva. La
componente chiave della distinzione è la differenza fra credenza appropriata simpliciter e credenza
appropriata appropriatamente notata.
Tale distinzione viene impiegata per l’esempio del caleidoscopio. In esso si direbbe che il soggetto
percipiente abbia una credenza appropriata e conoscenza animale che la superficie è rossa. Ciò che gli
manca è la conoscenza riflessiva, giacché essa richiede la credenza appropriata che egli crede
appropriatamente che la superficie sia rossa. Ma perché dovrebbe essere meno plausibile pensare che egli
crede appropriatamente di credere appropriatamente? Quale competenza potrebbe esercitare nel credere
che egli crede appropriatamente?
Per esempio, qual è la competenza che esercitiamo nel ritenere che l’illuminazione sia normale quando ci
fidiamo della nostra visione del colore in casi ordinari? Sembra che si tratti di una specie di competenza di
default, attraverso la quale automaticamente si considera normale l’illuminazione in assenza di qualche
indicazione speciale per il contrario. E questo è quello cha fa il soggetto percipiente nel caso del
caleidoscopio, in assenza di qualche indicazione della presenza di un burlone che controlla la situazione.
Possiamo quindi suppore che egli mantenga integra quella competenza e che egli la eserciti dando per
scontata l’appropriatezza della luce ambientale, cosicché egli possa appropriatamente considerare la
superficie rossa. Poiché la credenza che egli crede appropriatamente è una credenza vera, e poiché essa è
dovuta all’esercizio di una competenza, come possiamo allora suppore che non sia essa stessa una
credenza appropriata? Si ricordi che il requisito per credere appropriatamente è non solo che la credenza
di qualcuno sia vera e derivi da una competenza, ma che si creda piuttosto correttamente attraverso
l’esercizio di una competenza nelle sue condizioni adeguate. Ciò che si deve attribuire alla competenza
non è solo l’esistenza della credenza, ma la sua correttezza.
Introduciamo dunque il principio
C. per ogni credenza corretta che p, la correttezza di quella credenza è attribuibile a una competenza solo
se essa deriva dall’esercizio di quella competenza in condizioni adeguate al suo esercizio, e quell’esercizio in
quelle condizioni non avrebbe portato troppo facilmente a una falsa credenza
A partire da C, il nostro credere di essere nel giusto quando crediamo di non vedere un muro illuminato
sapientemente non è attribuibile a competenza di default, poiché la competenza che esercitiamo, a causa
della vicinanza del caso del burlone, potrebbe portarci troppo facilmente sulla cattiva strada. Questo spiega
perché il soggetto percipiente non ha conoscenza riflessiva del colore di quella superficie.
Se il problema dei sogni è analogo al problema del caleidoscopio, allora, sebbene possiamo difendere le
nostre credenze percettive come appropriate, dobbiamo concedere allo scettico del sogno che esse non
sono difendibili riflessivamente. Possiamo difendere le nostre credenze percettive come casi di conoscenza
animale, ma dobbiamo abbandonare qualsiasi rivendicazione relativa allo status più elevato di conoscenza
riflessiva.
Sosa dunque inizialmente propone un modello dei sogni basato sull’immaginazione come modo di
bloccare la conclusione scettica che i sogni mettono a rischio le nostre credenze percettive
ordinarie.
Successivamente propone un’epistemologia delle virtù che distingue fra appropriatezza e sicurezza
di un prestazione in generale, e in particolare della credenza, che permette un’ulteriore soluzione
del problema dei sogni al di là del modello dell’immaginazione. Secondo questa soluzione, i sogni
precludono la sicurezza delle nostre credenze percettive, ma non la loro appropriatezza, che è tutto
ciò di cui esse hanno bisogno per poter costituire una conoscenza animale.
In conclusione: la minaccia derivante dai sogni è che essi sembrano rendere non sicure le nostre credenze
percettive ordinarie, precludendo la sicurezza delle nostre credenze percettive ma non la loro
appropriatezza, che è tutto ciò di cui esse hanno bisogno per costituire conoscenza animale. La conoscenza
è prestazione appropriata per quanto riguarda la credenza. Anche assumendo che abbiamo credenze
percettive nei sogni, queste non sono credenze appropriate, poiché anche se e quando esse colpiscono il
bersaglio della verità, non lo fanno in maniera attribuibile alla competenza del soggetto che crede. Ma
questo non intacca l’appropriatezza delle nostre credenze percettive da svegli. La nostra soluzione è che le
credenze possono essere vere e giustificate senza essere appropriate, laddove per costituire conoscenza
dovrebbero essere appropriate, non solo vere e giustificate: ciò risolve i casi Gettier.
Fino ad ora abbiamo notato che spesso la conoscenza è, alla sua radice, una credenza che è vera non
fortuitamente ne accidentalmente e l’idea di fondo è che quando proviamo ad analizzare la nozione di
conoscenza ciò che cerchiamo è quella condizione in grado di assicurarci che se la nostra credenza è un
caso di conoscenza, allora non è soggetta in alcun modo alla fortuna. Inizialmente si è pensato che una
condizione di giustificazione , di qualche genere, potesse bastare per ottenere questo scopo, dato che la
differenza tra una credenza vera giustificata e una mera credenza vera sembra proprio essere che la
giustificazione genuina elimina la possibilità che una credenza vera sia vera solo accidentalmente. Come è
noto, tuttavia, i casi alla Gettier hanno dimostrato che la giustificazione non basta per ottenere questo
scopo e hanno dato il via alla discussione alla discussione su un’intera gamma di nuovi potenziali modi di
definire la conoscenza. A questo proposito una sottoclasse di proposte, in particolare le teorie basate sulla
sensibilità e quelle basate sulla sicurezza, si è occupata di formulare una condizione modale per la
conoscenza che catturasse questo requisito anti-fortuna. Una delle motivazioni chiave di tali proposte è
connessa alla loro apparente abilità nell’affrontare il problema scettico relativo alla nostra conoscenza di
fatti contingenti relativi al mondo esterno.
Sostanzialmente ciò che la condizione di sensibilità assicura è che non si possa acquisire una
conoscenza semplicemente acquisendo accidentalmente una credenza vera.
b. un’altra motivazione cruciale per le teorie della conoscenza basate sulla sensibilità è che
esse sono in grado di spiegare perché non abbiamo conoscenza nel cosiddetto caso della
lotteria. Sebbene sia superficialmente simile ai casi alla Gettier in quanto riguarda una
credenza vera che intuitivamente non è un caso di conoscenza, il problema posto da questo
esempio è piuttosto differente. Infatti diversamente dai casi alla Gettier, questa non è una
situazione in cui l’agente ha apparentemente soddisfatto le condizioni per la conoscenza
attraverso una combinazione fortuita di fortuna epistemica che controbilancia la sfortuna
epistemica. Al contrario, il modo in cui l’agente forma la propria credenza nell’esempio
della lotteria è in effetti molto affidabile, almeno in un senso del termine, visto che
normalmente consentirà all’agente di formarsi una credenza vera. La difficoltà posta
dall’esempio della lotteria è quindi di spiegare perché , intuitivamente, l’agente non ha
conoscenza in questo caso, sebbene si sia formato una credenza vera giustificata,
attraverso un metodo altamente affidabile. Il caso della lotteria appare indicare che la
conoscenza non è una funzione della forza dell’evidenza di cui si è in possesso, laddove la
forza sia misurata in termini probabilistici. Al contrario, sembra che a volte l’evidenza di un
certo tipo possa essere sufficiente per la conoscenza, anche se un evidenza più forte
potrebbe non essere sufficiente.
c. la motivazione principale per le teorie della conoscenza basate sulla sensibilità è che esse
sembrano offrire una soluzione molto chiara ad almeno una forma del problema scettico.
Possiamo rappresentare questa forma di scetticismo nei termini di due premesse e una
conclusione. La prima premessa afferma che noi siamo incapaci di conoscere le negazioni
delle ipotesi scettiche. La seconda premessa afferma che se si è incapaci di conoscere
questo, allora non si conosce alcuna proposizione “ordinaria” che si sappia essere
incoerente con le ipotesi scettiche pertinenti, dove per proposizione ordinaria si intende il
genere di proposizione che noi tutti diremmo di conoscere in circostanze normali. Con
queste due premesse lo scettico conclude che non si conosce alcuna proposizione
ordinaria. Entrambe le premesse in questo argomento sono intuitive. La prima perché le
ipotesi scettiche sono definite in modo tale che non c’è nulla nell’esperienza immediata che
possa indicare che non si sia vittime di tale scenario. La seconda può essere resa intuitiva se
si pensa che essa si appoggia sul principio di chiusura della conoscenza ( se uno conosce
una proposizione, e sa che questa proposizione ne implica una seconda, allora egli conosce
la seconda proposizione). I teorici degli approcci basati sulla sensibilità non hanno problemi
con la prima premessa dell’argomento scettico; essi sostengono di avere una spiegazione
molto buona del perché siamo incapaci di conoscere le negazioni delle ipotesi scettiche, ed
è che le credenze pertinenti a questo proposito saranno inevitabilmente non-sensibili (caso
del cervello in una vasca). La premessa problematica nell’argomento scettico è la seconda; i
difensori della sensibilità, sostengono esplicitamente che il principio di chiusura debba
essere rifiutato e che la soluzione del problema scettico stia proprio in tale rifiuto.
Tale esempio riguarda un agente che possiede un modo altamente affidabile per distinguere tra pulcini
maschi e femmine, ma che non è consapevole di quanto egli è affidabile e che, inoltre, ha delle credenze
false circa il modo in cui opera questa distinzione. Tipicamente, gli internisti negano che questo agente
abbia una conoscenza, sulla base della sua mancanza di buone ragioni accessibili a supporto della sua
conoscenza. Al contrario, gli esternisti solitamente acconsentono a dire che questo agente ha la conoscenza
in virtù del modo in cui l’agente considerato ha realmente l’abilità in questione.
Consideriamo ora la credenza vera del sessatore di aver afferrato due pulcini di sesso diverso. Nel mondo
possibile più vicino in cui ciò che egli crede non è più vero, egli smetterà di credere nella proposizione in
questione, e crederà invece di aver afferrato pulcini dello stesso sesso. La sua abilità altamente affidabile di
attribuire il sesso ai pulcini, quindi, è sufficiente per soddisfare la condizione di sensibilità per la
conoscenza, anche se egli non ha delle buone ragioni accessibili alla riflessione che l’internista richiede.
Se non si hanno problemi ad abbracciare l’esternimo, allora non è ovvia la ragione per cui si dovrebbe
accettare che il tratto definitorio di un metodo debba essere qualcosa di accessibile riflessivamente, vale a
dire la natura delle proprie esperienze. Perché il metodo di qualcuno non può essere determinato da fatti
che non gli sono riflessivamente accessibili?
Pensiamo di nuovo al sessatore di pulcini. Non si oltrepassano di certo i confini della plausibilità se si
suppone che non c’è bisogno di una differenza esperenziale tra il sessatore che esercita la sua genuina
abilità di determinare il sesso dei pulcini e qualcuno che non ha questa abilità ma semplicemente suppone
di averla.
Stando alla concezione dei metodi di Nozick l’identità delle esperienze implicherebbe l’identità del metodo;
e questo sembra andare contro l’intuizione ispiratrice dell’esternismo.
Il sessatore di pulcini conosce, secondo l’approccio esternista, in quanto di fatto esercita un’abilità cognitiva
altamente affidabile, anche se non ha buone ragioni riflessivamente accessibili a favore della credenza così
formata. Al contrario, qualcuno che semplicemente creda di avere un’abilità altamente affidabile, pur
avendo la medesima esperienza del vero sessatore, non avrebbe conoscenza.
La spiegazione dei metodi di Nozick sembra non essere in grado di permettergli di fare questa centrale
distinzione esternista.
S ha una credenza sicura in p se nella maggior parte dei mondi vicini in cui S crede che p, p è vera.
Come per il principio di sensibilità, anche per consentire alla sicurezza di affrontare potenziali
controesempi sarà richiesta una qualche relativizzazione ai metodi. Inoltre, come per il principio di
sensibilità, la condizione di sicurezza intende catturare la nostra intuizione secondo cui la
conoscenza è una credenza vera non fortuitamente, a partire da un’interpretazione di tale
intuizione secondo cui le credenze vere, per contare come conoscenze, dovrebbero essere sicure
nel senso che non avrebbero potuto essere false tanto facilmente. La sicurezza può quindi spiegare
la nostra conoscenza in casi come quello della spazzatura, ma soprattutto la sicurezza può essere
utilizzata per spiegare perché abbiamo conoscenza delle negazioni delle ipotesi scettiche, e quindi
non c’è lo stesso problema rispetto al principio di chiusura che avevano invece le teorie basate sulla
sensibilità.
Es: ammesso che i mondi in cui sono vere le ipotesi scettiche sono in effetti mondi remoti, sarà
garantito che la credenza vera di qualcuno di non essere un cervello in una vasca sia sicura, poiché
non ci saranno mondi possibili vicini in cui ciò che egli crede è falso.
I sostenitori della conoscenza basata sulla sicurezza hanno considerato il fatto che la sicurezza è in
grado di spiegare la nostra conoscenza delle negazioni delle ipotesi scettiche come una parte
esplicita della motivazione a favore del principio.
Tuttavia vi sono stati due principali punti di attacco alle teorie basate sulla sicurezza.
Nel caso della lotteria le teorie basate sulla sicurezza non possono spiegare la nostra mancanza di
conoscenza perché, date le probabilità coinvolte, ci sono molti pochi mondi possibili vicini in cui la credenza
di qualcuno di aver perso è falsa, e perciò nella maggior parte dei mondi possibili in cui qualcuno crede di
aver perso, la sua credenza è vera. La credenza sarà sicura e quindi, almeno sotto questo aspetto, sarà un
potenziale caso di conoscenza, contrariamente a quanto suggerito dall’intuizione.
Si potrebbe risolvere quest’ultimo problema formulando la condizione di sicurezza in moda tale che esiga
che le credenze di qualcuno si accordino alla verità non solo nella maggior parte dei mondi possibili vicini,
ma in tutti.
Questo requisito assicura che la credenza di qualcuno di aver perso la lotteria non sia più sicura e quindi
non più un caso di conoscenza; il problema diventa allora spigare la conoscenza che si ha nel caso dello
scivolo della spazzatura. Dopotutto, sicuramente ci sono alcuni mondi possibili vicini in cui la spazzatura si
impiglia scendendo dallo scivolo e tuttavia qualcuno continua a credere che la spazzatura sia nel
seminterrato. Bisogna allora formulare la sicurezza in modo più moderato e robusto da gestire il caso della
lotteria continuando a considerare gli agenti come possessori di conoscenza in casi come quello dello
scivolo della spazzatura. Tuttavia la formulazione con “tutti i mondi possibili” sembra ancora essere valida
poiché non abbiamo ragione, nel caso della spazzatura, di credere che i mondi in cui s’impiglia siano molto
vicini.
Sia la sicurezza sia la sensibilità muovono dalla stessa esigenza: negare conoscenza quando le nostre
credenza vere sono ottenute in maniera fortuita. Pritchard decide dunque di fare uno studio più
approfondito della nozione di fortuna epistemica e di ciò che essa comporta in termini di rischi per la
conoscenza sviluppando una propria epistemologia anti-fortuna attraverso la quale cerca di offrire una
difesa più persuasiva alle teorie basate sulla sicurezza.
3. Epistemoligia anti-fortuna
Pritchard inizia analizzando ciò in cui la fortuna consiste e in che senso la conoscenza non è fortuita.
Un evento fortunato è un evento importante per l’agente che si verifica nel mondo attuale ma non
si verifica in un’ampia classe di mondi possibili vicini in cui vi sono le stesse condizioni.
Per esempio, vincere la lotteria, evento chiaramente importante per qualcuno, è quel genere di
evento che solitamente non capita, dato che solitamente si perde; c’è quindi un’ampi classe di
mondi possibili vicini in cui le condizioni iniziali pertinenti per l’evento sono le medesime del mondo
attuale in cui l’agente ha un biglietto perdente della lotteria.
Si confronti questo caso con un esempio di un evento non fortunato, come quello di un arciere
esperto che colpisce il bersaglio. Qui abbiamo di nuovo un evento che è importante per l’agente,
ma questa volta si tratta di un evento che accade non solo nel mondo attuale, ma anche in molti
mondi possibili vicini in cui le condizioni iniziali pertinenti per quell’evento rimangono le medesime.
Questo evento non è quindi fortunato alla luce di questa specifica interpretazione della fortuna.
Ciò che vogliamo da un’epistemologia anti-fortuna è una condizione per la conoscenza che
assicuri che l’evento della formazione di una credenza vera non sia fortuito.
Più semplicemente, ciò che cerchiamo è una credenza vera tale che, nella maggior parte dei mondi
possibili vicini in cui noi continuiamo a credere la proposizione in questione nello stesso mondo in
cui la crediamo nel mondi attuale, la credenza continua a essere vera. E’ evidente che ciò equivale
essenzialmente alla condizione della sicurezza. La riflessione dell’intuizione anti-fortuna sembra
quindi motivare direttamente un’epistemologia basata sulla sicurezza.
Il fatto di collocare le teorie della conoscenza basate sulla sicurezza nel contesto di
un’epistemologia anti-fortuna permette di affrontare i due problemi sollevati in precedenza:
problema scettico.
problema della mancanza di una formulazione stabile del principio di sicurezza in grado di
accomodare sia l’intuizione secondo cui abbiamo monte conoscenze ordinarie (caso scivolo
della spazzatura) e l’intuizione che abbiamo conoscenza anche nel caso della lotteria.
La risposta al primo problema consisterà nell’evidenziare che, se ciò che è più importante per la conoscenza
è il possesso di una credenza vera che sia vera in modo non fortuito, allora le nostre credenze antiscettiche
possono perfettamente rientrare in questa categoria.
Sebbene ci possa essere qualcosa di epistemicamente manchevole nelle nostre credenze antiscettiche,
questa manchevolezza epistemica non è decisiva quando si considera la questione del possesso di
conoscenza, poiché a questo riguardo sono sufficienti delle semplici credenze non fortuite, cioè delle
credenze sicure.
Abbiamo già affrontato questo problema trattando il principio di sicurezza come applicabile a tutti i mondi
possibili vicini, e questa mossa potrebbe essere corroborata dalle considerazioni anti-fortuna.
Un modo di rispondere al secondo problema è osservare che, nelle nostre attribuzioni di fortuna, spesso
attribuiamo un peso maggiore agli eventi controfattuali pertinenti a seconda della loro vicinanza modale.
(esempio della pallottola)
Questo esempio è rilevante per il modo in cui andrebbe modificata la condizione della sicurezza in modo da
affrontare l’obiezione di Greco. Dopotutto, ciò che è saliente nel caso della lotteria è che, data la natura del
modo in cui le lotterie decidono, il mondo in cui si possiede il biglietto vincente è molto vicino al mondo
attuale in cui si possiede un biglietto perdente. Questo contrasta con l’esempio dello scivolo della
spazzatura, perché, sebbene si possa essere in disaccordo quanto al fatto che il mondo in cui il sacchetto si
impiglia sia abbastanza vicino da essere contato tra i mondi più vicini, apparirà a tutti certamente vero che
esso non sia particolarmente vicino, poiché, se questo fosse il caso, allora l’agente interessato non avrebbe
conoscenza.
Con questa distinzione fra i due casi, si può quindi affrontare il problema in questione, ritornando alla
formulazione originale della sicurezza in termini di mondi possibili più vicini, ma modificando la
comprensione di questo principio in modo da dare maggior peso ai mondi più prossimi.
4. Osservazioni conclusive
Consideriamo ora due questioni importanti.
La prima riguarda la cosiddetta teoria della conoscenza basata sulle “alternative rilevanti”.
L’idea che guida questa proposta è che acquisendo conoscenza non ci sia bisogno di essere infallibili, nel
senso di essere in grado di escludere tutte le possibilità di errore associate alla proposizione conosciuta,
poiché questo sarebbe troppo restrittivo e corrisponderebbe a un chiaro invito allo scetticismo radicale.
Invece è solo una sottoclasse di tutte le possibilità di errore ad essere rilevante, e il compito da svolgere
consiste nel proporre una qualche specificazione di quali siano le possibilità di errore rilevanti.
Le teorie basate sulla sensibilità possono essere collocate nel contesto di questo programma generale,
specialmente nella misura in cui tali teorie sono intese in maniera da dare luogo a una negazione del
principio di chiusura. Tuttavia, ciò che è strano nella lettura che le teorie della sensibilità danno
dell’intuizione delle alternative rilevanti è che essa consente che le possibilità di errore inverosimili siano
talvolta rilevanti nella determinazione della conoscenza.
Gli approcci basati sulla sicurezza, al contrario, si attengono all’interpretazione di base dell’intuizione delle
alternative rilevanti secondo cui le possibilità di errore remote sono sempre irrilevanti per la determinazine
della conoscenza.
La seconda questione è se il problema scettico così come lo comprendiamo sia davvero la versione
più pressante di questo antichissimo dilemma filosofico.
E’ esattamente così. Questo perché il nucleo del problema scettico non è assolutamente un problema che
riguarda il principio di chiusura, e quindi l’essere in grado di conoscere le negazioni delle ipotesi scettiche.
Al contrario ciò che realmente sottostà all’argomento scettico è un’affermazione di tipo evidenziale, cioè
che dato che la nostra evidenza a supporto delle nostre credenze ordinarie non favorisce quelle credenze
più di quanto favorisca le loro alternative scettiche, segue che la nostra evidenza è insufficiente per avere
conoscenza. Quindi salvare la conoscenza dalla presa scettica nel modo in cui lo fanno i teorici degli
approcci basati sulla sensibilità e sulla sicurezza non affronta adeguatamente il problema in questione.
Abbiamo passato in rassegna uno dei principali filoni di ricerca in epistemologia analitica, quello relativo
alla definizione della nozione di conoscenza. Questo dibattito successivo all’articolo di Gettier ha alcuni
tratti fondamentali; ruota attorno a un progetto di analisi concettuale, in cui le nozioni di credenza e
giustificazione sono ritenute prioritarie rispetto a quella di conoscenza (che viene analizzata attraverso di
esse), e in cui le definizioni sono sottoposte a scrutinio grazie alla formulazione di controesempi, a loro
volta valutati sulla base delle nostre intuizioni.
Le possibilità di successo di questa indagine sono state però messe in discussione da più parti.
1. Alcuni sostengono che ci sia qualcosa di errato alla base della metodologia stessa che
caratterizza questo dibattito, in particolare il ruolo che le intuizioni svolgono nel valutare le
definizioni.
Una corrente detta epistemologia sperimentale ha infatti negato che il lavoro dell’epistemologo
possa svolgersi “in poltrona”, semplicemente valutando in modo puramente intellettuale
l’applicabilità o mono di un concetto sulla base delle proprie intuizioni preteoriche. Questo
perché se il risultato dell’analisi concettuale ha come obiettivo formulare, anche sulla base di
quelle intuizioni, normative epistemiche che abbiano un valore universale, allora si deve avere
una qualche garanzia che anche quelle intuizioni siano universalmente condivise.
2. Altri sostengono che gli autori che animano questa discussione, a partire da Platone, abbiano
compiuto un errore fondamentale nell’attribuire priorità esplicativa a credenza e giustificazione
rispetto alla conoscenza.
Il saggio di Williamson sostiene infatti che sia la nozione di conoscenza a dover essere assunta
come prioritaria rispetto alle altre nozioni. La tradizione epistemologica analitica ha sempre
considerato la credenza uno stato mentale primitivo, e la conoscenza qualcosa che sulla
credenza, e su altre proprietà, si basa. Secondo Williamson questo è un errore. La conoscenza
dovrebbe essere considerata come uno stato mentale a sé stante, primitivo, e non analizzabile
ulteriormente in altri termini. E’ la conoscenza a venire prima della credenza e della
giustificazione. Questa assunzione serve ad evitare un noto problema relativo ad alcune
concezioni della giustificazione, l’Argomento del Regresso Epistemico.
Che cosa giustifica una data credenza? Un’altra credenza. E cosa giustifica a sua volta
quest’altra credenza? Ancora un’altra credenza. Come possiamo fermare il regresso di
credenze che sono giustificate solamente relativamente ad altre credenze ed arrivare a
credenze che sono giustificate in maniera assoluta?
Secondo Williamson, questo è possibile solo quando identifichiamo l’evidenza con la
conoscenza: una credenza è giustificata in maniera assoluta quando è giustificata relativamente
alle proprie conoscenze. La giustificazione non è una condizione della conoscenza. Al contrario,
essa è qualcosa che la conoscenza attribuisce a certe credenze che non costituiscono di per sé
conoscenze, ma che sulla base di essa acquisiscono una valenza positiva e desiderabile.
PARTE SECONDA
LA NATURA DELLA GIUSTIFICAZIONE EPISTEMICA
Secondo l’analisi tripartita che costituisce tuttora il punto di partenza di molte discussioni di epistemologia,
la giustificazione epistemica è ciò che fa di una credenza vera un caso di conoscenza: sapere che le cose
stanno in un certo modo è avere una credenza vera e giustificata che le cose stanno in quel modo.
Moltissimi filosofi hanno abbandonato, a causa dei controesempi di Gettier, l’idea che la verità, la credenza
e la giustificazione siano congiuntamente sufficienti per la conoscenza. Ciononostante, parecchi continuano
a ritenere che la giustificazione epistemica sia necessaria per la conoscenza.
Ma che cos’è, esattamente, una giustificazione epistemica? Qual è la sua struttura? Quali requisiti deve
soddisfare una credenza per potersi dire giustificata?
Molti hanno cercato di dare delle risposte a queste domande, ma prima di analizzare le loro ricerche è
opportuno chiarire alcune questioni preliminari.
1. Che cosa si intende dire quando si afferma che quella che è necessaria per la conoscenza è una
giustificazione epistemica?
Il punto è che le nostre credenze possono essere giustificate in vari sensi.
Es: quando Pascal cerca di convincerci che è preferibile scommettere sull’esistenza piuttosto che
sulla non esistenza di Dio prospettandoci il guadagno di una vita felice se vinciamo, quella che tenta
di fornirci è una giustificazione puramente pragmatica per credere che Dio esista: le considerazioni
che ci pone non vertono sulla verità di tale credenza ma soltanto sulle conseguenze che è lecito
attendersi dall’adottarla.
2. La seconda questione riguarda la relazione fra ciò che, secondo la tradizionale analisi tripartita, fa di
una credenza vera un caso di conoscenza e le ragioni che possiamo avere a favore di questa o
quella credenza.
Una credenza giustificata nel senso dell’analisi tripartita sembra essere, molto semplicemente, una
credenza basata su buone ragioni. Tale idea è stata per lungo tempo un luogo comune della
riflessione sulla conoscenza. Questo luogo comune ha iniziato a sgretolarsi con la formulazione,
all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, di concezioni della conoscenza e della giustificazione
di tipo causale e affidabilista. Ciò ha spinto alcuni epistemologi a svincolare la nozione di credenza
giustificata da quella di credenza basata su buone ragioni, finendo per definire la giustificazione
epistemica come quella proprietà o relazione che fa di una credenza vera un caso di conoscenza.
Se ci si limita a stipulare che la giustificazione epistemica non sia altro che ciò che fa di una
credenza un caso di conoscenza si corrono due rischi:
Fraintendere il senso della terza condizione dell’analisi tripartita della conoscenza, che nelle
intenzioni dei suoi fautori classici non ha la funzione di segnalare che una credenza vera non è un
caso di conoscenza, ma quella di chiarire la natura di ciò che le manca per acquisire quello status.
Perdere di vista il fatto che domandarsi se le credenze nostre o altrui siano basate su buone ragioni
oppure no è un esercizio che ha un valore indipendente da qualunque posizione si ritenga di dover
accettare a proposito della relazione fra giustificazione e conoscenza.
3. La terza questione ha a che fare con l’ambiguità del termine “credenza”, che può essere impiegato
per indicare sia i particolari stati psicologici in cui si trovano i soggetti che credono questa o quella
cosa sia le “cose” che possono costituire il contenuto di detti stati.
(caso di Giovanni e Maria)
Nei contesti filosofici, l’ambiguità dell’uso ordinario viene risolta normalmente restringendo
l’applicazione del termine “credenza” agli stati psicologici dei soggetti che credono questa o quella
cosa e assegnando al termine “proposizione” il compito di designare i contenuti astratti che tali
stati psicologici possono avere in comune.
Fra i vari contesti in cui risulta utile operare questa “riforma” linguistica, quello che ci interessa ha a
che fare con gli enunciati coi quali attribuiamo o neghiamo una giustificazione alle credenze nostre
o altrui. Per capire il problema è sufficiente riflettere sul fatto che una persona potrebbe avere
ottime ragioni per credere una certa cosa e tuttavia risultare incapace di arrivare a credere tale
cosa sulla base delle ragioni che ha per crederla. Servendoci della terminologia introdotta una
situazione come questa può essere descritta dicendo che la persona in questione avrebbe
giustificazione proposizionale per credere tale qualcosa senza avere una corrispondente
giustificazione doxastica. Avere giustificazione proposizionale è avere buone ragioni per credere
una proposizione, mentre avere giustificazione doxastica è avere una credenza basata su buone
ragioni.
La giustificazione che i fautori dell’analisi tripartita ritengono non soltanto necessaria ma
sufficiente per fare di una credenza vera un caso di conoscenza è la giustificazione doxastica.
PER SAPERE CHE LE COSE STANNO IN UN CERTO MODO NON E’ SUFFICIENTE AVERE UNA CREDENZA VERA E
DISPORRE DI ALCUNE BUONE RAGIONI A FAVORE DELLA STESSA: BISOGNA AVERE UNA CREDENZA VERA
BASATA SULLE BUONE RAGIONI DI CUI SI DISPONE.
Dobbiamo dunque domandarci non soltanto se le credenze che abbiamo siano basate su buone
ragioni, ma se abbiamo buone ragioni per arrivare a credere proposizioni che al momento non
crediamo.
Il fondazionalismo classico che ci interessa incorpora una concezione della giustificazione epistemica di
stampo prettamente empiristico.
Dalle parole di Lewis emerge il carattere spiccatamente empiristico del fondazionalismo classico. L’idea che
nell’esperienza vi sia un “nocciolo duro” immune da ogni possibilità di errore che costituisce l’oggetto
specifico delle credenze di base.
Ma muoviamoci per gradi.
Sto scendendo le scale e sto usando i miei occhi come guida per i miei piedi. Si tratta di
un’azione automatica abituale e ordinaria. Tuttavia per poter avere un esempio di cognizione
percettiva e non di comportamento che sfugge alla considerazione dell’agente, io riservo al
processo un’attenzione sufficiente per avere una chiara coscienza delle sue componenti. Esso
comprende una certa configurazione visiva, certe sensazioni muscolari di bilanciamento e
movimento. Tutti gli elementi menzionati sono fusi insieme ad altri in un tutto unitario della
presentazione in movimento, all’interno del quale possono essere evidenziati in maniera
genuina, ma non quale non esistono in maniera separata. Sarebbe difficile rendere a parole
buona parte di questo contenuto, soprattutto perché dovremmo specificare i vari muscoli
coinvolti, come li stiamo usando ecc. Non c’è bisogno, tuttavia, di studiare fisiologia per
scendere le scale. So quando sto camminando in posizione eretta attraverso le mie sensazioni.
Questo è tutto ciò che serve perché qui stiamo parlando di esperienza diretta.
L’esperienza che ho quando mi avvicino ai gradini e guardo verso il basso è familiare e fornisce
le indicazioni sulla base delle quali agisco. Se per esempio mi fossi avvicinato ai gradini ad occhi
chiusi sarei stato obbligato ad agire in maniera diversa per non cadere. Consideriamo in
particolare la parte visiva della presentazione. Solitamente non ho l’occasione di esprimere un
contenuto empirico di questo tipo: esso svolge la funzione di guida per il mio comportamento e
poi svanisce dalla mia coscienza. Se provo ad esprimerlo potrei dire : “Vedo davanti a me ciò
che ha l’aspetto di gradini di granito, larghi 15 pollici e profondi 7”. La locuzione “ha l’aspetto
di” rappresenta il mio tentativo di segnalare il fatto che non intendo asserire che i gradini sono
di granito o che hanno le dimensioni menzionate. Il linguaggio è in gran parte predisposto
all’asserzione di realtà ed eventi oggettivi.
Se come ora, desidero invece confinarlo all’espressione di un contenuto presentato, la mia
miglior risposta è quella di esprimere quelli che reputo fatti oggettivi che questa presentazione
segnala e adoperare locuzione come “ha l’aspetto di” per sottolineare l’intenzione di
restringere in questa occasione ciò che dico al fatto della presentazione stessa. La
presentazione data conduce ad una previsione: “ Se faccio un passo in avanti e verso il basso,
arriverò tranquillamente ad appoggiare il mio piede sul gradino successivo”. Solitamente
questa previsione rimane inespressa, e non sarebbe neppure pensata in maniera esplicita.
Di nuovo il linguaggio che sto utilizzando sarebbe ordinariamente interpretato come se
esprimesse un processo oggettivo che coinvolge il mio corpo e un ambiente fisico. In questa
occasione sto però cercando di esprimere soltanto il contenuto diretto della mia esperienza e,
in particolare, di evidenziare gli elementi che caratterizzano questa procedura cosciente come
una procedura cognitiva. Mentre sto per un attimo sospeso con lo sguardo rivolto di fronte a
me, la configurazione visiva presentata mi porta a prevedere che l’agira in un determinato
modo sarà seguito da un ulteriore contenuto empirico: l’esperienza del giungere all’equilibrio
sul gradino successivo. Adotto la modalità d’azione prevista, ed effettivamente segue la
conseguenza empirica attesa. La mia previsione è verificata. E’ constatata la validità della
significanza cognitiva della presentazione visiva che ha svolto il ruolo di segnale per l’azione. Il
suo operato è stato un caso di conoscenza percettiva.
Io credo che in questo momento ci sia un pezzo di carta bianco di fronte a me. La ragione di
questa mia credenza è data da una certa presentazione visiva. La mia credenza include però
l’aspettativa che la presentazione della mia carta rimanga lì, che spostando lo sguardo si
muova, che toccandola produca alcuni effetti. La realtà del pezzo di carta implica innumerevoli
veridiche possibili o parziali, domani e più avanti nel tempo. Che la carta si strapperebbe non
risulterà provato con perfetta certezza più di quanto non lo sia la sua presenza reale. Le
esperienze attese (l’apparenza e la sensazione, il sembrare strappato) sono previsioni di
esperienza che sarebbero verificate in maniera decisiva e indubitabile.
Se anche i controlli della credenza empirica sul pezzo di carta dovessero essere eseguiti, il
risultato non sarebbe una verifica teoricamente completa di tale credenza, poiché essa avrebbe
implicazioni ulteriori che non sarebbero state ancora controllate e tali implicazioni potrebbero
essere sottoposte a controllo a distanza di anni o secoli e ciò che io credo in questo momento
ha conseguenze che saranno determinabili in maniera indefinita nel futuro. La mia credenza
inoltre deve estendersi a tutte quelle previsioni nel cui fallimento dovrei riconoscere una
smentita della medesima, non importa quanto lontano nel futuro possa essere il tempo in cui
vertono la mia credenza deve implicare come probabile ogni cosa la cui assenza dovrei
riconoscere idonea a screditarla. Ancora, si da il caso che tali contingenze future, implicate dalla
credenza, non siano tali che il loro fallimento possa essere assolutamente escluso alla luce di
precedenti corroborazioni empiriche di ciò che è creduto. Per quanto improbabile, rimane
pensabile che questi controlli successivi posano avere esito negativo. Se interroghiamo
l’esperienza, troviamo tantissime occasioni nelle quali ci siamo sentiti del tutto sicuri di un fatto
oggettivo percepito ma le circostanze successive ci hanno privato bruscamente di ogni sicurezza
e obbligato a ritrattare o a modificare la nostra credenza.
Non è dunque plausibile che, dopo un certo lasso di tempo, anche solo il meno importante
degli eventi reali non faccia alcuna differenza concepibile.
Se le cose dovessero stare così, allora ciò che appartiene al passato, trascorso un certo periodo
di tempo potrebbe essere qualcosa di peggio di una inconoscibile cosa in sé: potrebbe essere
tale che la stessa supposizione che sia esistito non sarebbe in grado di fare alcuna differenza
concepibile per il comportamento razionale di alcuno e qualsiasi presunto interesse per la sua
verità o falsità potrebbe essere smascherato come fittizio o privo di scopo o essere confinato
alla pratica di indurre altre persone ad asserire o assentire a certe formulazioni verbali.
Un giudizio come quello del primo esempio può essere chiamato concludente. Esso ammette
una verifica o una falsificazione decisiva e completa. Un giudizio come quello del secondo
esempio sempre ulteriormente verificabile e mai completamente verificato, può essere
chiamato non-concludente.
Tuttavia dal momento che qualsiasi verifica, anche parziale, potrebbe essere realizzata soltanto
da qualcosa che si manifesti in qualche decorso di esperienza, tale giudizio non concludente
deve essere traducibile in giudizi concludenti. Soltanto così può trovare conferma
nell’esperienza. Il suo carattere non-concludente non riflette il fatto che l’asserzione implica
qualcosa che non può essere espresso in questo o quel giudizio concludente, ma il fatto che
nessun insieme limitato di tali giudizi concludente potrebbe essere sufficiente a esaurire la sua
significanza empirica.
Nell’asserzione di ciò che è dato si usa il linguaggio per veicolare tale contenuto, ma ciò
che è asserito è ciò che il linguaggio è inteso veicolare, non la correttezza del
linguaggio. La conoscenza in quanto tale non ne dipende, ma risulta indispensabile alla
discussione della conoscenza. Se non ci fosse alcun modo linguistico comunemente
inteso per dire ciò che è dato, l’analisi della conoscenza dovrebbe inventarne uno. La
nostra situazione però non è così sfavorevole: tali formulazioni possono essere
costruite per mezzo di quello che abbiamo chiamato uso espressivo del linguaggio.
Giudizi non-concludenti che asseriscono una realtà oggettiva, l’attualità di certi stati di
cose.
Questi si chiamano così perché se non vi è nulla in ciò che vi è compreso che non sia
esprimibile tramite un qualche giudizio concludente, nessun insieme limitato di
previsioni particolare è in grado di esaurire completamente la significanza di
un’asserzione oggettiva di questo genere. La verifica assoluta e teoricamente completa
di qualsiasi giudizio oggettivo sarebbe un compito senza fine.
I giudizi non-concludenti rappresentano una classe enorme: includono, di fatto, quasi
tutte le asserzioni che facciamo abitualmente.
La ragione per distinguere le asserzioni è che senza tali distinzioni è quasi impossibile analizzare la
conoscenza empirica in maniera tale da mettere in luce i fondamenti nell’esperienza e la modalità della sua
derivazione da tali fondamenti.
Se un’asserzione di fatto oggettivo, qualunque grado di sicurezza possa avere già acquisito, conserva
un’ulteriore significanza, allora significa sempre qualcosa di verificabile ma non ancore verificato, ed è essa
stessa soggetta a una qualche incertezza teorica. Abbiamo concluso che tutte le asserzioni di fatto oggettivo
hanno questo carattere. Sulla base di questa conclusione, diventa essenziale distinguere da tali asserzioni di
fatto oggettivo tanto le asserzioni di ciò che è dato ed è certo al momento presente, quanto le asserzioni di
quei giudizi concludenti che l’esperienza successiva può rendere certi. Diversamente diventa impossibile
assicurare che la verità oggettiva sia anche soltanto probabile. Se ciò che deve confermare una credenza
oggettiva e mostrarne la probabilità, fosse esso stesso una credenza oggettiva, e quindi non più che
probabile allora la credenza oggettiva da confermare sarebbe resa probabile soltanto probabilmente.
Pertanto se non distinguiamo le verità oggettive, la credenza nelle quali può essere resa probabile
dall’esperienza, da quelle presentazioni e decorsi dell’esperienza che forniscono tale giustificazione,
qualsiasi citazione dell’evidenza a sostegno di un’asserzione che sia possibile menzionare finirà per essere
coinvolta in un regresso indefinito del meramente probabile.
Se qualcosa deve essere probabile, qualcos’altro deve essere certo.
I dati che sostengono una probabilità devono essere essi stessi delle certezze. Tali certezze assolute noi le
abbiamo: nei dati di senso che danno inizio ad una credenza e in quei decorsi di esperienza che in seguito la
possono confermare. Tuttavia, né i dati iniziali, né i successivi decorsi di esperienza verificanti possono
essere formulati nel linguaggio dell’asserzione oggettiva, poiché quanto viene formulato in questo
linguaggio non è mai più che probabile. Le nostre certezze sensoriali possono essere formulate solamente
tramite l’uso espressivo del linguaggio, nel quale ciò che viene significato è un contenuto d’esperienza e ciò
ce è asserito è la datità di questo contenuto. Ovviamente non si intende qui negare che un’asserzione
oggettiva possa essere confermata da altre asserzioni oggettive, né sostenere che tutte le corroborazioni
della credenza avvengano per mezzo del riferimento diretto all’esperienza immediata. Ciò che si sostiene è
che , nei casi in cui una credenza oggettiva è corroborata o sostenuta da un’altra, tale conferma è soltanto
provvisoria e ipotetica e deve riferirsi in ultima istanza a conferme per esperienza diretta, la sola in grado di
essere decisiva e di fornire un fondamento sicuro. Nessuna asserzione empirica può diventare credibile
senza un riferimento all’esperienza.
Nel caso della percezione della carta bianca, ciò che è dato è un certo complesso di sensazioni descrivibili in
linguaggio espressivo per mezzo di aggettivi. Ma una mente priva di esperienza passata no avrebbe, in
questo caso, alcuna conoscenza. L’apprensione si esaurirebbe nella mera ricettività della presentazione,
poiché non sarebbe suggerita alcuna interpretazione.
E’ infatti l’interpretazione imposta alla presentazione che costituisce la credenza in qualche fatto oggettivo,
o l’asserzione dello stesso; e questa interpretazione è imposta alla luce dell’esperienza passata.
In seguito a Lewis, in anni relativamente recenti, vari autori hanno proposto delle posizioni fondazionaliste
meno radicali che lasciano cadere l’idea che le credenze di base debbano essere infallibili e, con questa, il
requisito che debbano riguardare esclusivamente i nostri dati di senso o il modo in cui le cose ci appaiono o
ci si presentano attraverso i sensi. Tuttavia condividono con il fondazionalismo infallibilista classico l’idea
che ciò che è dato immediatamente nell’esperienza possa fornire alle credenza di base una giustificazione
suscettibile di essere trasmessa per via inferenziale a tutte le altre. Ma è proprio questa idea che per alcuni
autori è inaccettabile.
Wilfrid Sellars è noto per aver accusato le posizioni fondazionaliste di abbracciare un insostenibile “Mito del
Dato”. Il bersaglio principale delle sue critiche sono le forme di fondazionalismo che ammettono l’esistenza
dei dati di senso, ma il suo attacco colpisce, più in generale, l’idea che contenuti privi di articolazione
concettuale (quali si suppone siano i dati immediati dell’esperienza) possano fornire una giustificazione alle
nostre credenze di base.
E’ proprio la tesi di derivazione sellarsiana che “niente può costituire una ragione per avere una credenza se
non un’altra credenza” che sta alla base di molte versioni della principale alternativa alle teorie
fondazionaliste della giustificazione: la teoria coerentista.
Per il coerentismo non vi sono alcune credenze privilegiate sulla base delle quali vengano giustificate
inferenzialmente tutte le altre, ma ogni nostra credenza giustificata è tale perché si inserisce
coerentemente nel sistema complessivo delle nostre credenza. Dunque ciò che può conferire
giustificazione ad una credenza sono esclusivamente le relazioni di vario tipo che la legano ad altre
credenze.
Come del fondazionalismo anche del coerentismo esistono varie versioni. Un compito cruciale nella
formazione di una teoria coerentista della giustificazione è evidentemente quello di spiegare in che cosa
consista la proprietà o la relazione che dà il nome alla teoria. Ma quando si tratta di spiegare in che cosa
consista la coerenza dei sistemi di credenze le strade si dividono.
Un sistema che contenga al suo interno credenze tra loro logicamente incompatibili è considerato
incoerente da tutti i fautori della posizione, ma alla coerenza puramente logica autori differenti aggiungono
ingredienti differenti per ottenere quel particolare tipo di coerenza che ritengono necessaria per la
giustificazione delle credenze. Indipendentemente dai dettagli delle singole proposte, i sostenitori del
coerentismo sono in grado di respingere l’Argomento del Regresso Epistemico osservando che esso
presuppone una concezione lineare della giustificazione, abbandonata la quale viene meno ogni ragione
per ritenere che l’unico modo di evitare la conclusione che nessuno delle nostre credenze è realmente
giustificata sia ammettere l’esistenza di credenze di base giustificate non-inferenzialmente. In una
prospettiva coerentista, nessuna delle nostre credenze eredita linearmente la propria giustificazione da
altre credenze nel senso che non sarebbe giustificata se quelle non lo fossero: siccome la giustificazione di
ciascuna delle nostre credenze scaturisce da una relazione olistica con tutte le altre, non risulta
condizionale rispetto alla giustificazione di alcuna di esse, e ciò è sufficiente a prevenire l’insorgere del
regresso.
C’è un’altra obiezione che è rivolta ancora più frequentemente ai sostenitori del coerentismo: è quella che
sostiene che, se ciò che conferisce giustificazione alle nostre credenze sono esclusivamente le relazioni
intrasistemiche che intercorrono fra loro, nessun sistema di credenze potrà conferire ad alcuno dei propri
elementi una sicurezza maggiore di quella che caratterizza i contenuti di un romanzo ben scritto. tale
obiezione viene trattata in particolare da Roderick Firth che cerca di mostrare, dopo aver ricostruito e
analizzato criticamente alcuni aspetti della posizione di Lewis, come le concezioni coerentiste siano in grado
di “vincolare” l’insieme delle credenze giustificate al “mondo possibile” nel quale viviamo di fatto. Sintetizza
così il contrasto fra fondazionalismo e coerentismo nei termini di quella che chiama la tesi della “ priorità
epistemica”.
I filosofi hanno spesso interpretato i problemi legati alla giustificazione come se riguardassero la
conoscenza posseduta da un certo gruppo sociale; ha dunque senso chiedere quali asserzioni noi siamo
giustificati a credere e perché siamo giustificate a crederle. Lewis sembra avere ragione quando sostiene
che una tale domanda non può avere risposta se non si risponde prima a una più fondamentale domanda;
“Perché io, in questo momento sono giustificato a credere alcune asserzioni e non altre?”
Quest’ultima è da interpretare come una domanda epistemologica, e l’ espressione ‘giustificata a credere ‘
va interpretata in maniera tale che possiamo affermare senza contraddirci che qualcuno è giustificato a
credere un’asserzione che di fatto non crede.
E dunque utile riformulare la domanda come una domanda sulla giustificazione sistemica che le asserzioni
possiedono ‘per me’ in un determinato momento.
Posta in questi termini il cuore della teoria coerentista della giustificazione, così come Lewis probabilmente
la interpretava sia la tesi che in ultima istanza ogni asserzione che ha per me un qualche grado di
giustificazione, ha quel particolare grado di giustificazione perché è posta in relazione con certe altre
asserzioni per mezzo di principi di inferenza validi (vale a dire è coerente con esse).
La teoria coerentista può essere interpretata come una risposta alla domanda quali proprietà delle
asserzioni sono proprietà che ne accrescono la giustificazione?? Intendendo tali proprietà come proprietà
di P di un’ asserzione S che sarebbe meno giustificata, e non-S sarebbe più giustificata, per l’agente ad un
determinato tempo se, a parità di condizioni, S non avesse la proprietà P.
I coerentisti sembrano rispondere che P consiste nel fatto che S si può inferire validamente da altre
asserzioni di tipo particolare. In questo caso si dice che P è una proprietà inferenziale. Sicuramente però, i
sostenitori della teoria coerentista sarebbero disposti a concedere che ci siano delle proprietà non-
inferenziali che potrebbero accrescere la giustificazione di un’asserzione; ma per essere coerenti essi
insisterebbero nell’affermare che queste proprietà possono essere tali solo se una particolare asserzione su
S si può validamente inferire da altre asserzioni specificate.
Dunque potremmo affermare che: secondo la tesi centrale della teoria coerentista tutte le proprietà che
accrescono la giustificazione devono essere in ultima istanza inferenziali.
Opponendosi completamente alla teoria coerentista della giustificazione, Lewis nega categoricamente che
tutte le proprietà che accrescono la giustificazione siano in ultima istanza inferenziali. Egli discute i problemi
della giustificazione epistemica come problemi riguardanti i giudizi, potendo così restringere la propria
attenzione allo status epistemico delle asserzioni che sono effettivamente credute, giudicate come vere, da
una persona. In ogni caso, però, egli sostiene che le asserzioni che riflettono i miei giudizi presenti sulla mia
esperienza presente sono certe, e quindi giustificate per me al tempo presente, e che il loro esser certe non
deriva, direttamente o indirettamente, dalla loro coerenza con altre asserzioni.
Bisogna tuttavia soffermarsi sul significato che la parola ‘certo’ assume in questo contesto.
In alcuni scritti Lewis afferma che “i giudizi espressivi non possono essere errati”; “non sarebbe possibile
sbagliarsi intorno al contenuto di una consapevolezza immediata”. Questa è forse l’alternativa più estrema
a una teoria coerentista della giustificazione, e viene spesso presa come l’unica alternativa che Lewis ci
offra. Tuttavia in alcuni passi Lewis sembra affermare che i nostri giudizi espressivi possano essere errati e
suggerisce la necessità di distinguere quelli che potremmo chiamare sensi “valutativi della verità” dai sensi
“valutativi della giustificazione” della parola ‘certo’.
Dire che un giudizio è certo in un senso valutativo della verità implica che il giudizio è vero; mentre dire che
è certo in un senso valutativo della giustificazione è semplicemente dire che il giudizio, sia esso, di fatto,
vero oppure falso, è completamente giustificato.
Dunque, sebbene Lewis asserisca che i giudizi espressivi non possono essere falsi, tutti gli argomenti che
egli porta a sostegno della certezza di tali giudizi, sono argomenti volti a mostrare che sono certi in un
senso valutativo della giustificazione. Talvolta, infatti, egli usa “indubitabile” o “incorreggibile” come
sinonimi di “certo”, e queste due parole si prestano più naturalmente a essere interpretate come valutative
della giustificazione che non della verità.
Tuttavia vi sono almeno tre posizioni più deboli che sono incompatibili con la teoria coerentista della
giustificazione:
1. che la giustificazione di un giudizio espressivo può essere soggetta a mutamenti di grado per via di
coerenza o mancanza di coerenza, pur non potendo diminuire al livello di giustificazione di un
giudizio contraddittorio. Questo ci permette di dire che i miei giudizi espressivi presenti, pur
potendo essere falsi, non sono falsificabili per me al momento presente.
2. che i giudizi espressivi presenti, sebbene falsificabili per mancanza di coerenza, hanno sempre un
qualche grado di giustificazione che non deriva dalla coerenza.
3. che i giudizi espressivi hanno un qualche grado di giustificazione non-inferenziale “iniziale”, la quale
può essere sconfitta dalla mancanza di coerenza.
Ciascuna di queste tesi, compresa quelle di Lewis, implica quella che potremmo chiamare “la tesi centrale
della priorità epistemica”: alcune asserzioni hanno un certo grado di giustificazione che è indipendente
dalla giustificazione che ricavano dal loro essere coerenti con altre asserzioni.
Se decidiamo che esistono asserzioni di questo tipo, il nostro compito successivo è capire qualche altra
proprietà che accresce la giustificazione sia posseduta da tali asserzioni.
Coloro che accettano la tesi della priorità epistemica sono fortemente tentati di dire che, per esempio,
l’asserzione “Sembra che io stia vedendo qualcosa di rosso” sia giustificata solo dal fatto che ‘sembra’ che io
stia vedendo qualcosa di rosso; ma dire questo pare suggerire che l’asserzione sia giustificata perché vera.
Per mantenere la distinzione tra giustificazione e verità, sarebbe preferibile sostenere che l’asserzione ha
un certo grado di giustificazione perché è un’asserzione (vera o falsa) che si propone di caratterizzare il
contenuto della mia esperienza presente. A questa formulazione insufficiente (se ogni mia esperienza
presente ha un qualche grado di giustificazione, ne segue che dovremmo sostenere che tutte le asserzioni,
incluse tutte le possibili coppie di asserzioni contraddittorie, abbiano questo qualche grado), Lewis aggiunge
che: un’asserzione può avere per me un grado di giustificazione non-inferenziale ultima solo se io credo che
sia vera. Se per Lewis, queste due condizioni non fossero solo sufficiente, ma anche necessarie, si potrebbe
dire che egli ritenga i giudizi espressivi autogiustificati – suggerendo che l’essere giustificata vera da me è la
più fondamentale proprietà che accresce la giustificazione di un’asserzione sulla mia esperienza presente.
Dunque, riassumendo, la proprietà che accresce la giustificazione consiste:
1. nel proporsi di caratterizzare il contenuto della mia esperienza presente
2. nell’essere un’asserzione che o credo vera oppure dovrei credere vera ora se solo avessi deciso se
sia vera o falsa.
La critica mossa de Lewis alla teoria coerentista è riassunta dall’asserzione “nessuna relazione logica, di
per sé, può mai essere sufficiente per stabilire la verità, o anche la credibilità, di qualsiasi giudizio
sintetico.
Questa asserzione, che rappresenta il nodo cruciale di molti argomenti contro la teoria coerentista, riflette
un modo di concepire tale teoria che inutilmente ristretto.
Si pensa che la teoria coerentista non fornisca alcun modo per distinguere il mondo attuale dai mondi
possibili altrettanto coerenti: è però possibile difendere le forma di fondazionalismo più deboli e vicine al
coerentismo con un teoria che vincoli al mondo attuale. Per attuare tale teoria è opportuno sostenere che
non c’è una democrazia di proposizioni in cui ogni membro riceve la propria giustificazione dalla propria
coerenza con tutti gli altri. Bisogna accettare l’idea che ci sia un classe d’élite di asserzioni che conferiscono
giustificazione basilari che, sebbene includa asserzioni non giustificate, esclude moltissime asserzione che lo
sono. Queste asserzioni che conferiscono giustificazioni basilari potrebbero essere delimitate dal requisito
che la persona in questione nel tempo in questione le creda. All’interno di questa classe, ogni asserzione,
giustificata o meno, può determinare lo status epistemico di ogni altra asserzione contenuta nella classe. Le
asserzioni che sono al di fuori della classe sono descritte come giustificate “in maniera derivata” se sono di
fatto coerenti con le asserzioni giustificate che si trovano in questa classe che conferisce giustificazione.
Una posizione di questo tipo sembra evitare l’obiezione logica ti Lewis alla teoria coerentista della
giustificazione e dimostra dunque che la controversia fra questa teoria e la tesi della priorità epistemica
deve essere decisa, in ultima analisi, su basi puramente empiriche.
E’ difficile formulare dei criteri precisi per eliminare tale controversia, ma i sostenitori della teoria
coerentista hanno in genere provato a difendere la propria posizione richiamandosi alle pratiche effettive di
alcuni scienziati e di altri soggetti razionali.
Firth ritiene che sarebbe molto difficile, su questa base, difendere la posizione di Lewis secondo cui alcune
asserzioni sono certe in un senso che rende la coerenza completamente irrilevante per la lor giustificazione.
Ritiene però che i soggetti razionali credano spesso le asserzioni sulla loro esperienza sensibile con un grado
di sicurezza maggiore rispetto a quello che potrebbero giustificare mediante inferenze da altre credenze e
ciò suggerisce che potremmo accettare la tesi della priorità epistemica e provare a operare una scelta fra le
tre posizioni più deboli che la implicano.
Sebbene suggerisca una strategia per neutralizzare l’obiezione dei mondi fittizi, Firth non sottoscrive
esplicitamente una concezione coerentista della giustificazione. Molto più netta è la posizione di BonJour,
uno dei più combattivi sostenitori del coerentismo. Per introdurre la posizione di BonJour è però necessario
dire qualcosa sulla posizione difesa da Alvin I. Goldman: l’affidabilismo. A partire dagli anni Sessanta del
secolo scorso hanno iniziato a diffondersi, in risposta ai controesempi di Gettier, concezioni prima della
conoscenza poi della giustificazione che hanno condotto vari autori a ripudiare l’idea che una credenza
giustificata sia, essenzialmente, una credenza basata su buone ragioni. L’articolo di Goldman che contiene
la prima versione dettagliata dell’analisi causale della conoscenza risale al 1967, e la proposta in esso
avanzata è semplicemente quella di rimpiazzare la terza condizione dell’analisi tripartita con il requisito che
il fatto che rende vera la credenza in questione sia legato alla stessa da un nesso causale di tipo
appropriato. L’analisi causale costituisce l’embrione delle analisi affidabiliste elaborate negli anni
successivi dallo stesso Goldman e da altri autori. L’affidabilismo consiste nella tesi che ciò che fa di una
credenza vera un caso di conoscenza è una particolare qualità del processo che la produce: se il processo in
questione è affidabile, la credenza è un caso di conoscenza, altrimenti non lo è.
Riguardo la relazione fra la giustificazione delle nostre credenze e l’affidabilità dei processi che le
producono, nel testo di Goldman, la nuova versione del requisito affidabilista elaborata è presentata non
più come una condizione che debba prendere il posto del requisito della giustificazione, ma come una
“teoria esplicativa” della natura di quest’ultima. L’idea insomma è che l’analisi tripartita sia sostanzialmente
corretta, ma che la concezione della giustificazione delle nostre credenze con la quale è stata per lungo
tempo combinata debba essere rimpiazzata dalla tesi che una credenza è giustificata se è il risultato di un
processo cognitivo affidabile.
Una teoria della credenza giustificata sarà un insieme di principi che specificano le condizioni di verità per lo
schema:
La credenza da S che p a t è giustificata
Per valutare questo principio ci soffermiamo sul termine ‘indubitabile’. può infatti essere compreso in due
modi. Primo, potrebbe significare: “S non ha ragioni per dubitare di p”. Ma, dato che ‘ragioni’ è un termine
epistemico il principio 1 sarebbe inammissibile perché i termini epistemici non possono apparire nelle
clausole di base. La seconda interpretazione evita questa difficoltà interpretando “p è indubitabile per S”
psicologicamente, come se significasse: “S è psicologicamente incapace di dubitare di p”. Questa
interpretazione renderebbe il principio 1 ammissibile ma non lo rende corretto.
Anche qui ci soffermiamo sul termine cruciale, auto-evidente. Auto-evidente essendo un sinonimo di
giustificato (significherebbe giustificato in modo non derivato), è dunque una locuzione epistemica e il
principio 2 sarebbe allora da escludere come principio per una clausola di base. Ci sono tuttavia altre letture
possibili di “p è auto-evidente” in base alle quali questa non è una locuzione epistemica. Una di queste
letture è: “E’ impossibile comprendere p senza crederla”. Secondo questa interpretazione, verità analitiche
e logiche banali potrebbero rivelarsi auto-evidenti. Quindi, ogni credenza in una tale verità sarebbe una
credenza giustificata, in base a 2. Però, se considerata in termini di impossibilità umana o logica di non
credere, è inaccettabile. Inoltre giustificherebbe solo poche credenze.
La nozione di un principio per la clausola di base è associata in modo naturale all’idea della giustificazione
“diretta”, e nel campo delle proposizione questo ruolo è stato spesso assegnato alle proposizioni
esprimenti stati mentali occorrenti in prima persona. Nella terminologia di Chisholm, questa concezione è
espressa dalla nozione di uno stato o proposizione “auto-presentante” (es: io sto pensando). Quando una
tale proposizione è vera per la persona S all’istante t, S è giustificato a crederla a t. Ciò suggerisce il 3
principio per la clausola di base:
L’idea dell’auto presentazione è che la verità garantisce la credenza. Questo non riesce a conferire
giustificazione perché è compatibile con la presenza di credenza senza verità. Quindi ciò che sembra
necessario per la giustificazione è che la credenza debba garantire la verità. Una tale nozione è stata
etichettata come “infallibilità” o “incorreggibilità”.
La proposizione p è incorreggibile se e solo se: necessariamente, per ogni S e ogni t, se S crede che p a t,
allora p è vero per S a t.
Applicando tale nozione di incorreggibilità, può essere proposto un quarto principio:
Anche in questo caso vi sono diverse varietà di incorreggibilità, che corrispondono a diverse interpretazioni
di “necessariamente”. Di conseguenza abbiamo diverse versioni del principio 4. Ancora una volta ci
concentriamo su una versione nomologica e una versione logica.
Possiamo facilmente costruire un controesempio all’interpretazione nomologica del quarto principio.
Supponiamo che sia nomologicamente necessario che se qualcuno crede di essere nello stato celebrale B
allora sia vero che egli è nello stato celebrale B, perché l’unico modo in cui si realizza questa credenza
relativa allo stato è attraverso lo stato celebrale B stesso. Ne segue che: “io sono nello stato celebrale B” è
una proposizione incorreggibile. Di conseguenza, in base all’interpretazione nomologica, ogni volta che
qualcuno crede questa proposizione in qualsiasi istante, quella credenza è giustificata. Ma perché il fatto
che il credere di S che p garantisce la verità di p dovrebbe implicare che la credenza di S è giustificata? La
garanzia potrebbe avere una natura completamente fortuita. Dunque questa interpretazione di rivela
insufficiente.
La nozione di incorreggibilità logica ha un posto di maggior rilievo nella storia delle concezioni della
giustificazione. Ma anche tali interpretazione presenta difetti simili a quelli dell’interpretazione nomologica.
Il mero fatto che la credenza che p garantisca logicamente la sua verità non conferisce uno status
giustificazionale a tale credenza.
La prima difficoltà arriva dalle verità logiche o matematiche. Ogni proposizione vera della logica o della
matematica è logicamente necessaria. Quindi ogni proposizione di questo tipo è incorreggibile. Assumiamo
che Nelson creda una certa verità matematica molto complessa all’istante t. Poiché tale proposizione è
logicamente incorreggibile, implica che la credenza di Nelson in questa verità a t è giustificata. Possiamo
però facilmente supporre che la credenza di Nelson non sia il risultato di un ragionamento matematico
appropriato, né il risultato di un appello ad un’autorità affidabile. Magari Nelson crede questa verità a
causa di un ragionamento confuso o di una congettura avvenuta e infondata. La sua credenza non è quindi
giustificata.
Essendo il caso delle verità logiche e matematiche peculiare, dato che la loro verità è assicurata
indipendentemente dalle credenze di chiunque, potrebbe sembrare che si possa catturare meglio l’idea di
‘credenze che garantiscono logicamente la verità’ in casi in cui le proposizioni sono contingenti. Ma anche
in questo caso possono l’interpretazione logica non può essere salvata, in quanto esistono dei
controesempi riguardanti proposizioni puramente contingenti. (Esempio di Humperdink e la pseudologica
dei 40 disgiunti- pag 195).
Lo sbaglio in questi tentativi di produrre un principio accettabile come clausola di base sta nel fatto che
ciascuno dei tentativi conferisce lo status di “giustificata” a una credenza senza porre restrizioni sul
perché la credenza sia posseduta, cioè, su cosa origini causalmente la credenza o su cosa la sostenga
causalmente.
Principi corretti devono porre dei requisiti causali, dove con causa si intende sia ciò che sostiene, sia ciò che
origina una credenza. Quindi le condizioni che non richiedono cause appropriate per una credenza non
garantiscono la giustificatezza.
Premesso che in principi di per la credenza giustificata devono fare riferimento alla cause della credenza,
quali tipi di cause conferiscono giustificatezza? Passiamo in rassegna alcuni processi difettosi di formazione
di credenze: il ragionamento confuso, il sognare ad occhi aperti, il mero presentimento o le supposizioni.
Tutti questi processi hanno in comune il carattere di inaffidabilità, tendono a produrre un errore gran parte
delle volte. Al contrario processi di formazione delle credenze in grado di conferire giustificazione, come il
ricordare, il buon ragionamento e l’introspezione, hanno in camune l’affidabilità; le credenze che essi
producono sono generalmente vere.
Da ciò possiamo dunque dedurre che: lo status giustificazionale di una credenza è una funzione
dell’affidabilità del processo o dei processi che causano, laddove l’affidabilità consiste nella tendenza di
un processo a produrre credenze che sono vere piuttosto che false.
Per testare ulteriormente questa tesi, si osservi che la giustificatezza non è un concetto puramente
categorico. Possiamo infatti considerare alcune credenze come più giustificate di altre. Consideriamo ad
esempio le credenze percettive:
supponiamo che Jones creda di aver appena visto una capra delle nevi. La nostra valutazione della
giustificatezza della credenza è determinata dal fatto che egli abbia intravisto la creatura da una grande
distanza, o le abbia invece dato una buona occhiata da una trentina di metri. La sua credenza nel secondo
caso è più giustificata che nel primo. E, se la sua credenza è vera, siamo più inclini a dire che egli conosce
nel secondo caso che nel primo. la differenza fra i due casi sta nel fatto che, le credenze visive formate
tramite un’osservazione breve e frettolosa, o in cui l’oggetto della percezione è ad una grande distanza,
tendono ad essere sbagliate più spesso delle credenze visive fondate da un’osservazione dettagliata e
tranquilla, o in cui l’oggetto è vicino.
Ma, quanto deve essere affidabile un processo di formazione di credenze affinché le credenze da esso
risultanti siano giustificate?
Sembra chiaro che non è richiesta l’affidabilità perfetta. I processi di formazione di credenze che a volte
producono errori conferiscono comunque giustificazione. Ne segue che possono esserci credenze
giustificate che sono false.
Con ‘processo’ indichiamo un’operazione funzionale o procedura, cioè qualcosa che genera una mappatura
da alcuni stati -“input”- ad altri stati -“output”. Gli output nel caso presente sono stati che consistono nel
credere questa o quella posizione in un dato istante. In questa interpretazione un processo è un type in
quanto opposto ad un token. Sono solo i type ad avere proprietà statistiche e sono tali proprietà statistiche
a determinare l’affidabilità di un processo. Tuttavia i type non sembrano in grado di causare una credenza,
ed è proprio questa proprietà che deve rientrare nel processo: quando però diciamo che una credenza è
causata da un dato processo, inteso come procedura funzionale, possiamo interpretare quello che diciamo
come se significasse che la credenza è causata dagli input particolare del processo nella particolare
occasione in questione. Un esempio di processi di formazione di credenze costruiti come operazioni
funzionali sono i processi di ragionamento, dove gli input includono credenze antecedenti e le ipotesi prese
in considerazione.
Un problema riguarda il grado di generalità dei type di un processo in questione. Le relazione fra input e
output possono essere specificate in modo molto ampio o molto ristretto, e il grado di generalità
determinerà in parte il grado di affidabilità. Un type di un processo può essere selezionato così
restrittivamente che se ne verifichi in tutti un’unica occorrenza, e quindi questo type risulta completamente
affidabile o completamente inaffidabile. Se fossero selezionati type di processo tanto ristretti si potrebbe
dire che credenze intuitivamente ingiustificate risultino da processi perfettamente affidabili, e che credenze
intuitivamente giustificate risultino da processi non affidabili.
E’ però chiaro che il pensiero ordinario riguardo ai type di processo li ritaglia in modo ampio anche se non è
possibile dare una spiegazione precisa dei nostri principi intuitivi. Un suggerimento plausibile è che i
processi rilevanti siano neutrali rispetto al contenuto.
Si potrebbe sostenere, per esempio, che il processo di inferire p ogni volta che il Papa asserisce p potrebbe
costituire un problema per la nostra teoria. Se il Papa è infallibile, questo processo sarà perfettamente
affidabile; tuttavia non considereremmo giustificare credenze risultanti da questo processo. La restrizione
di neutralità rispetto al contenuto evita questa difficoltà.
In aggiunta al problema della “generalità” o dell’“astrattezza”, c’è il problema dell’“estensione” dei processi
di formazione di credenze. Molto spesso le credenze includono eventi esterni all’organismo. Tali eventi,
secondo Goldman, non devono essere inclusi tra gli input dei processi di formazione delle credenze.
L’estensione dei processi di formazione di credenze deve essere ristretta agli eventi “cognitivi”, cioè agli
eventi interni al sistema nervoso dell’organismo. Le ragioni di Goldman a sostegno di ciò derivano dal fatto
che, la giustificatezza sembra essere una funzione fi come un soggetto cognitivo tratta i suoi input
ambientali, cioè con la bontà o meno delle operazioni che registrano e trasformano la stimolazione che lo
raggiunge. Dunque una credenza giustificata è, a grandi linee, una credenza che risulta da operazioni
cognitive che sono buone o di successo. Le operazioni cognitive sono però costruite come operazioni
delle facoltà cognitive, come cioè dispositivi di “elaborazione di informazioni” interne all’organismo.
Con questi punti in mente, può essere avanzato il seguente principio per la clausola di base per le credenze
giustificate:
Poiché “processo di formazione di credenze affidabile” è stato definito nei termini di nozione come
credenza, verità, frequenza statistica, e simili, esso non è una locuzione epistemica. Quindi 5. è una
clausola di base accettabile.
Un processo di ragionamento è affidabile solo se produce generalmente credenze che sono vere, e
similmente, che un processo mnemonico è affidabile solo se conduce generalmente a credenze che sono
vere. Questi requisiti però sono troppo forti. Non ci si può aspettare che una procedura di ragionamento
produca credenze vere se è applicata a premesse false, né che la memoria conduca a una credenza vera se
la credenza originale che prova a mantenere è falsa. Ciò che ci serve per il ragionamento e la memoria è
una nozione di “affidabilità condizionale”. Un processo è condizionalmente affidabile quando una
proporzione sufficiente delle credenze da esso risultanti è vera quando ha come input credenze vere.
Con questa precisazione in mente distinguiamo fra: processi cognitivi dipendenti dalle credenze e
indipendenti dalle credenze.
Possiamo quindi sostituire il principio 5. con i seguenti due principi, il primo dei quali è un principio per la
clausola di base, il secondo un principio per la clausola ricorsiva:
Se aggiungiamo a questi due principi la clausola di chiusura standard, otteniamo una teoria completa della
credenza giustificata.
La teoria dice che, una credenza è giustificata se e solo se essa è “ben formata”, cioè se ha come antenati
operazioni cognitive affidabili e/o condizionalmente affidabili. La teoria delle credenze giustificate qui
proposta è, quindi, una teoria Storica o Genetica. Essa si contrappone all’approccio dominante alla
credenza giustificata, un approccio che genera quelle che sono chiamate teorie della “Sezione nel Tempo
Attuale” dove lo status giustificazionale di una credenza è reco completamente una funzione di ciò che è
vero del soggetto cognitivo al tempo della credenza.
Una teoria Storia fa invece dipendere lo status giustificazionale di una credenza dalla sua storia
precedente. Dato che la teoria di Goldman enfatizza l’affidabilità dei processi di generazione delle
credenze, potrebbe essere chiamata “Affidabilismo Storico”.
La teoria Storica della credenza giustificata che Goldman difende è connessa alla teoria causale della
conoscenza. Questo è quello che aveva in mente quando, verso l’inizio del saggio, osserva che la sua teoria
della credenza giustificata rivela che la giustificatezza è strettamente connessa alla conoscenza.
1) Alcuni potrebbero sostenere che alcune credenze giustificate non derivano il loro status
giustificazionale dai loro antenati causali. Goldman risponde a tale obiezione affermando che
l’introspezione dovrebbe essere considerata una forma di retrospezione. Quindi una credenza
giustificata che io sto provando dolore “ora” ottiene il suo status da una storia causale rilevante,
seppur breve.
2) La seconda obiezione si concentra sull’elemento dell’affidabilità piuttosto che sull’elemento causale
o storico. Poiché la teoria intende coprire tutti i casi possibili, essa sembra implicare che per ogni
processo cognitivo C, se C è affidabile nel mondo possibile W, allora ogni credenza in W derivante
da C è giustificata. Ma ciò consente dei facili controesempi: possiamo infatti immaginare un mondo
possibile in cui un demone benevolo organizza le cose in modo tale che le credenze formate
attraverso il sognare ad occhi aperti diventano vere. Questo renderebbe il sognare ad occhi aperti
un processo affidabile in quel mondo possibile, anche se non consideriamo giustificate le credenze
che risultano dal sognare ad occhi aperti.
E’ possibile ribattere a questo caso in diversi modi:
Una possibilità è dire che nel mondo possibile immaginato le cedenze che risultano dal
sognare ad occhi aperti sono giustificate. Abbandoniamo così la richiesta che sognare ad
occhi aperti non possa mai, intuitivamente, conferire giustificatezza.
Per quelli che sostengono che sognare ad occhi aperti non potrebbe conferire
giustificatezza neppure nel mondo immaginario, ci sono due vie d’uscita. Primo: si
potrebbe suggerire che il criterio appropriato per la giustificatezza è la propensione di un
processo a generare credenze che sono vere in un ambiente non manipolato. In poche
parole, l’idoneità di un processo di formazione delle credenze è una funzione solo del suo
successo in situazioni “naturali” dove non viene coinvolto nessun demone o altre creature.
Secondo: potremmo riformulare la nostra teoria e invece di dire che una credenza nel
mondo possibile W è giustificata se e solo se essa risulta da un processo cognitivo che è
affidabile in W, possiamo formularla dicendo che una credenza nel mondo possibile W è
giustificata se e solo se essa risulta da un processo cognitivo che è affidabile nel nostro
mondo. Dato che il sognare ad occhi aperti non rientra fra i processi selezionati in grado di
conferire giustificazione esso, nonostante sia affidabile in W, non porta a credenze
giustificate.
La ragione per cui noi consideriamo giustificate certe credenze è che esse sono formate attraverso quelli
che noi crediamo essere dei processi affidabili di formazione delle credenze. Le nostre credenze riguardo a
quali processi di formazione delle credenze siano affidabili possono essere erronee, ma ciò non intacca
l’adeguatezza della spiegazione. Dato che noi crediamo che il sognare ad occhi aperti sia un processo di
formazione delle credenze non affidabile, consideriamo non giustificate le credenze formate sognando a
occhia aperti. Ciò che importa, quindi, è ciò che crediamo riguardo al sognare ad occhi aperti, non ciò che è
vero del sognare a occhi aperti.
Tuttavia una terza obiezione richiederà alcune revisioni alla teoria proposta finora. In base alla nostra teoria
una credenza è giustificata nel caso in cui essa sia causata da un processo che è di fatto affidabile, o che noi
generalmente crediamo essere affidabile.
Supponiamo che S abbia ragione di credere che la sua credenza sia causata da un processo inaffidabile,
nonostante i suoi antenati causali siano completamente affidabili. Date queste circostanze non
negheremmo forse che la credenza di S sia giustificata? Ciò sembra mostrare che la nostra analisi, per come
è formulata ora, è sbagliata.
Questo esempio suggerisce un cambiamento fondamentale nella teoria. Lo status giustificazionele di una
credenza non è solamente una funzione del processo cognitivo realmente impiegato nella sua produzione,
ma è anche una funzione dei processi che potrebbero e dovrebbero essere impiegati. Potremmo dunque
proporre la seguente revisione della nostra teoria.
10. Se la credenza di S che p a t risulta da un processo cognitivo affidabile, e non c’è un processo
affidabile o condizionalmente affidabile disponibile a S tale che, se fosse stato usato da S in
aggiunta al processo realmente usato, sarebbe risultato nella non credenza di S che p a t, allora
la credenza di S che p a t è giustificata.
Un primo problema riguarda l’estensione di “disponibile”. Non sembra infatti plausibile che tutti i processi
disponibili debbano essere usati. Ciò che bisogna qui considerare sono quei processi come il richiamare alla
mente evidenze acquisite in precedenza, il valutare le implicazioni di quell’evidenza. E’ certo una
definizione vaga, ma la stessa nozione ordinaria di giustificatezza lo è.
C’è però un uso di giustificato in cui non è implicato o presupposto che sia una credenza ad essere
giustificata. E’ il caso del consiglio, ad esempio, in cui si suppone che il richiedente sia ancora in sospeso sul
giudizio. Tale uso non rientra nella teoria.
Distinguiamo due usi di “giustificato”:
un uso ex post: quando esiste una credenza e diciamo di quella credenza che essa è (o non è)
giustificata
un uso ex ante: quando non esiste tale credenza o vogliamo ignorare la sua esistenza.
La teoria presentata è ex post. S invece è giustificato ex ante a credere che p a t solo nel caso in cui il suo
stato cognitivo complessivo a t sia tale che a partire da quello egli potrebbe credere che p in modo tale
che questa credenza sarebbe giustificata ex post.
L’analysandum appropriato è quello ex post poiché ciò che è cruciale per determinare se una persona
conosca una proposizione è se essa ha nella proposizione una credenza che sia giustificata.
L’obiezione più fondamentale alle teorie affidabiliste della giustificazione è probabilmente quella che
solleva la questione della loro adeguatezza come spiegazioni della natura della giustificazione medesima.
Una formulazione classica di tale obiezione fu sviluppata da Laurence BonJour nella quale egli attacca una
concezione della giustificazione e della conoscenza a cui dà il nome di “esternismo”.
Il bersaglio immediato del suo attacco sono quei tentativi di bloccare il regresso epistemico che coniugano
una concezione fondazionalista della struttura della giustificazione con una teoria affidabilista della
giustificazione delle credenze di base. La sua strategia è incentrata sulla presentazione di una serie di
controesempi che, se hanno successo, avvalorano una conclusione che si estende alla giustificazione di
tutte le nostre credenze.
BounJour cercherà di esaminare queste prospettive esterniste. Il suo interesse sarà focalizzato
sull’accettabilità complessiva di una soluzione esternista al problema del regresso, e dunque di una versione
esternista del fondazionalismo. Cercherà di argomentare che l’esternismo non è una posizione accettabile.
Ma il tentativo di formulare un tale argomento solleva sin da subito un problema metodologico che va
affrontato sin dall’inizio. Considerato dal punto di vista generale della tradizione epistemologica
occidentale, l’esternismo rappresenta una novità dato che nessun filosofo della conoscenza avrebbe mai
sostenuto che le credenze di una persona possano essere epistemicamente giustificate semplicemente in
virtù di fatti o relazioni che rimangono all’esterno della sua concezione soggettiva. Il suggerimento
contenuto nell’esternismo sarebbe stato dunque considerato dalla maggior parte degli epistemologi come
non pertinente alla questione epistemologica principale cosicché il filosofo che l’avesse avanzato sarebbe
stato ritenuto confuso oppure accusato di avere semplicemente cambiato argomento. Il problema tuttavia
è che questo stesso radicalismo ha l’effetto di proteggere l’esternismo da ogni confutazione diretta. La
soluzione di BonJour sarà quella di procedere su un piano intuitivo considerando una serie di esempi.
Il primo compito per BonJour è quello di formulare una versione chiara ed accettabile dell’esternismo. Per
lui la concezione esternista sviluppata più compiutamente è quella di Armstrong.
Come tutti gli esternisti Armstrong fa dipendere l’accettabilità delle credenze di base da una relazione
esterna fra la persona e la sua credenza da un lato e il mondo dall’altro, nello specifico da una
connessione nomologica:
“Deve esserci una connessione nomologica tra lo stato di cose Bap (cioè il credere che p da parte di a) e lo
stato di cose che rende vera p, tale che, dato Bap, deve darsi il caso che p”.
Questo è ciò che Armstrong chiama “il modello del termometro” della conoscenza non-inferenziale: come
le letture di un termometro affidabile rispecchiano nomologicamente la temperatura, così le nostre
credenze di base rispecchiano nomologicamente gli stati di cose che le rendono vere. Una persona le cui
credenze soddisfano tale condizione è, in effetti uno strumento cognitivo affidabile; ed è precisamente in
virtù di tale affidabilità che, secondo Armstrong, le credenze di base sono giustificate. Ovviamente non tutti
i termometri sono affidabili, e anche uno che lo sia può dare una lettura corretta solo se si trova in certe
condizioni. Analogamente, non è un requisito della giustificazione di una credenza di base che tutte le
credenze di quel tipo possedute da quel particolare individuo siano affidabili. La legge che collega il
possesso della credenza alla stato di cose che la rende vera dovrà dunque menzionare delle proprietà
della persona coinvolta che vadano al di là del mero possesso di credenza.
Dunque:
una credenza non-inferenziale è giustificata se e solo se esiste una qualche proprietà H della persona che
crede, tale che è una legge di natura che, ogniqualvolta una persona soddisfa H e ha quella credenza,
allora quella credenza è vera.
H può essere complicata a piacere e può includere fatti riguardanti i processi mentali, l’ambiente della
persona che ha la credenza ma non deve coinvolgere nulla che implichi la verità della credenza: una
connessione logica di questo tipo non costituirebbe una legge di natura.
A questa teoria Amstrong aggiunge altre precisazioni volte ad evitare varie obiezioni:
la connessione nomologica tra la credenza e lo stato di cose che la rende vera deve essere ristretta
alla relazione che lega “un segno completamente affidabile alla cosa significata”. Ciò che si vuole
escludere è il caso i cui è la credenza stessa a causare lo stato di cose che la rende vera.
la proprietà H coinvolta nella legge di natura non deve essere troppo specifica: deve esserci una
reale possibilità che la situazione descritta dalla legge si ripeta. Ciò che si vuole escludere è la
possibilità di una “allucinazione veridica”, cioè il caso di una credenza allucinatoria che risulti
accidentalmente corretta.
Caso I: Samantha crede senza pro o contro di essere chiaroveggente. Crede che il
presidente si trovi a New York e conserva tale credenza facendo appello ai suoi presunti
poteri di chiaroveggenza anche se ha evidenze contrarie alla sua credenza fatte di servizi
giornalistici, comunicati stampa, immagini televisive indicante che il presidente si trova a
Washington D.C. Ora il presidente si trova effettivamente a New York e l’evidenza contraria
fa parte di un grande imbroglio organizzato dalle autorità per far fronte ad una minaccia di
assassinio. Inoltre Samantha ha effettivamente poteri di chiaroveggenza totalmente
affidabili nelle condizioni che erano soddisfatte in quel momento e la sua credenza a
proposito del presidente è stata prodotta dall’azione dei suoi poteri.
In questo caso il criterio di affidabilità di Armstrong è soddisfatto. Ciononostante appare chiaro che questo
non è un caso di credenza giustificata o di conoscenza: Samantha si comporta in modo totalmente
irrazionale e irresponsabile nel trascurare l’evidenza cogente che porterebbe a credere che il presidente si
non si trovi a New York, sulla base di poteri di chiaroveggenza che non ha ragione di ritenere di avere; e
questa irrazionalità non viene cancellata, in qualche modo dal fatto che si trova ad avere ragione.
L’irrazionalità e l’irresponsabilità di Samantha impediscono alla sua credenza di essere
epistemologicamente giustificata.
Questo caso mostra come sia necessario aggiungere un’ulteriore condizione per integrare quella proposta
da Armstrong: non solo deve essere vero che tra la credenza di una persona e lo stato di cose che la rende
vera vi è una connessione di tipo nomologico tale che, data la credenza, lo stato di cose non può darsi, ma
deve anche essere vero che la persona in questione non possiede ragioni cogenti per ritenere che la
credenza in questione sia falsa.
Supponiamo che non solo la chiaroveggente, anziché avere evidenza contraria alla particolare credenza che
si è formata, abbia evidenza contraria all’ipotesi che essa stessa possieda un tale potere cognitivo, come nel
seguente caso:
Caso II: Casper crede di avere poteri di chiaroveggenza, anche se non possiede ragioni a
favore di tale credenza. Egli conserva la sua credenza nonostante che, nelle numerose
occasioni in cui ha tentato di verificare una delle credenze che presumeva derivare da tali
poteri, essa si sia sempre rivelata falsa. Un giorno Casper arriva a credere, senza alcuna
ragione apparente, che il presidente si trovi a New York, e conserva la sua credenza
facendo appello ai suoi presunti poteri di chiaroveggenza. Ora, il presidente si trova
effettivamente a New York; e Casper, nelle condizioni che erano soddisfatte in quel
momento, possiede effettivamente dei poteri di chiaroveggenza totalmente affidabili, dai
quali è stata prodotta quella credenza. L’apparente falsità delle altre credenza di Casper
derivanti dalla chiaroveggenza era dovuta, in alcuni casi, al fatto che si era trovato nelle
condizioni sbagliate per l’azione dei suoi poteri, e in altri casi a inganni o cattiva
informazione.
Secondo la teoria di Armstrong, anche con le modifiche appena suggerite, dobbiamo affermare che la
credenza è giustificata e che costituisce quindi un caso di conoscenza: la condizione di affidabilità è
soddisfatta, e Casper non ha ragioni per ritenere che il Presidente non si trovi a New York. Eppure questo
risultato continua a sembrare sbagliato. Casper è del tutto irrazionale e irresponsabile da un punto di vista
epistemico, nell’ignorare l’evidenza che indica che le sue credenze di quel tipo non sono affidabili. E per tale
ragione la credenza in questione non è giustificata.
In questo caso Casper era in possesso di buone ragioni per ritenere di non avere il tipo di capacità cognitiva
che credeva di possedere. Ma il risultato sarebbe lo stesso, se qualcuno possedesse invece buone ragioni
per pensare che in generale non possa esistere una capacità cognitiva siffatta con nel seguente caso:
Caso III: Maud crede di avere poteri di chiaroveggenza, anche se non ha ragioni per
crederlo. Conserva tale credenza nonostante venga inondata da enormi quantità di
evidenza scientifica presentata da amici e parenti, che sembra indicare che un potere del
genere non è possibile. Un giorno Maud arriva a credere, senza alcuna ragione apparente,
che il presidente di trovi a New York e conserva la sua credenza facendo appello ai suoi
presunti poteri di chiaroveggenza. Ora, il presidente si torva effettivamente a New York, e
Maud possiede effettivamente, nelle condizioni che erano soddisfatte in quel momento dei
poteri di chiaroveggenza totalmente affidabili. Inoltre, la sua credenza a proposito del
presidente è stata prodotta dall’azione di tali poteri.
Ancora una volta il criterio dell’affidabilità di Armstrong sembra essere soddisfatto. Tuttavia Maud non
sembra giustificato nella sua credenza riguardante il presidente e non abbia conoscenza. Maud ha
eccellenti ragioni per ritenere che un potere cognitivo come quello che crede di possedere non sia possibile
e che sia irrazionale e irresponsabile da parte sua credere in tale potere e continuare ad accettare e a
conservare credenze su una base tanto dubbia.
Casi come questi due mostrano come sia necessario apportare un’ulteriore modifica alla teoria di
Armstrong: oltre alla connessione nomologica tra la credenza e la verità e all’assenza di qualunque ragione
contraria alla particolare credenza in questione, deve darsi il caso che la persona che ha la credenza non
abbia ragioni cogenti, sia esse relative al suo caso specifico oppure generali, per ritenere che tale
connessione nomologica non esista, e cioè che credenze di quel genere non siano affidabili.
Questi casi e le modifiche apportate in risposta a essi suggeriscono anche una morale importante, che
conduce a un’abiezione intuitiva di fondo all’esternismo: l’affidabilità esterna o oggettiva non basta a
compensare l’irrazionalità soggettiva.
Finora abbiamo considerato però soltanto situazioni in cui l’irrazionalità soggettiva della persona che ha la
credenza si manifesta nell’ignorare ragioni positive che essa pure possiede per mettere in discussione o
quella credenza specifica o delle credenze ottenute in quel particolare modo. Ora però, dobbiamo chiederci
se, in una situazione in cui fossero assenti queste ragioni positive per un’accusa di irrazionalità,
l’accettazione di una credenza per cui fosse disponibile solo una giustificazione esternista non potesse
continuare ad essere descritta come soggettivamente irrazionale in un senso che escluda il suo essere
epistemologicamente giustificata.
Consideriamo un altro caso di chiaroveggenza in cui il criterio di Armstrong, modificato tenendo conto di
tutti i suggerimenti avanzati, risulta soddisfatto:
Secondo la posizione esternista modificata, Norman è epistemologicamente giustificato quando crede che il
presidente si trovi a New York cosicché la sua credenza sia un esempio di conoscenza.
Tuttavia è stato deliberatamente omesso in questo caso se Norman crede di avere dei poteri di
chiaroveggenza, pur non avendo alcuna giustificazione per tale credenza. Consideriamo entrambe le
possibilità.
Supponiamo che Norman abbia questa credenza e che ciò contribuisca all’accettazione della sua credenza
originaria sulla posizione del presidente nel senso che, se egli dovesse convincersi di non avere tale potere
smetterebbe anche di accettare la sua credenza sul presidente. Ma da un punto di vista epistemico è
evidentemente irrazionale per Norman avere tale credenza quando non ha nessuna ragione per ritenere
che sia vera o anche soltanto per pensare che tale potere sia possibile, anche perché la credenza
riguardante la sua chiaroveggenza non ha neppure una giustificazione esternista. Se dunque diciamo che la
sua credenza è irrazionale e ingiustificata dobbiamo dire la stessa cosa della credenza concernente il
presidente.
Se invece aggiungiamo al caso la condizione che Norman non crede di avere poteri di chiaroveggenza,
capire cosa Norman ritenga stia succedendo diventa assai problematico. Dal suo punto di vista non esiste
apparentemente nessun modo in cui egli possa conoscere la posizione del presidente. Perché dunque
continua ad avere la credenza che il presidente si trovi a New York?
Perché il semplice fatto che non vi è alcun modo in cui egli abbia potuto ottenere questa informazione non
costituisce una ragione sufficiente per classificare questa credenza come un sospetto infondato. Per queste
ragioni l’accettazione da parte di Norman della credenza sulla posizione del presidente è epistemicamente
irrazionale e irresponsabile e di conseguenza ingiustificata, creda egli o meno di possedere dei poteri di
chiaroveggenza, se non ha una giustificazione per tale credenza. Parte del dovere epistemico di ciascuno di
noi è riflettere criticamente sulle nostre credenze, e tale riflessione critica impedisce di credere cose
rispetto alle quali non abbiamo mezzi affidabili di accesso epistemico.
Ci troviamo di fronte al problema intuitivo fondamentale dell’esternismo: perché il semplice fatto che si dà
una relazione esterna del tipo appropriato dovrebbe significare che la credenza di Norman è
epistemicamente giustificata, quando la relazione in questione è totalmente al di la della sua
comprensione?
E’ chiaro che una persona che sapesse che il criterio di Armstrong è soddisfatto sarebbe nella posizione di
costruire un argomento giustificatorio molto semplice e del tutto cogente per la credenza in questione;
tuttavia Norman non è egli stesso nella condizione di utilizzare questo argomento, e non è chiaro perché il
mero fatto che l’argomento è, per così dire, potenzialmente disponibile in tale situazione dovrebbe
giustificare la sua accettazione della credenza.
Dopotutto, ciò che genera in primo luogo il problema del regresso è esattamente il requisito secondo cui,
affinché una credenza sia giustificata per un particolare individuo, è necessario non solo che ci siano
premesse vere disponibili in qualche modo nella situazione che potrebbero fornire la base per una
giustificazione, m anche che la persona che ha la credenza conosca, o almeno creda in maniera giustificata,
un simile insieme di premesse e sia quindi nella posizione di utilizzare l’argomento corrispondente. La
posizione esternista sembra equivalere semplicemente all’abbandono di questo requisito generale per una
cerca classe di casi, e la domanda che viene naturale porsi è perché mai ciò dovrebbe risultare accettabile in
questi casi quando non lo è in generale. L’esternismo sembra essere pertanto una soluzione puramente ad
hoc al problema del regresso epistemico.
Una ragione per cui l’esternismo può apparire inizialmente plausibile è che, se la relazione esterna in
questione ha effettivamente luogo, allora Norman non sbaglia, di fatto, ad accettare la credenza, e, in un
certo senso, non è un caso che sia così. Ma questo non giustifica la credenza di Norman. Dal suo punto di
vista soggettivo, è un caso che la credenza sia vera. Ovviamente, non sarebbe un caso dal punto di vista del
nostro ipotetico osservatore esterno che conosce tutti i fatti e le leggi rilevanti. Ciò ci porta a constatare
che: la razionalità e la giustificabilità della credenza di Norman va giudicata dal punto di vista dello stesso
Norman, anziché da un punto di vista che non gli è accessibile.
(rafforzare tale obiezione facendo appello alla connessione tra conoscenza e accettazione razionale. pag.
233)
L’obiezione mossa da BonJour è che qualunque teoria che, come affidabilismo, faccia dipendere la
giustificazione delle nostre credenze esclusivamente da fattori esterni alla prospettiva soggettiva della
persona che crede, senza esigere in aggiunta che quest’ultima abbia accesso cognitivo di qualche tipo ai
fattori che determinano la giustificazione della sua credenza, comporta una violazione delle nostre
intuizioni più radicate sulla natura della razionalità.
l’internismo è una posizione piuttosto forte, in quanto sostiene che lo status epistemico è
funzione esclusivamente di fattori interni.
appare evidente che vi sono diversi tipi di status epistemicamente normativo, che
corrispondono a diversi tipi di valutazione epistemica.
da differenti modi di intendere l’espressione “interno alla prospettiva di S” discendono
differenti modi di intendere l’internismo ( e l’esternismo).
L’interpretazione più comune di tale espressione è: un certo fattore F è interno alla prospettiva di S se e
solo se S ha qualche tipo di accesso privilegiato al sussistere o meno di F. Per esempio, un fattore F è
interno alla prospettiva di S se S può sapere sulla base della sola riflessione se F sussista.
Connesso a tale modo di intendere l’espressione “interno alla prospettiva di S” vi è un secondo modo: un
fattore F è interno alla prospettiva di S se e solo se F è parte della vita mentale di S. Per esempio, secondo
questa interpretazione, l’esperienza percettiva di una persona costituisce qualcosa di interno, poiché il
modo in cui le cose appaiono percettivamente a S è parte della vita mentale di S.
Queste due interpretazioni sono connesse in quanto è plausibile ritenere che una persona abbia un accesso
privilegiato a ciò che accade nella propria vita mentale. In tal caso le due interpretazioni finirebbero con
l’essere in realtà una sola. L’internismo sarebbe allora la tesi che lo status epistemico è funzione
esclusivamente di fattori che sono parte della vita mentale di un soggetto e ai quali, tale soggetto ha
accesso privilegiato. Appare infine evidente come alcune varietà di internismo siano inizialmente più
plausibili di altre e come alcuni tipi di valutazione epistemica siano esternisti. Soprattutto se una credenza
valga come conoscenza è una questione esterna e questo perché una credenza costituisce conoscenza
soltanto se è vera e se una credenza sia vera è una questione tipicamente esterna. Tuttavia c’è anche
un’altra ragione per intendere la conoscenza e molti altri tipi di valutazioni epistemiche in senso esternista.
Consideriamo il fatto che possiamo valutare sia le persone, sia le loro credenze in due modi diversi: da un
punto di vista “oggettivo” oppure da u punto di vista “soggettivo”.
Da punto di vista oggettivo possiamo chiederci se vi sia un ‘buon adattamento’ tra i poteri cognitivi di una
persona e il mondo. Per esempio, possiamo chiederci se la persona abbi una comprensione appropriata del
mondo che la circonda oppure se i suoi metodi di indagine siano affidabili, ossia se sia probabile che
producano risultati corretti. Ogni qual volta qualcuno ottiene valutazioni positive sotto questi aspetti anche
le sue credenze pertinenti saranno valutate positivamente. Ma vi è una seconda grande categoria di
valutazioni epistemiche che non considera se una credenza sia ben formata oggettivamente, ma se sia ben
formata soggettivamente. Non basa cioè sull’adattamento oggettivo ma sull’appropriatezza soggettiva.
Questi due tipi di valutazione posso separarsi.
Es: supponiamo che Marco creda che ci sia un fuoco di fronte a lui, e che lo creda sulla base di una vivida
esperienza sensoriale inserita in un insieme ampio e coerente di credenze di sfondo. Supponiamo anche
che egli sia vittima di un’illusione. Tale illusione non può però essere rilevata e non accade per
responsabilità dello stesso Marco. Allora qualsiasi valutazione epistemica della credenza in questione
ricadrà all’interno di una di due grandi categorie, o di una qualche combinazione di esse. Tale credenza
potrà infatti essere valutata nei termini del sua adattamento oggettivo ( nel qual caso sarà messa
abbastanza male) oppure potrà essere quanto alla sua appropriatezza soggettiva ( nel qual saco sarà messa
decisamente meglio).
Se si considerano le valutazioni appartenenti alla prima categoria l’internismo non è neppure un’opzione.
Le valutazioni da un punto di vista oggettivo coinvolgono fattori quali la correttezza, l’affidabilità e
appropriate relazioni causali con l’ambiente. Sono cioè fattori che non possono essere intesi come interni
alla nostra prospettiva cognitiva. Ecco perché non vi sono teorie interniste.
La conoscenza sembrerebbe richiedere sia fattori oggettivi sia fattori soggettivi. Una credenza è da
considerarsi conoscenza se è sia oggettivamente ben formata sia soggettivamente appropriata. Ma
poiché il primo coinvolge fattori esterni, la conoscenza è essa stessa esterna. Dunque il modo migliore per
intendere l’esternismo è considerarlo una tesi riguardante la seconda categoria di valutazioni epistemiche:
ovvero la tesi sui fattori che determinano l’appropriatezza soggettiva.
A questo punto abbiamo raggiunto il seguente modi di intendere l’internismo:
I. Se una credenza c sia soggettivamente appropriata per una persona S è esclusivamente una
questione di fattori interni alla prospettiva di S.
Supponiamo di adoperare l’espressione “giustificazione epistemica” come nome del tipo di appropriatezza
soggettiva che si richiede per la conoscenza. Una versione standard di internismo sostiene che I. è vera in
relazione alla giustificazione epistemica. In alternativa si potrebbe ritenere che I. sia vera per altri tipi di
appropriatezza indipendentemente dalla loro connessione con la conoscenza. Greco sostiene che
l’internismo sia falso in tutte le sue varianti. Per fare ciò prende in analisi tre considerazioni che solitamente
vengono adottate a favore dell’internismo.
(1) Una credenza c è giustificata epistemicamente per una persona S se e solo se credere c da parte di S
è epistemicamente responsabile
(2) La responsabilità epistemica è esclusivamente una questione di fattori interni alla prospettiva di S
Dunque,
(3) La giustificazione epistemica è esclusivamente una questione di fattori interni alla prospettiva di S.
Concediamo pure la premessa 1 dell’argomento, che la giustificazione epistemica sia una questione di
responsabilità epistemica. Tuttavia la premessa 2 è falsa. Non è vero che la responsabilità epistemica è
esclusivamente una questione di fattori interni alla prospettiva di S e questo perché:
in primo luogo la nozione di responsabilità è strettamente connessa alla nozioni di biasimo e lode. Per
esempio, giudicare se una persona sia o meno moralmente responsabile riguardo a una certa azione o
evento è spesso equivalente a giudicare se quella persona sia moralmente meritevole di biasimo
riguardo a quell’azione o evento. Analogamente, giudicare se una persona sia epistemicamente
responsabile rispetto a una credenza c è spesso equivalente a giudicare se quella persona sia
epistemicamente meritevole di biasimo rispetto a c. Ma, se una persona sia epistemicamente
meritevole di biasimo perché ha una certa credenza è in parte funzione del comportamento
antecedente di quella persona: se le ragioni di S per credere c sono il risultato di una negligenza
precedente, S non è adesso esente da biasimo nel credere c. (Esempio pag. 242)
In secondo luogo se una credenza sia da ritenere epistemicamente responsabile dipende, in parte da
come è stata formata. Possiamo infatti tracciare una distinzione tra l’avere buone ragioni per ciò che si
crede e il credere per buone ragioni. Ad esempio, chiunque conosca gli assiomi di matematica ha buone
ragioni per credere un certo teorema del sistema. Tuttavia, se non si fa due più due, non si crede quel
teorema per le ragioni giuste. ( Esempio pag. 242)
Se dunque le credenze sono state formate sulla base di cattive ragioni, non sono epistemicamente
meritevoli di lode.
Se mettiamo insieme tutto ciò arriviamo alla conclusione che la responsabilità epistemica non è
esclusivamente una questione di fattori interni alla prospe ttiva di S. Dunque intendere la giustificazione
epistemica in termini di responsabilità epistemica non fornisce un motivo per adottare l’internismo
sulla giustificazione epistemici.
Primo, appare ovvio che le valutazioni dal punto di vista oggettivo siano esterniste. Questo perché le
considerazioni circa la correttezza, l’affidabilità e le relazioni causali chiamano in causa fattori che sono
esternisti.
Secondo, le valutazioni dal punto di vista soggettivo sono anch’esse esterniste. Gli esempi precedenti
mostrano infatti come la responsabilità epistemica sia funzione dell’eziologia non meno dell’affidabilità
e l’eziologia di una credenza è una questione esterna, riguarda cose some la storia di quella credenza e
le ragioni per cui la si possiede e questi sono fattori esterni alla prospettiva del soggetto.
Terzo, non vi è alcun tipo interessante o importante di valutazione epistemica che non riguardi
l’adattamento oggettivo o l’appropriatezza soggettiva. Pertanto, nessun tipo importante o interessante
di valutazione epistemica o normativa epistemica corrispondente è internista.
Il mondo per comprendere come Greco sia arrivato a tale conclusione è guardare più da vicino allo
scopo della valutazione epistemica. E’ stato spesso rilavato che la conoscenza è un prodotto sociale
che ha valore pratico. Siamo esseri sociali altamente indipendenti, che usano e condividono
informazioni, Come tali, è essenziale che siamo in grado di identificare le buone informazioni e le
buone fonti di informazione. Dunque non sorprende che valutiamo se le nostre credenze siano
formate in maniera affidabile e responsabile. E valutazioni di questo tipo richiedono considerazioni
sull’eziologia e sulla correttezza. Sono dunque valutazioni esterniste.
Questo contesto mostra inoltre perché i giudizi che astraggono completamente da fattori esterni siano
privi di interesse. Perché, per esempio dovremmo preoccuparci del fatto che Maria non è al momento
meritevole di biasimo di quanto non lo fosse un momento fa? Ci interessa se Maria sia, in generale un
agente cognitivo responsabile e affidabile, se sia alla credenza in maniera affidabile e responsabile e
naturalmente, se la sua credenza sia vera. Queste considerazioni su Maria sono importanti per creature
come noi che usano e condividono informazioni. Al contrario, le valutazioni legate a una fetta di tempo
che astraggono totalmente dalla formazione delle credenza, dalla loro relazione col mondo e dal
carattere del soggetto che crede non saranno molto importanti. Naturalmente spesso noi desideriamo
astrarre da fattori esterni. Il punto è che non desideriamo mai astrarre da tutti questi fattori esterni in
una sola volta. O meglio, non abbiamo interesse per valutazioni epistemiche che siano interamente
interniste. Questo vale anche per le valutazioni morali. Ci preoccupiamo di quali persone siano buone e
di quali azioni siano giuste. Vale a dire: ci interessa se, in generale una persona sia un agente morale
affidabile e responsabile. E ci interessa se, in qualche caso particolare una persona abbia agito in modo
responsabile e affidabile. Ciò che non ci interessa sono valutazioni artificiali legate a una fetta di tempo,
per esempio se S non sia al momento meritevole di maggiore biasimo per aver prodotto un certo stato
di cosa di quanto non lo fosse prima. Né ci interessa se una certa azione A sia giusta in relazione alla
norme morali di S, astraendo da ogni domanda su come S abbia eseguito A, sul perché l’abbia eseguita
o sulla bontà stessa delle norme di S.
Sia le valutazioni morali sia quelle epistemiche, possiamo concludere, sono connesse al mondo in un
modo molto più stretto. Esse non riguardano soltanto ciò che è interno alla prospettiva di un soggetto,
ma anche il modo in cui tale prospettiva è in relazione con le cose esterne a essa.
PARTE TERZA
LO SCETTICISMO
Lo scetticismo viene solitamente presentato come un paradosso declinabile in due modi diversi
riconducibili uno a Cartesio e l’altro a David Hume.
Per introdurre il paradosso scettico cartesiano, consideriamo la possibilità logica che vi sia un genio
maligno o un computer estremamente potente che produca in noi l’impressione di interagire con
oggetti fisici. In realtà però questo non è altro che un sogno, oppure un’apparenza prodotta da un
computer. Diremmo dunque che questa ipotesi scettica è una possibilità logica in quanto non è
autocontraddittorio pensare che le cose possano stare così. Ma anche una possibilità metafisica ed
epistemica perché la nostra esperienza potrebbe essere opera di un sogno o di una simulazione
provocata da macchine molto potenti.
Ora nessun metodo potrebbe permetterci di discernere se stiamo effettivamente vedendo e toccando
oggetti fisici, oppure se stiamo solo sognando o immaginando di farlo. Se però non siamo in grado di
escludere di stare sognando di applicare il metodo, non possiamo neppure sapere che c’è un tavolo là
ove ci sembra di vederlo: dopotutto potrebbe essere solo un sogno. Una credenza così raggiunta
potrebbe essere vera, ma risulterebbe ingiustificata e, per tale ragione, non sarebbe conoscenza.
Per introdurre il paradosso scettico humeano, supponiamo invece di voler provare di sapere che vi è un
mondo esterno e che cercassimo di farlo partendo dalla nostra esperienza sensoriale che ci testimonia,
per esempio, che vi è la nostra mano qui di fronte a noi. Sulla base di tale esperienza possiamo allora
ragionare come segue: qui c’è la mia mano, se qui vi è una mano, vi è un mondo esterno, quindi il
mondo esterno esiste.
Come conosciamo però la premessa “qui c’è la mia mano”? Evidentemente la conosciamo sulla base
della nostra esperienza sensoriale ( per esempio sulla base che vediamo una mano di fronte a noi). Ma
questo, di per sé, non sembra darci una giustificazione per credere che qui vi sia una mano.
Quell’esperienza potrebbe infatti essere identica qualora fosse frutto di un’allucinazione o di un sogno
o di simulazioni provocate da macchine. Quindi può fungere da prova a favore di “ecco qui una mano”
solo se abbiamo già ragione di ritenere che sia stata prodotta dall’interazione con un oggetto fisico, in
condizioni ambientali normali e che i nostri sensi stiano funzionando a dovere. Ciò però significa che la
nostra esperienza può costituirsi come giustificazione per “ecco qui una mano” solo se diamo già per
scontato che vi sia un mondo esterno e che abbiamo una giustificazione per credere che vi sia. La prova
dell’esistenza del mondo esterno è pertanto circolare, visto che presuppone che si abbia una
giustificazione per la sua conclusione affinché si abbia una giustificazione per la sua premessa. Per tale
ragione non è una buona prova, cioè non è in grado di darci la giustificazione per credere che vi sia il
mondo esterno che stavamo cercando. Inoltre uno scettico humeano sostiene che quello sia l’unico
modo per cercare di provare che vi sia un mondo esterno.
E’ utile confrontare le due forme del paradosso scettico tra di loro:
quello cartesiano poggia sul presupposto che: sapere che qui vi è una mano implica che non si sta
sognando in questo momento.
Questo principio è intuitivo: il darsi della conoscenza esclude che si diano quelle condizione che la
impedirebbero. Assumendo inoltre
il principio di iteratività: se si che p, allora si sa anche di sapere che p
e il
principio di chiusura epistemica: se si sa che p e si sa che p implica q, allora si sa che q
si ottiene, il Principio cartesiano nella sua formulazione standard:
Se non si sa di non stare sognando, allora non si sa che qui c’è una mano.
Il principio cartesiano standard ci dice che se sappiamo di avere una mano, allora sappiamo di non stare
sognando. Questo genera una contraddizione con la supposizione di partenza; pertanto dobbiamo negare
di avere una mano.
Se il paradosso cartesiano mostra per via deduttiva che non possiamo sapere che vi è un mondo esterno,
date certe possibilità logiche e metafisiche, il paradosso humeano mostra, in prima istanza, che, anche
qualora sapessimo che qui vi è una mano e anche se ciò implicasse la conoscenza dell’esistenza del mondo
esterno, quella conoscenza dipenderebbe dall’informazione aggiuntiva che vi è un mondo esterno. Questa
informazione è però quello che dovremmo provare di sapere. Quindi l’argomento:
è deduttivamente valido e può anche darsi il caso che abbiamo effettivamente conoscenza dalla premessa
(1) e della conclusione (3). Eppure secondo lo scettico humeano, l’argomento non può effettivamente
essere una prova della conclusione perché avere conoscenza della premessa dipenda dall’avere già
conoscenza della conclusione. Quindi, se non sappiamo già che esiste il mondo esterno, questo argomento
non può certo darcene conoscenza.
In seconda istanza, lo scettico humeano si impegna a sostenere che non vi è altro modo di provare che
esista il mondo esterno oltre a quello visto poco fa. Si giunge così alla paradossale conclusione che non
sappiamo che vi sia. Dunque mettendo insieme i due aspetti dell’argomento scettico humeano possiamo far
emergere chiaramente il problema:
(1) L’esperienza ci dà conoscenza del fatto che vi è una mano solo se si sa già che vi è un mondo esterno.
(2) La conoscenza dell’esistenza del mondo esterno non può quindi derivare dall’esperienza
(3) Non vi è altro modo di sapere che vi è un mondo esterno
(4) Non si sa che c’è un mondo esterno
Un primo tentativo per bloccare il paradosso scettico cartesiano consiste nel negare il Principio di
iteratività che è necessario per derivare il paradosso cartesiano.
L’iteratività della conoscenza è chiaramente negata da alcuni esternisti. Secondo loro, si può avere
conoscenza anche là dove è impossibile sapere di sapere.
Ad esempio secondo l’esternista Sosa bisogna distinguere tra “conoscenza animale” e “conoscenza
riflessiva”. Per la conoscenza animale devono essere soddisfatte le seguenti condizioni:
La conoscenza deve essere accurata, cioè vera.
competente, ovvero ottenuta attraverso l’esercizio di una competenza cognitiva del soggetto.
appropriata, vale a dire vera perché competente.
Per Sosa la conoscenza animale è appropriata: cioè vera perché ottenuta per mezzo dell’esercizio di una
competenza cognitiva. Le competenza cognitive sono molteplici e si manifestano solo in condizioni normali,
che riguardano sia l’ambiente circostante al soggetto sia la situazione cognitiva complessiva.
Vi è poi la conoscenza riflessiva che dipende, secondo Sosa, dall’avere conoscenza animale del fatto che si
ha conoscenza animale di p.
Si ha conoscenza riflessiva di p se la credenza è vera, è creduta in base alla propria percezione, che
manifesta una capacità cognitiva del soggetto e, inoltre, si ritiene vero che p sullascorte di una
metacompetenza esercitata in condizioni normali. La metacompetenza in questione è “ la competenza di
default di dare per scontato che le condizioni siano appropriatamente normali, assenti segni specifici che
indichino il contrario”.
Secondo Sosa, l’avere conoscenza animale di p, cioè di una proposizione empirica come “Ecco la mia
mano”, basata sulla propria esperienza visiva, non è inficiato dall’ipotesi scettica del sogno. Infatti è vero
che c’è un mondo possibile vicino al nostro in cui quella credenza sarebbe falsa, visto che in quel mondo
staremmo sognando di avere una mano. Tuttavia questo dimostra solo che quella credenza è “insicura” ma
non dimostra che sia inappropriata. Quindi nel nostro mondo, in cui è prodotta attraverso l’esercizio
competente delle nostre facoltà percettive, essa costituisce un caso di conoscenza. L’ipotesi del sogno non
ci priva quindi delle nostre conoscenze animali ordinarie.
Pur sostenendo che l’ipotesi del sogno non ci priva della nostra conoscenza animale, Sosa ammette che non
possiamo sbarazzarci dello scetticismo cartesiano. Con la mossa esternista blocchiamo l’indesiderata
conseguenza di non avere conoscenza animale di verità banali come “Ecco qui la mia mano”. Non riusciamo
però a dimostrare a noi stessi che la particolare credenza che p che stiamo intrattenendo sia effettivamente
ottenuta attraverso l’esercizio competente delle nostre facoltà cognitive e non sia piuttosto il frutto di un
sogno dall’apparenza veridica.
Il paradosso cartesiano si propone quindi a livello superiore come riguardante non la conoscenza animale
di p ma la conoscenza riflessiva di p.
Tuttavia secondo Sosa possiamo avere anche conoscenza riflessiva di p. Questo perché l’ipotesi del sogno
rende sì “insicura” la nostra credenza che la credenza di p sia stata formata in modo affidabile, ma non la
rende inappropriata perché le condizioni, in quel mondo possibile, non sarebbero quelle normali. Quindi, in
quel mondo, la nostra credenza non sarebbe basata sulla manifestazione della nostra metacompetenza. In
primo luogo perché, secondo Sosa, i sogni sono qualitativamente diversi dalla veglia e avremmo quindi dei
segnali che le condizioni non sono quelle normali. In secondo luogo perché in un sogno le nostre facoltà
percettive non funzionerebbero a dovere. Quindi l’ipotesi del sogno, per quanto non remota, renderebbe
solo falsa la nostra credenza che le nostre facoltà percettive siano affidabili, ma non la renderebbe
inappropriata, stante le condizioni alle quali l’abbiamo effettivamente formata, che sono diverse e
distinguibili da quelle che si darebbero nel sogno. Non rendendola inappropriata non inficia l’ipotesi che si
tratti di conoscenza. Quindi secondo Sosa, nell’esercizio usuale delle nostre facoltà percettive, in cui diamo
per scontato che siano tendenzialmente affidabili, assenti segni contrari, otteniamo tanto conoscenza
animale quanto conoscenza riflessiva.
Un secondo tentativo per bloccare il paradosso scettico cartesiano consiste nel negare il Principio
di chiusura dell’operatore epistemico. (Dretske per sapere cosa sono gli operatori epistemici)
Questa strategia è stata tradizionalmente proposta per limitare i danni dello scetticismo. Si dà per buona
l’ipotesi scettica cartesiana che costituisce il passo (1) dell’argomento cartesiano : non si sa di non stare
sognando. Tuttavia si cerca di evitare la conclusione (7) che non abbiamo nessuna conoscenza o nessuna
giustificazione per le nostre credenze sugli oggetti fisici che ci circondano. Tradizionalmente questa
strategia si è accompagnata a una concezione esternista della conoscenza (e/o della giustificazione).
Si è pensato che per avere conoscenza o giustificazione per le conoscenza empiriche ordinarie fosse
sufficiente escludere le alternative rilevanti, senza dover per questo essere in grado di escludere quelle
irrilevanti. Una alternativa è rilevante quando potrebbe darsi facilmente. Si può mettere la cosa anche in
termini di mondi possibili e di loro relazioni: le alternative rilevanti sono quelle che si danno nei mondi
possibili più vicini a quello attuale. (Esempio alternativa rilevante)
In ogni caso bisogna sottolineare che per molti il Principio di chiusura epistemica è difficilmente dubitabile.
Esso infatti ci consente di estendere le nostre conoscenze o giustificazioni tramite argomenti
deduttivamente validi che partono da premesse conosciute o almeno giustificate. Per tale ragione il
Principio di chiusura epistemica sembra essere fondamentale e difficilmente rinunciabile. A sostegno del
rifiuto del principio di chiusura epistemica si usa spesso l’esempio delle zebre. Tale esempio mette infatti in
evidenza che il Principio di chiusura epistemica non è valido in assoluto. In particolare, non è valido quando
le conseguenza delle nostre credenze giustificate sono le cosiddette “implicazioni pesanti”, come per
esempio ‘c’è un mondo esterno’ o ‘non sto sognando’.
Le implicazioni pesanti sono tali perché non le possiamo conoscere né giustificare. Quindi se il Principio di
chiusura epistemica non è valido in assoluto, dal fatto che non possiamo escludere di stare sognando non
segue necessariamente che non siamo giustificati a credere che qui vi sia una mano. Perciò Cartesio aveva
ragione a ritenere che non possiamo avere una giustificazione per credere di stare sognando, ma aveva
torto a sostenere che questo ci impedisca di avere credenze perfettamente giustificate sugli oggetti fisici
intorno a noi.
Tuttavia è stato fatto notare che l’esempio della zebra può venire riformulato come un caso di fallimento di
trasmissione della giustificazione dalle premesse alla conclusione dimostrando non che non vale il Principio
di chiusura epistemica, bensì che non tutti gli argomenti logicamente validi trasmettono la giustificazione
dalle premesse alla conclusione. Vale cioè il principio di trasmissione della giustificazione:
un argomento logicamente valido trasmette la giustificazione dalle premesse alla conclusione se (e solo se)
è possibile per un suo tramite acquisire un (prima) giustificazione per credere la conclusione.
In particolare un argomento logicamente valido trasmette la giustificazione se (e solo se) l’avere una
giustificazione per le premesse non presuppone che si abbia già una giustificazione per la sua conclusione.
Un terzo tentativo di risposta al paradosso scettico cartesiano è quello proposto dai contestualisti
Stewart Cohen e Keith DeRose, i quali sono d’accordo con Dretske e Nozick che non possiamo
sapere di non stare sognando almeno in alcune circostanze. Tuttavia non rifiutano il Principio di
chiusura epsitemica.
Per farlo sostengono che le condizioni di verità dell’enunciato “S sa che p” variano a seconda del
contesto in cui si trova il soggetto che lo asserisce, che potrebbe essere diverso dal soggetto cui si
attribuisce conoscenza.