Poetica Di Aristotele

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POETICA

Aristotele
Introduzione
La Poetica di Aristotele, nonostante sia rimasta nascosta alla cultura latina per una decina di secoli E sia
riemersa solo nel tardo medioevo e nell’umanesimo, È probabilmente una delle opere di maggior impatto
sulla nostra cultura e le nostre arti fra tutti i testi della tradizione europea e occidentale.
È davvero straordinario riflettere su come un uomo da solo sia riuscito a definire nel quarto secolo a.C., I
principi che regolano il dramma, il racconto e più in generale la narrazione in un modo che ancora oggi è
considerato validissimo e non è contestato nei suoi elementi essenziali.
La Poetica è considerata il testo fondamentale, l'archetipo imprescindibile, l’abc che tutti devono conoscere e
assimilare.
Magari non lo fanno ricorrendo direttamente al testo aristotelico, ma quelli che l'ultimo secolo sono stati testi
di riferimento per la scrittura per il cinema sono ampiamente e radicalmente aristotelici.

Michael Tierno ha cercato di addomesticare il testo aristotelico, riassumendo i legami tra la politica e linee
guida per la stesura delle sceneggiature in uno studio nelle librerie di Los Angeles, come ricordare agli
apprendisti scrittori dove tutta la sapienza drammaturgica hollywoodiana ha avuto origine.
Da qui l'idea dell'editore di preparare un'edizione della Poetica che fosse indirizzata gli sceneggiatori e forse
alla portata di chi vuole apprendere dalla viva voce di Aristotele e suoi principi.
Il filosofo cosa linguaggio è una stile che non è sempre facilmente comprensibile, non solo e non tanto per la
distanza temporale e la diversità culturale della Grecia antica delle sue tradizioni teatrali, ma anche per il
fatto che la Poetica, come molti altri testi aristotelici, nasce come raccolta di appunti ha quindi l'essenzialità
di un testo di appoggio, per poi fare lezioni dal vivo e iniziare discussioni in cui gli argomenti possono essere
trattati con più agio e maggiore dettaglio.

La studiosa Brenes, sottolinea giustamente come non si possa ridurre l'opera a una sorta di “manualetto
pratico di regole” , perché in esso c'è una teoria ben più ampia e feconda su cos'è un'opera drammaturgica,
sul suo rapporto con il lettore, sul suo valore artistico. Il nostro interesse è di aiutare a leggere l'opera
soprattutto coloro che vogliono capire quali sono i principi della narrazione, che cosa rende un testo
drammaturgico funzionale ed efficace.

L'importanza della scrittura: lo sceneggiatore come autore


Occorre esplicitare qualcosa che in Aristotele è enunciato quasi en passant ma che a grandi conseguenze per
un'industria che modo ormai migliaia e migliaia di milioni di dollari in tutto il mondo. L'essenziale è una
storia è la
- scrittura,
- la creazione degli eventi,
- dei personaggi e dei dialoghi.
Tutto il resto è secondario. Ecco perché film costati anche poco, ma scritti benissimo possono arrivare a
incassare più di quattrocento milioni di dollari nel mondo: esempi sono ‘Quasi amici’ o ‘Il discorso del re’.
Questa posizione è da sempre oggetto di dibattito e di polemica, perché tanto gli sceneggiatori quanto registi
hanno sempre voluto attribuirsi il ruolo di autori principali dell'opera cinematografica.
La cosa e oggi di particolare attualità perché è successo di critica e di pubblico delle serie televisive messi in
rilievo il ruolo dello Showrunner che nell'industria americana è considerato l'autore principale e
principalmente lo sceneggiatore-produttore che solo raramente ha anche il ruolo di regista. I tre ruoli
assegnati anche formalmente l'industria quello di creator È proprio dello sceneggiatore e non del regista.

La teoria del regista come attore principale è un qualcosa di tipico dell'industria cinematografica europea che
risale dagli anni ‘50 dal movimento francese della Nouvelle vague E poi si è diffusa a macchia d'olio in tutta
Europa.
Il mondo del cinema americano ha iniziato ad essere influenzato dalla teoria del regista autore. Proprio in un
periodo in cui a incassare miliardi di dollari sono gli esseri poco autoriali film the super eroi e i film di
animazione, mentre dalla realtà delle serie tv emerge con evidenza la figura dello sceneggiatore autore/
creatore/showrunner.

L'unità drammatica
La prima nazione fortemente presente nel testo di Aristotele è quella di unità drammatica . Aristotele ha un
approccio che potremmo definire funzionalista: questo serve a questo, per far funzionare le cose è meglio
fare così, altrimenti ci sono dei problemi.
Una nazione che viene espressa più volte ripetuta e quella che verrà chiamata unità drammatica: una storia è
un racconto di una cosa, un problema, una sfida, un ostacolo da superare, un obiettivo da raggiungere. Sulla
base di quest'elemento essenziale occorre decidere cosa entra nella storia e cosa no. Un buon film è di solito
il frutto di un attento processo di linearizzazione o di semplificazione o di pertinentizzazione: nel film deve
entrare solo quello che riguarda davvero svolgimento della trama.

Una triade che realtà indica tre modi diversi di inquadrare un unico nucleo drammaturgico. Le famose tre
unità aristoteliche (di di tempo, di luogo e di azione), che hanno fatto tanto parlare di sera del 500 in poi sono
una forzatura dei commentatori rinascimentali.

Primato del plot


Aristotele parla di un primato del mythos termine a volte tradotto come favola, a volte mito, a volte trama, a
volte narrazione, a volte struttura. Esso è, in altre parole la strutturazione dei fatti degli eventi, e ovviamente
deve avere una fortissima connessione con la rivelazione dei personaggi. Aristotele da un primato la struttura
del plot, È perché è conscio che una buona trama è profondamente rivelatrice di personaggi e lavora intorno
un tema. D'altra parte non ha senso parlare dei personaggi in astratto: noi infatti conosciamo solo attraverso
le azioni che compiono nel dramma. Ecco che dal primato del prato si torna qui l'esigenza di unità profonda
che tenga insieme tutti gli elementi dell’opera.

Tre atti
I commentatori litigano anche sul fatto se Aristotele abbia davvero parlato dei tre atti come li intende da
decenni la tradizione hollywoodiana oppure no. Il testo del capitolo settimo è una dei brani più celebri di
tutta la Poetica (leggi pagina 12): a una lettura superficiale, questo sembrerebbe niente più che una
tautologia, mentre sempre perché dell'ipotesi che si Aristotele l'ha detto, un motivo ci deve essere. Infatti le
quali si comprendono meglio con la frase seguente: “bisogna dunque che le favole, se vogliono essere ben
costruite, mi comincino da qualunque punto capiti, ne dovunque capiti finiscano; ma si attingano a quelle
idee di principio e di fine che abbiamo ora dichiarato”. in altre parole qui sta dicendo che l' inizio a una
struttura specifica: siccome non cinese prima di essere felice rappresentazione dei personaggi elettrici nella
storia, la definizione dell' arena drammatica che ti scrivi un film sabine come sia difficile realizzare i propri
pagine in modo chiaro non didattico . Allo stesso modo un finale è una sorta di chiusura che non deve
rilasciare nessun nodo irrisolto.

Pietà e terrore… E catarsi


La tragedia “mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, per effetto di sollevare purificare
l'animo da siffatte passioni”. In questa semplicemente affermazioni c’è in nuce, una teoria del
coinvolgimento nazionale dello spettatore e anche la formulazione di un concetto di quello di purificazione,
ovvero di catarsi, che è una delle nazioni più battute di tutta la filosofia di Aristotele e ha aperto un dibattito
durato secoli sulle funzioni dell'arte in particolare delle arti narrative.
In una di Ari Hiltunen, lo studioso finlandese lavora finemente su queste dimensioni emozionali
intrecciandoli con tecniche narrative come ironia drammatica e la sostanze, per spiegare come vari generi
lavorino per coinvolgere dilazionare lo spettatore.

“una buona storia conserva la sua capacità dice di creare piacere, anche se il pubblico conosce gli eventi e i
punti di svolta in anticipo. Quindi la forza di una bella storia si fonda su qualcosa che va oltre la sorpresa e
imprevedibilità” la Poetica, sembra dare molte risposte che non possono far parte necessariamente della
cassetta degli attrezzi di qualunque narratore.

Il verosimile
Sulla nozione di verosimile, il filosofo mostra ancora una volta il suo funzionalismo e la sua praticità. Il
verosimile a una certa relazione con il vero, ma non si identifica con esso. Vi possono essere fatti veri che
non sono verosimili e quindi non funzioneranno in un'altra di finzione. Ci sono invece cose palesemente
impossibili che, sebbene introdotti nel racconto possono avere una rapina città abilità dello spettatore, e
quindi valere più di molti fatti veri. In questo Aristotele non è relativista, ma fa riferimento ad una coscienza
della realtà umana e a una comprensione di alcune dinamiche di sospensione dell’incredulità nel racconto
che fai altri svilupperanno teoricamente in modo più sofisticato, ma che qui sono già pienamente delineate in
nuce.
I finali
L'opportunità di rovesciamenti e di riconoscimenti per avere finali potenti è un altro dei suggerimenti
aristotelici che a Hollywood rapidamente assimilato. Nell'operazione riflessione sull'efficacia nazionale
tematica del finale ben costruito che ha fatto da base alle sviluppo di pratiche narrative che consentono di
tenere con il fiato sospeso gli spettatori e poi di soddisfare con qualcosa che sia insieme inevitabile e
inaspettato. Inevitabile nel senso aristotelico di necessario. Deve esserci c'è un legame profondo riconosciuto
come vero, ma nello stesso tempo dovrebbe esserci qualcosa inaspettato, un rovesciamento internista
aristoteliche una peripezia altrimenti finaliste di arrivare telefonato, ovvero prevedibile.

Capitolo primo
Della poetica in sé E dei suoi generi, qual funzione abbia ciascuno di essi, ne tratterò incominciando
secondo l'ordine naturale. L'epopea e la tragedia, come pure la commedia e la poesia ditirambica,, tutte
quante considerate da un unico punto di vista, sono mimesi (oppure arti di imitazione). Ma differiscono
tra loro per tre aspetti: E cioè in quanto o imitano con mezzi diversi, o imitano così diverse, o imitano in
maniera diversa e non allo stesso modo. I mezzi della mimesi sono l’armonia, il linguaggio e il ritmo;
questi mezzi o sono adoperati separatamente dall'altro o si trovano mescolati insieme.
C'è poi un'altra forma di arte la quale si vale del linguaggio puro e semplice o in prosa o inversi, E se
inversi sia mescolando insieme piu specie, sia adoperandone una specie sola.
Questa forma l'arte oggi si trova essere senza nome. Io non saprei con quel nome generico chiamare i
mimi di Sofrone e Xenarco, E i dialoghi socratici, E non lo saprei neanche se la mimesi fosse fatta in
trimetri o in elegiaci o in altri versi di genere simile.
Ci sono poi alcune forme di arte le quali si valgono di tutti insieme i mezzi sopraddetti, c'è del ritmo,
della melodia e del verso: cosi la poesia ditirambi e quella dei nomi da un lato, la tragedia e la
commedia dall'altro. Le prime due adoperano tutti codesti mezzi contemporaneamente, mentre altre due
separatamente cioè parte per parte.

Colpiti dalla maestosa semplicità della per Aristotele e di certe definizioni cercate, perentorie, disarmanti e
poi divenute proverbiali, emergono alcune perle come quest'inizio, un lungo periodo a carattere
programmatico che allude con una certa precisione a quello che sarà il contenuto del libro. emerge, il doppio
livello descrittivo e prescrittivo su cui l' opera procederà e di qui senz'altro si ricorderanno tutti gli autori di
teoria drammaturgica fino a tre cento manuali di sceneggiatura dell' audiovisivo. Molto aristotelico l’incipit
di McKee in Story, in cui distingue le regole e i principi.
“La differenza è essenziale, non dovresti modellare il vostro lavoro su una base preconfezionata, il vostro
lavoro deve essere ben confezionato secondo i principi che informano la nostra arte. Gli sceneggiatori ansiosi
e privi di esperienza obbediscono le regole. Quelli belli e non istruiti infrangono le regole. Gli artisti
padroneggiano la forma”.

Riteniamo efficace parlare di formae e di strutturae che di per sé non evocano prescrittitività, come invece
avviene usando il termine regole di sintassi e di grammatica. Il problema è tutt'altro che di nomenclatura, ma
di concezione e di funzione dell'arte: il talento non può essere divisa della sua capacità di esprimersi.
Dunque tante forme, tante più tecniche, tante più regole si conoscono, tanto più si è liberi e tanto più si è
capaci di creare.
La teoria darwinista dell'arte di Franco Moretti, afferma che l'approdo a certe forme letterarie deriva da una
selezione naturale delle stesse decisa dal mercato di riferimento e dal suo contesto. Moretti, faceva l'esempio
del romanzo poliziesco come di una popolazione di liberi formata da individui unici e differenti che
competono tra loro per non essere uccisi dal mercato. Si sarebbe trattato, di una competizione decisa della
forma per cui il pubblico, mentre scopre di preferire certo procedimento narrativo, decreta anche l'estinzione
di quelli che si discostano troppo.

Se la necessità che sceglie tra le forme che si sono casualmente sviluppate, ogni autore è libero di
variare, innovare, tentare nuove forme, ma sarà il contesto storico culturale a decretare il successo
o meno di quelle, prendendo le centrali o al contrario condannando all'estinzione vuole
sopravvivenza marginale. Molte opere difformi, hanno trovato nuova visibilità in seguito, quali il
contesto ambientale si è modificato.

In tale contesto l'artista è libero? Si ma riuscirà a sopravvivere se sarà capace di cercare strade che per quanto
nuove consistano in variazioni interne che non tradiscono il criterio di necessità.

Capitolo secondo
Gli imitatori imitano le persone che agiscono, E queste persone non possono essere altrimenti che ho
nobili o ignobili O uomini migliori di noi o peggiori di noi o come noi. Così fanno i pittori.
Polignoto, raffigurò esseri migliori, Pausone esseri peggiori e Dioniso simili. Ciascuna delle forme
di mimesi soprannominate avrà di queste differenze, E Che luna sarà diverso dall'altra in quanto
siano diversi, nel modo corretto, i soggetti limitati. Tragedia e commedia si distinguono: Luna tende
a rappresentare personaggi peggiori, l'altra migliori degli uomini di oggi.

Per classificare gli oggetti dell’ imitazione, Aristotele biforca ulteriormente il sentiero: “le persone
rappresentate possono essere migliori peggiori, ed essere conseguentemente oggetto di lodi ed esaltazione ho
biasimo e scherno. Si può notare come vengano registrate qui sono forme iniziative che usano la parola, dove
l'esempio sulla pittura ritrattistica a valore di chiarificazione. Il capitolo è fondamentale soprattutto per
l'introduzione di un tema di capitale importanza: Aristotele circoscrive l'ambito degli oggetti dell’imitazione
politica usando il verbo agire, assegnandovi il significato fondamentale che il termine ha, per lui, in ambito
filosofico. Agire indica tanto l'azione drammatica quanto quella morale: quasi sempre, nell'opera, la parola
azione avrei forte significato di azione consapevole e deliberata, quale tratto distintivo dell'essere umano
rispetto alle altre specialità e connotandosi pertanto secondo l'orizzonte morale.
Aristotele tenderà a privilegiare tra le varie forme di arte quelle che meglio possono restituire questo
significato: di qui si capisce perché si parli della poesia piuttosto che della pittura e perché, date le varie
forme assunte dalla poesia, di alcune di esse addirittura taccia. Così la struttura filosofica sottesa avrà come
risultato che nella Poetica la generica mimesis tenda a trapassare finalmente nella sua forma più compiuta
(quella drammatica) e con questa identificarsi.

Capitolo terzo
C’è poi, oltre queste, una terza differenza la quale consiste nel modo onde i singoli oggetti possono essere
imitati. Dato che siano eguali i mezzi della imitazioni ed eguali gli oggetti, il poeta può tuttavia imitare in
due modi diversi: in forma narrativa - egli può assumere personalità diverse - in forma drammatica, E
allora sono gli attori quali rappresentano direttamente tutta l’intera azione come se ne fossero essi medesimi
i personaggi.
Sono tre differenze in questi distingue la mimesi, cioè i mezzi, negli oggetti, nei modi. Se da un lato Sofocle
possiamo considerarlo un imitatore dello stesso genere di Omero, dall'altro possiamo considerarlo dello
stesso genere di Aristofane , In quanto ambedue imitano personaggi che operano e agiscono. Questa è anche
la ragione per cui codesti componimenti sono chiamati grammi, appunto perché imitano persone che
agiscono.

E questa stessa è la ragione per cui e della tragedia e della commedia pretendono essere stati inventori i
Dori: più precisamente, della commedia si vantano inventori i Magaresi, tanto quelli della Grecia quanto
quelli della Sicilia Punta tutti costoro si fondano su argomenti etimologici: osservando che mentre essi,
Nella loro lingua, i villaggi li chiamano komai, gli ateniesi invece li chiamano demoi, e così secondo loro,
gli attori comici, komodoi, avrebbero derivato codesto nome non dal verbo’ far baldoria’ ma dal loro andar
vagando di villaggio in villaggio. E così delle varietà della mimesi , Quante sono e di che natura sono, può
bastare questo che si è detto.

Questa nuova classificazione riguarda la modalità del fare poetico. Aristotele riprende l'opposizione
formulata da Platone nella Repubblica tra poesia drammatica e poesia diegematica. Le teorie del teatro e
della letteratura hanno fatto propria questa classificazione, approdando alle tecniche di scrittura per
l'audiovisivo. L'arte della sceneggiatura è proprio quella che lancia la sfida ad essere il più mimetici possibili
attraverso l'uso delle immagini e delle azioni.
La seconda parte del capitolo consta di una digressione che, secondo alcuni studiosi, potrebbe essere stata
aggiunta al testo originale in un secondo momento dallo stesso Aristotele. Facciamo nostra indicazione dei
traduttori della Poetica, che consigliano di non sovrastimare l'importanza di tale paragrafo. Occorre tener
presente che l'interesse di Aristotele per le origini delle varie forme drammatiche rimaneva sul piano della
vera erudizione.

Capitolo quarto
Due sembrano essere le cause generatrici della poesia: l’imitare è un istinto di natura comune a tutti gli
uomini fin dalla fanciullezza, anzi uno dei caratteri onde l'uomo si differenzia negli altri esseri viventi in
quanto egli è di tutti gli esseri viventi il più inclinato alla imitazioni. Una prova è quel che succede nella
comune esperienza: poiché quelle cose medesimi le quali in natura non possiamo guardare senza disgusto,
se invece le contempliamo nelle loro riproduzioni artistiche, ci recano diletto. Il diletto che proviamo vedere
le immagini delle cose deriva. Da ciò che attentamente guardando, si interviene di scoprire e di riconoscere
che cosa ogni immagine rappresenti. Ma ci diletteranno l'esattezza dell'esecuzione, il colorito o qualche
altra causa di simile genere. La seconda causa: essendo tali in noi la tendenza ad imitare mediante il
linguaggio, l'armonia ed il ritmo, così è avvenuto che coloro i quali fin da principio avevano per queste
cose, più degli altri, una disposizione naturale, procedendo poi con una serie di eventi e graduali
perfezionamenti, dettero origine alla poesia; quale appunto si svolse e si perfezionò da rozze
improvvisazioni. Questa poesia si differenzia secondo l'indole particolare dei diversi poeti: quelli che erano
di animo più elevato rappresentavano azioni Nobili e di Nobili personaggi, . Di nessuno dei preti anteriori
ad Omero, possiamo ricordare poesia di questo genere, ma possiamo ricordarne a partire da lui: con
Margite omero utilizza un metro dell’invettiva o giambico, il quale anche oggi si chiama così perché appunto
in questo metro solevano inveire milioni contro gli altri. E così ci furono, tra gli antichi, poeti in Metro
eroico e poeti in metro giambico. Omero fu il primo che rivela e segnò le linee fondamentali della commedia,
poetando drammaticamente non già l’invettiva personale ma il ridicolo puro e semplice. Appena
comparvero in luce la tragedia la commedia, quelli che la loro propria natura si sentivano attratti verso
l'uno o verso l'altro dei due generi di poesia già esistenti, Ecco Perché costoro divennero gli uni scrittori di
commedie anzi che di giambi, gli altri scrittori di tragedie anziché di canti epici. La tragedia fu dapprincipio
una rudimentale improvvisazione così anche la commedia.

Il quarto capitolo della Poetica, di grande importanza per le teorie sulla natura della poesia, anche se nelle
leggerlo anche noto presente come la sua interpretazione sia complicata dalla difficoltà di un dettato, come
sempre, compresso in estrema brevità. Alla secchezza dell'esposizione diversi traduttori, hanno cercato di
rimediare addomesticandola. Il panorama generale resta di grande suggestione. Il riferimento all'istinto di
imitare che è di tutti gli uomini, richiama il celebre racconto di Borges la ricerca di Averroé , in cui il
filosofo arabo, si smarrisce nella decifrazione delle parole tragedia e commedia, concetti inesistenti nella
cultura realtà classica.
Nonostante l'opera di Aristotele non dia una definizione precisa di cosa sia la mimesi siamo invitati lasciare
che la realtà si palesi nella sua evidenza. Aristotele ricorre ad un paragone esemplificativo con la pittura, il
piacere dato dall’imitazione innanzitutto un piacere intellettuale legato al capire e all’apprendere . L’idea di
mimesi che ne deriva rimanda alla produzione di un modello conosciuto e confrontabile, una condizione che
puntualizza i termini corso iniziando a penetrare nella casa dell’opera.

Donini, lo studioso, interpreta questo passaggio mettendosi nei panni dello spettatore della tragedia greca che
andava teatro conoscendo già la storia. Lo spettatore ateniese andrà a teatro portando con sé la propria
esperienza della vita e cioè sapendo che nell'esistenza umana tutti mirano al successo alla felicità, che molti
tuttavia in quella aspirazione sono delusi e cadono invece nell’infortunio, nel mito rappresentato riconoscerà
l'esemplificazione livida e logicamente costruita di una vicenda umana assolutamente tipica pur nell'estrema
sua in usualità essere indotto a concludere che si nella vita è così che accade e deve accadere quando le
situazioni siano quelle e quelli i caratteri dei personaggi. Abbraccio è imparato a cogliere universale e il
perché, Avrà capito grazie alla tragedia e al poeta che e perché non poteva se non accadere così.
Aristotele parla dell'evoluzione della poesia riproponendo le tre differenze già dette nei primi tre capitoli:
- gli oggetti della poesia (azioni e personaggi più o meno nobili)
- I mezzi (metri)
- I modi (la forma drammatica da Omero in poi).
La preoccupazione di Aristotele non è di informare i propri destinatari quanto di persuaderli della necessità
quasi biologica di alcuni processi di trasformazione presupposti per lo più noti. Si tratta dell'attenzione
aristotelica alla maturità del genere piuttosto che alla sua fase aurorale. Importante notare, l'evoluzione è
concepita da Aristotele come uno sviluppo naturale che va dal semplice al complesso. La opere dei poeti non
è quella di creare, ma semplicemente di sviluppare potenzialità che via via si rivelano perché erano già insite
nel processo e nella natura della cosa stessa
La tragedia è come un organismo vivo. Naturale è la predisposizione iniziale, così come l'emergere la
prestarsi della forma migliore, del verso più adeguato ai vari generi. Così tutta l'arte politica diventa un
viaggio alla scoperta di leggi di natura già scritte, in cui le opere sono gli strumenti, le bussole, le mappe.
Le Implicazioni per ciò che riguarda la sceneggiatura sono tante, ovviamente. L'esistenza di una traccia nella
realtà che riguarda la forma migliore, E la possibilità di scoprirla, è un nodo centrale da un punto di vista
teorico, ma che ricade proprio sulla pratica. L'arte del racconto è un'arte laboratoriale in cui l'esperienza e la
pratica continua possono essere più importanti del talento puro. Per questo hanno senso le scuole ed i
manuali di sceneggiatura.

Capitolo quinto
La commedia è, imitazione di persone più volgari dell’ordinario; volgari nel senso di ridicolo. Il ridicolo è
una partizione speciale del brutto, si tratta di qualcosa come di sbagliato di deforme, senza essere però
cagione di dolore e di danno.
I successivi mutamenti della tragedia e coloro che li produssero non ci sono ignoti, Marco bella commedia,
non possiamo dire altrettanto . Difatti una compagnia di attori comici solamente tardi fu dall’arconte
concessa ai poeti; e i commedianti fin allora avevano dovuto provvedere ad ogni cosa. Di poeti comici
propriamente detti si è notizia quando già la commedia era se incontri modo costruita. Ma che la introdusse
ci è sconosciuto; se prendono in merito Epicarmo e Formide originario della Sicilia, degli scrittori ateniesi
se ne prende il merito Cratete.
Per tornare la tragedia, questa e l'epopea sono venuti a trovarsi d'accordo in questo soltanto, che tutte e due
sono mimesi dei soggetti eroici, per mezzo della parola. La tragedia e la commedia differiscono nel fatto che
utilizzano metri diversi. Differiscono anche nella estensione, perché la tragedia cerca quanto ti può di
tenersi entro un sol giro di sole o lo sorpassa di poco, mentre l'epopea non ha limiti di tempo. Un terzo ponte
differenza è nei loro elementi costitutivi dei quali alcuni sono comuni alla tragedia all'epopea, Altri sono
peculiari alla tragedia soltanto. Perciò chi è capace di vedere se una tragedia è bella o brutta, costui sarà
anche capace di vedere se è bello o brutto un poema epico; perché tutti gli elementi del poema epico si
trovano nella tragedia, mentre non tutti gli elementi della tragedia si trovano nel poema epico.

La commedia è il soggetto del leggendario secondo libro della Poetica di Aristotele, assurto agli onori della
cultura popolare grazie alla trama del Nome della Rosa di Umberto Eco. La mancanza di un concorso
comico ufficiale ha impedito ad Aristotele E ai suoi contemporanei di avere una documentazione riguardo,
come era avvenuto per il concorso tragico e quindi tracciare una storia dello sviluppo del genere. Aristotele
lamenta questa lacuna, solo dopo essersi soffermato su una definizione importante: il ridicolo, È qualche
cosa come di sbagliato delle forme, senza però essere cagione di dolore e di danno. La mancanza delle
pagine aristoteliche dedicate alla commedia permette solo delle congetture. La definizione non precisa il
significato di commedia, ma di ridicolo, È importante per essere speculare, in termini positivi quella di
evento traumatico come di azione che reca seco rovina o dolore.

A questo capitolo appartiene anche un'altra celebre definizione che è divenuta proverbiale anche a dispetto
della sua enunciazione : quando Aristotele dice che la tragedia cerca quanto piu di tenersi entro un sol Giro
di sole o lo sorpassa di poco, potrebbe riferirsi al tempo era presentato a quello reale. Seconda ipotesi sembra
sia quella più accreditata, Alcuni commentatori dell'opera fanno notare da una parte che, in tutte le altre
occorrenze presenti la parola greca mekos indica la durata reale, dall'altra che, se la corrispondenza non
aveva alcun valore nella tragedia antica, poteva avere senso per la vita di Aristotele E la vita teatrale del suo
tempo.
La realtà dice che Aristotele non sta prescrivendo una regola, ma constatando incidentalmente quanto
accadeva di consueto nella pratica del teatro greco. La leggenda, è andata formalizzandosi in epoca
rinascimentale e umanistica, per cui alcune traduzioni cinquecentesche della Poetica videro interpretare e
completare le pagine dell'autore secondo un modello normativo E 13 artistico che nel corso dei secoli, nella
pratica teatrale e poi in quella cinematografica, ha goduto di una fortuna crescente culminata con l'approccio
hollywoodiano classico (leggi pag 32 esempio).

Capitolo sesto
La tragedia è mimesi di un'azione seria e compiuta in se stessa , Con una certa estensione; in un
Linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse; informa
drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto
il risollevare e purificare l'animo da siffatte passioni. Il linguaggio abbellito quello che ha ritmo, armonia e
canto. Poiché la mimesi è fatta da persone che agiscono direttamente , ne segue anzitutto che uno degli
elementi della tragedia dovrà pur essere ordinamento materiale dello spettacolo, varicella composizione
musicale e terzo il linguaggio. Questi due ultimi sono i mezzi della mimesi.
Siccome la tragedia è mimesi di un’azione, e un’azione implica un certo numero di persone che agiscono, le
quali non possono non avere questa quella qualità sia riguardo al loro carattere che al loro pensiero, così
dunque mimesi dell'azione la favola: e qui. Io intendo per favola alla composizione di atti o di fatti.

Sono sei dunque elementi costitutivi di ogni tragedia:


1. La favola
2. I caratteri
3. Il linguaggio
4. Il pensiero
5. Lo spettacolo
6. La composizione musicale.
Di questi sei elementi due concernono i mezzi della mimesi, uno il modo, tre gli obiettivi; oltre questi non c'è
altro. Il più importante di questi elementi è la composizione dei casi, cioè la favola. Perché la tragedia non è
mimesi gli uomini, ma di azione e di vita ora gli uomini sono di questa quella qualità se considerati rispetto
al carattere, rispetto alle azioni sono felici o infelici. Se uno mette insieme soltanto una bella serie di parlate
che siano espressione di caratteri e anche siano perfette rispetto alla dizione al pensiero, costui non potrà
mai raggiungere quell'effetto che dicemmo proprio della tragedia; ma molto meglio potrei raggiungerlo con
una tragedia che sia ricca di cotesti elementi cioè un ben ordinato intreccio di fatti. Si aggiunga poi che i
mezzi efficaci onde la tragedia trascina l'animo degli spettatori, sono parti della favola.
Dunque la favola è l'elemento primo come anima della tragedia, in seconda linea vengono i caratteri.
Qualche cosa di simile accade anche nella pittura: se qualcuno imbrattasse, seppur con bellissimi colori,
una tela, ma senza disegno prestabilito, costui non potrebbe dilettare allo stesso modo che se disegnasse in
bianco di contorni di una figura. È la tragedia è mimesi di un’azione e appunto per codesta azione è ella
sopra tutto mimesi di persone che agiscono.
In terzo luogo viene il pensiero: il quale consiste nella capacità di esprimere sopra un dato argomento tutto
ciò che gli è inerente e che gli conviene; il che, rispetto alla eloquenza in genere, È sottoposto alle leggi
della politica e della retorica.
Il carattere è quell'elemento onde risultano chiare le intenzioni morali di una persona , Quali cose cioè, ove
codesti intenzioni siano chiare perse medesime, una persona preferisce e quali schiva.
Il pensiero si ha in quelle espressioni nelle quali si dimostra come una cosa è o non è, o Dove si enuncia
una massima generale.
Il quarto degli elementi, è la dizione: e intendo per dizione, la espressione del pensiero mediante la parola.
Restano altri due elementi non letterari ovvero la composizione musicale, e l'apparato scenico.

Per l'analisi che se ne fate il genere tragico, si trova definiti tre nuclei principali: la definizione di tragedia, le
numerazione ragionata delle sei parti che la costituiscono; la valutazione dell'importanza relativa ad ognuna
di queste parti. 23 secoli non sono bastati agli esegeti per avere la meglio su alcuni questioni controverse,
come ad esempio il reale significato del termine Katharsis qui tradotto con purificazione. Nessuno che si
fosse mai occupato di drammaturgia avrebbe problemi a definire cosa si intende per catarsi, Anche se il più
delle volte l'uso comune ha prevalso sulle ragioni filologiche. Il processo di catarsi, etimologicamente, è
quello che rende puri. Secondo lo scrittore A. Hiltunen, Aristotele potrebbe aver ben adattato il termine
medico catarsi, per collegarlo al modo in cui il pubblico vive l'intesa condizione di ansietà del pericolo
imminente che crea la stessa risposta fisiologica : Il battito e il respiro accelerano e le pupille si dilatano, così
come quando siamo consapevoli che la minaccia riguarda noi.

Secondo Alan Rickman, gli spettatori possono anche cercare emozioni, scene eccitanti, situazioni nuove e
dialoghi originali ma, come chi va al parco dei divertimenti in cerca di avventure, si preferiscono vivere le
proprie esperienze esaltanti in un ambiente che sentono di poter controllare. Di conseguenza quella del film
di genere è quasi sempre una falsa suspance.
Pochissimi di noi pagherebbero il prezzo di un biglietto per vivere sulla propria pelle le avventure di
Spiderman, Frodo, o Anakin, ma è certo che ognuno di noi ha speso volentieri quel denaro per vedere quei
personaggi di verdure impresa posto nostro. dopo i titoli di coda, ci sentiamo anche noi un po' più buoni o
più valorosi. È uno degli effetti della catarsi.

Di grande interesse è notare l'esistenza sul rapporto tra i personaggi , le loro azioni e la loro interiorità, oltre
che l'affermazione secondo la quale è il mythos, il racconto, il più rilevante elemento della tragedia. Il suo
primato rispetto agli altri elementi, soprattutto rispetto ai caratteri, deriva dalla concezione filosofica
dell'autore che il fine della vita, ovvero la felicità, non è uno stato o una semplice qualità ma una vera propria
attività. Pag 38
Abbiamo detto che il personaggio è il cuore e l’apparato circolatorio di una storia e che la struttura è lo
scheletro; continuando la metafora potremmo dire che il tema è il cervello del corpo narrativo perché è
espressione del suo progetto. Sidney Lumet dice:
“una volta ho letto una sceneggiatura scritta molto bene; ma i personaggi non avevano una relazione
specifica con il racconto. In un dramma, i personaggi determinano la storia, È la storia devi rivelare e
spiegare i personaggi”.

Delle sei parti costitutive della tragedia, dopo le tre interne:


- racconto, mythos
- Caratteri, ethos
- Pensiero, dianoia
Aristotele cita le tre esterne:
- dizione, lexis
- Composizione musicale, Melos
- Apparato scenico, opis
A proposito della dizione, è interessante rileggere oggi l'energica presa di posizione di Galvano della Volpe:
“che il teatro è essenzialmente letteratura e che la recitazione non vi aggiunge niente di sostanziale, è una
delle tante verità estetiche scoperte da Aristotele e meditata, oggi contro la perdurante confusione delle arti
che il semplicismo idealista ha prodotto. È la natura concettosa e pregnante della parola che suscita “la
potenza della scena”, della mimica dimostrando così la forza autonoma della parola stessa”.

Il dibattito sulla dialettica tra parola e immagine è transitato nelle teorie ed estetiche del cinema che in
massima parte hanno attribuito alla prima un ruolo subordinato rispetto alla seconda. Il cinema nasce muto, e
muto raggiunge il suo primo livello di piena maturazione. Eppure, lo stesso tributo muto denuncia anche in
francese (muet) e in inglese (silent) una potenzialità inespressa, la scelta una costrizione di tacere. Nessuno
definirebbe mai ‘muta’ la fotografia, ma il cinema, moto o sonoro che sia, nasce come mimesi di un’azione.
Aristotele riconosce che lo spettacolo ha grande influenza sulle emozioni dello spettatore ma lo dichiara del
tutto estraneo all'arte del pulita e materia da lasciare piuttosto allo scenografo. Aggiungendo la musica e lo
spettacolo, la tragedia troverebbe secondo l'autore una delle sue ragioni di superiorità rispetto all’epica.
Secondo la puntualizzazione dello sceneggiatore William Goldman che, in polemica con i sostenitori della
teoria secondo cui autore del film sarebbe solo il regista, rivendicò una suddivisione di autorialità da
attribuire almeno sette figure fondamentali: il regista, il produttore, lo sceneggiatore, gli attori, il direttore
della fotografia, il montatore e lo scenografo.
Armando Fumagalli nota giustamente che manca all'elenco fatto da Goldman l'autore della colonna sonora,
che già degli anni della Hollywood classica ha generato un avere propria arte indipendente.

Capitolo settimo
Diciamo ora come ha da essere la struttura dell’azione, visto che è questo il primo e il più importante
elemento della tragedia. Noi abbiamo stabilito che la tragedia è mimesi di un'azione perfettamente compiuta
in se stessa, tale cioè da costituire un tutto di una certa grandezza; perché ci può essere un tutto anche senza
grandezza. Un tutto è ciò che ha principio e mezzo e fine. Principio è ciò che non ha in se veruna necessità
di trovarsi dopo un'altra cosa, ma è naturale che un'altra cosa si trovi ossia per trovarsi dopo di lui. Fine al
contrario è ciò che per sua propria natura viene a trovarsi dopo un'altra cosa, E dopo di esso non c'è altro.
Mezzo è ciò che si trova dopo un'altra cosa e un'altra e dopo di lui. Bisogna dunque che le favole, ne
comincino da qualunque punto capiti, né dovunque capiti finiscano.
Siccome il bello, non solo deve presentare in codeste parti un certo suo ordine, ma anche devi avere, e
dentro determinati limiti, una sua propria grandezza me quindi potrebbe esser bello un organismo
eccessivamente piccolo, e nemmeno un organismo eccessivamente grande.
Tanto più bella sarà sempre quella favola che più sarà lunga senza oltrepassare i limiti entro cui può essere
abbracciata da un unico sguardo dal principio alla fine. E, per dare una definizione più semplice: una
lunghezza totale in cui, mediante una serie di casi che si vengano consecutivamente svolgendo l'uno
dall'altro secondo le leggi della verisimiglianza o della necessità, sia possibile (ai personaggi principali
dell’azione) di passare dalla felicità alla infelicità da questa a quella. Ecco un limite sufficiente per la
grandezza di una favola tragica.

In questo capitolo è contenuta l'enunciazione di quello che viene comunemente tramandato come il modello
della struttura in tre atti. Già i primissimi prontuari di scrittura per il cinema muto fanno cenno,
all'osservazione di Aristotele che la tragedia, dovrebbe essere tripartita secondo un principio, un mezzo e una
fine, concetto che permette di apparentare il cinema alle altre arti narrative e sequenziali.
Sulla scrittura di una buona storia, cosicché tra gli attrezzi dello sceneggiatore di qualunque latitudine non è
mai mancata una conoscenza sia pure in diretta delle indicazioni che regolano la coerenza di un racconto
garantendogli intelligibilità. Dire che ora la reazione è divisa in tre a te non significa altro che isole farne un
cuore drammaturgico, svilupparlo secondo la logica consequenziale e portarlo a termine in modo esaustivo e
appagante, cosicché il fruitore ne abbiamo guadagno emotivo o conoscitivo.
Nel tempo la teoria e la tecnica drammaturgica hanno elaborato varie strategie per confezionare un racconto
secondo questo criterio e il gergo dei narratori si è arricchito di concetti e precisazioni. Di fatto la struttura in
tre atti, il modo in cui uno scrittore riesce adottare una narrazione di un senso compiuto, all'interno di un
orizzonte di senso, riuscendo intrattenere suo pubblico. Per ottenere l'attenzione dello spettatore, una storia
dovrà funzionare secondo questo schema, per cui ogni nuovo macro segmento narrativo sarà introdotto da un
cambio di direzione che rilanci l’azione e alzi la posta in gioco. Ogni passaggio tra la premessa, lo sviluppo
la conclusione il rappresentante di un punto di svolta, the un colpo Di scena, di un protagonista costretta a
prendere decisioni sotto pressione, o almeno di un punto emotivo che faccia scorrere la trama.

L'enfasi data ai tre atti ha creato malumori in alcuni invogliati a molti, a rompere volutamente le strutture
trasgredendo le regole. Forse c'è una ragione per cui attorno a questo capitolo dell'opera si litiga
quarant’anni: forse perché è uno di quelli in cui si addensano marchi descrittive esplicite, benché occorre
dire che la prescrizione non costituisce mai una dimensione distinta, ma che affiora quasi come naturale
portato della descrizione. Sull'uso e sulla pertinenza delle citazioni aristoteliche degli handbook americani,
poi, è nata una querelle che ha indispettito quanti, alcuni ragione altri a torto, trovano che la Poetica sia il
testo recitato meno E tutti coloro che si occupano di teoria e tecnica drammaturgica.
È vero che attorno alle gambe prestate nella sceneggiatura hollywoodiana sono sorti degli equivoci e sono
diffuse delle banalizzazioni. All'origine di uno dei malintesi, quello che riguarda un aspetto formale, c'è
probabilmente il pronunciamento di Aristotele sulla necessità di un rapporto armonico tra le diverse parti
della tragedia.
La formulazione definitiva in ambito cinematografico del modello normativo in tre atti, con indicazioni
precise riguardo alla durata di ognuno, nasce negli anni 70. La teorizzazione che avrà maggiore influenza è
quella di Syd Field, che suggerì circa la proporzione dei creati nella misura di un quarto un mezzo e un
quarto corrispondenti grosso modo a 30,60 e 30 pagine di una sceneggiatura di 120 pagine (un film di circa
due ore). Ho suggerimento famigerato perché il novero delle obiezioni contestazioni costituisce ormai un
corposo capitolo a sé.

In un manuale di sceneggiatura inglese degli anni 30 si può leggere un'indicazione sulla proporzione tra le
parti del film legata alla necessità di tipo tecnico, relative al cambio dei rulli della pellicola da proiettare.
Anche nel teatro greco information rate per rispondere alle necessità pratiche e spesso la Poetica ci dà
indicazioni riguardo. Sono le condizioni reali a dettare le regole ed è questo uno dei motivi per cui è
importante considerare come esse funzionino. Anche la divisione di un film in rulli, è però solo una
conseguenza dell'applicazione del modello e non è una sua causa.
Alcuni sceneggiatori della Hollywood classica intervistati negli anni 90, tendevano a raffreddare l'enfasi
sulle strutture narrative, sostenendo spesso di avere le indirizzate in modo inconscio, semplicemente vedendo
centinaia di film e di opere teatrali. È del tutto plausibile che scrittori geniali come Lehman o Kanin non
abbiano dovuto studiare un manuale di sceneggiatura per scrivere i loro capolavori, ma solo perché la
generale tripartizione non obbedisce a una convenzionalità causale, ma aderisce a una certa legge scritta
prima della scrittura delle leggi. Concerne il modo naturale che noi esseri umani abbiamo di comprendere e
scrivere la realtà.
Questa struttura scaturisce infatti da uno schema concettuale alla base della comprensione di qualunque
fenomeno che si sbaglia completamente nel tempo, come nel caso della giornata (alba, giorno, tramonto) del
viaggio (partenza, tragitto, approdo) del discorso (introduzione, sviluppo, conclusione ) E della vita stessa
(nascita, esistenza, morte).
Che la tripartizione sia connaturata all'esperienza e al pensiero umano, La testimone la struttura di alcune
tra le più influenti costruzioni della storia della filosofia, dal mito platonico della caverna alla dialettica ed
hegeliana, dalla psicanalisi alla dialettica negativa francofortesi.

Un gioco in parallelo tra meccanismi umani e meccanismi di finzione che si sviluppa in equilibrio precario
tra realtà e fiction, ma di sicura comprensibilità e di immediato valore chiarificatore. Potremmo dire che se
prendessimo le scadenze temporali proposte da Sud Field faremo lo stesso errore di quanti nel 500 rilessero
la Poetica di Aristotele in senso unicamente normativo.
In Come scrivere una grande sceneggiatura di Linda Seger la scrittrice dimostra come il modello aristotelico
si adatta perfettamente e senza sforzo a forme di racconto teatrale, cinematografico e televisivo anche molto
diverse tra loro.
L'unica differenza nel numero degli atti è determinata da come lo scrittore organizza i suoi pensieri e non
con il pubblico è abituato a riceverli. Usata propriamente ed efficacemente, la divisione in 3,5 o o sette atti,
pone gli eventi della storia più o meno negli stessi luoghi e nelle stesse sequenze. Usiamo un paradigma di
tratti perché è il più semplice da comprendere e aderisce perfettamente alle fasi di una storia in cui il
pubblico ha esperienza. Il primo atto coinvolge gli spettatori nella storia nella vita dei personaggi, il
secondo mantiene il coinvolgimento e intensifica l'impegno emotivo, il terzo conclude la storia e conduce il
coinvolgimento del pubblico ad un finale soddisfacente. Quindi la storia ha un inizio uno svolgimento e un
finale.
Non è diverso da quanto sostiene Aristotele, che dopo aver parlato dell'equilibrio che dovrebbe governare le
diverse parti della tragedia, in merito all'ordine e alla grandezza sostiene che l'estensione corretta è quella che
si può abbracciare insieme con la mente, sicché lo spettatore possa essere sempre in grado di avere presente e
ricostruire l'intera sequenza causale che costituisce la struttura del racconto.
Quando Aristotele scrivere cos'è un principio, indica qualcosa di concreto e non di così ovvio. Di solito i
film e le puntate di serie televisive sono scritti per avere un inizio, cioè dare i primi minuti quelle indicazioni
spazio-temporali sui personaggi che servono per inserirsi al meglio nella narrazione.
Sono tecniche per noi così invisibili e così interiorizzate come spettatore non le percepiamo. È quello che
diciamo per l'inizio, vale per il mezzo e la fine, che non sono solo semplici segmenti collocati in un certo
momento del racconto, ma hanno caratteristiche strutturali specifiche. La fine, deve sciogliere o risolvere i
conflitti delle varie story lines. Ad esempio nel Diavolo veste prada, dopo la scena del climax (andy lancia il
cellulare in una fontana di Parigi), abbiamo alcune scene chiudono altrettante story lines: una scena con il
fidanzato, in cui si avvia una riconciliazione, una scena in cui Andy trova un nuovo lavoro, in cui risolve in
modo molto elegante di rapporti con l’altra assistente Emily infine un'ultima scena di sguardo saluto con
Miranda. È la fine, tutto è compiuto, non serve altro.

Luca Aimieri formulare alcune osservazioni conclusive che ci sentiamo di condividere: “la cinematografia
americana è probabilmente quella che ha ampiamente dimostrato la capacità di raccontare storie: dunque la
manualistica statunitense, tenta di stabilire quali siano le coordinate entro cui muoversi per essere buoni
narratori. Si potrebbe notare a questo punto che il primato americano deve molto alla smemoratezza degli
europei, se addirittura percepiamo come qualcosa di estraneo, un modello elaborato in Grecia 18 secoli
prima alla scoperta dell’America.

Capitolo ottavo
A costituire l'unità di una favola non basta, che essa si aggiri intorno ad un unico personaggio. Innumerevoli
cose possono capitare ad una persona senza che tuttavia alcune di esse siano tali da costituire unità; e così,
anche le azioni di una persona possono essere molte senza che tuttavia ne risulti un'unica azione. Perciò mi
pare siano in errore tutti quei poeti che hanno composto un’Eracleide, una Teseide E altrettanti poemi:
costoro credono che, essendo uno l’eroe, per esempio Eracle, cambia da essere anche una la favola che
tratta di Eracle. O me invece, vide giusto, poetando l’Odissea, non si mise a poetare tutti i casi decapitarono
ad Odisseo. Ma compose la Odissea, e così anche la Iliade, intorno ad un'azione unica nel senso che
veniamo dichiarando. Come dunque nelle altre arti di imitazione la mimesi è una se uno è il suo obietto, così
anche la favola, deve essere mimesi di un'azione che sia unica, e cioè tale da costituire un tutto compiuto; E
le parti che la compongono devono essere coordinate per modo che, spostandone o sopprimendone una, resti
come dislocato e rotto tutto l'insieme. Quella parte la quale, non porta a una differenza sensibile, non può
essere parte integrale del tutto.

L'ottavo capitolo è quello in cui Aristotele chiarisce la sua concezione dell'unità dell'azione drammatica,
l'unica delle tre unità aristoteliche ad essere davvero aristotelica. Non è un caso che nelle prime righe
ricorrono continuamente termini relativi all’unicità. non è il concentrarsi su un solo personaggio a dare un'
unità all’azione. Ne aiuta a definire il senso della sua storia, raccogliendo tutto ciò che il tale personaggio
compie nella sua vita, la pretesa di essere esaustivi. È il problema secondo
Di due film italiani, Venuto al mondo del 2012 e fai bei sogni del 2016. Entrambi i tratti da romanzi, hanno
perso contatto con un asse narrativo stabile, corrente ma chiaro e quindi con l'unità di azione, nel desiderio di
restituire il più dettagliatamente possibile l'evolversi di una vita intera.
La costruzione di un racconto non può partire della materia grezza iniziale, ma dalla previsione del risultato
finale. Il narratore che vuole sviluppare un tema e ha un amore enorme di materiale utile alla sua causa dovrà
chiedersi a cosa serve tutto quel materiale che ha.

Charlie Chaplin, parlando del vantaggio dicevate prima di dichiarare il film è finito bisognava scuotere
l'albero e conservare soltanto quanto resta ben attaccato ai rami.
La regola funziona per qualunque tipo di racconto ma questo passaggio dell'opera si è rivelato
particolarmente efficace soprattutto per la riflessione sugli adattamenti di opere letterarie e biografiche. Se
adattare un'opera sconosciuta per il cinema dona allo sceneggiatore, da un punto di vista mentale , Grande
libertà creativa, diverso è il discorso quando si vanno a toccare grandi della letteratura, magari opere di
narrativa commerciale, ma il successo planetario e molto amate. Molti adattamenti la letteratura vengono
accusati di errori, se non di delitti di lesa maestà. Tali critiche vengono mosse dagli esperti della materia che
guardano le cose dal loro punto di vista e che usano I loro strumenti, ignorando talvolta i fini e le ragioni
della drammaturgia. Un buon adattamento è quello che ne conserva integre lo spirito. L'adattamento non può
letteralmente fedele al materiale di partenza.
Nell'adattamento del romanzo Il senso di una fine di Julian Barnes il regista indiano Batra racconta di essersi
sentita in soggezione nei confronti dell'autore del libro ma di essere stato rassicurato proprio dallo scrittore
stesso, che non si aspettava di essere tradito. Per un cineasta il modo migliore di essere fedele al testo sul
quale un film si basa è tradirlo. Nel momento in cui affidi la tua opera a dei realizzatori di talento, devi
lasciarli liberi di volare.
Aristotele fonda il suo ragionamento sulla mimesi cioè sul rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione .
Non tutte le vicende elezioni particolari della vita, si ordinano necessariamente in una sequenza significativa
e casualmente determinata, che disegni cioè un'unica azione quale è quella che Aristotele ha già definito al
termine del capitolo precedente: un'azione che rappresenti il passaggio del personaggio dalla felicità
all’infelicità (O viceversa), che cioè, dica il senso complessivo della vita di un uomo.

È sempre più chiaro perché il genere storico biografico costituisca un banco di prova formidabile per testare
questo passaggio della Poetica. F. Arlanch , nella doppia veste di sceneggiatore studioso analizza il biopic,
partendo dal paradigma di John Truby che stabilisce una connessione tre singoli generi cinematografici E
specifiche domande esistenziali: se ogni narrazione tenta di fornire una risposta possibile alla domanda sulla
felicità dell'essere umano, ogni genere cinematografico deve vertere su una declinazione possibile di questa
domanda generale. Il genere biografico, parte su dilemmi che nascono dal fatto che ogni vita è destinata alla
morte e che quindi ogni vita nel suo complesso è passibile di essere giustificata redenta o dannata.

È come se il genere biografico potesse contare sul dato di realtà per guardare con nitore maggiore alla
necessità dell'esistenza di ogni racconto: Aristotele effetti poneva come domanda centrale sull’esistere non
che cosa devo fare, ma qual è la vita buona, qual è la vita degna di essere vissuta. Il nostro desiderio di
storie è un riflesso di questo profondo desiderio umano di avere dei percorsi di vita, c'è di avere delle
articolazioni di senso dell'esistenza. Quest'istanza permette di scrivere un film biografico che tenga al suo
interno numerosi episodi e momenti della vita di una persona, nel filone aristotelico dell'unità di azione. È il
motivo per cui nelle moderne teorie della sceneggiatura si tende a identificare l'unità d'azione con il tema del
film, il percorso che personaggio e trama compiono verso una completezza di significato.

Capitolo nono
Il compito del poeta è descrivere quali cose possono accadere: cioè cose le quali siano possibili secondo
leggi della verisimiglianza O della necessità. Infatti lo storico e il poeta non differiscono perché l'uno scrive
in versi e l'altro in prosa, ma la vera differenza è che lo storico descrive fatti realmente accaduti, il poeta
fatti che possono accadere. Perciò la poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia,
tende piuttosto a rappresentare l'universale, storia e il particolare dell'universale possiamo dare un’idea; il
particolare sia quando si dice che cosa fece Alcibiade o che cosa gli capitò. Tutto questo nella commedia,
oggi è divenuto chiarissimo: I poeti dapprima, Inventano e compongono la favola, e poi allo stesso modo
inventano e mettono i nomi dei personaggi; non fanno come gli antichi poeti giambici che poetavano intorno
persone vere e proprie. Nella tragedia i poeti si attengono ai nomi già fissati nella tradizione. E la ragione è
questa, che è credibile a ciò che è possibile.
Siamo disposti a crederle possibili, ma è ben chiaro che sono possibili quelle che sono cose accadute, perché
non sarebbero accadute se non erano possibili. Anche tra le tragedie, ce n'è di quelle cose in cui uno o due
nomi soltanto sono conosciuti e gli altri sono inventati. D’onde si conclude chiaramente il poeta ha da
essere poeta cioè creatore di favole anziché di versi, in quanto egli è poeta solo in virtù della sua capacità
mimetica, E sono le azioni che egli imita O crea, non i versi. Se poi capiti a un poeta di poetare su fatti
realmente accaduti, costui non sarà meno poeta per questo.

Delle favole e azioni semplici, quelle episodiche sono le peggiori. Chiama discarica quella favola in cui gli
episodi non sono legati fra loro da alcun rapporto nel di verisimiglianza anni di necessità. Italy favole ne
compongono di solito poeti di cattivo gusto, appunto per difetto di gusto ; ma le compongono anche poeti di
valore per soddisfare certe esigenze della rappresentazione teatrale. E difatti questi poeti scrivendo
declamazioni sforzando il mito più di quanto sarebbe possibile, si trovano costretti molto spesso spezzare la
linea di successione degli avvenimenti. Ora siccome la tragedia non è solo mimesi di un'azione compiuta in
se stessa, ma anche di fatti che destino pietà e terrore, questi fatti saranno tali da destare assai efficacemente
la pietà ed il terrore, e anzi più efficacemente che in altro modo, allorché sopravvengono fuor d'ogni nostra
aspettazione e al modo stesso con intima connessione e indipendenza l'uno dall’altro tutto ciò dunque risulta
che le favole così concepite saranno necessariamente più belle.
Verosimiglianza e necessità, particolare e universale, poesia e storia. I binomi con cui si apre il nono capitolo
nutrono alcune tra le più celebri affermazioni del pensiero aristotelico. Per quanto riguarda il rapporto con il
cinema, possiamo trarre lezioni fondamentali:
7. Assimilata quanto più possibile alla filosofia, l'arte ottiene qui un pieno riconoscimento in quanto
possibilità speculative. Diciamo quindi che è anche un po' merito di Aristotele se il cinema può
considerarsi un'arte autorevole. La sceneggiatura è il primo dei sette dove i film si pensano. Si può
creare senso, certamente, attraverso la purezza delle immagini e quindi attraverso la regia, montaggio o
la recitazione. Ogni possessore di ciascuna delle competenze specifiche per realizzare un film è da
considerarsi autore. Ognuno di questi passaggi, partecipa nello stesso processo creativo il cui fine è
quello di comunicare un'idea e di raccontare una storia. La sceneggiatura non è sempre arte ma sempre
la permette. Se per sceneggiatura intendiamo il testo scritto su cui lavorerà nel regista e gli attori, è un
conto. Se invece per sceneggiature intendiamo l'intero processo di scrittura del film, allora dobbiamo
dire che esso termina solo quando termina intera lavorazione.

8. La seconda lezione fondamentale dice quale debba essere il rapporto tra la storia e la sua
rappresentazione in un testo narrativo. Gli sceneggiatori vengono sistematicamente messi sotto accusa
quando si prendono delle libertà nel raccontare fatti realmente accaduti. Compito del poeta e raccontare
le cose che potrebbe accadere secondo verosimiglianza e necessità. La trattazione della categoria del
verosimile è strettamente legata alle dimensioni estetiche della narrazione. La verosimiglianza implica
una certa universalità ma diminuita, in quanto si fonda su ciò cui gli uomini sono generalmente
d'accordo, se ciò che è passato nell'uso comune che è fondato non sono statisticamente max una certa
convenienza naturale. Essa è una sorta di universale probabile per il quale però è sempre possibile il
contrario. Il verosimile ammette sempre la possibilità adesso contrario, a differenza dell'universale
scientifico. In profondità, quindi, il racconto è in grado di sviluppare uno sguardo realistico e dettagliato
sul comportamento umano, accogliendo nella sua completezza e variegato spettro di beni che l'esistenza
presenta all’azione.

Robert McKee fa a proposito un esempio chiarificatore: “prendiamo un’insieme di fatti noti come la vita di
Giovanna d'Arco. Per secoli famosi scrittori hanno portato questa donna sul palcoscenico e ogni Giovanna è
stata unica nel suo genere: c'è quella spirituale, quell'arguta, la Giovanna politica, la giovane sofferente e così
via. I fatti di Giovanna sono sempre gli stessi, ma cambiano i generi, mentre la verità della sua vita è lì che
aspetta che lo sceneggiatore ne trovi significato”.

Nei fatti, differenza tracciata da Aristotele tra poeti storici è alla base della riflessione cinematografica e
televisiva sul genere biografico. I fatti sono neutri, la giustificazione più debole che si possa addurre per
includere una qualsiasi cosa in una storia è: “ma è successo veramente”.
Ma una storia non è la vita nella sua realtà. La verità e ciò che noi pensiamo di quanto accade. Si è
diffusamente occupato di questi i temi lo sceneggiatore Francesco Arlanch già nel citato “Vite da film”, in
cui spiega come il film biografici siano fittizi alla stregua di quelli che dichiarano puramente casuali
riferimenti a cose o persone reali e che pertanto grazie migliore per elaborare i dati della cronaca inefficace
intreccio drammatico consiste nel dimenticare il nome del personaggio storico cui il biopic si ispirerà.
Significa che i dati di fatto devono essere valorizzati in quanto mezzo progressivo per ottenere qualcos'altro
rispetto alla loro mera esposizione.
Basti pensare al successo duraturo del genere biografico al cinema come in televisione. La domanda su quale
vita sia giudicare buona del tutto coerente con la domanda su quali storia meriti, di essere raccontata.
scrivere un film comporta sembrando che lavoro di selezione e invenzione tutti gli autori di storie
biografiche cercano sempre, di trovare la verità oltre la coltre dei fatti.
È importante ai fini del racconto, dell'episodio sia verosimile: una licenza poetica dello sceneggiatore che
porta nella storia un'esplosione di passionalità. È fatto per essere vero deve imitare il racconto dice Jack
London, immaginazione creativa è più vera della voce stessa della vita.

Capitolo decimo
Delle favole alcune sono semplici, altre complesse, elezioni che coteste favole imitano sono anch’esse
semplici o complesse. Dico semplice collazione coinvolgendo si giunge alla soluzione, senza peripezie a e
senza riconoscimento; complessa quella che aggiunge le soluzioni o con riconoscimento con la peripezia o
con ambedue insieme. Ma peripezie a riconoscimento bisogna che scaturiscano direttamente dalla intima
struttura della favola, in modo cioè che sia una conseguenza o verisimile o necessaria dei fatti precedenti:
c'è molta differenza che ho fatto avvenga in conseguenza di un altro chiedendo semplicemente dopo un altro.
Di peripezia e riconoscimento si è già accennato nel sesto capitolo. Gli esegeti del testo notano come
momenti in cui si sta per affrontare l'aspetto dell'esperienza del tragico legato alle emozioni, Aristotele si
preoccupi di contestualizzarlo alla luce dell'intelligibilità, della logica e della causalità da scoprirsi nello
svolgersi del racconto. L'istanza estetica fondamentale della coerenza artistica non potrebbe essere sostenuta
con più forza di quanto faccia Aristotele col dire che i fatti tragici sono quanti più tragici, ossia più pietosi e
birrifici quanto più inaspettati e a un tempo connessi intimamente e indipendente casualmente fra loro: cioè
quanto più inopinati e razionali ad un tempo.
Questo capitolo ci dice una volta per tutte che secondo Aristotele il fine della tragedia devi collegare E
unificare in sé tanto l'esito cognitivo che quello emotivo, e gli sceneggiatori dovrebbero incidere nella pietra
questa massima, perché a ben vedere è forse la norma principale da osservare nella costruzione di una storia
che voglia essere priva di difetti strutturali e allo stesso tempo avere grande presa sul pubblico.
In questi termini va a letto anche meraviglioso: il significato che insegna Aristotele è probabilmente quello di
sfida intellettuale cui è chiamato lo spettatore che, assistendo al verificarsi in scena di eventi inaspettati, è
provocato a trovarmi legittima pertinenza a quanto la trama ha svolto fino a quel punto. Questo può valere
nei finali a sorpresa, in quelli di strutture complesse o in qualunque altro caso capace di appagare lo
spettatore sorprendendolo in maniera leale. Alcune ottime commedie, da un punto di vista emotivo è
cognitivo funziona alla stessa maniera. Si pensi a quei film in cui il personaggio mente o si traveste fino al
disvelamento finale. Lo scioglimento può accadere in chiave drammatica, o in chiave comica.
Già i primi manuali di sceneggiatura degli anni 10 del novecento fanno riferimento al messo causa effetto
come basilare nello strutturare la trama. Sceneggiare significa strutturare, dicono tutti manuali, per cui ogni
pagina di una script dovrebbe suscitare, come specifico interrogativo la domanda “cosa succede adesso?”. A
una causa corrisponderà un effetto che produrrà un'altra causa fino a momento culminante del racconto.
Questi dell'autore sarà di arrivare a destinazione in modo coerente, portandolo esattamente dove egli si
aspetta ma nel modo che non si aspetta.

Northrop Frye in ‘Anantonia della critica’ afferma che noi possiamo anche sapere che la commedia si
chiuderà inevitabilmente per convenzione con un lieto fine, ma per ogni commedia il drammaturgo di
studiare una specifico gimmick o weenie.
Non è un caso che sui racconti semplici Aristotele non soffermerà fatto, considerandoli nettamente inferiori
alla tragedia. C'è molta differenza anche un fatto avvenne in conseguenza di un altro o che avvenga
semplicemente dopo un altro.
Robert McKee spiega bene il valore profondo della struttura in cui cause ed effetti sono concatenati in un
disegno coerente: “il design della storia classica traccia la mappa delle varie connessioni della vita, dall'avvio
fino all’impenetrabile, nell'intimo all'epico, dell'identità individuale all'arena internazionale. Mette a nudo la
rete delle causalità concatenate tra loro che, una volta capite conferiscono il significato alla vita”.

Capitolo undicesimo
Peripezia è il mutamento improvviso da una condizione di cose nella condizione contraria, anche questo
mutamento è sottoposto alle leggi della verisimiglianza e della necessità. Così per esempio, nell'Edipo re di
Sofocle, venuto il messo da Corinto con la persuasione di annunziare cosa gradita a Edipo e di sgombrargli
l'anima dal terrore in cui era per i suoi rapporti con la madre, produsse l'effetto contrario.
Il riconoscimento, come indica la parola stessa, è il passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza, E
quindi alla reciproca amicizia o inimicizia tre personaggi dell'azione drammatica destinati alla buona o alla
cattiva fortuna. La più bella forma di riconoscimento sia quando intervengono contemporaneamente casi di
peripezie ha, come nell'esempio sopraccitato dell’Edipo. Ci sono senza dubbio altre forme di
riconoscimento: può darsi che essa avvenga anche di cose inanimate puramente accidentali, come pure può
essere un mezzo di riconoscimento scoprire se una fatto una fatto alcunché. Infatti dal formale
riconoscimento, come anche cotal forma di peripezie, produrranno sentimenti di pietà e terrore; e sono
appunto le azioni che suscitano siffatti sentimenti quelli di cui la tragedia, come già fu definito, è imitatrice.
Proprio da codesti riconoscimenti e peripezie dipende lo scioglimento infelice o anche felice della tragedia.
Il riconoscimento riconoscimento di persone. Ad esempio in Ifigenia di Euripide, Ifigenia fu riconosciuta da
Oreste mediante la lettera che ella consegnò a Pilade da portargli; ma c'era bisogno di un altro mezzo di
riconoscimento perché Oreste fosse riconosciuto dalla ragazza. Due parti della favola dunque si aggirano
intorno a questa specie di casi, e sono la peripezia e il riconoscimento. Una terza parte è la catastrofe. La
catastrofe è un'azione che reca seco rovina o dolore, dove si veggono, per esempio, cadaveri sulla scena, si
assisterà dolori strazianti, ha ferite e ad altre simili sofferenze.

Peripezia, riconoscimento e catastrofe. Peripezia può essere reso in vari modi che in maniera più intuitiva
spiegano cosa intendesse Aristotele. Si tratta di mutamento repentino per un personaggio, da una condizione
al suo contrario. È interessante che nell'uso comune la parola abbia assunto significato un po' diverso, a ben
vedere, l'espressione dopo 1000 peripezie si adatta bene al percorso movimentato di una sceneggiatura, con i
suoi diversi punti di svolta. Il riconoscimento è nato nel gergo teatrale come agnizione, la scoperta
improvvisa di qualcosa dell'identità di qualcuno. Fondamentale è che tali azioni drammatiche generino
sentimenti di pietà e di terrore: per questo Aristotele parte dal caso esemplare dell'Edipo re di Sofocle in cui
le due occorrenze coincidono. Esempi in cui aderiscono peripezie a riconoscimento si trovano in quelle storie
in cui il punto di svolta tra un segmento narrativo e il seguente coincide con la presa d'atto, da parte del
protagonista di aver vissuto fino a quel momento in un universo fittizio.
Questa dinamica non è prerogativa solo dei generi forti come la fantascienza o l’orrore. Il cinema
drammatico, senza bisogno di ricorrere a tali mezzi, è pieno di esempi di peripezie e riconoscimenti, ed è
senz'altro il terreno migliore per saggiare l' attualità di queste pagine della Poetica.
Come nota sempre McKee la peripezia che coincide con il riconoscimento, è tutt'altro che un mero
espediente narrativo, ma riguarda la natura profonda del personaggio e il suo cambiamento, la sua
maturazione umana: “le sceneggiature migliori non soltanto rivelano il vero personaggio, ma la ribalta no o
modificano la natura interiore, in meglio o in peggio, nel corso della narrazione stessa. È quando intende
Aristotele quando parla di mutamento da fortuna sfortuna o viceversa.

Capitolo dodicesimo
Vediamo ora le parti della tragedia sotto il rispetto delle quantità, quelle cioè nelle quali una tragedia si può
dividere e che luna dopo l'altra si seguono separate e distinte. Queste parti sono: prologo, episodio, esodo,
canti del coro. I canti del coro si distinguono in parodo e stasimo, che sono comuni a tutte quante le
tragedie, mentre, speciali di alcune tragedie soltanto sono i canti cantati sulla scena e i commi. Prologo è
tutta quella parte della tragedia che precede l'entrata del coro. Episodio è quella parte della tragedia che
sta tutta quanta tra due interi canti corali. Esatto è quella parte della tragedia che sta tutta quanta dopo
l'ultimo canto corale. Dei canti corali il parodo è la prima cantata che sia detta interamente dal coro, lo
stasimo è un canto del coro senza versi anapestici e trocaici. Il colmo è un canto lamentevole cantato a
vicenda dal coro e da uno o più dei personaggi della scena, E i canti della scena sono canti propri attori che
cantano dalla scena.

Soprattutto se si leggono bene l'incipit e la conclusione dello stesso, in cui è spiegata la distinzione tra due
modi di essere parti della tragedia, uno qualitativo e uno quantitativo. Il discorso sulle parti della tragedia ha
eccitato quanti hanno creduto di trovare qui un precedente relativo alla spiegazione sulla divisione in atti di
un film, non capendo che la famosa tripartizione è legata a quanto Aristotele diceva il capitolo settimo.

Capitolo tredicesimo
La più perfetta tragedia dell'essere composizione non semplice ma complessa, E anche bisogna che essa sia
mimesi di casi i quali destino città e terrore, egli è chiaro, prima di tutto, che non bisogna siano
rappresentati sulla scena, in atto di passare alla felicità all'infelicità, Uomini da bene, non potendo ciò
ispirar terrore né pietà ma sono ripugnanza. Secondo, che non vi siano rappresentati in atto di passare dalla
infelicità alla felicità uomini malvagi, essendo questa la cosa più aliena dallo spirito tragico,, In quanto non
possiede nessuno dei requisiti in cui la tragedia bisogna, E difatti ne soddisfa il pubblico, né suscita alcun
sentimento ne di pietà né di terrore.
Terzo, neanche bisogna anche essere presenti uomini estremamente malvagi cadere dalla felicità nella
infelicità perché è, se anche una composizione siffatta potrebbe soddisfare per un certo rispetto il gusto del
pubblico, non potrebbe però suscitare nessun sentimento né di titani terrore. Resta tra queste due vie
estreme, la via di mezzo. Sarà cioè buon personaggio da tragedia colui il quale, senza essersi
particolarmente distinto per la sua virtù o sentimento di giustizia, neanche sia tale da cadere in disavventura
a cagione di Sua malvagità o scelleraggine, bensì a cagione soltanto di qualche errore.
È necessario dunque che una favola ben costruita sia semplice anziché doppia, che non vi sia passaggio
dalla infelicità alla felicità ma al contrario, E che ci sia qualche grave errore, è colui che commette l'errore,
ossia del tipo già descritto o tutt'al più migliore, non peggiore. Una prova di ciò che dico è quello che
succede nella realtà. Ora invece le tragedie più belle si sogliono comporre intorno numero limitato di
famiglie.
Concludendo, la tragedia teoricamente perfetta sarà quella che avrà una struttura di questo genere. Perciò
accadono nel medesimo errore coloro i quali accusano Euripide di seguire le sue tragedie questo criterio, E
cioè che in gran parte le tragedie hanno uno scioglimento doloroso. Di secondo ordine, e non di Primo
come pretendere alcuni, è quella forma che ha come l'Odissea, una duplice combinazione di casi, e quindi
un duplice e contrario scioglimento per i personaggi migliori e per i peggiori. Essa è detta di prim'ordine a
cagione di certa mollezza di animo da parte di spettatori, perché i poeti nelle loro creazioni amano
assecondare i desideri del pubblico. Ma non è questo il diretto che si richiede la tragedia, il quale è propria
piuttosto della commedia.

Il personaggio ideale della tragedia secondo Aristotele, È quello che senza essersi distinto particolarmente,
né per virtù ne per vizio, cade in seguito ad un giudizio sbagliato, all'ignoranza di qualcosa o ad altre
circostanze materiali. Aristotele non precisa mai in cosa consista esattamente tale errore: tutte le accezioni
che possiamo dargli, comportano un ventaglio di ipotesi piuttosto ampio, che non può essere ridotto entro
definizioni conclusive.
Non si può che riscontrare quanto sia di grande sottigliezza la disamina di Aristotele di tutti i tipi di
combinazione tra il profilo morale del protagonista e la sorte che lo attende e, senz’altro, può costituire
un'importante spunto per uno sceneggiatore, chiamato a costruire il carattere e la backstory di un
personaggio, prima che questo sia lanciato nel nell’agone della narrazione andando incontro al suo destino.
Categoria di errore, permette spessore drammatico. Un essere umano è capace di agire soltanto nella
direzione del giusto del buono o comunque di quello che ritiene essere tale.

Potrebbe capitare, che nella stesura di un film allo sceneggiatore si accorga che la trama è perfetta ma che il
protagonista avrebbe bisogno di qualche modifica per rendere accettabile allo spettatore il suo destino. La
coerenza tra il personaggio e la trama, che è uno dei principi aristotelici fondamentali, trova qui una sua
esposizione lucida e ancora utile ai narratori di oggi. Ciascuno può paragonare i finali dei film, e chiedersi di
volta in volta a quali criteri obbedisca il destino tragico dei relativi protagonisti e quale sia il guadagno degli
spettatori dei punti di vista sia emotivo sia cognitivo.
Paradossalmente, e meno interessante sapere cosa intendesse con esattezza Aristotele quando sottoponete
personaggi del dramma dell’hamartia rispetto a quello che queste pagine hanno ispirato nei secoli successivi
giungendo fino a noi . Per verificare questa istanza, basti pensare alla risonanza universale dei drammi di
Shakespeare. Lo sceneggiatore Mario Ruggeri ha condotto una ricerca su alcune celebri tragedie
dimostrando che il lettore o lo spettatore non hanno bisogno del lieto fine per godere positivamente
dell'esperienza del tragico. L'opera di Shakespeare produce sempre un incremento di conoscenza, un
chiarimento tematico sull'errore tragico del protagonista, un guadagno emotivo ed è sistemico che permette
che l'assistere alla rappresentazione di una grande tragedia non sia umanamente né deprimente ne frustrante.

Capitolo 14
Il terrore e la pietà possono essere suscitati dallo spettacolo scenico, ma anche possono scaturire dalla
intrinseca composizione dei fatti; e questo viene in prima linea ed è un sogno di miglior poeta. Perché la
favola, anche indipendentemente dal vederla rappresentata su la scena, bisogna sia costituita in modo che
pur solo chi ascolti la narrazione dei fatti accaduti riceva dallo svolgersi di codesti fatti un brivido di terrore
e senso di pietà. Il che si può provare ascoltando leggere la tragedia di Edipo. Cercar di promuovere questi
sentimenti mediante lo spettacolo scenico è cosa che non ha a che fare con l’arte del poeta e ci deve pensare
il corègo ( il corego era in Atene colui che sosteneva la spesa dell’allestimento dello spettacolo). Perché
dalla tragedia non si deve cercare ogni sorta di diletto, ma quello solo che le è proprio. E siccome il diletto
proprio della tragedia, e che il poeta deve procurare, è quello che scaturisce mediante la mimesi, da fatti che
destino pietà e terrore, è chiaro che esso poeta deve introdurre nell’interno dell’azione drammatica ciò che
appunto potrà suscitare questi sentimenti.
Vediamo, dunque, dei casi che intervengono, quali possono colpire di terrore il nostro animo, o quali
possono destare la nostra commiserazione. Azioni che straordinariamente ci colpiscano debbono di
necessità accedere tra persone le quali, o siano amiche fra loro, o siano nemiche, o non siano né amiche né
nemiche. Se è un nemico contro un nemico, non c’è niente in questo che nuova la nostra pietà, sia che costui
eseguisca di fatto la sua azione, sia che stia per eseguirla; e rimane solo quel senso di perturbamento che
reca seco la catastrofe in sé medesima. Lo stesso accadrebbe trattandosi di persone le quali non siano fra
loro né amiche né nemiche. Ma quando coteste catastrofi avvengono tra persone legate da vincoli di
parentela, come quando, per esempio, un fratello uccida o mediti di uccidere il fratello ecc. ecco quali sono i
soggetti che il poeta deve ricercare. Perché i miti bisogna lasciarli così come li abbiamo avuti.
È possibile che l’azione si svolga alla maniera de’ poeti antichi i quali, di solito, facevano che i loro
personaggi operassero in perfetta coscienza e conoscenza (di sé e delle persone con cui avevano un
rapporto); come fece anche Euripide rappresentando Medea che uccide i propri figli. Ma è anche possibile
che l’azione si compia senza che chi la compie sia consapevole della speciale terribilità sua, e solo più tardi
venga a conoscenza dei vincoli di parentela (che lo legavano a coloro contro cui operò): per esempio
l’Edipo (re) di Sofocle. Nell’Edipo questa azione ha luogo fuori della tragedia propriamente detta.
V’è poi anche un terzo modo, oltre questi, e cioè di colui il quale, non riconoscendo (qual vincolo di
parentela lo leghi ad una data persona), sta per fare contro di essa qualcosa di irreparabile; ma ecco che,
prima di fare, viene a conoscere in tempo (codesta persona chi è). Oltre questi tre non ci sono altri casi
possibili. E veramente non si possono dare che queste 4 situazioni: o fare o non fare consapevolmente; o fare
o non fare inconsapevolmente. Di queste situazioni quella di colui che in piena coscienza sta per fare e poi
non fa è la peggiore perché repugnante e non tragica, e difatti non si risolve in nessuna catastrofe. Perciò
nessun personaggio opera in codesto modo se non raramente. Viene in secondo luogo che l’azione
(consapevolmente meditata) di fatto si compia. Migliore è il caso di colui che senza conoscere opera, e
riconosce dopo aver operato. Qui non c’è niente di repugnante, e anzi il riconoscimento ci colpisce di
stupore e costernazione.
Ecco dunque perché le tragedie si aggirano intorno a un numero limitato di famiglie: perché i poeti, nella
loro ricerca di soggetti tragici, non già pe alcuna conoscenza di norme artistiche, ma solo per caso,
trovarono da introdurre nelle loro tragedie siffatto genere di situazioni; e così furono costretti a quel numero
limitati di famiglia a cui cotali dolorosi accidenti erano capitati. Della composizione de’ fatti e di che natura
le favole hanno da essere s’è discorso dunque sufficientemente.
L’incipit di questo capitolo registra un’altra forte presa di posizione sulla preminenza del mythos, del
racconto, su ogni altro aspetto del dramma. “ La favola anche indipendentemente dal vederla rappresentata in
scena, bisogna sia costituita in modo che per solo chi ascolto la narrazione dei gatti accaduti riceva dallo
svolgersi di codesti fatti un brivido di terrore e un senso di pietà” (Aristotele). Questa asserzione riporta a
una vexata quaestio nell’ambito della teoria e della pratica della sceneggiatura, riconducile alla domanda: lo
script è solo un testo di “servizio” che muore una che il film è stato girato o continua ad esistere e può essere
letto come se fosse un copione teatrale? Che autorevolezza letteraria e autoriale ha una sceneggiatura? Gli
studiosi hanno cercato di rispondere in diversi modi.
Gli sceneggiatori hanno detto la loro. Negli anni ’40 lo studioso di teatro John Gassner e lo sceneggiatore
Dudley Nichols pubblicarono alcune raccolte di sceneggiature con l’intento programmatico di autorizzare la
scrittura cinematografica a stare sullo stesso scaffale di quella teatrale, senza doversene sentire inferiore.
Ogni volume raccoglieva le 20 migliori sceneggiature americane della stagione. Il progetto si arenò dopo
pochissimi anni ma, a oggi, rimane uno dei più seri tentativi metter e l’arte dello “scrivere il film” al centro
dell’attenzione anche dei non addetti ai lavori.
Negli anni, numerosissime sceneggiature hanno avuto l’onore della pubblicazione, o perché molto debitrici
dell’eccellenza dei dialoghi o perché legate al carisma di un autore molto noto, popolare, e con una sua forza
“commerciale” anche in libreria.
Certo, poi, non qualunque tipo di film si presta a essere fissato sulla carta e riletto come se fosse un’opera
teatrale. Ma chi può dire che anche titoli in cui la genialità del regista è fondamentale non abbiano un loro
appeal dal punto di vista letterario? Recentemente è stato chiesto al regista Joe Dante un parere sullo script si
una delle sue commedie di successo degli anni ’80, scritta dallo sceneggiatore Chris Columbus. “ è buffo
ricevere domande sulla sceneggiatura di Chris, perché se ormai siamo abituati a vedere e rivedere i film… lo
stesso non si può dire delle sceneggiature. Non c’è mai nessuno che vada a rileggere le sceneggiature del
passato…”. Ecco perché la sceneggiatura è così affascinante: comporta il ritorno alla pagina scritta, che è il
luogo in cui la realtà caotica nei suoi diversi significati è obbligata a trovare un ordine. E lo sceneggiatore,
anche se non sempre è l’unico autore di un film, però senz’altro ne è sempre il primo.
La sceneggiatura è la parte del film che meno di deve sbagliare perché prima della sceneggiatura c’è la realtà
intera, l’oceano possibile. Lo sceneggiatore ha il compito di dare un orizzonte e una direzione alla storia e ai
personaggi. Il testo audiovisivo è un grande pensatoio di esperienze plausibili in cui lo sceneggiatore
costruisce il laboratorio e conduce gli esperimenti. Tutto quello che documenteranno le pagine del suo script
sarà da prendere sul serio come tentativo di dare delle risposte attendibili a problemi reali: ogni gesto
artistico, in questo senso, porta con sé la responsabilità di un atto generativo è stato per questo che può anche
farci tremare.
La Poetica non parla di tutte queste cose, ma le semina quando evoca un “ascoltatore” dell’Edipo re che
trema di pietà e terrore se solo l’opera gli viene letta.
Capitolo 15
Per ciò che riguarda i caratteri, quattro sono i punti a cui si deve mirare. Il primo e il più importante è che
essi siano nobili. Un personaggio avrà carattere se ciò ch’egli dice o fa mostri chiaramente qualche
inclinazione morale; e quindi avrà carattere nobile se questa sua inclinazione sarà nobile. Il secondo punto
è che i caratteri siano appropriati. C’è, per esempio, il carattere virile; ma non sarà proprio di una donna
essere allo stesso modo di un uomo virile ed eloquente. Terzo punto è che i caratteri siano conformi (alla
tradizione o mitica o storica); e questa, in realtà, è cosa diversa dalla creazione di caratteri nobili e di
caratteri appropriati nel senso che abbiamo ora dato queste parole. Quarto punto è che i caratteri siano
sempre coerenti a se stessi. Così che se anche la persona che fornisce il soggetto alla mimesi è incoerente, e
di tale natura (nella tradizione o mitica o storica) è il carattere che il poeta si è proposto di rappresentare,
ebbene, bisogna che esso sia coerentemente incoerente.
Dunque, anche nella pittura dei caratteri, come nella composizione dei fatti, bisogna aver sempre di mira
ciò che è richiesto dalle leggi del necessario e del verisimile; cosicché, dato un personaggio di quello o quel
carattere, ciò che egli dice o fa deve risultare appunto da contesto suo carattere conformemente alle leggi
della necessità o della verisimiglianza; allo stesso modo che, dato un fatto, se un altro fatto succede a
quello, anche questa successione ha da resultare conforme con alle leggi della necessità o della
verisimiglianza.
È evidente pertanto che anche gli scioglimenti delle tragedie debbono venir fuori dalla struttura della
tragedia in sé stessa, e non da un artificio meccanico. Dell’artificio scenico si può far uso per ciò solo che è
fuori dell’azione drammatica, sia per quei fatti che accaddero prima e che lo spettatore non è in grado di
conoscere, sia per quelli che dovranno accadere poi e che quindi hanno bisogno di essere predetti e
annunziati.
Ora, siccome la tragedia è mimesi di persone superiori al livello comune, sarà bene che i poeti seguano
l’esempio dei buoni pittori di ritratti: i quali, producendo le fattezze peculiari di un individuo, ne disegnano
un ritratto che, senza venir meno alla somiglianza, è tuttavia più bello dell’originale. E così anche i, poeta
che voglia riprodurre persone o troppo facili all’ita o troppo remissive o con altrettali infermità di carattere,
deve, pur conservando in loro codesti tratti speciali, improntarle a una conveniente nobiltà o grandezza.
Questi principi è bene che il poeta li abbia sempre presenti; ma oltre questi è bene egli tenga conto di certe
norme che si determinano relativamente alle impressioni del pubblico, perché non è difficile anche sotto
questo rispetto cadere in parecchi errori.
Ci sembra che nel corto circuito tra i diversi mezzi comunicazione, attraverso la lente comune dello
storytelling, la Poetica occupi un ruolo cruciale. Per questo troviamo che il termine echiano
“sgangherabilità” sia particolarmente pertinente. Sgangherabili, secondo Eco, soni quei testi che si possono
scorporare in porzioni memorabili.
Alla sua sgangherabilità Eco attribuiva a che il successo di una popolare serie a fumetti, quando affermò, con
gusto della provocazione spiazzante che gli apparteneva. È sgangherabile per costituzione il cinema, che
analogamente al fumetto è costruito attraverso il montaggio e che, pertanto, può essere facilmente smontato e
gustato a pezzi. Non sempre però l’essere sgangherabile è sintomo di grandezza. Anzi, spesso è il risultato di
un cattivo lavoro in sede di sceneggiatura. Ci sembra, per esempio, che alcuni film abbiano al loro interno
parti memorabili, ma che l’insieme delle varie parti non tenga, non sia all’altezza.
La poetica di Aristotele è un libro sgangherabile. Il suo montaggio, per quanto abbia assunto una versione
definitiva universalmente condivisa, potrebbe in teoria essere anche soggetto a variazioni. Come per altre
dinamiche proprie del funzionamento dei testi narrativi la Poetica diventa il simbolo di molte cose che ai
tempi in cui è stata scritta ancora non esistevano. Per questo, dopo ventitré secoli, non smette di affascinarci.
In particolare, l’impressione è che Aristotele in questa pagina tenti di soddisfare esigenze contrastanti.
Quando chiede che i caratteri siano “conformi”, i traduttori del testo sono in difficoltà. Valgimigli aggiunge
“alla tradizione mitica o storica”, ma il termine greco corrispondente, alla lettera, indica la semplice
“somiglianza”. Questo, pertanto, suggerisce che Aristotele esigesse qualcos’altro: che i personaggi della
tragedia fossero “simili a noi, al nostro livello umano”, così da poter suscitare i sentimenti richiesti di pietà e
terrore. Se il significato fosse questo, però, si concilierebbe non al meglio con quanto viene richiesto
all’inizio del capitolo a proposito della “nobiltà” dei personaggi.
Per certi versi l’essere attendibili nella descrizione di tipi umani comuni, anche nei loro tratti meno lodevoli,
non esclude al tempo stesso una certa idealizzazione. Che poi, a ben guardare, è un’altra ottima indicazione
per l’ideazione (o l’analisi) di un film biografico. Lo sceneggiatore non è uno storico o un giornalista. Non è
importante la fedeltà assoluta ai fatti quanto che la narrazione possa guidare lo spettatore verso un
miglioramento, un guadagno. È fondamentale, quindi, costruire l’empatia verso il personaggio, anche a costo
di qualche tradimento della realtà e moderata idealizzazione. (vedi caso A beautiful mind p. 86).
Il principio di coerenza espresso in questo capitolo è un’altra norma basilare della drammaturgia, anche se
Aristotele offre una botola di sicurezza quando proprio è inevitabile trasgredirla. “né ha da esserci nello
svolgimento dell’azione alcunché di irrazionale”, scrive, “e, se questo è inevitabile, sia fuori della tragedia”.
Potremmo aggiornare questa indicazione, pensando che per lo sceneggiatore anche la categoria
dell’impossibile deve essere uno strumento presente nella cassetta degli attrezzi, sia pure da usa con
parsimonia e, soprattutto, sempre all’inizio e mai alla fine.
Capitolo 16
Che cosa sia in genere il riconoscimento è stato detto più innanzi; le sue diverse specie sono le seguenti. La
prima, che è fra tutte la meno artistica e della quale pur fanno grandissimo i poeti quando non sanno trovare
di meglio, è il riconoscimento mediante segni. Di questi segni, alcuni sono congeniti, come, per esempio, “la
lancia” che portano (impressa sul corpo gli Sparti) “ nati dalla terra; altri sono acquisiti: e di questi, alcuni
sono nel corpo, come le cicatrici, altri fuori dal corpo, per esempio le collane. Anche questi segni ci si può
servir bene e ci si può servir male: Odisseo, per esempio, mediante la cicatrice, in un modo fu riconosciuto
dalla nutrice e in un modo dai porcai. E in verità quei riconoscimenti nei quali il segno è adoperato
consapevolmente come mezzo di persuasione, sono meno artistici di altri, e così in genere tutti quelli che
avvengono in questo modo; quelli invece che capitano inaspettatamente, come il riconoscimento (di
Odisseo) nella scena del bagno, questi sono migliori. La seconda forma comprende quei riconoscimenti che
sono creati artificialmente dal poeta, e perciò non sono artistici (vedi esempio p. 89). La terza forma di
riconoscimento p quella che sia ha mediante la memoria, in quanto cioè una persona, per cosa che veda (o
oda), prorompe in una manifestazione del proprio sentimento (onde si rivela). La quarta è quella che nasce
da un ragionamento.
C’è poi anche una forma composita di riconoscimento, la quale involge un paralogismo da parte degli
spettatori; come avviene nell’Odisseo il falso messaggero.
Ma fra tutte, la migliore forma di riconoscimento è quella che scaturisce dalla vicende dell’azione
medesima, quando cioè ci colpisce inaspettatamente e al tempo stesso avviene per cause verosimili. Casi di
riconoscimento come questi sono gli unici che non dipendano da artefici di segni e di collane. Vengono in
second’ordine i riconoscimenti che derivano da un ragionamento.
Sul riconoscimento Aristotele si era già espresso precedentemente (capitolo 11). Gli studiosi sono infatti
dubbiosi sulla collocazione editoriale di queste pagine e anche si chiedono come mai delle tre parti del
racconto già in sede illustrate – peripezia, riconoscimento ed evento catastrofico – la Poetica debba
riprendere in esame proprio la seconda. In realtà anche della peripezia si finisce di parlare in questa pagina,
giacché si fa il doppio esempio del riconoscimento di Odisseo da parte della nutrice e da parte del porcaro
Eumeo: nel primo caso l’eroe è riconosciuto (attraverso la sua cicatrice) contro la sua volontà. Aristotele
approva questo caso di riconoscimento perché avviene con un rovesciamento dell’azione (Valgimigli rende
con l’avverbio “inespertamente” l’effetto della “peripezia”) e giudica meno forte il secondo caso in cui il
protagonista stesso decide di rivelarsi. Anche il riconoscimento, ribadisce qui Aristotele diffondendosi in
esempi, deve essere collegato alla sequenza necessaria o verosimile che costituisce il racconto.
È interessante, trasferendo la stessa dinamica nel testo cinematografico, come in base al riconoscimento si
possono creare diverse strategie miranti al coinvolgimento dello spettatore. Se c’è un segreto nel film
bisogna mantenere questi segreto il più a lungo possibile allo spettatore se si vorrà ottenere il classico
“effetto sorpresa”. Lo si dovrà mantenere il più lungo possibile al personaggio se invece si vorrà creare nello
spettatore la suspense.
Aristotele si sofferma sulle modalità secondo cui avviene il riconoscimento. Tramite l’uso di oggetti, di
spiegazioni date dai personaggi, dallo scoppio di sentimenti che rivela una particolarità del personaggio o
tramite il ragionamento. “ma, fra tutte, la miglior forma di riconoscimento è quella scaturisce dalla vicende
dell’azione medesima, cioè ci colpisce inaspettatamente e al tempo stesso avviene per cause verosimili.”
Quest’ultima forma ci sembra abbia nutrito i colpi di scena di film come Monster & Co., Toy Story 2 e 3.
Capitolo 17
Nel comporre le sue favole e specialmente nel dare a ciascun personaggio la propria espressione verbale,
bisogna che il poeta si ponga quanto più è possibile dinanzi aglio occhi lo svolgimento dell’azione. Perché
così, vedendo ogni cosa nella più chiara luce come se fosse presente egli stesso allo svolgersi di quegli
avvenimenti, potrà trovare ciò che conviene e molto difficilmente gli sfuggiranno errori di incoerenza.
Bisogna che il poeta, per quanto può, si immedesimi perfino negli atteggiamenti de’ suoi personaggi. Infatti,
i poeti che riescono più persuasivi sono quelli che, movendo di un eguale disposizione di animo con i loro
personaggi, vivono di volta in volta le stesse passioni che vogliono rappresentare: cosicché con molto
maggior verità riuscirà a rappresentare un animo in tempesta che abbia l’animo in tempesta, un animo
adirato chi si senta adirato. E perciò il poetare è proprio di colui che ha da natura o una versatile genialità
o un temperamento entusiastico ed esaltato.
Quando poi agli argomenti delle tragedie, sì quelli che già furono trattati da altri, sì quelli di sua propria
invenzione, è bene che il poeta anzitutto se li proponga come schemi generali; dopo ciò, li distribuisca in
episodi e dia loro il necessario svolgimento. Or ecco come io credo si possa guardare un argomento nel suo
schema generale.
Mentre però nei drammi gli episodi devono essere (relativamente) concisi, l’epopea invece ricevere da questi
una considerevole estensione. Per esempio, l’argomento generale dell’Odissea non sarebbe di per sé lungo.
Un uomo vive per molti anni lontano dalla patria; Poseidone è sempre in agguato contro di lui; ed egli è
rimasto da solo. Intanto le condizioni di casa sua sono queste, che i suoi beni glieli vengono dissipando i
precedenti della moglie, e anche suo figlio è da costoro insediato e minacciato. Ma ecco che, dopo ogni
sofferta calamità, giunge finalmente in patria; e fattosi riconoscere egli stesso da alcune persone, assale
senz’altro i suoi nemici, ed egli è salvo e i nemici distrutti. Questa è la parte propriamente dell’Odissea, il
resto sono episodi.
Lo splendido esordio del capitolo 17 della Poetica sembra pensato già per uno sceneggiatore
cinematografico: ogni personaggio di un film deve avere la propria caratterizzazione, compreso un modo
tipico e specifico di esprimersi verbalmente. Effettivamente l’indicazione – oltre che per lo scrittore
chiamato a comporre un plot – riguarda anche moltissimo gli attori chiamati a dare vita ai personaggi e il
regista che dovrà coordinare il lavoro. Costruire il profilo completo di un personaggio, con il suo vissuto
precedente a quanto si vede nel film, e quindi la sua coerenza, la sua completezza e attendibilità come essere
umano, è un momento di scrittura del film che non può essere improvvisato. “Bisogna che il poeta si ponga
quanto più è possibile dinanzi agli occhi lo svolgimento dell’azione. Perché così, vedendo ogni cosa nella più
chiara luce come se fosse presente egli stesso allo svolgersi di quegli avvenimenti, potrà trovare ciò che
conviene e molto difficilmente gli sfuggiranno errori di incoerenza” (Aristotele). Sembra di sentire la già
citata metafora di Suso Cecchi D’Amico secondo cui sceneggiare significava “scrivere con gli occhi” o
sembra di assecondare le dichiarazioni di quegli autori che non riuscivano a pensare mentalmente la pratica
della sceneggiatura disgiunta da quella della regia.
Andrej Tarkovskij scrisse: “chiedo scusa agli sceneggiatori professionisti, ma a mio avviso, gli sceneggiatori
non esistono affatto. Devono essere o scrittori che capiscono perfettamente cosa sia il cinema o registi in
grado di organizzare da soli il materiale letterario”. Proprio Tarkovskij avrebbe coniato la meravigliosa
metafora dello “scolpire il tempo” quale sintesi dell’arte e della pratica cinematografica, che si adatta molto
bene al suggerimento aristotelico circa la visualizzazione delle azioni.
Proprio il termine “visualization” si trova spessissimo nei manuali di sceneggiatura del cinema muto. Per
esempio, Frederick Palmer così lo definisce in Author’s Photoplay Manual (1924): visualizzare significa
pensare in immagini. È l’arte del formare immagini visive o rappresentative mentali di persone e oggetti non
presenti ai sensi.
Ma visualizzare è un compito del regista, dello sceneggiatore o di entrambi? Abbiamo letto il pensiero di
Tarkovskij. Sulla stessa linea possiamo porre uno dei più grandi sceneggiatori italiani di tutti i tempi, Furio
Scarpelli, che non sopportava la distinzione tra sceneggiatori e registi e proponeva per entrambi la dizione di
“autore cinematografico”. Per lo stesso motivo cineasti come Alfred Hitchcock e Mario Monicelli
consideravano il film “quasi finito” una volta che la sceneggiatura era stata completata. (vedi fine p. 95
considerazioni di Michel Hazanavicius). Hazanavicius sostiene di non essere passato attraverso un testo, ma
in realtà bisognerebbe precisare che in questo caso il processo testuale del film ha semplicemente ravvicinato
i due momenti della scrittura e della regia. Infatti, ammette di essersi cimentato eccome con la pagina: “ l’ho
scritto molto velocemente, in quattro mesi. Non credo di aver mai scritto una sceneggiatura tanto in fretta.”
Un’ultima osservazione di Hazanavicius ci porta al problema seguente. “All’epoca gli spettatori non avevano
molti riferimenti e accoglievano i film che venivano loro proposti, ma oggi le abitudini sono diverse, i codici
sono cambiati.” È vero, ma fino ad un certo punto. Senz’altro lo spettatore cinematografico è cresciuto
insieme al cinema, ma se l’autore la combinava grossa, già nell’antichità lo spettatore era il primo ad
accorgersene. I commentatori della Poetica consigliano di accogliere con prudenza quanto si dice a riguardo,
perché si possono fare soltanto delle supposizioni. Fa impressione leggere che “il dramma alla
rappresentazione cadde perché gli spettatori furono infastiditi di quell’errore” perché, effettivamente, non è
così raro che si crei del disagio negli spettatori di un film perché magari – nonostante le varie revisioni cui è
sottoposto uno script e la presenza sul set di segretari di edizione che dovrebbero garantire che tutto fili liscio
– sono approdati nel film quelli che in gergo si chiamano blooper (che si traduce in termine tecnico con
“errore di continuità”). Solitamente si tratta di errori microscopici cui gli spettatori non si rendono conto, ma
altre volte le inverosimiglianze sono troppo plateali e lo spettatore smette di partecipare emotivamente alla
storia.
Altro argomento interessante, anche se controverso per quello che riguarda la traduzione, è quello
dell’immedesimazione del poeta con i personaggi del dramma. Innanzitutto, ci dice del rapporto tra il lavoro
di scrittura e quello di recitazione, perché può suggerire interessanti modalità di lavoro a chi scrive un film,
una fiction o la puntata di una serie. In un’intervista fatta negli anni ’70, Donald Ogden Stewart spiegò che
l’abilità nello scrivere i dialoghi e la capacità di capire che tipo di battute piacesse al pubblico erano due doti
che aveva affinato nei pochi anni di lavoro a teatro, come drammaturgo ma anche come attore. Inoltre, si
possono cogliere delle somiglianze tra la vita degli scrittori e quella dei personaggi: “infatti i poeti che
riescono più persuasivi sono quelli che, movendo da un eguale disposizione di animo con i loro personaggi,
vivono di volta in volta le stesse passioni che vogliono rappresentare.” (Aristotele)
Capitolo 18
In ogni tragedia sono da distinguere il nodo e lo scioglimento. Tutti quei casi che sono estranei all’azione
propriamente detta, e spesso anche taluni di quelli che fanno parte di essa azione, costituiscono il nodo; il
resto è lo scioglimento. In altre parole, chiamo nodo quella serie di casi che vanno da ciò che si prende
come principio e della favola (mythos, Aristotele intende non il plot della tragedia, ma tutta la narrazione di
cui il plot fa parte senza coincidervi) fino a quel punto della tragedia da cui immediatamente si inizia la
mutazione (da uno stato di infelicità) a uno stato di felicità e viceversa; e chiamo scioglimento quella serie
di casi che vanno dal principio di codesta mutazione fino alla fine.
Ci sono quattro diverse specie di tragedia, secondo prevalga l’uno o l’altro dei quattro elementi che già
sono stati descritti.
- Primo: v’è la tragedia complessa, in cui sono tutto la peripezia e il riconoscimento
- Secondo: v’è la tragedia catastrofica
- Terzo: v’è la tragedia di carattere
- Quarto: v’è la tragedia di spettacolo, e in genere tutte quelle la cui azione si svolge nell’Ade.
Sarebbe bene che il poeta si sforzasse quanto più possibile di riunire insieme tutti questi elementi; e, se non è
possibile tutti, almeno i più importanti e la maggior parte: tanto più oggi che i poeti sono presi di mira dalla
critica, e si pretende, poiché ci furono un tempo poeti valentissimi ciascuno nel suo genere, che un poeta
sorpassi egli solo quei diversi gradi di valentia che erano propri di ciascuno dei suoi predecessori.
Ora è giusto dire che due tragedie per nessun altro motivo tra loro simili o dissimili come per il mito; ma
s’intenda bene, quando siano simili o dissimili il nodo e lo scioglimento. Molti riescono bene ad annodare
un intreccio, poi lo sciolgono male: e invece bisogna che nodo e scioglimento siamo bene accordati tutti e
due. Bisogna anche ricordare che non si deve fare una tragedia di un componimento epico, - chiamo
componimento epico quello che contiene in sé più miti, - come se uno, per esempio, volesse fare una sola
tragedia di tutto il materiale epico dell’Iliade. Nel poema epico, ogni parte può avere il suo conveniente
sviluppo; ma nelle zioni drammatiche la cosa sorpasserebbe molto i limiti di ciò che in genere concepiamo
come azione drammatica. Ed eccome la prova: tutti coloro i quali si accinsero a ridurre in una tragedia
unica tutta la sotia della distruzione di Ilio, e non in una serie di tragedie come fece Euripide; o vollero
drammatizzare come fece Eschilo; costoro nei concorsi drammatici, o caddero addirittura, o riuscirono
malamente. Eppure, questi poeti nei loro drammi con peripezia, come in quelli con azione semplice, si
sforzano con mirabile abilità di raggiungere il fine a cui aspirano, che è appunto di creare situazioni le quali
siano tragiche e al tempo stesso soddisfino il gusto del pubblico.
Quanto al coro, bisogna considerarlo come uno dei personaggi del dramma; e deve essere parte integrante
del tutto e deve partecipare all’azione. Né poeti posteriori le parti cantate hanno a che fare con lo
svolgimento della tragedia cui appartengono non più che con quello di una qualunque altra tragedia. Perciò
oggi usano cantare in intermezzi (il primo a farlo fu Agatone). Ebbene, domando che differenza c’è tra il
cantare e il traportare e adattare da una tragedia in un’altra una parlata o addirittura un intero episodio.
Per come Aristotele parla do nodi e scioglimenti, qualcuno ha erroneamente inteso la tragedia greca come
divisa in soli due atti, con un “prima” e un “dopo”, divisi da momento cruciale in cui inizia la mutazione del
personaggio. Ovviamente la questione della divisione narrativa è ben più complessa ma certo le moderne
teorie e tecniche della sceneggiatura individuano sì un punto centrale del racconto, che lo divide grosso
modo a metà, che permette al protagonista di procedere sul suo arco drammatico e arrivare pronto, al
momento giusto, per la grande svolta che lo introdurrà nel terzo e finale atto del film.
L’autorevole Dara Marks, nel suo interessante L’arco di trasformazione del personaggio, parla di due passo
immediatamente successivi nella costruzione di un racconto, ambientati entrambi verso la metà della
narrazione, che chiama “punto centrale” (o midpoint) e “momento di illuminazione”. Il midpoint è definito
come l’evento o incidente che sposta il conflitto del plot dalla fase di resistenza al raggiungimento
dell’obiettivo verso il climax, rilevando informazioni importanti che aiuteranno il protagonista a risolvere il
conflitto stesso. Il momento di illuminazione avviene come conseguenza degli eventi che accadono al
midpoint, nutrendo una reale consapevolezza per il protagonista. L’autrice analizza principalmente film
hollywoodiani in cui lo sciogliersi del nodo ha un esito positivo in cui da un punto di vista della costruzione
del racconto, l’eredità aristotelica è evidente. Marks spiega infatti che la vera funzione del midpoint è di
creare un punto di rottura nella tensione drammatica e chiede al lettore di immaginare un elastico tirato fino
al punto in cui si spezza.
A ben vedere, in questa spiegazione, oltre che descritto il passaggio dal nodo allo scioglimento è anche
inscritto il principio secondo cui in un racconto maggiore sarà il coinvolgimento in occasione di casi di
peripezia e riconoscimento. Non a caso il momento successivo nella storia è chiamato di “illuminazione”: il
personaggio accoglie una verità fino ad allora sconosciuta che impone un cambio di direzione alla sua vita.
Un altro concetto fondamentale usato Marks è fatal flaw (tradotta precedentemente con “ferita”, ma che
effettivamente si potrebbe tradurre con il termine aristotelico bamartìa). Si tratta, nella teoria di Marks, della
“lotta che si svolge all’interno del personaggio, per mantenere un sistema di sopravvivenza, ben oltre il
momento in cui ha esaurito sua utilità”. Solo vincendo questo sistema di sopravvivenza il personaggio può
cambiare, percorrendo il suo arco narrativo (nodo -> scioglimento). Si tratta di una progressione, tappa per
tappa, in cui possiamo riconoscere nel suo momento cruciale il passaggio dal nodo allo scioglimento e
l’inizio del cambiamento di cui parla Aristotele.
Capitolo 19
Così dunque, degli altri elementi costitutivi della tragedia ormai è stato discusso; rimane a dire della
elocuzione e del pensiero. Quanto al pensiero che rientrano nel dominio del pensiero tutti gli effetti che
devono essere prodotti mediante la parola. Sono sue parti il dimostrare e il confutare, il destare emozioni,
come la pietà il terrore l’ira e simili, e anche l’accrescere e il diminuire il valore delle cose. Ora è chiaro
che, anche nell’azione (pura e semplice), allorché si debbono suscitare sentimenti di pietà o di terrore, o
produrre impressioni di grandezza o di verisimiglianza, bisognerà valersi di questi principi: l’unica
differenza è questa, che, nell’azione codesti sentimenti o impressioni debbono rivelarsi in piena luce da sé,
senza bisogno di nessuna interpretazione verbale; nel discorso, invece, debbono esser prodotti da colui che
parla, e anzi debbono svolgersi conseguentemente alla sua parola. A che si ridurrebbe infatti il compito di
chi parla, se le azioni apparissero piacevoli per se stesse e non mediante la parola?
Dei problemi che riguardano l’elocuzione ce n’è uno che, sotto un certo aspetto, sembra rientrare nella
nostra ricerca, ed è quello che tratta dei vari modi di espressione nel linguaggio (parlato). Se non che, la
conoscenza di questo argomento è più propria dell’arte declamatoria e in particolare di colui che di
quest’arte fa professione; come per esempio, sapere che differenza c’è tra un comando e una preghiera, tra
domanda e risposta etc. . Al poeta, in quanto poeta, per il conoscere o non conoscere queste distinzioni non è
mai stata fatta dai critici alcuna censura che fosse degna di considerazione.
Come si può ammettere che ci sia errore in quel punto dell’Iliade censurato da Protagora, il quale
affermava che Omero, mentre aveva in mente di fare una preghiera, dà un ordine quando dice:
l’ira canta, o dea,
Perché, diceva Protagora, l’ordinare di eseguire o di non eseguire alcunché è comando?
Perciò lasciamo da parte questa ricerca, come quella che appartiene ad altra arte e non alla poetica
propriamente detta.
Nell’azione drammatica, spiega Aristotele, i sentimenti di pietà e terrore e le impressioni sulla grandezza e
verisimiglianza della tragedia (generate anch’esse nello spettatore) devono rivelarsi “in piena luce da sé”,
senza interventi retorici, come invece nel discorso in cui chi parla, per generare lo stesso tipo di istanze,
ricorrerà ad altri artifici. Ancora una volta si precisa qui quanto poi la critica moderna distinguerà parlando di
showing (mostrare) e telling (raccontare) come delle due istanze principali del narrare.
Lo script ha una particolarità: si serve moltissimo dello showing perché lo scrittore deve descrivere
dettagliatamente quello che poi accadrà e si vedrà sullo schermo – cioè lo deve costruire, parola per parola –
ma, almeno in teoria, non avrebbe bisogno di essere stilisticamente perfetto come deve esserlo un romanzo.
La sceneggiatura potrebbe limitarsi a essere un semplice “testo di servizio”, ma nessuna sceneggiatura lo è se
lo sceneggiatore non fosse innanzitutto un bravo scrittore farebbe bene a cambiare mestiere. A ben vedere, la
sceneggiatura come forma testuale mutua più del romanzo che dal teatro.
Si celebra in questa pagina il primato del racconto. La forza dell’intreccio, la pregnanza del concept, resta
incrollabilmente al primo posto in ordine di importanza. Ma certo, se il cinema è principalmente visivo
saranno le zioni stesse o la loro descrizione a generare pietà e terrore. L’arte della retorica comporterà,
nell’esposizione verbale, tutti gli artifici che le competono.
Capitolo 20
Della elocuzione in genere si distinguono le seguenti parti:
- Lettera:
è una voce indivisibile, non però una voce indivisibile qualunque, bensì quella che per propria natura può
divenire elemento di una voce intellegibile: voci indivisibili ne emettono anche le bestie, ma nessuna di
queste voci è come io intendo. Di queste lettere ci sono tre specie: la vocale, la semivocale e la muta. la
vocale è quella lettera che ha un suono udibile senza bisogno di nessun incontro speciale; la semivocale è
quella che ha un suono udibile mediante uno speciale incontro; la muta è quella che, pur con speciali
incontri, non ha per se stessa alcun suono e diventa udibile solo con l’aggiunta di elementi che hanno suono.
Queste lettere poi differiscono tra loro in vario modo: e cioè, primo, rispetto alle varie forme della bocca;
secondo, rispetto ai diversi punti della bocca in cui il suono si produce; terzo, in quanto possono essere
aspirate, tenui e medie; quarto, in quanto possono essere lunghe, brevi e ancipiti; e finalmente, quinto, in
quanto possono avere accento acuto, grave e circonflesso.
- Sillaba: è una voce senza significato, composta di un elemento che non ha suono e di uno che ha
suono.
- Particella congiuntiva <o> articolazione: è una voce senza significato la quale né impedisce né
contribuisce che da un gruppo di più voci si formi un’unica voce significativa; la sua posizione
naturale è o alle due estremità della proposizione (principio e fine), o nel mezzo; ma al principio
non può stare se la proposizione si consideri a sé.
- Nome È una voce significativa composta; non contiene idea di tempo; nessuna delle parti che lo
compongono, presa per se stessa, ha significato. (per esempio: nei nomi costituti di due elementi, noi
non possiamo valerci dell’uno o dell’altro di cotesti elementi come se anche avessero ciascuno un
significato per sé.
- Verbo: è una voce significativa composta: contiene un’idea di tempo; nessuna delle parti che lo
compongono ha significato per se stessa.
- Caso -> Il caso è proprio del nome e del verbo; e serve ad indicare rapporti di genitivo, dativo, e
altri simili; o a esprimere il numero singolare o plurale, per esempio “uomini”, “uomo”; o a
rappresentare i vari modi di espressione parlata, secondo che si fa una interrogazione o si dà un
comando.
- Proposizione
È una voce significativa composta, di cui alcune parti hanno significato per sé stesse. Invero, non ogni
proposizione è composta di verbi e di nomi; ci può essere benissimo una proposizione senza verbi, come, per
esempio, la definizione di uomo, e tuttavia questa avrà sempre qualche parte significativa per sé stessa. La
proposizione può avere due unità: o perché significhi una cosa sola, o perché, qualora sia costituita di più
proposizioni-elementi, queste ricevono unità mediante particelle congiuntive.
Questo capitolo della Poetica è senz’altro il meno interessante per la teoria del racconto e per la
sceneggiatura in particolare. Il testo è giunto ai posteri abbastanza malandato, ma ha generato grande
interesse nei secoli per tutti gli studiosi di linguistica e di grammatica. Va notato che quanto tratta non
interessa la lingua della poesia in modo diretto e gli addetti ai lavori sono sempre stati chiamati a guardarlo
insieme all’altra opera di Aristotele, Dell’interpretazione, che parla del rapporto tra logica e linguaggio.
Può essere utile ricordare che anche l’audiovisivo ha una grammatica, che chi lavora nel cinema o nella
televisione è tenuto a conoscere perché ovviamente scrivere un film o un prodotto tv è diverso dallo scrivere
un romanzo o un racconto, non foss’altro che per il semplice fatto che una sceneggiatura andrà in mano non
a dei lettori alla ricerca di un piacere estetico, ma a degli operatori del settore con cui lo scrittore deve
condividere il gergo. Può essere utile ricordare che molti manuali di sceneggiatura della prima metà del XX
secolo dedicavano un capitolo al linguaggio e alle parti più “tecniche” della cinematografia con alcuni
consigli molto pratici. Se si sfogliano le sceneggiature hollywoodiane degli anni ’30, ’40 e ’50, infatti, si può
vedere come le pagine prodotte dallo scrittore fossero piene di indicazioni sui movimenti di macchina e sulla
scala dei campi e dei piani. Può sembrare un’osservazione superflua, ma ci dice, ancora una volta, della
completezza della Poetica per i suoi contemporanei.
Capitolo 21
I nomi sono di due specie, o semplici o doppi. Dico semplici quelli non risultano di elementi significativi.
Dei nomi doppi, alcuni sono composto di una parte significativa e di una non significativa; - e si intende
però che questa distinzione di parte significativa e non significativa nel nome composto non ha valore; - altri
di due parti ambedue significative. Ci possono essere poi nomi composti di tre, di quattro e anche di più
elementi.
Ogni nome, o è una parola d’uso comune, o è una parola forestiera, o è una metafora, o è una parola
ornamentale, o è una parola coniata artificialmente, o è una parola allungata, o accorciata, o alterata. Dico
parola d’uso comune quella di cui si valgono ordinariamente tutte le genti; dico parola forestiera quella che
è d’uso presso genti di altro paese. Così è chiaro che una stessa parola può essere ugualmente e forestiera e
comune; non però presso genti di uno stesso paese. La metafora consiste nel trasferire a un oggetto il nome
che è proprio di un altro: e questo trasferimento avviene, o dal genere alla specie, o dalla specie al genere, o
da specie a specie, o per analogia. (vedi i vari esempi di metafora). Si ha poi la metafora per analogia
quando, di 4 termini, il secondo B, sta al primo (A) nello stesso rapporto che il quarto (D), sta al terzo (C);
perché allora, invece del secondo termine (B), si potrà usare il quarto (D), oppure invece del quarto (D), si
potrà usare il secondo (B).
Talvolta, per alcuno dei termini della proposizione non esiste il nome d’accezione ordinaria il quale sia col
suo corrispondente (B), in relazione analogica, e ciò nonostante si potrà avere egualmente la metafora. C’è
poi un altro modo di adoperare questa specie di metafora, e cioè, chiamato un oggetto col nome che è
proprio di un altro, aggiungere in forma negativa alcune delle qualità che sono naturalmente associate a
codesto nome (es. come se uno chiamasse “coppa” lo scudo ma dicesse “la coppa di Ares”, bensì la “coppa
senza vino”.
Parola coniata artificialmente è quella che non fai mai adoperata prima di alcuno, e se la foggiò da se
stesso poeta. Di parole nate in questo modo credo ce ne diano parecchie (vedi esempi p. 114). C’è poi la
parola allungata e la parola accorciata. La prima si ha quando una vocale lunga venga sostituita alla breve
ordinaria o quando sia stata inserita una sillaba in più; la seconda si ha quando alla parola sia stata tolta
una sua parte. Parola alterata si ha quando del vocabolo d’uso comune parte è lasciata com’è, parta è
rifatta dal poeta. (vedi esempio p. 115). Dei nomi considerati in se stessi, alcuni sono maschili , altri sono
femminili, altri in genere intermedio (o neutri).
Questo capitolo che continua dal precedente la trattazione di argomenti eminentemente linguistici, parla
anche della metafora nella poesia greca. Abbiamo già avuto modo di dire, infatti, che lo sceneggiatore è
chiamato a produrre il senso ricorrendo a tutto ciò che è visivo e che può essere simbolicamente sintetizzato
da un’immagine. Tutto ciò che, senza parole, può comunicare un’idea o un concetto deve essere nel bagaglio
mentale dello sceneggiatore. Tradizionalmente nel cinema si è ottenuta associando, attraverso un rapido
stacco di montaggio, due immagini appartenenti a contesti completamente diversi e prive di nessi di causalità
spazio temporale.
Le figure retoriche nel linguaggio cinematografico potrebbero essere anche solo ad appannaggio del regista,
nel momento in cui attraverso il movimento della macchina o l’angolazione dell’inquadratura egli decida di
assegnare un valore particolare all’immagine ripresa. La riflessione teorica, a riguardo, si è soffermata in
passato sempre più su questi aspetti piuttosto che su quelli riguardanti la scrittura.
In tutto ciò, invece, la sceneggiatura svolge ancora una volta un ruolo di primo piano, attraverso la
costruzione dei cosiddetti Image System, cioè dotando il racconto della presenza ricorrente di un oggetto o
una forma. O più oggetti o più forme, particolarmente adatti a incarnare significati complessi. Va detto che il
cinema hollywoodiano più noto al grande pubblico ha fatto proprie certe strategie raggiungendo un livello di
perfezione e disinvoltura in cui l’eleganza forma – quindi tutto ciò che riguarda l’aspetto visivo – non è fine
a se stessa ma è messa al servizio del racconto. Un esempio classico è quello del film “Witness”, dove il
sistema visivo ricorrente riguarda il grano e la farina, a rappresentare la diversità del mondo della comunità
amish che il protagonista incontrerà e da cui rimarrà affascinato.
Capitolo 22
Dote della elocuzione è ch’ella sia chiara e al tempo stesso non pedestre. Chiarissima è senza dubbio quella
elocuzione che è costituita di vocaboli nella lor forma e accezione ordinaria, ma pedestre. Invece è elevata, e
si distingue dal linguaggio volgare, quella che si vale di vocaboli peregrini ( = parole forestiere o rare, le
metafore, le parole allungate) tutto ciò che si allontana dall’uso normale. Se però si metta a poetare
adunando insieme ogni sorta di queste peregrinità, ne verranno fuori o enigmi o barbarismi (enigmi, se la
elocuzione è costituta solo di metafore; barbarismi, se la elocuzione è costituita totalmente da parole
forestiere o rare).
L’enigma consiste in questo: dire quello che s’ha da dire mettendo insieme cose impossibili: il che non si
può avere congiungendo insieme vocaboli nella loro significazione ordinaria, bensì adoperando i loro
sostituti metaforici. Se la frase è costituita totalmente di parole forestiere si ha un barbarismo. Or dunque
una certa mescolanza di questi diversi elementi è necessaria: perché, se da un lato le parole forestiere o
rare, la metafora e tutte le altre varietà faranno sì che la elocuzione non sia né volgare né pedestre,
dall’altro i vocaboli adoperati nel loro proprio significato o nella lor propria forma le daranno la dovuta
chiarezza. Ma alla chiarezza della espressione e, al tempo stesso, a tenerla lontana dalle volgarità del
linguaggio ordinario, conferiscono in modo specialissimo gli allungamenti, gli accorciamenti e le alterazioni
delle parole: perché modi danno alla elocuzione un andamento non volgare; in quanto conservano alcunché
di comune con le forme del linguaggio corrente, sono un elemento di chiarezza.
Dei vari generi di parole, quelle composte si addicono soprattutto alla poesia ditirambica; le parole
forestiere o rare alla poesia eroica; le metafore ai trimetri giambici (del dialogo drammatico). Invero, nella
poesia eroica queste varietà di espressione sono utilizzabili tutte quante; nel dialogo drammatico invece,
perché tende a imitare quanto più è possibile il linguaggio parlato, meglio si addicono quelle parole di cui ci
si serve appunto nel parlare, cioè le parole d’uso comune, le metafore e gli abbellimenti.
In questo capitolo, strettamente collegato al precedente, la Poetica non tratta tanto dello stile quanto proprio
del vocabolario poetico, determinando fino a che punto il linguaggio della poesia può discostarsi da quello
ordinario senza perdere di chiarezza. Che la poesia dovesse valersi di un linguaggio peculiare, distinto delle e
da quello comune, è assodato ma secondo Aristotele quello della chiarezza è il criterio fondamentale che
deve guidare le scelte del poeta. La precisazione suono utilissima per lo sceneggiatore contemporaneo perché
smonta la falsa credenza, accreditatissima presso cera critica e anche presso alcuni professionisti, che esporre
qualcosa con chiarezza sia sintomo di scarso carattere e scarso talento. È vero, però, che alcuni autori
sembrano talmente ossessionati dall’idea di essere “riconoscibili”, che in loro la ricerca stilistica diventa di
maniera, ridondante e nuoce alla salute del film. Nel cinema essere semplici è difficile ed essere sintetici è
sempre frutto di un lavoro molto lungo.
La suggestione di questa pagina aristotelica è proprio questa: si può condurre una riflessione, e una ricerca,
sullo stile senza perdere di vista quanto allo stile soggiace. È quello che nel cinema americano classico ha
preso il nome di “artigianato invisibile”: gli storici che si sono interrogati sul primato degli USA come paese
fornitore di film del mercato mondiale hanno evinto che alla base del successo ci fosse proprio l’abilità nel
raccontare storie in modo chiaro, vivido e divertente, e anche le tecniche messe a punto negli anni dello
sviluppo del mezzo avevano scopo, oltre di fornire immagini attraenti per sé, anche di “guidare l’attenzione
del pubblico, momento per momento, verso gli eventi narrativi salienti”. Il concetto di “artigianato”,
applicato alla sceneggiatura, può benissimo essere usato per collegarsi a quello aristotelico di techne, non
solo per quanto si dice all’interno della Poetica sull’uso e la padronanza delle forme, ma anche per quanto
Aristotele ha da dire sull’essere umano integrale. Spostando l’attenzione dalle tecniche più specifiche alle
pratiche, intese in senso più largo, siamo sicuri di dire qualcosa di utile sulle condizioni e sulla qualità del
lavoro dello sceneggiatore: Richard Sennet direbbe che bisogna ripartire da Efesto, il dio lavoratore,
orgoglioso del proprio lavoro, se non della propria persona:
“ essere artigiano vuol dire pensare quanto puoi crescere migliorando le tue abilità, e avere tutto il tempo
che ci serve per riuscirci. Ciò non dipende dalla motivazione, ma dal contesto organizzativo, che deve essere
favorevole e valorizzare le persone. (…) un altro elemento importante per imparare è la collaborazione: la
formazione non è un’attività isolata, richiede condivisione delle conoscenze, scambio di critiche reciproche,
controllo continuo dei progressi.”
Per Sennet la tecnica è ancora più importante del talento e della creatività.
Ma quindi, giacché stiamo parlando dell’arte e dello stile, possiamo dire che gli sceneggiatori sono autori a
tutti gli effetti? Può essere arrivato il momento, forse, di sottolineare come, se il Novecento è stato “il secolo
della regia”, negli ultimissimi anni il ruolo dello sceneggiatore ha guadagnato finalmente maggior credito e
attenzione. Il discorso sugli “autori” e sullo “stile” ci riporta direttamente alla pagina aristotelica: verso la
fine del capitolo, abbastanza inaspettatamente data la struttura teorica dell’intera opera, si trova uno dei rari
passi della Poetica che sembrano lasciare qualche spazio all’ispirazione e al talento individuale dell’artista.
“Di molto pregio”, dice Aristotele subito dopo aver ribadito l’importanza della conoscenza tecnica, “è che il
poeta sia abile a trovare le metafore. È la sola cosa questa che non si può apprender da altri, ed è segno di
una naturale disposizione di ingegno; infatti, il saper trovare delle belle metafore significa saper vedere e
cogliere la somiglianza delle cose fra loro”. Tutta la Poetica ha taciuto “sulla figura, la personalità, le doti
intellettuali o le speciali qualità umane che si può supporre siano all’origine della produzione poetica”. Ad
Aristotele non interessano gli autori quanto le opere e, sin dall’inizio del libro, ha spiegato lo sviluppo della
poesia greca come processo guidati da leggi e forze protese verso una perfezione desiderabile ma proprio per
quello “già scritta” ed esistente in natura, indipendentemente da chi si era trovato ad apportare all’arte
modifiche e miglioramenti. Così l’artista era quello capace di aderire alle norme ormai stabilite e un sintomo
della sua abilità sarebbe stato quello di portare l’arte un passo avanti, verso una forma ancora più perfetta.
Spostando tutto il discorso nel regno audiovisivo, possiamo pensare al mondo in cui i cineasti del muto sono
giunti, mediante sbagli e tentativi, a una sintesi efficace, attendibile e definitiva, circa le forme dello sguardo,
i raccordi e le convenzioni del montaggio.
I nomi degli inventori o degli scopritori di questi forme non sono universalmente apprezzati quanto
Bergman, Kurosawa o Kubrick. Analogamente, succede che il poeta da lui (Aristotele) più ammirato, Omero,
non sia affatto un esponente del genere più perfetto, la tragedia, e invece Euripide, considerato senza dubbio
il poeta inferiore, sia tuttavia autore di tragedie più belle. Eppure, Aristotele non poteva fare a meno di
domandarsi perché Omero possedesse uno specifico talento e da dove l’avesse ottenuto. La risposta che egli
si era dato, e cioè “ o per l’arte o per le doti naturali” rilanciava la questione: “posto davanti alla domanda
ineludibile Aristotele non può essere contento della sola arte e sente il bisogno di affiancarle un’alternativa, o
una collaboratrice”. Lo stesso mistero che ha seminato nella realtà forme, prassi, e modelli che attendono
solo di essere scoperti, e lavorati poi artigianalmente e invisibilmente, avrebbe quindi poi anche nutrito in
alcuni uomini facoltà uniche e superiori ma del tutto adatte a celebrare questa stessa arte. Più che le
definizioni che la Poetica dà sui vari aspetti dell’arte del racconto ad affascinarci di più sono proprio le
domande che quest’opera lascia inevase.
Capitolo 23
Diciamo ora di quella forma di mi mesi che narrativa e in esametri. È chiaro anzitutto che anche qui la
favola deve essere costituita grammaticamente: e deve cioè comprendere un’azione unica, la quale sia un
tutto coerente e compiuto in se stesso, abbia principio, mezzo e fine; E così, anche il poema epico, simile
nella sua unità e compiutezza a un perfetto organismo vivente, produrrà quella specie di diletto che gli è
peculiare. È chiaro inoltre che debbono coteste favole essere composte sul modello delle composizioni
storiche. Nelle storie la esposizione non può riguardare un sol fatto, ma un solo periodo di tempo: riguarda
cioè e comprende tutti quei fatti che accaddero in questo periodo di tempo in relazione a uno o più
personaggi; E ciascuno di questi fatti si trova rispetto agli altri in un rapporto puramente casuale.

Dopo averne fatto cenno nel capitolo quinto, la poetica tratta qui delle somiglianze e differenze tra la poesia
tragica e quella epica. Aristotele adempie dunque metà della premessa fatta all’inizio del capitolo sesto,
quando avevo annunciato che sarebbe presto occupato dell’epica e della commedia. Se su quest’ultima il
mistero rimarrà sempre insoluto, sull’epica invece il testo e trasparente. L’analisi aristotelica ribadisce la
convinzione che i poemi omerici esibiscano sostanzialmente caratteristiche analogiche a quelle delle migliori
tragedie. Pertanto tutto ciò che questo capitolo ha da dire a proposito dei pregi della poesia di Omero è una
ripetizione delle considerazioni già espresse a proposito della tragedia. In particolare, è ancora più chiara in
questa pagina l’importanza per Aristotele dell’unità di azione: in un racconto ben costruito il legame che
vincola gli elementi narrati deve essere quello di una necessità governata da un fine. Nella teoria e nelle
tecniche di sceneggiatura questo concetto ha assunto il nome di “tema“. Il termine può prestarsi a equivoci,
quindi è il caso di qualche precisazione. “Il tema è quello che la trama significa per lo spettatore: la verità di
vita che questi può estrapolare dalla vicenda del protagonista per applicarla alla propria,. In poche parole, è il
cuore della storia.“

Attorno alla definizione di un valore cui si a che atterrano, dialetticamente, i caratteri e le azioni dei
personaggi, il tema costruire lo statura del film. Non si tratta della “morale del film“, cioè di qualcosa di
intrinseco alla storia bensì di qualcosa che è strutturale alla storia stessa, perché la definisce e la tiene in
piedi: essendo un’asserzione di carattere universale, il tema traccia i confini del racconto indipendentemente
dalla successione dei meri fatti. Questo permette agli scrittori e agli esperti di identificare con il tema l’unità
di azione di cui parla Aristotele
Negli anni 40, in un manuale di drammaturgia che è stato un punto di riferimento per gli sceneggiatori
hollywoodiani per decenni, L’ungherese Lajos Egri parlavano al proposito di premessa (premise) come di
qualcosa che innesca l’azione drammatica e la guida per tutto il percorso in base al suo fine.
Dopo avere e numerati diversi termini con cui autori e tecnici teatrali hanno definito nel corso del tempo lo
stesso concetto, Egri individua il tema di alcune famose opere teatrali. Per esempio, il tema di Otello è che
“la gelosia distrugge se stessi e l’oggetto del proprio amore“ e quello di Macbeth e che “l’ambizione spietata
porta all’autodistruzione.
Ormai parte il bagaglio il minimo di uno sceneggiatore, il termine “tema“ si diffuse tra i professionisti
hollywoodiani, preferito ad altri, già dagli anni 10 e 20. Per Charles E. Nixon e Elbert Moore “Il tema è la
linea principale dello sviluppo della trama“; per gli sceneggiatori Giovanna Emerson e Anita Loss, che
scrissero il manuale how to write the photoplays (1920), “È il secondo grande termine tecnico non
drammaturgo deve comprendere. È il più importante trucco del mestiere. Un tema è una grande verità
universale. Non è essenziale per scrivere una buona storia ma avere un obiettivo definito rende il lavoro di
scrittura molto più facile“;Frederick Palmer in “Author’s Photoplay Manual” (1924) lo definì “il pensiero
soggiacente o la lezione che la storia di un film rivela attraverso l’adeguata azione della trama”.
Stabilire ultima chiaro, per Egri, assicura la tenuta del dramma: per questo segnalo alcune opere considerate
come poco riuscite, attribuendo loro esito negativo alla mancata applicazione di questa regola. Alcune di
queste sembravano reggersi su temi troppo nebulosi ; altri sembravano possedere più di uno, con il risultato
di disorientare lo spettatore. E, altre ancora al loro interno episodi e trasgressioni poco coerenti con il tema
stesso.
Egri segue Aristotele, consapevolmente e razionalmente. Secondo lui la causa della scarsa riuscita di alcune
opere teatrali andava rintracciata nell’abitudine, comune a molti scrittori, di iniziare a scrivere senza porsi la
domanda fondamentale il contenuto della loro opera. Una premessa falsa, formulata o costruita male,
porterebbe quindi un drammaturgo A riempire spazio e tempo con dialoghi e azioni che lo spettatore o il
lettore percepirà come inutili, se esse non contribuiscono a esplorare l’assunto di partenza. E, neanche se tali
dialoghi e azioni dovessero ruotare attorno a un’idea particolarmente originale: “ nessuna idea e nessuna
situazione può essere mai abbastanza forte da portarvi fino alla sua logica conclusione senza una premessa
ben definita, una premessa che porti inesorabilmente all’obiettivo che la commedia spera di raggiungere”.
Il vantaggio di questa impostazione è che è un punto di partenza simile comporta la creazione
consequenziale di un personaggio, di un conflitto e di una conclusione della storia. Una buona premessa
consiste in un’affermazione sintetica che, contenendo queste tre parti, corrisponde anche alla rapida sinossi
dell’opera stessa. Ciò che essenziale è che il drammaturgo (O lo scrittore) svolga in modo logico il tema
della storia, aderendovi. Questa adesione gli permette di riverberare la sua verità nel personaggio che, nel di
battersi in un conflitto e nel perseguire un obiettivo, si sostanzi era come una persona vera. I personaggi del
dramma saranno tanto più realistici quanto più saranno costruiti attorno una premessa Chiara o, come dicono
alcuni mutuando da Aristotele, all’unità del tema.
Procedere in questo modo permette un affondo deciso nel cuore delle cose. Lavorare sulle possibili premesse
di una storia, accettare di esplorare una verità universale e, cercando di dimostrarla, costruirla attorno un
personaggio, un conflitto e una conclusione, Rivera la vocazione antropologica più intima dello scrittore e,
forse, alza il sipario sui segreti stessi della letteratura e del cinema.

Capitolo 24
Un secondo punto di somiglianza è questo, che il poema epico deve necessariamente avere le stesse varietà
della tragedia; e cioè Ada essere anche esso o semplice, o complesso, o di carattere, o catastrofico; e anche i
suoi elementi costitutivi, fatta eccezione della composizione musicale dello spettacolo scenico, hanno da
essere gli stessi. Anche nell’epica infatti ci devono essere peripezie, scene di riconoscimento, avvenimenti
calamitosi. Di tutti insieme questi elementi il primo che se ne valse ebbene fu Omero: che veramente i suoi
due poemi sono un esempio ciascuno di una particolare composizione, essendo l’Iliade semplice e
catastrofica, l’Odissea complessa e al tempo stesso di carattere; oltre che questi due poemi sono superiori a
ogni altro nella elocuzione e nel pensiero.
Il poema epico differisce dalla tragedia per due ragioni, per la lunghezza della composizione e perimetro. In
quanto alla lunghezza della composizione sufficiente limite ti ho detto: se ne devono cioè poter comprendere
di un solo sguardo il principio e la fine. Per estendere la propria ampiezza il poema epico ha un suo speciale
e grande vantaggio: mentre nella tragedia non è possibile rappresentare insieme, contemporaneamente, più
parti di un’azione, e bisogna limitarsi di volta in volta a sola quella parte che si svolge sulla scena e che è
rappresentata dagli attori; nel poema epico invece, come quello che la relazione pura e semplice, si possono
esporre più parti di un’azione nell’oro svolgimento simultaneo, e da questi singoli esempi, purché siano
intimamente appropriati al soggetto fondamentale, aumentano al poema maestà e bellezza. Questo privilegio
ha dunque fu la tragedia il poema epico: onde a questa magnificenza, uscita varietà e contrasto di
sentimenti nell’animo degli ascoltatori, si arricchisce di episodi l’uno dall’altro diversi. La mancanza di
varietà, come quella che subito sazia, è appunto una delle ragioni onde cadono spesso le tragedie.
Quanto Al verso, è stato provato dall’esperienza che l’unico il quale si adatti all’epopea è il verso eroico. Il
verso eroico e di tutti versi il più posato e solenne; perciò ammette più di ogni altro parole forestiere o rare e
metafore: E così anche per questo la mimesi narrativa è superiore alle altre. Invece il trimetro giambico e il
tetrametro trocaico sono metri adatti al movimento: infatti questo è proprio della danza, quello dell’azione
drammatica. Omero per infinite altre ragioni è degno di lode, ma in modo specialissimo per questa, che li è
l’unico dei poeti epici il quale non ignori qual parte il poeta deve assumere nel poema in propria persona. Il
poeta epico deve parlare in persona propria il meno che è possibile; quando fa codesto, egli non è imitatore
nello stretto senso della parola. Gli altri poeti entrano sempre in campo con la propria persona; poco o raro
si immedesimano in coloro che vogliono rappresentare. Omero invece, dopo poche parole come di
presentazione, subito introduce o un uomo o una donna o qualche altro carattere; nessun personaggio in lui
e senza carattere; tutti si distinguono gli uni dagli altri per un loro carattere ciascuno.
Or dunque nelle tragedie si deve introdurre il meraviglioso; nell’epopea può essere ammesso addirittura il
razionale, che ciò da cui il meraviglioso principalmente deriva: questo perché nell’epopea non si hanno
davanti agli occhi, come nella tragedia, i personaggi in azione. (Vedi esempio di Ettore p. 135). E Omero è
superiore anche in questo a tutti gli altri poeti, ai quali ha insegnato come si debbono dire menzogna. Si
tratta dell’uso del paralogismo; che è questo. Allorché, dato un fatto (A), ne segue un altro B, ovvero
accadendo un fatto A, ne accade conseguentemente un altro B, credono gli uomini che se B, il fatto
conseguente è vero, anche A, l’antecedente, sia vero e accada veramente. E questa è una falsa
argomentazione. Ma appunto sulla base di siffatta argomentazione, se a, l’antecedente, è falso, e, d’altra
parte, da questo antecedente, in quanto si presume a vero, consegue necessariamente che ci sia o accada un
altro fatto B, bisogna aggiungere (questo secondo fatto reale B all’antecedente falso A); perché, dal
conoscere che è vero il fatto conseguente B, la nostra mente è indotta a ritenere come una erronea inferenza
che anche l’antecedente A sia vero.
(Onde si conclude che) l’impossibile verisimile È da preferire al possibile non credibile. (D’altra parte, nella
tragedia,) non bisogna che l’azione drammatica sia costituita di parti razionali; sarebbe bene anzi che di
irrazionale non contenesse nulla assolutamente. E se questo non è sempre evitabile, che almeno le
irrazionalità siano relegate fuori dall’azione propriamente detta.
Dunque, venirci a dire che (senza l’irrazionale) un dramma sarebbe spacciato è una ridicolaggine. Bisogna
che per principio il poeta non componga drammi di cotesto genere; se poi ne componga, e riesca a dare
all’irrazionale un certo aspetto di verisimiglianza, allora (anche l’irrazionale) ad essere accettato
nonostante la sua assurdità. Quanto alla elocuzione bisogna averne gran cura in quelle parti in cui
l’interesse dell’azione è minore e dove non sia gran rilievo né di caratteri né di pensieri; ché dove, al
contrario, caratteri e pensieri devono essere in pieno rilievo, possono rimanere offuscati da una elocuzione
troppo brillante.

La non perfetta congruenza tra le “varietà“ dell’epica qui definite con quelli della tragedia che Aristotele e
numera nel capitolo 18 è un problema filologico che riguarda senz’altro la natura frammentaria dell’opera
così come ci è pervenuta ed esula dal nostro discorso. Questo capitolo è molto interessante per numerosi altri
motivi. È questo il capitolo della poetica che ha dato origine alla cosiddetta “unità di luogo”. Effettivamente
l’uso è stato osservato nella massima parte delle tragedie greche (almeno quelle pervenuteci). Il cinema non
ha mai avuto le limitazioni del teatro. A potuto mostrare l’uomo mettere piede sulla luna 65 anni prima che
Neil Armstrong facesse io sto piccolo grande passo e permettersi, nel tempo di un battito di ciglia, di passare
dal dettaglio di un osso lanciato in aria da una scimmia preistorica al campo totale dell’astronave del XXI
secolo che solca lo spazio siderale (Film a cui sta facendo riferimento è 2001: Odissea nello spazio). La
sfida, per un’arte capace di simili meraviglie ha comportato spesso cercare le condizioni estreme per stare
“dentro” L’unità di luogo. Una sfida per la regia ma anche, soprattutto, per la sceneggiatura, chiamato a
costruire plot originali e coinvolgenti che facessero leva sulle caratteristiche del personaggio.
Essere fedeli ad Aristotele significa anche superarlo. Ciò che resta in superato, in queste pagine, è il discorso
fatto dall’autore sull’impossibile. “ l’impossibile verisimile” È da preferire al possibile non credibile.
Ovviamente questo suggerimento non deve essere inteso come se Aristotele consigliasse di preferire in
assoluto in ogni caso l’impossibile al possibile. Si intendono qui casi limite e non situazioni tipiche. Qui però
il cinema ha da dire qualcosa di più rispetto al teatro. Il principio di coerenza deve guidare ogni scelta dello
sceneggiatore, naturalmente, ma è davvero la coerenza del racconto a dover essere privilegiata rispetto al
realismo più assoluto. Molti grandissimi film sono pieni di incongruenze o inesattezze storiche. Senza che
noi le giudichiamo come difetti perché in nessun modo danneggiano il film sospendendone l’incredulità. Lo
ammette Aristotele quando, ammirato, dice la stessa cosa della poesia di Omero:
E difatti quelle stesse irrazionalità che si trovano nella Odissea a proposito dello sbarco di Odisseo
addormentato su una spiaggia di Itaca, è chiaro che non sarebbero state tollerabili se le avesse poetate un
poeta da strapazzo; ma un poeta come Omero, date le altre sue mirabili qualità, è riuscito a dissimulare e a
rendere gradevole perfino l’assurdo

Rendere gradevole l’assurdo è una fantastica proposta narrativa per uno sceneggiatore che voglia essere
divertente, spettacolare, profondo avendo a cuore innanzitutto il bene del racconto, il suo fine.
Ai nostri fini, può essere utile citare per contro un esempio negativo. Quando Aristotele afferma che
nell’epopea può essere a messa addirittura l’irrazionale, cosa che non è possibile nella tragedia, perché lì noi
vediamo azioni che si svolgono sotto i nostri occhi, da indirettamente un suggerimento molto importante per
gli adattamenti da romanzi: ci sono scene che il romanzo sono credibili perché lo scrittore riesce a gestire
l’attenzione dello spettatore in modo da farsi che non si accorga di alcune illogicità e alcune incongruenze,
ma quando si prova a mettere in scena queste stesse azioni, la realtà si impone nella sua evidenza e le sue
incongruenze saltano all’occhio in modo “spietato“. (Vedi esempio fine p.138 su tre metri sopra il cielo)

Capitolo 25
Riguardo ai problemi e alle loro situazioni, quanti siano e quali siano i punti di vista da cui si possono
esaminare, si vedrà chiaramente ragionando come segue. Il poeta è imitatore allo stesso modo del pittore o
di qualunque altro artefice di immagini; egli pertanto non potrà mai esimersi dal limitare (o rappresentare)
le cose se non nell’uno o nell’altro di questi tre aspetti: o come esse furono o sono, o come si dice e si crede
che siano (o siano state), o come dovrebbero essere.
Come mezzo di espressione il poeta si vale del linguaggio, che è quanto dire anche di parole forestiere o rare
e di metafore. Ci sono poi anche molte alterazioni formali di cui linguaggio è suscettibile. Si aggiunga
inoltre che non può esservi una stessa forma di correttezza per la politica e per la poetica. Ora, dentro i
limiti della politica, sono possibili due categorie di errori: ioni riguardano la politica direttamente, nella sua
essenza, gli altri riguardano la politica solo indirettamente e incidentalmente. Infatti, se c’è incapacità di
rappresentare un oggetto quale egli si propose di rappresentarlo; allora l’errore riguarda la poetica in se
stessa..
Or dunque,le critiche che sino implicitamente ottenute nei diversi problemi devono essere sciolte movendo
da questi tre punti di vista.
Vediamo anzi tutto quelle critiche che si riferiscono direttamente all’arte del poeta. In un’operati poesia
sono state introdotte cose impossibili. Ma non è più errore se il poeta raggiunge il fine che è proprio della
sua arte: se cioè, secondo quello che di questo fine è stato già detto, egli riesce con tali impossibilità a
rendere più sorprendente è interessante o quella stessa dell’opera che le contiene o un’altra parte. Se però
questo fine si poteva raggiungere più o meno bene anche senza violare sotto questo rispetto di regole
dell’arte, allora l’errore non è più giustificabile ; perché l’opera d’arte deve essere, se si può, interamente
esente da siffatti errori.
Si può anche domandare: a quale delle due categorie sopra dette appartiene il punto criticato? Si tratta di
dirò è direttamente connesso con l’arte del poeta, o di un errore in altra materia che con l’arte del poeta ha
solamente un rapporto accidentale? Perché, per esempio, se un artista non sa che la femmina del cervo non
ha le corna, questo è un rose assai meno grave che se (pur sapendo ciò), non fosse riuscito a raffigurare
cotesta cerva ( in modo riconoscibile, cioè) senza violare le leggi della mimesi. Ancora: se si biasima il
poeta di non essere fedele alla verità delle cose, “ma le cose” egli potrà rispondere “come debbono essere
io le ho rappresentate”. (Sofocle)
Se poi si afferma che la rappresentazione poetica non è conforme alla verità, né si ammette che sia migliore,
si potrà rispondere che è d’accordo con l’opinione comune. In questo modo si giustificano le narrazione dei
poeti intorno agli dei, per esempio. È probabile che quel che si dice dai poeti intorno agli dei ne sia vero ne
sia migliore del vero, e che le cose per avventura.
Per altri casi, in cui egualmente si accusi il poeta di dir cose conformi al vero, non potendosi sostenere che
la rappresentazione poetica è migliore della realtà, si dirà che tale era cotesta realtà una volta.
Riguardando poi alla questione se bene o non bene fu detto alcunché da alcuno, non si può sciogliere
avendo di mira soltanto il valore intrinseco del fatto o del detto, e quando è come e perché; se, per esempio a
causa di un maggior bene da raggiungere o di un maggior male da evitare. Altre difficoltà si devono
sciogliere avendo di mira il valore della espressione adoperata.
In generale dunque io dirò che l’impossibile deve essere giustificato in tre modi e cioè, O riferendosi alle
esigenze della poesia, o guardando alla idealizzazione del vero, o richiamandosi all’opinione comune.
Riguardo alle esigenze della poesia, bisogna tenere presente che cosa impossibile ma credibile è sempre da
preferire a cosa incredibile anche se è possibile. il resto è pur verisimile che accadono talora anche cose non
veri simili. Rispetto quelle quelle espressioni che appariscono contraddittorie, si devono esaminare con lo
stesso metodo che si adopera nelle confutazione dialettica: e cioè vedere bene se si tratta della stessa cosa,
lo stesso rapporto nello stesso senso, prima di risolversi ad affermare che il poeta si trova in contraddizione
con ciò che realmente ha detto gli stesso, o con ciò che legittimamente un lettore di buon senso potrebbe
supporre che gli avesse detto. Ma giustissime sono le censure di irrazionalità e di malvagità di carattere
quando irrazionalità e malvagità siano adoperate senza nessuna interna necessità le giustifichi.
Concludendo, le censure che si fanno i poeti muovono da questi cinque punti di vista: in quanto cioè le cose
dette dal poeta possono essere denunciati (a) come impossibili, (B), come irrazionali, (c) come immorali,
(di) come contraddittorie, (e) come viola critici delle diritto e norme pertinenti ad altre arti o discipline
(estraneo alla politica propriamente detta). E le soluzioni a queste censure devono essere ricercate sotto
l’uno o sotto l’altro degli argomenti che abbiamo i numerati; i quali sono 12.

Il penultimo capitolo della poetica seguito Argomentativo del precedente, inizia confrontando l’arte poetica
con la politica, che nel pensiero aristotelico comprende anche l’etica. Il perché di questo termine di paragone
è presto detto: e alla poetica che aspetta l’analisi approfondita e rigorosa di quanto la poesia, mediante
linguaggio, soltanto imita. (Vedi Cit pagina 145)
Il punto fondamentale. A cosa serve l’arte? A cosa serve la mimesi? “17 anni“ disse una volta il regista
teatrale e poi cinematografico Rouben Mamoulin, “Condividevo lo slogan Ars gratia artis, L’arte e per
l’amore dell’arte ora credo fermamente che l’arte, come qualsiasi altra cosa, sia per amore della vita e per
amore dell’uomo“. Tutto il pensiero di Aristotele, e quindi ciò che dice della poetica, come abbiamo visto,
contraddice a ragione questo motto. L’arte del racconto, secondo la filosofia fondante che guida questo testo
e tutte le correnti che vi si sono rifatte, è capace di non fare l’uomo di strumenti utili a dare ordine e senso
alla realtà rendendo la “abitabile“; le storie costituiscono una sorta di laboratorio e dico per coltivare ed
esercitare facoltà di discernimento e valutazione. “Una storia è sempre un’interrogazione sul possibile e sul
rapporto tra possibile e necessario, dunque è intrinsecamente etica“ quindi, in un certo senso, un film e
sempre politico, anche se non parla di presidenti. In questi termini titoli come “sole a catinelle“ o “il
vegetale“ lo sono meno nobili, negli intenti, Dei fini politici nel senso classico del termine.
Le diciamo qui perché secondo noi è questo il “tema“ che traspare all’interno della poetica. Secondo le più
accreditate teorie della sceneggiatura contemporanea, mi interessa il piacere del fruitore di un testo narrativo
nel seguire una storia risiedono proprio nell’apprendimento di un tema. Il racconto non è mai imparziale,
perché altrimenti non potrebbe illuminare in nessun modo la nostra esperienza. Guida non solo il
ragionamento, ma anche desideri del lettore verso alcuni oggetti piuttosto che altri, esercitando con Sans
influenza comunque edificante.
Il capitolo è importante anche per la impegnativa presa di posizione sul rapporto tra “cose impossibili“ e
“fini della poesia“. Anche per Aristotele, quanto pare, come per Manzoni, la poesia dovrebbe avere “il vero
per soggetto, l’utile per scopo e l’interessante per mezzo“. La poetica dice che in un’opera di poesia in cui
sono state introdotte cose impossibili “non è piu un errore se il poeta raggiunge il fine che è proprio della sua
arte: se cioè egli con tali impossibilità a rendere più sorprendente e interessante o quella parte stessa
dell’opera che le contiene un’altra parte“. Il racconto audiovisivo deve obbedire a leggi che non hanno la
fedeltà assoluta come criterio supremo.
Per il resto “l’ideale ha da essere appunto superiore alla realtà“.

Capitolo 26
E ora qualcuno potrebbe porre la questione se sia migliore la mimesi di epica o la mimesi sì tragica. Se è
vero che la mimesi migliore è quella meno materiale non c’è dubbio che sarà materiale quella i mesi che si
propone di rappresentare in tutti suoi aspetti ogni soggetto. E difatti gli autori, come se il pubblico non fosse
in grado di capire senza che aggiungessero essi qualche cosa per proprio conto, si lasciano andare su la
scena a movimenti di ogni genere. Questi attori recenti stanno agli antichi nello stesso rapporto che tutta
quanta l’arte (grammatica) stalli Pompea. Mentre dunque, (e si concludono, le Pompea si indirizza persone
colte le quali hanno bisogno di nessun materiale accompagnamento di gesti, la tragedia si indirizza
spettatori incolti e grossolani. Se pertanto è vero che la tragedia è una mimesi materiale, non c’è dubbio che
ella deve essere inferiore all’epopea.
Se non c’è questa critica, non riguardo la tragedia in quanto è opera di poesia. E non è detto che ogni
movimento in genere sia da condannare, salvo che non si voglia condonare addirittura anche la danza; ma
solo il gestire di artisti e inetti. Si noti inoltre che la tragedia anche senza l’aiuto dell’azione raggiunge il
suo proprio fine, né più né meno della epopea: perché una tragedia è superiore all’epopea, si deve anche
ammettere che questo suo elemento di inferiorità non le pertiene nella sua essenza. In secondo luogo
(tragedia è superiore all’epopea anche) per queste ragioni. Tutti gli elementi di cui l’epopea può disporre,
anche la tragedia può averli; tanto che può adoperare persino il verso epico; è in più - né sono elementi di
piccola importanza - ha l’accompagnamento musicale e lo spettacolo scenico, i quali diletti (che le sono
proprio naturalmente). Anche si aggiunga che ella ha una sua particolar vivezza rappresentativa, la quale si
rivela egualmente bene così alla semplice lettura come sulla scena. Una terza ragione di superiorità e anche
in questo, che è la mimesi Tragica e raggiunge il suo proprio fine in più breve spazio che non la mimesi
epica; perché ciò che più conta condensato produce va tragica e raggiunge il suo proprio fine in più breve
spazio che non la mimesi epica; perché ciò che più conta condensato produce un diletto assai maggiore che
se diluito il lungo periodo di tempo. Quale effetto produrrebbe, per esempio, l’Edipo re di Sofocle, se uno lo
allungasse in tanti versi quanti sono quelli dell’Iliade? Finalmente: la mimesi epica a minore unità; di chi è
prova il fatto che da qualunque mimesi epica si possono tirar fuori più tragedie.
Concludendo, se per tutte queste ragioni la tragedia è superiore all’epopea e, inoltre il W concludendo, se
per tutte queste ragioni la tragedia è superiore all’epopea e, inoltre loro è superiore anche per la più diretta
efficacia dei suoi mezzi artistici (a raggiungimento del proprio stile) è chiaro che la tragedia, come quella
Che è meglio e più immediatamente dell’epopea raggiunge il suo proprio fine, dovrà ritenersi una più nobile
forma di poesia. E così, dunque, della tragedia dell’epopea, sia genericamente in se stesse, sia rispetto alla
loro varietà e ai loro elementi costitutivi; e anche, quante sono e in che differiscono fra queste varietà e
questi elementi; e quali sono le cause onde una tragedia è un poema epico possono riuscire bene o no; e
delle varie critiche che si possono muovere, e delle soluzioni corrispondenti, basti oramai quello che ho
detto.

Il capitolo conclusivo della poetica esordisce annunciando un duello finale e si conclude, all’improvviso, e
con la promessa di una continuazione. Il primato della tragedia sull’epica, in realtà, è già insito
nell’impostazione generale del libro, fin dei primi capitoli, e se quindi Aristotele sente il bisogno di tornare
sull’argomento è probabile che avessi in mente un obiettivo polemico particolare. Forse, a detta di alcuni,
proprio lo stesso Platone, che non aveva mancato di identificare nella poesia drammatica la forma più
pericolosa dell’arte imitativa. Aristotele esplora la tesi avversa concedendole spazio per avere poi più numeri
o più ragioni per argomentare a proprio favore. È una tecnica retorica del collaudata che le tecniche di
sceneggiatura, soprattutto per quel che riguarda la costruzione dei plot attorno a un tema, hanno
perfettamente interiorizzato.
Tra l’altro il giudizio sull’epica sembrerebbe contrastare gli elogi rivolti nelle pagine precedenti e poemi
omerici e non tutti i dettagli del giudizio stesso quadro no alla perfezione con quanto detto altrove, ma questo
aspetto del testo e forse indicativo di una certa tensione il pensiero stesso di Aristotele oltre che, come
sempre, il carattere non definitivo del testo. Leggere la poetica a 23 secondi dopo che sia stata scritta e tanto
più intrigante quanto ancora, dopo millenni, all’aspetto di un’opera in fieri. Non tutte Le tessere del puzzle e
sono al loro posto e senz’altro a quest’opera aristotelica manca la sua final draft, la stesura finale definitiva.
Eppure è un privilegio entrare nel laboratorio di uno dei più grandi pensatori dell’umanità mentre ancora al
lavoro. Scoprire quanto la poetica abbia da dire all’uomo del XXI secolo che, come quello greco del III
secolo a. C., dovrà comprendere se stesso e il mondo in cui vive, costruire la propria identità, fare delle
scelte, cercando di soddisfare attraverso le storie la sua inestinguibile sete di conoscenza e di avventura. Alla
domanda su cosa fosse l’arte, infatti Lajos Egri, l’Aristotele dell’est - amava rispondere: “in forma
microscopica l’arte è la perfezione del genere umano e dell’intero universo“.

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