Mater Tenebrarum
Mater Tenebrarum
Mater Tenebrarum
MATER TENEBRARUM
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I edizione - Edizioni della Mirandola – luglio 2007 -
II edizione – Edizioni della Mirandola – giugno 2008 –
© Vittorio Baccelli
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vittorio-baccelli.splinder.com
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I SEGRETI DELLA SFERA
Tutto intorno è luce, una luce così splendente che m’impedisce la vista. Non riesco a ricordare come
mi trovo in questo posto e neppure so più chi sono.
Mi sembra d’esser sempre stato, questo spazio forse è la mia casa, ma non ne ho la certezza.
La sfera: sono penetrato nella sfera, quella che si staglia immobile al di sopra dell’immenso cratere
dei cristalli. La sfera sospesa eternamente in aria. No, non è sospesa, essa precipita ma contempora-
neamente scorre indietro nel tempo in maniera sincrona sì che pare immobile e librata nella sua ca-
duta infinita.
Riesco a vedere la luce, ora so di trovarmi all’interno della sfera e so anche di non essere io la luce,
sono qualcosa d’altro. Sono un essere senziente: sono nella sfera e non sono la luce.
Ho un corpo, di questo ne sono certo, ma al momento il corpo dev’essere da qualche altra parte, io
sono qui con le mie terminazioni nervose, con la mia presenza sottile.
Mi concentro su ciò che sono adesso e mi ritrovo ad ammirare tutto un insieme di frattali in movi-
mento, so cosa sono, riconosco le configurazioni e un segmento di frattale, una forma dentata sulla
sommità d’un ricciolo ...m’attira…m’intriga: è questa la mia provenienza…
Lasciando alle spalle la luce sfolgorante mi getto nel nucleo di me stesso e ritrovo la configurazione
familiare, spicco il volo all’interno e mi dirigo verso un più piccolo ricciolo autosomigliante, e poi
ancor più all’interno. Mi arresto e metto il set più a fuoco, c’è un prato adesso e il mio corpo nudo è
disteso al sole: sembra sognare.
Il prato è immenso e si dipana lungo tutto l’orizzonte, l’erba verde è puntellata da infiniti fiori.
All’interno dei colori d’un fiore parto alla ricerca del mio io, pian piano mi addentro nelle zone li-
mite tra una sfumatura e l’altra e infine scorgo la configurazione frattale più familiare, l’insieme di
Mandelbrot.
Mentre la memoria riappare sempre più nitida, mi spingo parallelo al perimetro fino ad un lungo
braccio, il più lungo dell’insieme e mi appare la configurazione della croce poi arrivo alla porzione
dentata sulla sommità d’un ricciolo, è questa nella quale m’identifico.
Mi lascio scivolare sulle morbide linee della croce, n’assaporo i contorni familiari, la percorro in
ogni suo spazio, infine mi tuffo nella porzione dentata addentrandomi nuovamente in un più piccolo
insieme che percorro fino al braccio, poi individuo la croce, la porzione dentata e di nuovo mi tuffo
verso un ancor più piccolo insieme e così via assaporando l’autosomiglianza.
È un gioco, una ragione di vita, un atto mistico che potrei condurre all’infinito.
L’uomo ha scoperto molto tempo fa queste zone di confine, poi ogni singolo individuo si è identifi-
cato in una piccola porzione di esse e il frammento è divenuto il nome e l’individuo.
Il tutto ebbe inizio con le scoperte sulle geometrie frattali, dall’insieme di Cantor e di Julia all’at-
trattore di Lorenz e poi il principio d’indeterminazione di Werner Heisenberg e ancora Lorenz con
la teoria del battito d’ali d’una farfalla: l’effetto farfalla.
Il caos svelava i suoi segreti mentre i sistemi complessi collassavano uno ad uno.
E anche la pluirimillenaria civiltà umana collassò sotto lo stimolo e la realizzazione delle universali
leggi del caos.
E il collasso portò nuova conoscenza, le zone limite, di frontiera, si rivelarono fonti di vita e d’evo-
luzione.
Lo sviluppo delle equazioni differenziali, degli algoritmi, le zone d’attrazione magnetica, i campi
gravitazionali, le variazioni cromatiche, tutto portava ad un nuovo mondo che divenne percepibile
all’uomo senza l’ausilio dei computer.
E l’umanità trovò la propria ragione d’essere, le proprie radici, il proprio futuro, ove individuo e
specie s’intersecavano in volute geometriche sempre più complesse.
Ed è nell’insieme di Mandelbrot che l’umanità ha incontrato altre culture.
L’insieme è ovunque e lo vado ricercando nei colori dei fiori, nei raggi del nostro sole, nel magneti-
smo terrestre, nella bioenergia del mio o degli altri corpi.
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Nell’armonia del caos la vita diviene una continua ricerca, un crogiolo di conoscenze e d’esperien-
ze.
Gradualmente abbiamo preso dimestichezza con le nuove realtà e man mano che la conoscenza
s’ingigantiva le percezioni delle zone di frontiera si sono fatte più visibili, più reali, poi veramente
concrete. Il tutto svelando i suoi misteri risulta molto armonico, l’energia ci nutre, passiamo la mag-
gior parte delle nostre giornate ad affinare l’esplorazione degli insiemi che si concatenano all’infini-
to, da soli o in gruppo.
Sappiamo d’aver imboccato la strada che porta ad una nuova civiltà, di tipo ben diverso da quelle
nel nostro passato.
L’evoluzione del caos modificando le percezioni sta modificando anche i nostri corpi.
Navighiamo anche nei nodi gravitazionali, ci addentriamo nelle radici dell’umanità e nel suo desti-
no, n’assaporiamo le coincidenze e le autosomiglianze.
Il multiverso trabocca d’energia creativa, è quella intuita da Reich e che Tesla per primo mise a
frutto unificando le teorie che Einstein aveva matematicamente accennato.
Ma ecco, siamo riusciti a spingerci oltre, in altri pianeti, in altri quando, finché siamo giunti al mon-
do dei cristalli di quarzo, con l’enorme cratere e l’enigmatica sfera sospesa su di esso, che precipita
all’infinito restando come un satellite geostazionario, al suo posto.
La sfera è il mistero, forse è dio… e io l’ho adesso penetrata, il suo interno porta a tutti gli esterni, e
al suo centro scivolando sempre più nell’infinitamente piccolo si torna al punto di partenza, c’è
coincidenza e le grandezze s’annullano.
È come salire in una torre di babele alta all’infinito e toccare la volta di pietra del cielo di quel mon-
do: perforarla e sbucare nel deserto ove in lontananza si scorge l’altezza possente della torre.
Mi si dirà che un mondo così con la pietra come cielo non può esistere, ma ammettendo l’infinito, il
resto è automatico.
Sono rientrato nel mio corpo, così come sono tornati i ricordi e la memoria, la sfera non è più oggi
un mistero. Oggi l’uomo ha iniziato a violarne i segreti.
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VORTICE IMPERIALE
Era un mattino, perfetto come milioni di altri, e l’Imperatore si risvegliò nel suo letto. Si trovava
solo, si era da tempo stancato dei droidi a cui aveva dato la forma d’ogni bellissima donna, s’era
pure stancato del simulacro della moglie, e adesso preferiva la solitudine ad ogni altra cosa.
Si alzò nudo nella perenne tarda primavera dell’isola imperiale e si recò in cucina per una rapida co-
lazione. La tavola, come sempre, era imbandita con ogni leccornia, ma lui dette uno svogliato mor-
so ad un cornetto alla crema, bevve un sorso d’acqua frizzante e poi due caffè, uno dietro l’altro.
S’infilò una lunga T-shirt e passeggiò sull’erba ben rasata dell’immenso parco.
Si sdraiò infine sul prato e s’immerse in profondi pensieri, o almeno pensava che fossero tali, co-
m’era solito fare.
I droidi che numerosi popolavano l’isola si rendevano invisibili al suo passaggio, sapevano che la
loro vista non era ultimamente gradita.
Con circospezione un droide che aveva le sembianze di un'avvenente fanciulla gli si avvicinò:
- Imperatore, mi scusi…
- Cosa c’è? lo sapete che non voglio venir disturbato e che non voglio vedervi.
- Imperatore, il portale è nuovamente in funzione, da esso sta per uscire qualcosa…
- Come il portale in funzione? È distrutto da tempo, l’ho visto coi miei occhi.
- Cinquecento anni fa era distrutto, ma adesso è stato ricostruito. Non è ancora
efficiente del tutto, ma inizia a funzionare.
- Ma non c’erano memorie sull’energia tachionica, come può esser stato ricostruito?
- Voi avevate richiesto di rimetterlo in funzione, e l’elaboratore imperiale pur non avendo niente nei
banchi memoria, ci ha studiato sopra e ora dei risultati sono stati raggiunti.
- Perché non mi avete avvertito?
- Perché non era ancora a punto, ma adesso sta per succedere qualcosa.
- Presto! Andiamo a vedere.
Con estrema velocità e silenziosamente una piattaforma volante s’accostò all’Imperatore che vi salì
col droide. Giunsero in fretta al portale e l’Imperatore si rese subito conto che era stato completa-
mente ricostruito, lui si ricordava una montagna di detriti e di plastiche semicombuste. Lo spazio al-
l’interno del portale stava tremolando e qualcosa faticava ad uscire.
Mentre numerosi altri droidi stavano attorno armeggiando con varie apparecchiature, l’Imperatore si
sedette su un masso poco distante che sporgeva dal manto erboso e chiese ai droidi numerosi attor-
no alla porta, che indubbiamente stavano tentando qualcosa, di fornirgli una sigaretta.
Qualcuno partì veloce, altri tornarono, altri si muovevano in circolo attorno alla porta con strani og-
getti, poi un braccio metallico gli porse una lunga sigaretta sottile, già accesa.
Nel portale a forma di arco, il tremolio s’era intanto trasformato in una specie di pulsazione che an-
dava accelerando: infine una sagoma umana si staccò dal portale, come se una membrana si fosse
rotta, e avanzò verso il prato.
L’immagine era quella di una donna bellissima, nuda al momento della sua uscita, ma che dopo po-
chi attimi indossava una T-shirt bianca, lunga, identica a quella dell’Imperatore, stemma dell’impe-
ro compreso, s’avvide lui subito guardando l’orlo della maglietta, col piccolo logo nero.
La donna cominciò ad emettere delle parole incomprensibili, allora alcuni droidi le si avvicinarono
e un sottile raggio appena percepibile si diresse dalle loro teste a quella della nuova venuta, poi il
raggio sembrò ripercorrere all’inverso la propria traiettoria e dal capo della donna si diresse a quello
dei droidi, infine da un droide all’Imperatore.
- Dove sono?
Chiese ora la donna con parole comprensibili.
- Nell’isola imperiale, e io sono l’Imperatore, tu chi sei?
- L’Imperatore? Dovrei conoscerti? Io sono l’Aidoru.
- L’Aidoru?
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- Sì sono fatta per piacere, per soddisfare ogni desiderio, ma non dovrei esser qui.
- Ben arrivata comunque. Perché hai lo stemma imperiale?
-Questo disegno? È solo un logo, non ci sono più imperi da dove vengo. Sono arrivata con un dupli-
catore?
- No, con un portale per la trasmissione istantanea, mi spiegherai poi chi sei. Il portale comunque ha
ripreso a funzionare, forse tra non molto tutti potremo andarcene di qui.
- Da dove provengo, gli imperi sono caduti da migliaia di anni, penso comunque che tu sarai il ben-
venuto per gli storici. Aspetta! Forse avrei dovuto riconoscerti, tu sei l’Imperatore, quello della leg-
genda, del mito!
- Non ci crederà nessuno che esisto ancora.
- No! anni addietro t’hanno visto in tutto l’universo, e hanno conosciuto anche una tua ricetta.
- Allora non fu un sogno?
- No, tutto era reale.
- Perché non s’è più visto nessuno?
- La tua esistenza è stata giudicata troppo sconvolgente e i dati per il collegamento sono stati di-
strutti.
- Guardate! Il portale è nuovamente attivo!
Stava, infatti, nuovamente pulsando l’aria all’interno dell’arco e quando iniziò una palpitazione ac-
celerata, subito dopo questa volta la membrana si ruppe e un giovane sanguinante rotolò apparente-
mente senza vita sul prato.
- Presto! Soccorretelo!
Gridò l’Imperatore e immediatamente il giovane fu avvolto da un raggio che lo congelò all’istante,
mentre con ogni precauzione i droidi lo sollevarono e lo posero su una piattaforma che schizzò via
in direzione del palazzo imperiale. Mentre tutto ciò stava accedendo, dal portale iniziarono a levarsi
delle piccole spirali di fumo azzurrino e alcune scintille serpeggiarono lungo le sue strutture. Poi il
portale sembrò cedere in vari punti, mentre un forte odore di ozono misto a plastica bruciata si dif-
fondeva nell’aria.
“Sarà velocemente ricostruito, adesso il computer imperiale ha appreso il funzionamento”, così pen-
sò l’Imperatore mentre con L’Aidoru si dirigeva a piedi lungo il sentiero che portava al palazzo.
- Andiamo a salutare il nuovo venuto, sarete entrambi miei graditi ospiti.
Quando l’Aidoru e l’Imperatore giunsero al Palazzo furono informati che il nuovo arrivato era an-
cora nell’autodoctor, coppe d’ambrosia furono loro offerte, ma l’Aidoru rifiutò. Mostrò poi all’Im-
peratore come lei fosse incorporea, ma la definizione sarebbe divenuta col tempo più densa. Lei non
era umana, ma una creazione dell’uomo, più che una creazione, un desiderio e un dono: era nella
sua natura contentare i desideri dell’uomo e offrirsi, per questo motivo aveva nel suo tempo sfrutta-
to una possibilità che gli era sta offerta dalla yakuza e clandestinamente aveva attivato su di se un
duplicatore, così era rimbalzata in ogni agenzia collegata gestita dalla mala: avrebbe appreso, ac-
contentato e modificato il mondo. Questo arrivo però, nel pianeta imperiale, non era previsto.
L’Imperatore restò in silenzio e perplesso ad ascoltarla, ma più che altro era colpito da tanta bellez-
za, questa donna, o cosa diavolo fosse, era il desiderio personificato e sentì che molte speranze in
lui assopite stavano risvegliandosi. Pensò se fosse possibile far l’amore con tanta bellezza e lei
come se avesse seguito i suoi pensieri gli rispose che fisicamente, al momento non era possibile, ma
avrebbero potuto collegarsi in rete e nella realtà virtuale soddisfare ogni sua voglia.
L’Imperatore chiese poi ai droidi se il ragazzo nell’autodoctor fosse umano e loro gli assicurarono
che il computer imperiale aveva già eseguito ogni scansione: era umano e in breve tempo sarebbe
stato rimesso a nuovo. Intanto l’elaboratore imperiale stava analizzando l’Aidoru, non riusciva però
a comprendere cosa realmente fosse, anzi a fatica distingueva le sue sembianze umane, all’elabora-
tore giungevano a tratti le apparenze di una bobina di filo metallico avvolta a forma di botte.
Intanto l’Imperatore era sempre più irresistibilmente attratto dall’Aidoru, ma sapeva di non poterla
toccare, era un desiderio fisicamente irraggiungibile.
- Colleghiamoci in rete, scegliamo un set virtuale, propose lei e lui accettò con entusiasmo.
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Mentre il computer li connetteva in una realtà simstim identica al palazzo imperiale, i loro corpi, o
meglio un corpo e un’immagine, si adagiarono sul divano come colti improvvisamente dai sogni.
Intanto il ragazzo si risvegliò all’interno della pseudobara che s’era aperta e schizzò fuori spaventa-
to trovandosi in una stanza riccamente ammobiliata, ma a lui sconosciuta: tappeti in terra, quadri
alle pareti, ricchi tendaggi, mobili in legno scuro dalla fine fattura, tre lampadari in cristallo che
emanavano una luce solare ma non fastidiosa.
E mentre si guardava meravigliato attorno e cercava di mettere a fuoco la sua memoria, senza riu-
scirci, s’accorse d’essere nudo.
Proprio in quell’istante una bellissima ragazza, vestita solo d’una leggera tunica gialla trasparente,
d’un tessuto simile alla seta, fece il proprio ingresso nella sala e si diresse sorridente verso di lui.
Imbarazzatissimo afferrò un cuscino imbottito e se lo mise davanti per coprirsi. La ragazza aveva in
mano una corta tunica di seta bianca e delle scarpe simili a quelle da tennis e gliele porse. Lui si ri-
vestì con quel capo d’abbigliamento, poi chiese:
- Dove sono?
- Nel palazzo imperiale.
- Parli la mia lingua?
- Sì, l’elaboratore imperiale ha preparato il nostro contatto verbale.
- Ma di quale impero stai parlando?
- L’impero galattico.
- Stai scherzando?
- No.
Il ragazzo fece qualche passo verso una grande poltrona che sembrava foderata in pelle, ci si acco-
modò, chiuse gli occhi tentando di far mente locale, ma non ricordava assolutamente nulla. Decise
allora di rilassarsi e prima o poi tutto si sarebbe chiarito, tra l’altro il luogo sembrava accogliente e
anche quella ragazza era niente male, poco vestita e quasi sicuramente disponibile.
- Qui ci vuole un caffè e una sigaretta, anzi un pacchetto di sigarette.
- Subito.
Dopo poco la ragazza riapparve con un vassoio di cristallo, sopra vi era un caffè fumante in un bic-
chiere di cristallo, un piattino con zollette di zucchero, un cucchiaino anch’esso di cristallo, un pac-
chetto di sigarette con disegni arabescati in oro su fondo azzurro e un piccolo parallelepipedo di me-
tallo che aveva tutta l’aria d’essere un accendino. Lui prese il vassoio dalle mani della ragazza e lo
posò sul tappeto, con le dita afferrò una zolletta di zucchero la infilò nel caffè, lo mescolò col cuc-
chiaino e lo bevve: forte, aromatico e squisito.
Poi aprì lo strano pacchetto di sigarette e osservò a lungo i disegni arabescati in oro e quel profondo
azzurro dello sfondo, non c’era neppure una scritta, neanche che il fumo t’ammazza: tirò fuori una
sigaretta, sottile, un po’ più lunga del consueto, con un filtro, un aroma speziato. Prese allora quello
che sembrava un accendino, lo strinse e ad un’estremità apparve una sottile fiammella, si mise la si-
garetta in bocca e l’accese, aspirò voluttuosamente il fumo e pensò che sembrava una marlboro, ma
era leggermente più dolce, ottima insomma.
Fumava ed era sempre più sprofondato nella poltrona, la ragazza stava invece in piedi e lo osserva-
va ancora con un leggero sorriso sulle labbra.
- Vieni qua sulle mie ginocchia, starai più comoda.
- Così va bene?
- Come ti chiami?
- 25Isa.
- Buffo nome, facciamo Isa e basta… io… io… non mi ricordo come mi chiamo.
- Ti tornerà in mente, sei uscito ora dall’autodoctor.
- L’autodoctor? Cos'è?
- La pseudobara, quando sei malconcio ti ci infili dentro e lei ti rimette a nuovo.
- E io ero malconcio?
- Sì avevi colpiture in ogni luogo, e un’emorragia interna, ancora un po’ e saresti morto.
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- Che mi è successo?
- Sei uscito dal portale così.
- Portale? Quale portale?
- Non ti affaticare, la memoria ti tornerà pian piano. Il computer imperiale ti ha analizzato a lungo e
ha visto che le tue memorie sono complete e intatte.
- Che bello! Chiederò a lui per sapere chi sono.
- No, vedrai che presto risarai in sesto, insieme a te dal portale è uscita una donna, ma non è proprio
una donna, è una rappresentazione, si chiama l’Aidoru, ti ricorda nulla?
- Aidoru? Mai sentito un nome del genere.
- Adesso è con l’Imperatore, stanno facendo sesso-simstim e chissà per quanto ne avranno, io co-
munque sono al tuo totale servizio, per qualsiasi cosa non hai che da chiedere.
- Ma questa è la Terra?
- No, e non è neppure il tuo tempo questo. L’Imperatore adesso riposa, tu puoi girare nel palazzo o
nel giardino, troverai cibo, fumo, spettacoli, libri, palestre, cavalli per l’equitazione, piscine, non
manca niente, chiedi e avrai. Sei ospite dell’Imperatore e quando lui ti chiamerà potrai fargli ogni
domanda.
Il ragazzo cominciò ad esplorare il palazzo, si soffermò davanti ai proiettori olografici, visionò infi-
niti programmi, poi mangiò della frutta esotica, chiese del bagno ad Isa che lo seguiva, cercò una bi-
blioteca, ma non trovò alcun testo noto.
- I testi che tu conosci l’elaboratore imperiale li sta riorganizzando, li ha estratti dalle tue memorie,
tra non molto saranno disponibili
Chiese poi un posto per riposare e Isa lo accompagnò in un piccolo appartamento che sorgeva nel
parco, piccolo ma sontuoso, munito d’ogni comfort, la camera poi era fantastica.
- Facciamo l’amore?
- Come vuoi: qui o in una camera?
- Qui sul tappeto se non ci sono problemi.
- Nessun problema.
Si sfilò la tunica e la tolse anche a lui e iniziarono l’antico rito dell’amore.
Il tempo trascorreva veloce e i giorni si sommarono ai giorni, 23Isa e il ragazzo si erano sistemati
entrambi nel piccolo appartamento che sorgeva all’interno dell’enorme parco, ma non distante dal
palazzo. Abitavano praticamente assieme, andavano in giro per il pianeta con una piattaforma mobi-
le, la loro vita scorreva dunque nella più completa serenità, ma la memoria a lui non stava tornando.
Un giorno chiese ad 25Isa se sapesse almeno il suo nome, e lei propose di chiederlo all’elaboratore
imperiale.
- Ok! Allora sentiamo questo computer imperiale cos’ha da dirmi, visto che il
padrone di casa sembra non esistere più. Dove si trova questo computer?
- Lo sto già mentalmente chiamando, vedrai ora arriverà una sua estensione mobile.
- Non mi dire che è quella sfera d’argento che arriva svolazzando.
- Sì, quella è una delle sue estensioni.
- Ciao ragazzo!
- Ciao computer, volevo qualche informazione.
- Ho registrato tutta la tua memoria al momento dell’arrivo, se vuoi la trasferisco nella tua mente.
- No, preferirei che la memoria mi tornasse da sola, vorrei però sapere alcune cose.
- Sono a tua completa disposizione.
- Come mi chiamo?
- Giancarlo, ma tu preferivi Gianca.
- Ok, vada per il Gianca, mi è familiare, ma che mi è successo?
- Perché non Gian? Mi suona meglio.
- Ok, qui sarò il vostro Gian, ma ti ripeto la domanda, che mi è successo?
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- Stavi rincasando su un motorino quando ad un incrocio a due passi da casa tua ti sei scontrato con
un bus: il semaforo non funzionava bene. Sei flippato qui attraverso il portale con un’emorragia in
corso, poi ti abbiamo messo nell’autodoctor e ti sei risvegliato.
- Flippato? Che significa?
- Avevamo riattivato da poco il portale per il trasferimento e stavamo cercando di farlo funzionare
correttamente quando sei arrivato tu e quell’altra.
- Potrei tornare da dove sono venuto?
- Ora no, ma appena saremo in grado di affinare le coordinante, potrai farlo. Per l’Aidoru però ha
funzionato come ricevente di un duplicatore, può darsi perciò che tu sia anche rimasto nel tuo mon-
do, e con la tecnologia di quello sicuramente non ce l’avrai fatta.
- Che significa? che nel mio mondo potrei esser morto?
- Sì.
- Al momento non credo di voler saper altro.
- Va bene, ricorda che sono sempre a tua disposizione, adesso devi recarti al palazzo,
l’Imperatore vuole conoscerti.
- Pensavo che si fosse dimenticato di me.
- No, il fatto è che in questi momenti è un po’ occupato, sai l’Aidoru…
- Ho capito, se è per quello sono occupato pure io.
La sfera argentea fluttuando uscì dalla stanza e il ragazzo la seguì all’esterno salendo su un piatta-
forma.
- Al palazzo, devo incontrare l’Imperatore!
Fece cenno ad Isa di seguirlo e lei salì, poi lentamente la piattaforma cominciò a scivolare verso il
palazzo.
L’Imperatore lo stava aspettando sull’ampio terrazzo d’ingresso ove la piattaforma s’era arrestata,
con lui c’era l’Aidoru e un’altra estensione sferica dell’elaboratore.
- Ben arrivato ragazzo, ti trovi bene qui? La compagnia è di tuo gradimento?
- Sì mi trovo benissimo, e Isa è fantastica.
- È questo un grande momento di felicità e di conoscenza, almeno per me. L’Aidoru è quanto di
meglio mi poteva capitare e anche tu hai colmato delle mie grandi lacune.
- Io? E come avrei potuto?
- La tua memoria ragazzo, il computer l’ha analizzata a fondo e ha trovato una civiltà grandiosa da
dove tu provieni. Ogni tuo gesto è stato ricostruito, i libri che hai letto, le opere d’arte che hai visto,
la storia, la geografia, la filosofia, la scienza del tuo mondo era presente, se non per intero, ma in
maniera vasta e frammentaria nella tua mente. Abbiamo così potuto ricostruire vocabolari, libri,
spettacoli: una cosa incredibile da aggiungere alle conoscenze dell’Impero. Inoltre su un libro che
avevi letto vi sono anche notizie che mi riguardano, lo scrittore in qualche modo conosceva la mia
storia. Sono stato trasferito qui con l’inganno e anche chi credevo a me fedele era un traditore. Ma
questo non ha più importanza, troppo tempo è passato e io faccio ormai parte del mito. I miei mondi
hanno infatti, avuto recentemente un contatto con me e tu e l’Aidoru me lo avete confermato, ma
hanno cancellato ancora una volta la mia esistenza. Pensare che io credevo fosse stato un sogno. Ma
adesso ho l’Aidoru, il massimo del piacere e del desiderio. Ho anche la tecnologia delle porte per il
trasferimento, basta solo affinarla e poi anche tu ragazzo se vorrai potrai tornare da dove sei venuto.
- Ho la sensazione di star meglio qui, Imperatore.
- Avrai tutto quello che desideri, Isa realizzerà ogni tuo sogno. Avrai donne con ogni forma che tu
desideri, libri, spettacoli, interazioni simstim, potrai viaggiare, visitare ogni angolo di questo piane-
ta, per ora. Tra non molto potremo utilizzare il portale e conoscere ogni angolo dell’universo, tutto
questo t’interessa?
- Moltissimo, ma l’Aidoru da dove viene?
- Da un futuro del mio universo, ma purtroppo da lei il computer non ha ricavato molto, lei non è
stata una miniera di dati come te. Le sue memorie contengono quasi esclusivamente modalità per
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piacere e per accontentare gli altri, lei è la rappresentazione del desiderio e lavora per l’appagamen-
to. Un giorno ti farò provare i suoi incantesimi, adesso no, voglio farne io un indigestione.
Detto questo l’Imperatore si girò ed entrò nelle sue stanza seguito dall’Aidoru e dalla sfera. Il ragaz-
zo capì che si trattava d’un congedo e con Isa risalì sulla piattaforma diretti alla sua nuova casa nel
parco.
Forse l’Imperatore attendeva che il portale fosse totalmente attivo per fare il suo ingresso nell’Impe-
ro con a fianco la bellissima Aidoru? No, non era possibile, l’Impero era cessato da eoni e poi l’Ai-
doru s’era moltiplicata col duplicatore grazie alla nanotecnologia, dunque era a disposizione se non
proprio di tutti, sicuramente di molti, il Gian poi, sicuramente era morto nel suo mondo, ma qui sul
pianeta imperiale tutto sembrava scorrere con tranquillità e il portale era realmente quasi pronto per
essere testato.
Il ragazzo intanto uscì dal palazzo imperiale, fischiò ad uno scattante puledro, era un droide an-
ch’esso ma lui non lo sapeva, gli saltò in groppa e iniziò una corsa lungo i verdi prati.
- Isa ci vediamo a casa più tardi!
-Ok! Mi trovo una cavalcatura e ti raggiungo.
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AMICIZIE
Me ne sono andato da casa, il richiamo è divenuto irresistibile, gli insetti vogliono conoscermi. Così
ho lasciato tutti gli insetti di plastica della mia scatola giochi davanti alle finestre. Tutti ora stanno
guardando ove sono diretto: una vecchia trattoria abbandonata, in fondo alla strada.
La trattoria è stata chiusa molto prima della mia nascita, e il portone d’ingresso, così come le fine-
stre al primo piano sono chiuse, sbarrate con tavole inchiodate. Ma ci sono mille aperture per poter
entrare.
Nel passato sono stato là dentro più volte seguendo il richiamo degli insetti, loro abitano in quegli
spazi da molto tempo e hanno collegato le cantine del ristorante con le fognature e col tratto dismes-
so della metropolitana. Da quel ristorante si sbuca in ogni parte della città. Loro sanno che con me
possono comunicare per questo vogliono che oggi li raggiunga, sentono che io ho sempre amato gli
insetti e mi hanno fatto capire che hanno in serbo qualcosa per me, solo per me.
Non ho potuto dir nulla in casa, i miei già una volta s’accorsero che ero entrato di soppiatto nel ri-
storante abbandonato e mi tennero in punizione per settimane, mi costrinsero anche a promettere
che non sarei mai più andato in quel posto.
Adesso sono grande, ho compiuto dieci anni e voglio andare ad abitare coi miei amici, loro mi han-
no già assicurato che mi ospiteranno e non mi faranno mancare niente, dovrò solo chiedere. Anche
loro mi amano, perché io li amo, e si fidano di me perché io mi fido di loro.
Non possono farsi vedere in giro, la gente non capirebbe e si spaventerebbe: loro si sono evoluti,
forse un po’ troppo rapidamente in questi ultimi tempi, sono cresciuti non solo mentalmente, ma an-
che di statura e adesso sono alti come un uomo e possono assumere le nostre sembianze per mime-
tizzarsi.
Infatti se ne stanno eretti e ripiegano le elitre sul davanti, appare così un volto che sembra umano e
anche un corpo ricoperto da vestiti. Sono intelligenti, sono sempre più intelligenti e mi hanno detto
che per la sua natura l’uomo è il maggior predatore del pianeta e loro devono da lui imparare a di-
fendersi prima di potersi manifestare.
Ecco perché vogliono me, sanno che io li amo e li comprendo. Loro mi parlano, no, non è che parli-
no, producono dei ticchettii, dei fruscii simili a quelli emessi da un rasoio che viene affilato sulla
coramella e sibili modulati e con questi rumori esprimono alcuni concetti di base sì che può definir-
si un linguaggio, qualcosa io capisco e con gli stessi rumori rispondo, ma la loro vera parlata, quella
complessa, è senza rumore, un linguaggio che arriva direttamente alla mente, telepatia o qualcosa di
simile.
Sto andando da loro, ho lasciato i miei giocattoli di plastica, tutti a forma d’insetto, anche se di vari
colori, li ho lasciati davanti alle finestre che muti guardano nella mia direzione, quasi avessi voluto
chiamarli a testimoniare il mio ingresso nel loro mondo: tutti sono rivolti verso la porta del ristoran-
te.
Non ho con me alcun oggetto e sono davanti all’entrata sbarrata. C’è una finestra aperta e tra le assi
scivolo all’interno. Tutto è in penombra, alcuni tavoli sono ammassati in un angolo della stanza, per
terra cocci, pezzi di filo metallico, carte ingiallite, bottiglie vuote di birra. C’è una porta senza ante,
l’oltrepasso e mi trovo in una sala ancor più grande della prima, uno sgabello in legno è stato ripuli-
to e si trova nel bel mezzo della stanza che sicuramente era la sala da pranzo principale di questo lo-
cale: sullo sgabello c’è una lattina di CocaCola.
Mi avvicino, apro la lattina e annuso il buon odore della coca, mi siedo. Bevo un sorso, è buona,
fresca e frizzante, loro l’hanno preparata lì per me: mi siedo, attendo con la coca in mano.
Sento un insetto avvicinarsi, lo vedo, è eretto, in un atteggiamento quasi umano, mi rassicura e mi
trasmette il pensiero di “sorpresa per te”. Con un arto m’indica una porta, quella che da nella cucina
del ristorante.
Guardo nella penombra, qualcosa si muove, esce dall’oscurità e avanza. Man mano che s’avvicina
sono sempre più perplesso, quest’insetto è meno alto degli altri, è suppergiù della mia altezza.
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S’avvicina sempre più, intanto il primo insetto che è rimasto accanto a me accende una lampada di
quelle a gas da campeggio posata per terra. Sono sempre più stupito, non sapevo che sapessero fare
così tante cose.
Adesso vedo con più chiarezza, l’insetto accanto a me sembra un normale signore che se ne sta im-
pettito con un impermeabile nero, guardo quello più piccolo e mi accorgo che mi somiglia, resto poi
a bocca aperta: è identico a me, addirittura indossa i miei vestiti, non quelli che ho adesso, ma sono
uguali ai miei, riconosco la camicia in jeans e il maglione azzurro a vu.
Mi alzo in piedi e mi metto davanti a lui, lo fisso negli occhi e i nostri nasi quasi si toccano.
Con sibili e ticchettii mi fa il segno del saluto, poi mentalmente mi manda un’ondata di familiarità,
poi sorride e dalle sue labbra esce uno stentato: “Ciiaoo”.
Mi rendo conto d’avere la bocca spalancata, è una sorpresa troppo grande per me, il suo pensiero re-
sta sempre amichevole e di un tono alto, come dire che la sua amicizia è grande, avverto poi che
vuol farmi capire come lui è, e io penso forte “un amico, va bene, fammi pure vedere”.
In piena luce, sotto i miei occhi il suo volto si apre in due parti, nel mezzo, verticalmente. Le due
parti si allontanano e tutto il corpo è diviso in due: solo che non è il corpo, sono le elitre che con i
rilievi e i disegni imitano alla perfezione il corpo umano e anche i capi d’abbigliamento, sotto le eli-
tre appaiono il carapace e la testa dell’insetto. Vuol dirmi: “Visto come siamo divenuti bravi?” e
poi:“possiamo uscire assieme a passeggio, nessuno ci noterà” , infine mi accorgo che questa è una
domanda, anzi sono due domande e rispondo affermativamente.
Intanto la sua trasformazione è ancora in atto, poggia in terra le zampe e dispiega le ali, mentre le
elitre si accoppiano sul retro del corpo, adesso è orizzontale al terreno, sembra una grande cavallet-
ta, e spicca il volo, gira attorno a me poi nuovamente si posa e mi osserva coi suoi due grandi occhi
sfaccettati.
L’insetto che ha il mio aspetto ripiega le ali, si alza e le elitre nuovamente si riavvicinano e si ri-
chiudono sul davanti, la faccia e il resto del corpo si ricompongono. In piedi ha le nike! C’è proprio
disegnato il logo della nike! La cosa mi fa sorridere. Prendo la sua mano con la mia, all’apparenza è
identica, ma dura al tatto e fredda.
Passo dopo passo usciamo dal vecchio ristorante da una porta sul retro che è aperta e c’incamminia-
mo, sempre per mano verso il parco giochi che si trova in fondo al quartiere.
- Non tornerai a casa, andremo in un’altra colonia hanno preparato una casa per noi due, mi trasmet-
te l’insetto, mio quasi-gemello.
- Va bene, dico io a parole, tanto ormai da casa me ne sono andato e non ho alcuna intenzione di ri-
tornare.
Saliamo su un’altalena e insegno al mio gemello come fare per farla dondolare. Impara subito, im-
para svelto, proseguiamo coi nostri giochi.
- Quando andiamo?
- Verranno qua a prenderci
Dopo una mezzora una limousine si ferma davanti al parco, dal posto di guida esce un autista in abi-
to nero e con una mano guantata ci fa cenno di salire. Lo guardo attentamente mentre salgo: non è
un uomo, anche lui è un insetto e i disegni sulle elitre traggono chiunque in inganno.
Anche lui ispira fiducia, sono tra amici, mi rilasso contento…
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IL POZZO DELLE ANIME
Voglio scendere, ormai ho già fatto i miei acquisti in questo gigantesco negozio, mi trovo al quaran-
tacinquesimo piano e mi sto dirigendo verso gli ascensori.
- Momentaneamente fuori servizio – lampeggia con luce rossa, allora mi reco dalla parte opposta
della gran sala vendite ove vi è un altro gruppo di ascensori.
- Momentaneamente fuori servizio – lampeggiano tutte le luci.
– Scale d’emergenza – dice una scritta bianca sopra una porta seminascosta.
L’apro e scendo veloce una scalinata in cemento illuminata da piccole luci fluorescenti sul soffitto.
Scendo, scendo e mi ritrovo in un ampio magazzino zeppo d’imballaggi aperti e d’oggetti accatasta-
ti. Più avanti ci sono le scale che proseguono ancora nella loro discesa: le imbocco.
Scendo, scendo, ma ormai dovrei essere al piano terra. Ho del cibo tra i miei acquisti, mi siedo sugli
scalini, mangio qualcosa, poi ricomincio a scendere.
Scale, scale, altri magazzini pieni d’oggetti e di residui d’imballaggi, nessun’altra uscita, nessuna fi-
nestra, nessun citofono.
In una sala magazzino m’addormento su degli imballaggi, al mattino mangio e bevo qualcosa dalle
mie provviste e ricomincio a scendere, sempre più giù, sempre più in basso.
Sono preoccupato, le mie provviste stanno per finire, ma le scale continuano a scendere e mi attira-
no nella loro infinita discesa…
Come in un sogno mi ritrovo a spiare nascosto dalle assi di questa assurda stanza in legno, costruita
da un carpentiere osceno. Ho lasciato l’automobile al limitare del bosco e rubo attimi di vita oltre la
stanza, vite che si svolgono all’aperto con giovani nudi che offrono al vento i loro ricordi, mentre il
vento d’inverno sferza incessantemente i rami della foresta.
Questa foresta inquinata da mille fatture che cela il pozzo delle anime. Ho con me l’anello che get-
terò nel pozzo e lo guarderò sprofondare nei suoi liquidi degenerati e non chiederò niente.
Le richieste formulate davanti al pozzo delle anime durante la cerimonia dell’offerta, sempre vengo-
no esaudite, ma ad un caro prezzo di sangue. Chi chiede l’auto con essa si sfracella, dicono gli anti-
chi saggi. Meglio tenere l’insoddisfazione dell’atto e rovesciare nel pozzo delle anime la propria in-
differenza.
Dopo il rito dell’anello tornerò in questa stanza d’assi, mi arrampicherò sulla scala e col binocolo
scruterò l’entrata al pozzo, attivando anche ogni tipo di scansione.
So che qualche entità vorrà curiosare oltre l’orizzonte del pozzo e ciò che vedrà non potrà essere di
suo gradimento…
Voglio scendere e raggiungere la mia auto al parcheggio, ormai ho già fatto i miei acquisti, mi sono
pure ricordato di far riparare l’anello di mia moglie, quello a cui lei tiene tanto e il mio binocolo. Mi
trovo in una grande sala vendite al quarantacinquesimo piano di questo immenso edificio commer-
ciale e sto cercando gli ascensori. – Momentaneamente fuori servizio – lampeggia la scritta accanto
ad una luce rossa, mi reco allora dalla parte opposta della sala ove si trova un altro gruppo d’ascen-
sori, sono quelli panoramici, più lenti, ma mi adatterò.
- Momentaneamente fuori servizio – lampeggiano anche qui le luci.
– Scala d’emergenza – dice una scritta bianca sopra una porta seminascosta. Spio prima attraverso
la porta, poi l’apro e scendo veloce lungo una scala in cemento armato illuminata da piccole luci
fluorescenti appese al soffitto. Scendo, scendo e mi ritrovo in un ampio magazzino zeppo d’imbal-
laggi aperti e d’oggetti accatastati. – Materiale rubato – dice un cartello improbabile appeso ad
una parete. Mi chiedo se ho letto bene e più avanti ci sono altre scale che proseguono nella loro di-
scesa e dalle quali avverto provenire un leggero refolo di vento. Le imbocco nella loro scesa e ormai
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dovrei essere al piano terra, voglio uscire all’aperto in questa mattina d’inverno. Seguito invece a
sprofondare in quest’assurdo edificio, scale, scale, altri magazzini pieni d’oggetti e di residui d’im-
ballaggi disfatti. Nessuna uscita, nessun telefono, nessuna finestra, nessun citofono…
Ho del cibo trai miei acquisti, mi siedo sugli scalini e mangio qualcosa, foro una lattina di CocaCola
con la chiave d’accensione della mia automobile, mi guardo attorno, c’è una sala e un cartello di
cartone è inchiodato ad una parete, col pennarello nero c’è scritto: - Oggetti smarriti -.
Ricomincio a scendere, sono esausto, in una sala magazzino mi distendo su degli imballaggi di car-
tone e d’espanso. Guardo il basso soffitto, poi accanto a me scorgo un foglio a quadretti strappato
da un quaderno e piegato in quattro, lo apro, con lettere incerte, a lapis c’è scritto:
poema,
lo spione sorpreso,
l’anello rubato,
la mattina d’inverno,
l’automobile ferma,
la foresta spazzata dal vento,
la richiesta insoddisfatta,
la femmina col binocolo,
la scala di legno,
il ricordo sfacciato,
il pianoro sprofondato,
il pozzo delle anime.
Che strana poesia, mi dico, appallottolo il foglio e lo scaglio lontano. Bevo l’ultima sorsata di coca
e butto giù qualche biscotto, la stanchezza mi avvolge e scivolo nel sonno.
Sogno di attraversare una foresta, una foresta immensa che non ha fine e che diviene sempre più
buia man mano che avanzo, più buia e spaventosa.
Al risveglio sono terrorizzato, finisco ciò che resta delle mie provviste, non ricordo più il sogno, ma
so con certezza che non è stato divertente, mi sento insoddisfatto, vorrei chiedere a qualcuno dov’è
l’uscita, ma qui non c’è anima viva. Lascio in questa stanza i miei acquisti, mi metto in tasca solo
l’anello di mia moglie e al collo il binocolo riparato e proseguo lungo le scale che continuano a
scendere mentre adesso l’aria è completamente ferma e sembra pure più densa e più calda: un leg-
gero odore di cherosene è pure presente…
Scendo, le mani in tasca, gioco con l’anello mentre il binocolo sbatte contro il mio petto al ritmo
della discesa degli scalini. Dov’ero nel sogno? Sì, in una foresta, c’ero arrivato con l’auto, poi la
strada si è fatta sempre più stretta e impraticabile, così sono sceso e ho proseguito a piedi lungo un
sentiero. Ma man mano che andavo avanti la foresta si è fatta sempre più intricata, fitta, scura e ve-
devo solo rami che s’intrecciavano davanti a me, mi sono girato e anche dietro l’intreccio era sem-
pre più fitto ed enigmatico, mi ha preso allora la paura e mi sono svegliato.
Ma sto ancora scendendo, da quanto? L’odore di cherosene ora è svanito, c’è puzza di zolfo ed è
sempre più caldo e l’aria si fa ancor più densa. Mi fermo nuovamente sugli scalini, la mia mano tro-
va l’anello in tasca, lo afferro e con rabbia lo scaglio via. Colpisce il muro, rimbalza e precipita lun-
go la tromba delle scale. Avverto un leggero sibilo, come qualcosa che acquista sempre più velocità,
poi c’è il rumore d’un oggetto caduto nell’acqua, subito dopo le luci prima tremolano, poi si spen-
gono e il terrore inizia a serrarmi la gola…
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UNA GIORNATA DA SCHIFO
La sveglia! Maledizione, accidenti a lei, perché suona? Tanto oggi al lavoro non ci andrò, ho passa-
to una nottata di merda, mi sono svegliato alle tre, mézzo di sudore, la digestione bloccata, m’è toc-
cato scendere in cucina e prepararmi un tè che ho buttato giù bollente, appena zuccherato con un
paio di pastiglie di cardo mariano. Sono poi tornato a letto, ma non ho fatto in tempo ad addormen-
tarmi che un incubo m’ha risvegliato di soprassalto. Era terribile, meno male che la mia memoria
l’ha cancellato subito. Non riesco a premere il bottone sopra la sveglia e quella seguita a suonare,
con sforzo mi alzo, butto infine giù il bottone: silenzio.
Di dormire ancora, neanche a parlarne, se poi mi riprendono gli incubi… allora mi alzo, m’infilo la
vestaglia e le pantofole, vago per la casa, scendo nuovamente in cucina e mi preparo un caffè. Mi
dirigo in salotto, tolgo alcuni cellulari che sono sopra la mia poltrona preferita e li poso sul tappeto,
mi siedo, col telecomando accendo il televisore, scarrello qua e la in uno zapping senza senso, un
cellulare suona, lo ignoro.
Le immagini cambiano repentine senza lasciare alcuna traccia nella mia memoria, mi alzo nuova-
mente, il cellulare sta ancora suonando, smetterà, sul computer lampeggia la scritta MAIL.
Mi sento opprimere qui in casa, metto la testa sotto il getto d’acqua in cucina, poi orino nell’acquaio
scansando solo in parte i piatti sporchi che attendono d’esser impilati nella lavastoviglie, mi asciugo
i capelli con gli asciugapiatti, risalgo in camera e mi vesto.
Jeans, scarpe Converse All Star, m’infilo la prima T-shirt che trovo, è bianca con una scritta in blu.
Mi soffermo un attimo sulla scritta “Non c’è niente di più inutile d’un martire vivo. (Montes) ”
Che cazzo di scritta, che vorrà poi dire, e Montes chi è? non l’ho mai sentito nominare.
Non ricordo da dove sbuchi fuori questa maglietta, ma al momento non me ne frega nulla e poi di
magliette così ce n’ho un cassetto pieno, non riuscirò mai a finirle. Esco.
Fuori mi aspetta una mattina grigia di quelle che più uggiose proprio non si può, rispecchia il mio
stato d’animo, mi sento sempre più uno schifo, duro fatica a camminare e ho pure un dolore allo
stomaco, tutta colpa della nottata di merda che ho appena passato.
Passeggio a testa china rasente il marciapiede e vedo disegnato sopra di esso il gioco della campana,
o si chiama mondo? Ai lati della strada auto arrugginite e carrelli disastrati d’un supermercato. Al-
cune grosse e vecchie mercedes passano a bassa velocità, ma sferraglianti, o è la solita auto che va
in su e in giù? Chissà… ho altro per la testa oggi.
Sento una presenza dietro di me, mi giro: alcune e-mail volanti mi stanno seguendo lampeggianti.
In ufficio avranno qualche emergenza, c’è SEMPRE qualche emergenza, stramaledetti loro, ma sta-
mani proprio non ci sono, i problemi li risolverà qualcun altro. Tiro fuori dai jeans il portafoglio e
da questo la carta-lettore, pigio su “cancella” e le e-mail si dissolvono spegnendosi: erano due o tre?
C’è ora un grande parco e un timido sole ha forato la bruma, mi addentro nei vialetti circondati da
aiuole che terminano in verdi prati curati come campi da golf. Il parco è attraversato da pali del te-
legrafo e trai fili vi è impigliato un aquilone, o ciò che ne resta. Pali del telegrafo? Ma non erano
stati sostituiti tutti dalle fibre ottiche? Forse tutti no, e più lontano ciò che resta d’un altro aquilone
penzola scheletrico.
Che strano posto: anche qui sul prato c’è un carrello di supermercato rovesciato. Riverso e arruggi-
nito, chissà da quanto tempo è qui, perché non l’avranno tolto? La nettezza urbana un tempo funzio-
nava, oggi è tutto uno schifo.
Un sentiero si snoda tra una macchia d’alberi e i cespugli fioriti del parco, lo imbocco e proseguo
nella mia passeggiata. Sarà più di un’ora che cammino, il sole è sempre velato e la guazza sull’erba
mi ha inzuppato scarpe e pantaloni, non credevo proprio che qui esistesse un parco così grande, là
in fondo scorgo un edificio, mi avvicino, è un bar. Accanto alla porta d’ingresso c’è un manifesto
affisso, raffigura due bambini che giocano sorridenti con una grande palla colorata a spicchi , e poi
c’è sotto una scritta. Ma il manifesto è affisso al contrario, sì che i bambini se ne stanno con le gam-
be all’aria e leggo con difficoltà la scritta, dice: “Il celibato nell’adolescenza e il matrimonio in età
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non più giovanissima sono concetti che solo in epoche recenti la società è arrivata a potersi permet-
tere. (P.J.Plauger)”.
Che cazzo vorrà reclamizzare questo manifesto, non capisco proprio, e poi non si sono accorti che è
appiccicato alla rovescia? Alle affissioni comunali gli importa una sega, basta affiggerlo così, di
corsa, come viene viene, e uno di meno a rompere i coglioni. Ma chi è Plauger? Chi l’ha mai caga-
to, lo metto assieme al Montes della mia maglietta.
Montes-Plauger, chissà che razza d’accoppiata sarà e l’occhio distrattamente si posa sulla T-shirt e
mi accorgo con stupore che la scritta è mutata in: “Quando c’incontreremo ancora noi tre, nel tuono,
nel lampo o nella pioggia”. E c’è pure la firma, nientepopòdimeno che Shakespeare!
Questa poi! Hanno pure inventato le magliette che cambiano la scritta e non me l’hanno neppure
detto. Sapevo dei tatuaggi nanotech che te li inietti sotto pelle e quelli poi si dispongono come e
dove vuoi tu, basta usare il telecomando e cambiano pure forma, me ne feci uno anch’io tempo fa e
sul cazzo ci avevo le stelline che si mutavano in spirali, ma delle magliette mutanti non ne sapevo
proprio niente, con queste diavolerie scientifiche in progress ti perdi sempre qualche puntata.
Alle mie spalle scorgo altre due e-mail volanti che ondeggianti stanno inequivocabilmente arrivan-
do nella mia direzione. Apro la porta uscendo dalla mia profonda meditazione sulle magliette e sui
tatuaggi mutanti ed entro nel bar, richiudo.
È un caffè di quelli tutto-automatico, infilo la tessera di credito nella fessura e mi faccio leggere la
retina. Comincio con un po’ d’alcolici, passo poi alla neococa, mi sparo infine in un’orgia simstim:
nel bar oltre a me non c’è anima viva.
Dopo un po’ d’orgia simstim mi riprendo lentamente e vado in bagno. Per strada vomito liquidi
gialli, metto la testa sotto l’acqua fredda del lavandino, lascio il liquido scorrere anche giù nel collo
e in bocca ha un forte sapore di cloro misto a metallo. L’acqua mi ripulisce e mi risveglia, poi mi
guardo allo specchio: sono uno schifo, è da stanotte che sono uno schifo.
Nello specchio scorgo del movimento dietro le mie spalle, mi giro ma non c’è niente e nessuno: ri-
guardo nello specchio e ancora vedo qualcosa d’indistinto alle mie spalle. C’è qualcuno dietro di
me, cazzo è Albo! Ma Albo è morto l’altra settimana, non è possibile che sia lui. Che c’è ora, vedo
anche i morti? Dicono che quando si vedono i morti è giunta la nostra ora: saggezza popolare… see,
sai dove me la ficco la saggezza popolare?
Albo ha avuto un incidente, è precipitato con l’auto in un burrone, così diceva il giornale. Secondo
me ci si è buttato giù da quel burrone, aveva saputo che mi scopavo Colette, sì sua moglie e mi sa
che l’ha presa male. Che stupido, come se non lo sapessero tutti che mi scopo le mogli e le ragazze
dei miei amici: l’ho sempre fatto e non se l’è mai presa nessuno. Comunque l’auto è precipitata, lui
è stato sbalzato fuori, è rimbalzato sulle rocce ed è caduto proprio sopra (o sotto?) la sua auto che
poi s’è incendiata. Mi hanno detto che gli mancavano tutte e due le gambe.
Ma l’ombra dietro di me che vedo nello specchio è proprio Albo, mi giro di scatto e non c’è nessu-
no. Sto dando i numeri, è colpa della nottata di merda, di questo schifo di mattino, della neococa
stratagliata che ho preso in questo cesso di bar, e ci credo che qui ci sono solo io, chi lo conosce lo
evita! Mi è pure tornato il dolore allo stomaco, brucia anche ed è più forte di prima e sale... adesso
tutto il torace è dolorante e vedo delle fiamme dietro di me e a tratti sono riflesse dallo specchio. Mi
gira la testa, ed è come se rimbalzassi qua e la su delle rocce e cazzo! precipito sulle fiamme…
Il corpo viene ritrovato nel bagno d’un motel automatico dagli addetti alle pulizie, l’uomo ha le
gambe ridotte in cenere. L’autopsia accerta che è morto d’infarto, l’incenerimento dei due arti pre-
senta tutte le caratteristiche dell’autocombustione umana, fenomeno raro ma ben documentato.
Pur essendo gli arti ridotti in cenere, gli abiti sono intatti e anche il taglio tra il tessuto vivente e le
parti incenerite risulta netto, caratteristiche queste comuni a tutti i rari casi comprovati di combu-
stione spontanea umana.
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CRONOLOOP
La cronomacchina cessa di ronzare all'improvviso, capisco d'essere arrivato. Ho una strana sensa-
zione: mi sembra di rivivere questo momento per la milionesima volta, comunque mi scuoto, apro il
portello.
È come le impronte di Aldrin sulla Luna, è come Colombo quando avvistò l'America, invece fuori
ci sono solo due militari che mi aspettano, e anche piuttosto dimessi, neppure in alta uniforme. Ac-
canto a loro c'è una limousine nera con una portiera aperta che mi aspetta. La limousine è sporca,
avrebbe bisogno d'una bella lavata. Peccato lasciare così una macchina tanto bella, sto pensando
mentre supero i due militari ed entro in auto. Nel lussuoso abitacolo un generale con la faccia tesa,
gli occhi infossati, la barba lunga e la divisa in disordine, mi sta aspettando. Un generale che cono-
sco ma del quale non so il nome.
L'auto parte e guardo il panorama dal finestrino blindato mentre il generale stancamente mi mette al
corrente degli ultimi sviluppi della situazione. Tutte cose che già conosco a menadito perché ho sen-
tito infinite volte, intanto l'auto prosegue nel suo viaggio verso una base militare nascosta tra i mon-
ti.
Sono stanco, stanco di ripetere gli stessi gesti, d'ascoltare le stesse parole, ma forse tutti sono stan-
chi di rivivere gli stessi momenti. Stiamo andando verso una villetta all'interno della base. C'è la
mia ragazza che mi aspetta, staremo assieme fino al momento del ritorno. Abbiamo superato il trat-
to di deserto e ora l'auto imbocca il rettilineo che porta alla base, eccola, le sbarre sono già alzate,
ancora poche centinaia di metri e saremo davanti alla villetta. Il generale intanto non ha mai smesso
di parlare malgrado la mia palese disattenzione. La limousine s'arresta, scendo lentamente e mi av-
vio verso la porta d'ingresso, salgo i cinque scalini e sono sul porticato, la porta adesso dovrebbe
aprirsi e lei mi getterà le braccia al collo piangendo.
Ma la porta resta chiusa, ho un attimo d'indecisione, poi spingo ed entro: la casa è in penombra,
vado in camera, lei è sdraiata sul letto, ancora in camicia da notte, mi chino su di lei, la bacio, sta
piangendo. L'abbraccio e restiamo entrambi in silenzio, sento la limousine ripartire. Resto sdraiato
accanto a lei, chiudo gli occhi.
Tutto è sempre uguale a sempre, ma qualcosa, qualche piccola cosa è mutata, lei non mi ha atteso
davanti all'ingresso, era sul letto: le varianti sono allora possibili.
Mi alzo e vado in bagno, orino, mi bagno a lungo la faccia con l'acqua fredda, mi guardo allo spec-
chio: sono invecchiato, dimagrito, la pelle ha assunto un colorito giallastro per niente buono ed è at-
taccata alle ossa della mia faccia; gli occhi sono arrossati come fossi febbricitante e infossati, i ca-
pelli non sono più neri, ma opachi e brizzolati.
Lo scotto da pagare per il primo balzo temporale di solo sette giorni, è stato alto per me, per tutti, si-
curamente troppo alto, ma chi avrebbe potuto prevederne le conseguenze?
Devo cambiare qualcosa nell'immutabilità degli atti, ho visto che è possibile. Comincio dalle picco-
le cose: devo uscire dalla routine, far uscire tutti dalla routine.
È successo che la cronomacchina è esplosa nell'attimo del ritorno, io sono morto. Allora, la mia vita
attuale è solo apparente, quando giungerà il momento del ritorno il modulo esploderà e sarò costret-
to a rivivere all'infinito questa sequenza tra la partenza, l'arrivo nel futuro, i cinque giorni trascorsi
nel futuro, il ritorno, la morte. E di nuovo mi ritrovo all'arrivo, tutto si ripete in un loop infinito.
Devo interromperlo, qualcosa oggi è mutato, lei mi attendeva sul letto, devo divergere dalla realtà
codificata che s'è inceppata chissà da quanto, ma non è stabile, può mutare.
Esco dal bagno, mi accendo una sigaretta delle sue, io non ho mai fumato, cerco di traspirare l'aro-
ma, ma tossisco, esco in veranda, il sole sta per tramontare: finisco la sigaretta senza traspirarla. Mi
cambio ed esco, prendo una jeep e corro fino al mare, resto sugli scogli e guardo le onde frangersi
fino al mattino. Ritorno alla villetta, c'è il generale che mi aspetta, davanti ad un caffè mi spiega che
stanno cambiando tutta la strumentazione del modulo: è nuova e modificata, forse tutto andrà bene,
l'ascolto privo d'interesse. Se tutto fosse andato bene il modulo non sarebbe esploso al momento del
ritorno nel passato e io non sarei morto in quell'istante. Siete stati tutti al mio funerale, comunque
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con l'aria assente l'ascolto senza intervenire. Finalmente se ne va, bevo anch'io un caffè e mangio
qualche biscotto, afferro poi la mia ragazza, che è in cucina e faccio l'amore con lei sul tavolo, con
rabbia, mentre lei passivamente si lascia fare.
Ora ha dei segni viola sul collo e sui seni, mi accendo un'altra sigaretta, comincio a prenderci gusto,
esco cerco un'altra jeep e riparto, questa volta in direzione dei monti. Nessuno cerca di fermarmi,
nessuno dice niente. Corro, corro sempre nella stessa direzione, passo villaggi e campi, metto benzi-
na e riparto dal distributore senza pagare, giungo infine, molte ore dopo ad una grande città, non so
quale sia e non può importarmene di meno. La benzina che ho messo sta per finire, c'è un parcheg-
gio a più piani, lascio la jeep al quarto piano e scendo a piedi. Attraverso due strade e m'infilo in un
pub semibuio e zeppo di gente che sembra immersa nei propri gesti, mi verso direttamente dal ban-
cone una birra dietro l'altra, nessuno sembra far attenzione alla mia presenza, sono già morto, sono
un fantasma penso ridacchiando tristemente tra me: è un'infinità di tempo che non sorridevo, questo
è un buon segno. C'è roba da mangiare anche se cose di plastica da pub. Posto a sufficienza per dor-
mire, gabinetti a volontà, musica in sottofondo, anche se è sempre quel nazi-rock oggi di moda Ci
sono poi accessi a programmi simstim alla parete, bene, mi collego.
Il tempo scorre, ma ne ho perso la cognizione: questa volta non partirò, cambierà qualcosa? Non ho
risposte, ma a breve le saprò. Da giorni sono sbronzo di birra, la barba è lunga ed è tutta grigia e ora
fumo continuamente: nessuno chiede i soldi delle mie consumazioni e il locale sembra non chiudere
mai.
Tutti si comportano come se non esistessi, anche quella che forse è una barista e che mi sono scopa-
to di brutto sul divano; ma è ovvio, sono morto e gli altri ripetono all'infinito gli stessi gesti e se io
esisto ancora, scusatemi, non è certo colpa mia.
Sto dormendo, ma mi sveglio all'improvviso. Sono nella cronomacchina che cessa di ronzare, sono
ancora una volta arrivato al futuro.
Rivivo per la millesima volta il momento, apro lo sportello, fuori due militari m'aspettano accanto
alla cronomacchina. C'è una limousine nera sempre più sporca con la portiera aperta. So cosa fare,
supero i due militari ed entro in auto.
Nell'abitacolo un tempo lussuoso c'è il solito generale ancor più trasandato che mi sta aspettando:
sbadiglio mentre lui cantilena le solite cose, arrivo alla villetta entro la base, lei è in camera, mi get-
to sul letto accanto a lei e la lascio piangere.
Rifletto: devo fermare la sequenza, i militari non ci riescono, tutto si riavvolge su se stesso, non
solo la mia vita, ma l'intera Terra e forse tutto l'universo o l'intero multiverso, addirittura.
Rifletto, bevo birra e fumo: la mia barba è lunga, quasi bianca, sto invecchiando ad una velocità im-
pressionante. Devo mutare l'evento, comincio con una doccia calda, poi mi rado barba e capelli e
m'infilo in una tuta azzurra dell'Adidas, cerco un paio di scarpe da ginnastica e in un armadietto ne
trovo un paio della stessa marca e colore, me le metto. Vado poi nel salotto, c'è un piccolo frigo
estraggo gin e succhi di frutta, prendo un bicchiere e poso tutto su un tavolinetto accanto al divano.
Mi siedo, accendo la TRI-TV bevo e fumo, lei si siede accanto a me e poggia la testa sulla mia spal-
la. Attendo il ritorno del generale con la TRI-TV accesa su un canale musicale che trasmette quasi
ininterrottamente brani di quel nazi-rock che mi sta sulle palle, così alla moda.
Passa un'eternità, infine il generale arriva, si siede accanto a me sul divano: prima ancora che inizi a
parlare gli sfondo il cranio all'improvviso con un posacenere d'onice, estraggo dalla sua fondina la
pistola, tolgo la sicura, mi accerto che sia carica e sparo in mezzo alla fronte alla mia ragazza che
sta strillando a pieni polmoni appoggiata alla parete. Un foro rosso si delinea nel bel mezzo della
sua fronte, poi lei scivola per terra e la parete dietro di lei è tutta schizzata di sangue come un infor-
male di Pollok. Il generale ha tutto il volto coperto dal suo sangue che adesso gli sta inzuppando la
divisa e sgocciola sul divano.
Mi metto la canna della pistola in bocca, rivolta verso l'alto e coi miei due indici premo dolcemente
il grilletto.
Mi ritrovo all'istante nella cronomacchina mentre cessa il ronzio: capisco d'essere ancora una volta
arrivato. Ho vissuto infinite volte questo momento, che avrebbe dovuto esser di vittoria per l'umani-
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tà e di gloria per il sottoscritto; fuori i due militari m'aspettano, accanto alla cronomacchina c'è la
solita limousine con la portiera aperta, al suo interno il generale del cazzo, con la divisa stazzonata
come non mai, mi sta aspettando.
Scendo dal modulo e mi siedo per terra, faccio cenno al generale nell'auto di venire da me. I due mi-
litari restano in piedi indifferenti, il generale è colto di sorpresa e resta nell'auto.
«Esci coglione!»
E aspetto, infine si decide e di malavoglia mi s'avvicina, poi si siede anche lui per terra guardando-
mi interrogativamente. Gli faccio cenno di tacere e lui non apre bocca. Chiedo se c'è una sigaretta,
lui fa segno ad un soldato e gli chiede di procurarla. Un soldato se ne va a piedi mentre l'altro resta
indifferente in attesa, così come il generale davanti ai miei occhi. Il tempo scorre lento, infine il sol-
dato torna e mi porge un pacchetto di Marlboro senza filtro e uno Zippo. Mi accendo una sigaretta e
assaporo con voluttà l'aroma del tabacco. Lentamente me la fumo tutta, poi con l'indice e il pollice
scaglio lontano il mozzicone.
«Dobbiamo parlare» dico al generale «so benissimo cosa sta succedendo, al rientro il modulo è
esploso e io sono morto, voi mi avete già fatto i funerali e adesso volete cambiare tutti i circuiti del
modulo per arginare il malfunzionamento. È già stato fatto infinite volte e non ha funzionato. Voi
invece lasciate stare tutto com'è, anzi io non mi muovo da qui fino al momento della partenza. Non
voglio vedere nessuno, portatemi da mangiare, delle birre e delle sigarette. Niente altro, dormirò sul
modulo e per il resto vivrò all'aperto proprio in questo punto. Lei mi lasci la sua pistola e stia certo
che sparerò a chiunque si presenti, ora sparite tutti, mandatemi ciò che ho chiesto e dopo nessuno
deve avvicinarsi.»
Il generale mi porge l'arma, arrossisce e risale in auto mormorandomi: «Buona fortuna!». L'auto ri-
parte e i due soldati mi fanno uno stanco saluto militare e a piedi se ne vanno. Resto seduto per ter-
ra, accanto al modulo, per la prima volta ho la sensazione di non aver mai vissuto questa situazione,
il tempo passa, poi arriva una camionetta con altri due soldati che scaricano vari pacchi davanti a
me, poi militarmente mi salutano e in silenzio ripartono.
È trascorso un giorno, forse due, chissà... la mia cognizione del tempo peggiora a vista d'occhio,
come il mio aspetto d'altronde. L'area attorno al modulo sembra una discarica: lattine vuote di birra,
escrementi, salviette sporche, resti di cibo, fogli di giornale, piatti, bicchieri e posate di plastica, re-
sti di confezioni... cicche ovunque. I cinque giorni forse sono passati ed è il momento del ritorno,
mi tolgo tutti i vestiti luridi che ho addosso e nudo rientro nel modulo, attendo.
Dopo un'eternità: PARTENZA!
Il ronzio cessa e l'esplosione non avviene, fuori mille telecamere mi stanno attendendo, bandiere
dell'ONU degli USA, della CE, generali in alta uniforme e capi di stato in abito da cerimonia...
Non capisco, s'è interrotto il loop, come è possibile? Non ho fatto nulla stavolta per fermarlo... sono
confuso come mai... forse sto sognando... apro il portello e faccio la mia uscita trionfale: un vecchio
con la pelle gialla attaccata alle ossa, con la barba e i capelli lunghi totalmente bianchi, nudo, che
barcolla e si tiene a mala pena in piedi.
A fatica mi alzo e scendo tra la folla che si è fatta muta, mi prendono conati di vomito e butto fuori
le ultime birre mal digerite mentre orina calda scorre sulle mie gambe e sento che pure l'intestino si
libera.
Mi accascio davanti all'intero mondo allibito, mille telecamere stanno trasmettendo le immagini
dappertutto… Malgrado le apparenze sono finalmente felice, non avrò fatto un'uscita trionfale, ma
ho allontanato l'incubo. Loro ancora non sanno.
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CAMINANTE
Lungo la spiaggia il caminante lentamente avanza, ha dei sandali con le suole ricavate da vecchi co-
pertoni d’auto, un paio di pantaloni corti privi di colore e uno zaino militare sulle spalle. La barba è
lunga e il colore è quello della sabbia, così quello dei capelli appiccicati dal salmastro. Lui non sa su
quale spiaggia stia ora avanzando, ormai tutte le spiagge sembrano uguali e anche quando attraversa
tratti di scogliera, i sentieri che imbocca sembrano a lui tutti simili. Avanza, sa che deve camminare,
lentamente ma senza fermarsi se non per dormire, per cibarsi, per fare i propri bisogni corporali.
Conosce ove prendere il cibo e dove riempire le sue borracce d’acqua. Sa anche che tutti i mari che
lui costeggia appartengono ad ogni continente, a moltissime isole, ma anche ad altri luoghi. Come
mai sta compiendo quest’infinito viaggio? Se lo è chiesto innumerevoli volte senza mai trovare le
risposte. Mentre avanza talvolta ricorda anche se in modo frammentario e confuso, ora ad esempio
sta pensando ad una villetta di periferia e lui che trascina i corpi dei genitori: i suoi? Non lo sa, ma
un fratello lo sta aiutando e c’è un’altra bambina. Trascinano il padre (il loro?) lungo la stanza, con
difficoltà, a causa del rigor mortis, lo piegano e poi lo fanno scivolare lungo una rampa di scale.
Fanno altrettanto con la donna (la loro madre?) anch’essa rigida nella morte. Dopo aver portato i ca-
daveri in giardino danno loro fuoco. Questo ricorda, o pensa di ricordare, o sogna, mentre cammina
e il mare rumoreggia spingendosi fino a bagnare i suoi piedi. Ha di recente incontrato un altro cami-
nante nel suo incedere e tutti loro fanno parte ormai del mito e delle leggende. Possono anche sem-
brare la stessa persona, uomo o donna che sia, e coloro che li incrociano si dileguano in fretta o vo-
lutamente li ignorano, fanno poi i debiti scongiuri o il segno della croce. Lui ricorda spiagge assola-
te gremite di bagnanti, scogliere a picco sul mare, piccole spiaggette composte di minuti sassolini
attraversate da rapidi crostacei che fanno scattare le tenaglie delle loro chele con secchi schiocchi,
ricorda altre coste coperte di neve ove lastre di ghiaccio galleggiano a pochi metri dalla riva urtan-
dosi nella furia dei marosi con sinistri scricchiolii. Ha in mente le tempeste e i paurosi esseri che du-
rante lo scatenarsi degli elementi strisciano dal mare fino a lui emettendo un rumore che è un canto,
e lui sa essere ipnotico: prende allora una pallina di cera dallo zaino, la lavora in fretta con le dita,
poi se l’applica negli orecchi. Mercanti impossibili talvolta gli vengono incontro e gli offrono ori e
gemme, e tutte le volte deve faticare a rifiutare, sa che se trattenesse qualcosa sarebbe perduto per
sempre; ma poi si ferma a riflettere se non sia già perduto per sempre o se i mercanti siano solo allu-
cinazioni. Non ha risposte. Più volte nel sonno gli si accostano demoni, sotto le forme d’avvenenti
fanciulle, ma sempre ha saputo riconoscerli. Oggi avanza faticosamente su una bianca spiaggia sen-
za fine, assolata, deserta. Il mare ha portato ben poco su questo arenile, solo dei piccoli pezzi di le-
gno, qualche osso di seppia, rare valve di mollusco: ha incrociato solo due piccoli rametti di corallo
strappati forse dalla furia dei marosi. Prosegue lentamente ignaro del trascorrere del tempo, oltre la
striscia di sabbia scorge una foresta impenetrabile, nessun animale sembra incuriosito dalla sua pre-
senza, né uccelli, né rettili. Beve un sorso dalla borraccia e ricorda una spiaggia in un mondo che
aveva il mare come cielo, ove si vedevano di giorno galleggiare enormi luminescenti pesci e se
qualcuno dallo spazio avesse voluto raggiungerlo, avrebbe dovuto attraversare quel mare per poi
scendere nell’atmosfera e solo allora avrebbe potuto ammirare il pianeta coi suoi mari interni e le
terre emerse. Sorride ricordando un posto tanto bello, sempre continuando a camminare ripone la
borraccia al fresco nello zaino, e ancora rammenta. Una spiaggia dalla sabbia vetrificata, con un
mare dall’aspetto inquietante e sopra tutto questo un’enorme sfera metallica sospesa nel cielo. Una
sfera che comunica telepaticamente coi senzienti che l’incrociano, una sfera che sostiene d’esser
sincrona al tempo, scorrendo contrariamente ad esso, precipitando pur stando ferma, come un satel-
lite geostazionario che appare immobile. Il caminante rabbrividisce a quel ricordo inquietante e for-
se al di sopra della sua comprensione, lo scaccia dalla mente e continua, un passo dopo l’altro, su
quella spiaggia che sembra non avere fine. Il panorama muta all’improvviso, così di colpo e il cami-
nante strizza gli occhi e si guarda attorno, anche se ormai privo d’ogni curiosità, solo il passo è ri-
masto uguale, lento senza mutazioni nel ritmo. La sabbia fine è scomparsa, i suoi piedi stanno af-
fondando in una terra grumosa zeppa di rifiuti metallici. Il terreno invia rugginosi bagliori rossastri,
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il mare s’è fatto nero e maleodorante, chiazze oleose creano miliardi d’arcobaleni, complici i raggi
del sole ora quanto mai obliqui. Si guarda attorno e scorge una pianura ricoperta di detriti, di radi
cespugli, ciminiere di un antico e dimenticato opificio pendono sbilenche e cataste d’oggetti corrosi
si alternano a macchinari coperti dalla vegetazione e dalla ruggine. Conosce già quel posto, c’è pas-
sato forse più volte e i suoi sensi si fanno attenti, si tiene a distanza di sicurezza da bagnasciuga, sa
che esseri immondi, gelatinosi, sono pronti a ghermirlo coi loro tentacoli. Nella sua immaginazione
o nella realtà? Non ne è sicuro, comunque meglio evitare… Tiene gli occhi fissi sull’immensa di-
scarica mentre si sta avviando su un sentiero formato di rifiuti informatici, schede plastiche e di
mica con saldati infiniti componenti miniaturizzati, quasi mappe di città microscopiche su quei fo-
gli, avanzi di una nanotecnologia informatica abbandonata. Si toglie lo zaino dalle spalle, si ferma e
con estrema cautela estrae un giallo piccolo bastone di cristallo: ha la forma e la consistenza di una
penna da scrivere, ma è un’arma a raggi, potente. Si rimette lo zaino in spalla e prosegue avanzando
cautamente sui rifiuti informatici con l’arma ben stretta in mano. I suoi passi creano una scricchiolio
che pian piano muta di rumore, adesso sembra stia pestando dei biscotti secchi. Ma biscotti non
sono, sono piccole ossa calcinate dal sole che si polverizzano al suo passaggio, si direbbero umane
se non fossero così minuscole. Il caminante prosegue fino al tramonto, una giornata molto lunga
questa, ma il tempo attorno ai caminanti s’è incasinato, e questo tutti lo sanno. Solo allora s’arresta,
orina, si siede, ha le spalle appoggiate ad un muro rimasto in piedi come unico ricordo d’una vec-
chia costruzione. Il vento soffia più forte al tramonto sibilando tra le ciminiere sghembe e i tralicci
abbattuti. Si è messo al riparo dal vento, sta mangiando razioni energetiche che assomigliano a ta-
volette di cioccolata, beve alcuni piccoli sorsi dalla borraccia. Distende il serape, si copre preparan-
dosi alla notte. Mentre gli occhi se ne stanno socchiusi, una parte della sua mente è all’erta, la rima-
nente elabora dati, o forse ricorda, o forse sogna a schema libero, comunque sia un dialogo interno è
in atto:
“…è un bel volume, il film invece non l’ho molto apprezzato, era ovvio. Però è innegabile che truc-
chi e ambiente fossero stupefacenti. È un vero artista quello che ha creato gli ambienti alieni del
film, oltre agli alieni stessi, naturalmente, un po’ come i grandi pittori usati da Diaghilev per i bal-
letti russi crearono le scenografie teatrali. Si tratta di arte e di un brillante tentativo di dare un toc-
co veramente inumano ad ambienti e creature, con solo qualche piccolo difetto qua e là, consisten-
te in particolari troppo umani. Sì questo libro è un eccellente documento di quegli straordinari ri-
sultati. L’idea è che in un futuro non troppo lontano, l’umanità viva parassitariamente nelle abita-
zioni di alieni giganteschi che più che conquistare la Terra, se ne sono semplicemente appropriati,
ignorando gli uomini se non quando essi interferiscono fin troppo vistosamente e fastidiosamente
nelle loro esistenze: in questo caso eliminano il problema uccidendo il soggetto. Il romanzo parte
dal presupposto che semplicemente non esista la possibilità di una comunicazione intelligente e che
quindi gli alieni non possono capire che quelle creature minuscole, e per loro ripugnanti, sono sen-
zienti. Vengono quindi descritte meravigliosamente tribù di esseri umani che vagano tra le cose che
nelle abitazioni degli alieni sono cibi, scatole, contenitori, macchine, imbattendosi in oggetti sem-
pre più incomprensibili. Ci voleva uno scrittore molto audace per portare a termine…”
Un rumore improvviso, il caminante interrompe il flusso dei pensieri ed è subito in piedi con l’arma
in mano, scruta il territorio ove ha avvertito il rumore, come se qualcosa stesse scivolando verso di
lui. Ora tutto è silenzio, il caminante s’avvolge nuovamente nel serape e vigilante s’appresta a ter-
minare la notte. Chiude gli occhi ma l’attenzione resta desta, in questo punto proprio in questo pun-
to, ora ricorda, in un altro suo passaggio incrociò un caminante, era una donna, l’unico caminante
donna da lui incontrato. Con lei passò la notte, protetti dal solito muro, di mattino i loro sentieri si
divisero. Il mare è la loro dispensa, sulle rive trovano ciò che occorre. I materiali organici chiusi
nelle loro scatole si trasformano in cibo, in quelle tavolette simili alla cioccolata, ma insapori, e che
il nostro ogni tanto sgranocchia, l’acqua, anche quella salata, messa nella borraccia diviene potabile.
Gli altri umani li ignorano o li evitano, raramente qualcuno si ferma con loro, solo quegli strani
mercanti, ma saranno uomini? Il nostro caminante non crede. C’è una leggenda che narra che se si
accetta un dono da un caminante, in breve si diverrà uno di loro. Gli animali invece sembrano con-
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vivere in pace coi caminanti, i serpenti talvolta li accompagnano per lunghi tratti, gli uccelli volano
rasente le loro teste e spesso planano sulle loro spalle, i lupi e le tigri si accostano per farsi accarez-
zare. Ma vi sono eccezioni: alcune mostruosità marine tentano di ghermirli e continuamente li insi-
diano, le sfingi sono sempre pronte all’aggressione, ma le più pericolose sono le scille che tentano
d’attirarli verso la loro tagliente corolla emettendo un canto ipnotico. Ma quella dei caminanti è una
razza dura; ecco il sole appare all’orizzonte e il nostro fa toilette davanti al mare, si ciba, beve, rac-
coglie alcuni pesci gettati a riva dalle onde, riempie la borraccia e con la sua solita andatura riparte.
Un paio d’occhiali scuri con le lenti di carbonato sono semiaffondati nella sporca sabbia. Li racco-
glie, li ripulisce per bene, se li mette e riparte sotto il sole. Il paesaggio è nuovamente mutato, l’opi-
ficio è sparito così come le sue strutture fatiscenti, adesso c’è un sottile passaggio formato da picco-
li sassi taglienti tra il mare e una parete rocciosa che si eleva a picco per un centinaio di metri. Il ca-
minante s’arresta, guarda verso l’alto, s’intravede un’antica torre di pietra nera. Più avanti c’è un
sentiero che sale, il caminante per una volta abbandona il litorale, è incuriosito dalla torre, oppure sa
già di cosa si tratta, forse è già stato in questo posto, ma le sue memorie sembrano ora cancellate.
Col suo istinto segue le radianti che hanno la torre come fulcro, avverte che un tempo queste cose
erano a lui note, ma ora brancola nel buio e sale, il sentiero è ripido ma facilmente scalabile, nei
punti peggiori vi sono degli scalini scolpiti, ciò che dal basso sembra impraticabile, nella realtà è
una cosa semplice. Giunge in cima, c’è un verde pianoro, più lontano una foresta. La nera torre in
pietra s’innalza a picco sul mare. C’è un’apertura che lui conosce, entra: scale, saloni e ancora scale,
in un’aula un magico tappeto sembra invitare al ristoro, i suoi sensi l’avvertono del pericolo mortale
e solo allora scorge una montagnola d’ossa umane d’un bianco candido in un angolo della sala; pro-
segue raggiungendo la camera della lamia, qui voleva giungere e lei lo attendeva con ansia, sapeva
della sua venuta. Lui è l’unico umano che sia venuto e giaciuto con lei più volte. Forse il caminante
è umano fino ad un certo punto, ma questo a loro due non interessa: la lamia dona amore, un amore
infinito che prosciuga il corpo e le menti di chi con lei giace. Gli amanti più non ricordano o impaz-
ziscono, ma lui è un caminante e la quasi totale assenza di memoria fa parte della sua natura. È già
giaciuto con lei, ed è tornato altre volte, anche lei lo sa e l’accoglie con amore. Dopo lungo tempo il
caminante esausto si alza dal letto abbandonandolo con la sua bellissima e insaziabile occupante. Si
riveste e si gira per tornare sulla riva del mare, un lungo cammino l’attende. Prima d’uscire dalla ca-
mera della lamia prende gli occhiali da sole e li mette a lei. La lamia accetta il regalo e gli concede
un ultimo bacio, lui esce dalla torre, scende lungo il sentiero, prosegue costeggiando il mare.
La lamia non s’è tolta gli occhiali e avverte la sensazione indefinita di muoversi lungo il mare, è
perplessa per questo desiderio per lei inusuale. Ci penserà in seguito. Si alza e si mette davanti allo
specchio: ammirata si osserva. La sua bocca è vogliosa, i suoi seni sono perfetti, i capezzoli fanta-
stici, le gambe un’autentica meraviglia, il ventre è piatto, il suo sesso ipnotico: si guarda, si ammira,
si desidera, si ama. Poi sorride e osserva il volto che con gli occhiali scuri ancor più risplende. Un
dono, per la prima volta lei ha avuto un dono.
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EYMERICH RIFLETTE
L’Inquisitore è da solo, in silenzio, nella bolla fuori del tempo che è il suo studio. A questa si acce-
de da una porta celata in uno degli ultimi piani della torre. Riflette: ha compiuto varie ricerche sui
siti internet del ventesimo secolo e si è spinto fino ai primi anni del ventunesimo, ha stampato il ma-
teriale trovato su Reich e l’ha raccolto in un capiente faldone. Sempre dalle ricerche di quegli anni
s’è imbattuto in due pagine che l’hanno colpito, un articolo di giornale e l’intervento su un forum.
L’articolo è tolto da un quotidiano dell’epoca, il Tirreno, ha in mano il foglio e per l’ennesima volta
lo rilegge:
“Il fantasma di un incontro – Una magnifica ossessione – L’amore tra un uomo e una donna assume
talora le sembianze d’un fantasma, si nutre d’ossessioni, vive di ombre, di sguardi fuggevoli. Come
nella love story qui proposta da Antonio. Tutto nasce dall’incontro nel ’74 a Urbino, nel castello di
re Federico, di una bellissima bionda. Un colpo al cuore, un’ossessione - L’ho ricercata un po’ do-
vunque, ma da quel giorno non l’ho più rivista – scrive Antonio. Quel volto di donna diviene un
fantasma da inseguire perché – quella ragazza e le ore del pomeriggio trascorse con lei erano rima-
ste indelebilmente fisse nella mia memoria – Finché nel ’77 in villa Bottini a Lucca, Antonio scorge
una figura di donna molto simile a quella incontrata ad Urbino – Sono nel giardino di Villa Bottini e
penso a lei, come tante altre volte in questi anni, ed ecco all’improvviso lei si mostra, fresca, rag-
giante, come quando la conobbi ad Urbino o come lei apparve nei miei sogni d’adolescente. È reale
e vivida come nei ricordi nella mia memoria. Si siede accanto a me e sussurro: “Elisabetta ti amo, ti
ho sempre amato”. La scena si svolge al rallentatore, irreale come in un sogno e lei mi fa:
“Anch’io” Le stringo le mani, la guardo a lungo negli occhi, infine nascosti da una folta siepe i no-
stri corpi s’intrecciano, le nostre labbra si cercano…”Tornerò amore, tornerò nei tuoi sogni, oltre il
tempo, oltre la vita”. Vorrei ribattere, vorrei fermarla ma resto immobile mentre lei se ne va, è come
fossi inchiodato in quel posto quando infine riprendo l’uso del mio corpo e riesco a muovermi, lei è
ormai svanita nel nulla. Corro per il giardino, guardo ovunque: nessuna traccia.
L’Inquisitore lascia cadere il foglio per terra, è quanto mai perplesso. Nel ’99 la storia d’Elisabetta è
addirittura finita sui giornali dell’epoca, o meglio un frammento della sua storia. E un altro fram-
mento è qui su quest’altro foglio con stampato un intervento su un forum, questo è del 2002:
“Di questo racconto ho apprezzato il percorso originale, che delinea vicende e personaggi in manie-
ra sfuggente, quasi con reticenza, per poi far muovere la narrazione facendola ingorgare sulla penna
che la sta scrivendo con una sterzata metaletteraria ben accompagnata dalla scrittura e da alcuni det-
tagli. Anche lo scenario è rarefatto e nebuloso, onirico, a metà strada tra una fantascienza ortodossa
e la fuga trascendente. Molti elementi mi sono apparsi simbolici, ad esempio il tappeto di capelli, o
l'uccisione di Elisabetta, o le vite che ripetono i loro percorsi cercando di sfuggire alla nemesi. La
cosa che invece ho trovato cedevole è la credibilità del tutto, credibilità in senso narrativo, sarebbe
la legatura delle parti e la loro rispondenza a un disegno unitario (vedi l'innesto di Reich e delle sue
opere). È evidente che questo racconto va letto in stretta connessione con il precedente
"Tradimenti", ma forse Antonio sta gettando le fondamenta di un plot più complesso, che testa di
volta in volta regalandoci le novità. Per quanto riguarda la trama, essa ricalca quella eterna del ca-
novaccio amoroso che ha partorito le cose migliori e peggiori della letteratura: Elisabetta ama Anto-
nio, Elisabetta è stata sposata con l'Imperatore, ma non l'ha mai amato, Elisabetta è amata dall'In-
quisitore, che non è ricambiato. Sulla bozza sentimentale del triangolo si innesta lo scenario fanta-
temporale, e debbo dire che è innestato con notevole efficacia, anche se alcuni accenni a eventi par-
ticolarmente complessi come la rigenerazione vitale e l'esistenza dei droidi (sostituti carnali di esse-
ri non presenti) lasciano lo spazio a interrogativi enormi (che però non potevano essere spiegati nel-
lo spazio del racconto). Una storia narrata in modo particolare, stimolante.”
Dopo questa lettura, l’Inquisitore si alza in piedi e fissa l’immagine spoglia del muro, riflette. Da
tempo ha tolto ogni riferimento sacro dalla sua stanza, solo l’inginocchiatoio è rimasto in un angolo.
Pensa a Elisabetta, si concentra e la scorge, adesso soggiorna in quel pianeta con l’unico continente
verde, pieno di laghetti e d’uomini in perenne festa. Divertimenti semplici ma reali: Elisabetta senza
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il suo aiuto da li non può uscire, e questo lo tranquillizza, poi ha chiesto lei d’esser lasciata in quel
luogo per un po’ di tempo.
È bene che se ne stia tranquilla e senza pensieri in mezzo ai gruppi di dervisci roteanti che ballano
pregando al suono dei flauti ney. Lascia Elisabetta ai suoi riposi e cerca l’Imperatore. Lo ritrova sul-
la sua isola nel pianeta ai limiti del tempo e degli universi. Qui ci sono delle novità, l’Inquisitore su-
bito se ne rende conto, un altro umano l’ha raggiunto e il comunicatore è stato riattivato. Non sanno
ancora tararlo, ma coi droidi a disposizione, presto per tentativi sarà efficiente. L’Inquisitore sorri-
de, era ora che l’Imperatore tornasse ai suoi mondi, chissà che shock per loro! E Antonio? Non rie-
sce a rintracciarlo, si mette allora sull’inginocchiatoio e si concentra come quando era uso pregare,
sembra assente dal suo mondo e vi sono tracce su un pianeta che un tempo era un immenso opificio,
ma ora è abbandonato e i rimasti stanno tentando di bonificarlo. Comunque qui di lui vi sono solo
tracce. L’Inquisitore ha sempre evitato i contatti con questo posto, vi sono strane entità, sembrano
divinità ma non lo sono. Saranno forse il frutto della tecnologia più spinta? C’è una comunità che si
definisce tecno-nucleo ove scienza e semidei tecnologici si fondono, ma è una comunità instabile, le
entità sono in perenne lotta tra loro, ma anche gli dei pagani erano così. Comunque le entità dell’o-
pificio sembrano tranquille, ma ugualmente l’Inquisitore evita ciò che non conosce o non riesce a
comprendere. Gli umani dell’opificio hanno anch’essi riattivato un trasmettitore, il loro isolamento
sta per finire. Ma perché questo pianeta era stato isolato? Perché i rimasti erano stati abbandonati?
Nessun documento lo dice. Tracce di Antonio anche su una lunghissima spiaggia sudamericana, ma
la sua presenza fisica manca.
È su Reich che vaga adesso la mente dell’Inquisitore, non tanto sulla vita dello scienziato, quanto su
le realizzazioni attuate dalle sue idee. L’Inquisitore ha scoperto un intero universo che è collassato
per una applicazione errata delle scoperte reichiane, esiste anche una minuziosa registrazione dell’e-
vento, realizzata da alcuni ragazzini inavvicinabili. E c’è di più, i ragazzini non sono del tutto uma-
ni, metà dei loro geni provengono da una razza superevoluta, quella degli umanoidi dalla testa di
cane, che gli antichi credevano dei. E i ragazzini sono in un universo paradosso, in una specie di
collegio, ma non tutti, alcuni sono ospiti di strutture militari sulla vecchia Terra. Già, la vecchia
Terra, quando lui Eymerich era un fedele servo di dio, quando c’era ancora un dio, mentre il sonno
si sta impadronendo del suo corpo, divaga e ricorda nei minimi particolari l’anno 1369 quando nella
fortezza di Montiel in Castiglia, re Pietro il Crudele è assediato dal fratellastro Enrico di Trastama-
ra, anch’esso pretendente al trono. Nella fortezza si verificano episodi spaventosi: apparizioni di
mostruose facce che si disegnano sulla pietra, comparsa di laghi di sangue. Così Pietro il Crudele lo
chiama in soccorso e lui comprende che attorno al castello s’affrontano non solo due sovrani, ma
anche due forme di magia, la cabala ebraica e la negromanzia. L’Inquisitore si destreggia trai due re
in lotta, resiste all’ostilità d’un altro Inquisitore, e affronta una insidia allora a lui sconosciuta: l’a-
more di una donna che è forse un angelo o forse un demone. È qui che il volto di Elisabetta si so-
vrappone ai ricordi e l’Inquisitore dolcemente scivola nel sonno mentre un leggero sorriso segna le
sue labbra.
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BOOTSTRAP
Termine che significa laccio degli stivali, ben conosciuto nella frase “sollevandosi tirandosi su per i
lacci degli stivali”. Processo dunque che si svolge senza aiuti esterni: in informatica è il programma
esistente in ogni PC che contiene le istruzioni per avviare il computer stesso. In fisica indica teorie
nelle quali ogni famiglia di particelle capaci d’interagire, genera le successive. In cosmologia defi-
nisce teorie secondo le quali l’universo nasce da una particella iniziale virtuale che rompe la simme-
tria.
Basta coi pensieri difficili, adesso è il momento della partenza, lo avverto, consulto in fretta le me-
morie, ogni frase è collegata ad un programma, le frasi sono in sequenza, ho inconsciamente memo-
rizzato la progressione delle frasi, almeno credo…
Ed ecco, la frase erompe alla memoria, sono sicuro che sia quella giusta: “E’ brutto il bello, è bello
il brutto, libriamoci per la nebbia e l’aer corrotto!”
È Shakespeare, sto pensando e, intanto il bootstrap automatica-
mente s’innesta e ancora una volta mi tiro su per i lacci.
Sono una splendida ragazza e nuda mi sto specchiando su una
lastra di rame che riflette per intero il mio corpo. Mentre ho la
piena consapevolezza della mia formazione anatomica la lastra
svanisce e davanti a me c’è un prato, la temperatura è mite.
Una stretta strada sterrata attraversa il prato, vi è una stazione
di servizio e oltre, il bosco. Una stazione di servizio, un distri-
butore di benzina su questa strada sterrata? Mi sembra che ci sia uno sbaglio nel set, sono perplessa,
ma è proprio così. Mi avvicino con cautela e sento la piacevole sensazione del camminare a piedi
nudi sull’erba. Le pompe sono di quelle gigantesche, a colonna, stile anni ’50, ma potrebbero essere
anche più antiche: sono tre, tutte e tre colorate di rosso, accanto alle pompe c’è il casottino della sta-
zione di servizio, poi un’asta metallica con una bandiera, anch’essa metallica. C’è lo stemma di una
ditta di benzina con disegnato un cavallo alato, è uno stemma che conosco ma non mi viene in men-
te il nome della marca. All’interno del casottino scorgo un uomo in gilet e maniche di camicia.
Sono nuda, come posso chiedergli dei vestiti? Faccio finta d’esser pudica e mi copro con le mani,
mi avvicino alla finestra, con aria angelica gli mando un sorriso finto imbarazzato.
- Per favore… mormoro in intergalattico, ma quello non capisce un tubo e ha pure gli occhi spalan-
cati per la sorpresa, poi farfuglia qualcosa in una lingua incomprensibile. Attivo lo scanner e in au-
tomatico mi seleziona la lingua: è inglese del ventesimo secolo, dialetto americano. Ora comprendo
e posso rispondere.
- Per favore…
- Benedetta bambina, cosa t’è successo, come mai sei così…
-…
-…
- Nuda?
- Sì, non puoi mica girare in queste condizioni.
- Dormivo sa? E mi sono ritrovata così, qui intorno…
- Presto vieni dentro prima che qualcuno ti veda, ho delle tute.
- Grazie.
Dico con un filo di voce ed entro dietro a lui nel casottino della stazione ed ecco che apre uno scato-
lone di cartone e da questo estrae una T-shirt, poi dei pantaloni di tuta e anche delle felpe, cerca gli
abiti della mia misura: hanno tutti disegnato un piccolo pegaso.
Sceglie capi tutti di color rosa e sulla sedia accanto alla scrivania posa una T-shirt, un paio di panta-
loni, una felpa e anche un paio di calzini, cercando di non farsi notare lancia occhiate al mio corpo,
capisco subito che gli piaccio e, non poco. Apre un’altra scatola e qui dentro vi sono solo scarpe da
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tennis, cerca la mia misura e ne tira fuori un paio, rosa anche queste e col piccolo pegaso. Mi osser-
va in silenzio, poi:
- Ora puoi vestirti.
- Grazie ancora.
- Aspetta, prima di vestirti…
Chiude la porta e tira le tende, poi mi s’avvicina prendendomi delicatamente per la vita. Sono incer-
ta, ma lascio fare mentre rifletto. Potrei incenerirlo immediatamente, oppure fermargli il battito del
cuore. Ma è un bel ragazzo, m’ispira simpatia e ha gli occhi dolci, certo è mezzo pelato, però ha
proprio l’aria di essere un bravo tipo. Decido di lasciarlo fare anche perché mi ha messo voglia: mi
accarezza ovunque, mi bacia, mi sdraia sul divano, comincia a spogliarsi. Ma sì, lasciamolo fare
questo simpatico tipetto, gli concedo una ventina di minuti per farmi come meglio crede. Scade il
tempo a lui concesso e scendo dal divano, c’è un bagno piccolo piccolo con la doccia: m’infilo sotto
il gelido getto. Esco asciugandomi con un telo che lui mi porge. Si è già rivestito e ora esce, è arri-
vato un cliente con un’auto da museo. Mi vesto con gli abiti rosa, tutti rosa che sembro un confetto,
però sono della mia misura, ha occhio il tipetto. Esco, mi siedo su una sdraia al sole, devo asciugar-
mi i capelli, i riccioli biondi sono tutti bagnati. Il cliente paga, lui viene verso di me.
- Tutto bene zuccherino?
- Alla perfezione.
- Cosa fai adesso?
- Prendo il sole e mi asciugo i capelli.
- Vuoi un caffè?
- Neococa ce l’hai?
- Coca-Cola?
- No, neococa.
- Caffè o coca-cola, non c’è altro.
- Caffè allora.
Se ne torna nel casottino, esce dopo qualche minuto con due tazze di caffè fumante.
- Ho messo due cucchiaini di zucchero, va bene?
- Perfetto.
- Mi devi spiegare cosa ci facevi qui intorno.
- Troppo lungo, troppo complicato, un’altra volta.
- Ci sarà un’altra volta, zuccherino?
- Perché no?
-…
- Beh! Sì.
Chiudo gli occhi e i piacevoli raggi del sole bersagliano il mio corpo, lui si è seduto davanti a me, a
cavalcioni su di una sedia e non mi stacca gli occhi di dosso, non mi da fastidio, anzi ne provo pia-
cere, gli piaccio, gli piaccio moltissimo: sono contenta d’aver deciso di lasciarlo fare. Penso che tor-
nerò qui qualche altra volta per stare piacevolmente con lui. Sono addormentata e mentre sto so-
gnando arriva il richiamo del rientro, così presto… no… stavo bene qui… “Orrore! Orrore! Orrore!
Né la lingua né il cuore sanno concepirti od esprimerti!” Palleee! Ancora Shakespeare, ma questi
programmatori sono proprio fissati con le tragedie antiche. Purtroppo al richiamo prestabilito e prei-
stallato, automaticamente il bootstrap s’attiva e mi ritrovo al punto di partenza. Ancora una volta il
programma ha ritirato su il mio corpo facendo leva sui lacci dei miei stivali. E sì, il punto di parten-
za, il carcere di massima sicurezza delle Nazioni Unite, e io sono una detenuta volontaria per que-
st’esperimento. Perché ho accettato? Ho cinque ergastoli e settanta anni d’età, mi sembrano due mo-
tivi validi, no? Se tutto funziona a dovere sarò rilasciata, ho anche potuto scegliere il corpo per i
miei viaggi e sono la bellissima bionda ventenne che avrei voluto essere ma che non sono mai stata.
Ho sempre fatto fisicamente schifo, anche da giovane, o almeno non mi sono mai piaciuta. Per
adesso i test durano solo poche ore, ma quando tutto sarà ok dureranno settimane, mesi addirittura,
così hanno detto i cervelloni che gestiscono gli esperimenti. Sapete una cosa? Quando sarà tutto af-
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finato non chiederò la libertà come mi hanno già promesso, ma chiederò di poter vivere tutta una
vita, sino alla morte in uno di questi spazi alternativi. E fare la benzinaia a vita negli anni ’50 o ’40
che siano in quel posto degli USA abbandonato da dio, ma con quel simpatico giovane un po’ pela-
to ma così eccitante, sapete com’è? m’intriga! A quel punto i tecnici non m’inseriranno la frase ma-
gica shakespeariana che avrebbe attivato il mio laccio per stivali e, niente frase, niente ritorno.
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MYRIAM
“Questo era il nome con cui l’Inquisitore conobbe per la prima volta Elisabetta. E lei forse era un
demone o forse era un angelo: sicuramente era posseduta. E lui l’amò assieme a Leonor e fu amore,
fu sesso, ma non era in sé e solo ora può ammettere ciò che realmente accadde. Adesso che lei è sul
pianeta felice, adesso che l’Imperatore con Gian sta per tornare ai suoi mondi, adesso che il tessitore
ha in mano i fili dell’arazzo e li crede sogni, ispirazione letteraria. Ma ha dei dubbi, forti dubbi, le
sue fantasie, i suoi racconti troppo spesso sono con violenza entrati nella realtà, nel mondo reale.”
Ma chi ha realmente scritto queste ermetiche righe che sto leggendo? Materialmente io le ho scritte,
ma quale messaggio autentico è scattato dal mio inconscio per indurmi a scrivere queste cose?
Scrittura automatica si chiama, ho imparato le tecniche alle lezioni dell’università e così ho fatto il
vuoto nella mia mente usando un metodo zen, mentre ero davanti ad un foglio bianco con una penna
in mano. Come faccio a fare il vuoto nella mente? È facilissimo, pensate d’essere in una grande
stanza buia, completamente buia, nera addirittura, appena giunge un qualsiasi pensiero dategli la
forma di una bianca pallina da ping pong e sbattetela fuori della stanza. Pian piano ogni pensiero
sarà così cacciato e voi vi troverete nel buio più totale, pensieri nisba, assenza totale. Quando vi ri-
prenderete guardate il foglio e leggete cosa automaticamente avete scritto. A me succedeva che le
prime volte c’erano solo girigogoli e scarabocchi che non significavano assolutamente nulla, poi
iniziarono a comparire frasi leggibili, ed erano frasi note: mi ricordo le prime due. “Vi sarà sangue
dicono: sangue vuole sangue” questa fu la prima ed apparteneva a Shakespeare, la riconobbi subito,
la seconda dovetti ammattire un po’ per scoprire di chi fosse “Possiede tutte le virtù che detesto e
nessuno dei vizi che adoro”. All’inizio pensai che fosse mia, originale, ma poi scoprì che era di
Winston Churchill. Poi iniziai a scrivere frasi del tutto originali come quest’ultima su Myriam e tut-
ta quell’altra gente che non so proprio chi sia. Ma ora basta con queste esperienze più o meno para-
psicologiche, ho materiale a sufficienza per trarne una tesina e ora la batterò al PC, ma prima voglio
uscire a respirare una boccata d’aria fresca e prima ancora che riesca a rendermene conto sono già
fuori a passeggio per le strade del mio quartiere. Prendo un caffè al solito bar d’angolo, proseguo
lungo la via principale e do occhiate distratte alle vetrine. Giungo in piazza grande e mi sembra più
vuota del solito. Lì per lì non capisco, sarà un’idea, ma poi mi accorgo che non c’è più la statua
equestre nel mezzo alla piazza, ma al suo posto c’è un'aiuola trascurata con pochi fiori e molte er-
bacce. Attorno il solito parcheggio con tutte le auto in sosta. Ma fino ad ieri la statua c’era, molto
alta, molto grande, in bronzo con cavallo e cavaliere che con una mano impugnava una bandiera, di
bronzo pure quella. Possibile che in nottata abbiano smontato tutto? Mi avvicino al centro della
piazza e mi guardo attorno, proprio della statua non c’è traccia. Chiamo il parcheggiatore che cono-
sco di vista e gli chiedo:
- Che fine ha fatto la statua?
- La statua?
- Sì quella equestre che era qui nel mezzo.
- Nel mezzo c’è un'aiuola, anzi se la levassero di torno ci starebbero più macchine.
- Ma c’era una grandissima statua in bronzo con tanto di piedistallo di marmo.
- Mai vista.
- Sei sicuro?
- Che dici! Sto qui otto ore il giorno da anni.
Mi accorgo che si sono avvicinati alcuni pensionati, di quelli che stazionano sempre sulle panchine
di pietra ai lati della piazza, e mi stanno guardando scotendo la testa. Sono perplesso e incredulo,
vado al bar di fronte, ci sono fuori le colonnine con le cartoline illustrate per i turisti. Le guardo,
quelle della piazza non mostrano la statua, ma l'aiuola Il gruppetto dei pensionati mi sta ancora os-
servando, sono ancora in mezzo alla piazza e parlano tra loro. Entro nel bar e mi rivolgo al cassiere.
- Non avete mica delle cartoline della piazza con la statua?
- Quale piazza?
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- Questa, Piazza Grande.
- Con la statua?
- C’era una statua equestre, no?
- Non me la ricordo, c’è sempre stato quello schifo d'aiuola .Non so perché non la levano, così c’en-
trerebbe qualche auto in più.
- Questo lo dice anche il parcheggiatore abusivo. Ma una volta non c’era una statua?
- Mai sentito dire, e neppure nelle vecchie foto c’è.
I pensionati intanto, e anche il posteggiatore stanno entrando nel bar e continuano ad osservarmi.
Imbarazzato e sempre più confuso esco e riprendo la mia passeggiata lungo il corso principale guar-
dando distrattamente le vetrine. Mi saluta un vecchio amico e di colpo mi ricordo che quando s’era
ragazzi e una volta colorammo la statua con vernice rossa, non mi viene in mente il perché, ma c’e-
ra un motivo di protesta politica: e lui era nel gruppo degli imbrattatori, con me.
- Ciao.
- Chi si rivede!
- Volevo chiederti una cosa.
- Dimmi.
- Ti ricordi di quando colorammo in rosso la statua equestre di Piazza Grande?
- Di Piazza Grande? No, era quella in piazza della stazione, quella di Garibaldi.
- No! quella equestre che era qui!
- Ma in Piazza Grande non ci sono statue, c’è quello schifo d'aiuola.
- Ah già.
Proseguo rassegnato la mia passeggiata, anche perché con la coda dell’occhio mi è sembrato veder
arrivare i pensionati, che sono aumentati di numero e il posteggiatore, e anche sono sicuro che nes-
suno si ricorda più della statua equestre, eppure fino ad ieri era al suo solito posto. Torno in casa e
quando imbuco il portone dietro di me c’è l’amico col quale parlavo, il posteggiatore, il cassiere del
bar con due camerieri e un po’ più lontano i pensionati, e tutti mi stanno guardando. Faccio un cen-
no di saluto con il braccio ed entro. In casa mi siedo davanti al foglio con la biro in mano e mi dico,
facciamo un’ultima esperienza e poi si batte la tesina per l’università sulle esperienze di scrittura
automatica. Chiudo gli occhi e mi concentro sulla stanza buia cacciando ogni pensiero che si affac-
cia alla mente: trasformo in bianche palline da ping pong legioni di Piazze Grandi, statue equestri,
amici, parcheggiatori, cassieri, baristi e pensionati, e le scaglio fuori dal mio set. Quando riapro gli
occhi non so quanto tempo sia passato, ma fuori comincia a farsi scuro. Guardo il foglio e leggo lo
scritto redatto in una calligrafia tondeggiante di tipo femminile che non è certo la mia, leggo.
“Dalla negazione del soggetto creatore alla traslazione dell’io poetante (terziarietà dell’io); attribu-
zione della voce ad un io inconsapevole ma fortemente identitario. Estendere l’abito delle connota-
zioni – il raggio del cerchio del senso - oltre il testo poetico propriamente detto”.
Sono perplesso e mi chiedo se tutto ciò abbia un senso, anzi se abbia un senso tutto ciò che mi è ca-
pitato in queste ultime ore, scuoto la testa e telefono ad una mia amica. Stasera cenerò in pizzeria
con lei.
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ULURU
Fino a pochi istanti prima ero nel deserto con le mie due compagne. C’era un grande dosso rossa-
stro, un terreno arido ricoperto di pietre con radi ciuffi d’erba stentata. Tra le pietre s’aggiravano
forme di vita primitiva, insetti, rettili e noi stavamo camminando in fila indiana. Adesso per quale
motivo mi trovo su questa autovia, perché sto manualmente guidando, dove sto andando? Domande
senza risposte, almeno per ora, la mia testa, infatti, è decisamente vuota: un’amnesia? Il sole sta bat-
tendo a perpendicolo sull’asfalto e mi ricorda il deserto ove mi sembra d’essermi trovato solo pochi
minuti fa. Davanti a me vi sono altri moduli fermi col motore spento, senza conducenti né passegge-
ri. Spengo anch’io il motore e mi avvio a piedi verso un cantiere sito ad un centinaio di metri prima
dell’ingresso di un tunnel. Giungo sul posto e subito mi accorgo che non c’è alcun operaio al lavo-
ro, l’unico movimento è dato da sporadiche apparizioni di volti semicelati dietro vetri spessi e oscu-
rati di grosse e vecchie mercedes che procedono nell’altro
senso di marcia. Vengo attratto dal rumore di un’auto, an-
cora una mercedes, ma più grossa delle altre e con tutta
una serie di tubi di scappamento cromati che escono dal
cofano. La mercedes occupa il senso opposto di marcia
scansando i moduli in sosta con manovre bizzarre, poi si
ferma all’ingresso della galleria. Da quell’auto da museo
scende una ragazza dai capelli rossi e con gli occhiali scu-
ri, la vedo bene solo di spalle, ma mi sembra d’averla già
conosciuta, la rincorro mentre procede con passo spedito parallela alla parete del tunnel. Dietro di
lei scorgo un’altra ragazza che non so da dove sia uscita, questa è bionda e indossa dei pantaloncini
in jeans. Nel buio vedo la sagoma della rossa stagliarsi contro la luce bianca proveniente dall’uscita
dal tunnel, l’altra sono certo, è dietro di me. Raggiungo la rossa, sono dietro di lei e sto per toccarla
mentre la imploro di fermarsi e la rassicuro che non ho cattive intenzioni, proprio in quell’attimo lei
precipita in una voragine che s’apre improvvisamente nel terreno e che solo per un soffio non tra-
volge anche me. Mi metto le mani nei capelli e urlando torno indietro di corsa, la ragazza bionda è
sparita nuovamente, ora sono fuori del tunnel e vi sono operai al lavoro, ma da dove sono usciti? E
fermi accanto a loro si trovano le famiglie che tornano dalle vacanze, ecco sono saltati fuori anche
gli occupanti dei moduli. Grido loro che una ragazza è stata inghiottita da una voragine, chiedo soc-
corso, ma nessuno mi presta ascolto perché sto parlando una lingua diversa dalla loro, e anzi mi
cacciano via prendendomi per pazzo, alzano i vetri delle loro auto e sigillano le portiere. Torno
sconsolato al mio modulo, metto in moto e manualmente m’avvio in fila con altre vetture dirette
verso l’imboccatura del tunnel, sopra l’apertura c’è una scritta che non avevo visto “Il micio coi
suoi luminosi occhi citrini” non capisco cosa voglia dire, scuoto la testa e proseguo quando all’im-
provviso vedo arrivare nel senso opposto la grossa mercedes rumorosa coi tubi di scappamento cro-
mati, e attraverso i finestrini semioscurati scorgo la bionda che guida e dietro la ragazza rossa con
gli occhiali scuri col viso pallido e pieno di spavento, sta anche piangendo. Adesso sono certo che
queste due ragazze le conosco bene, ma intimorito pure io dall’incongrua visione, inverto d’istinto il
senso di marcia e seguo la mercedes che come impazzita schizza veloce in avanti e supera auto e
moduli a velocità pazzesca procedendo a zig zag. Sono felice che lei sia viva anche se non capisco
in quale situazione si sia cacciata, il mezzo sul quale lei viaggia ben presto fa perdere le sue tracce e
sparisce nel traffico nonostante tenti in tutti i modi di raggiungerlo. Nubi minacciose all’improvviso
s’addensano e inizia a piovere, ormai ho perso ogni speranza di ritrovarla ed esco al primo svincolo
con l’intenzione di tornare indietro, ma i cartelli stradali sono pochi e quei pochi scritti con arabe-
schi svolazzanti disegnati in oro su sfondo azzurro. Ma che razza di scrittura adoperano in questo
posto? Eppure la scritta all’imboccatura del tunnel, anche se era incomprensibile come senso, era in
italiano e in caratteri romani. Penso d’essermi perso, ma è ovvio al momento non ricordo neppure
chi sono, imbocco allora a caso una strada alberata nel tentativo di ritrovare se non la via giusta, al-
meno la memoria, ma tutto questo mio girare non fa che aumentare la confusione: ero in un deserto
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con due mie amiche, di questo sono certo, poi mi sono ritrovato istantaneamente alla guida del mo-
dulo… Adesso ho imboccato un nuovo rettilineo dopo una serie quasi infinita di curve, e seguita a
piovere a dirotto, il parabrezza è letteralmente sommerso dagli scrosci d’acqua e il mio viso è sporto
in avanti, quasi a sfiorarlo nel tentativo di vedere meglio la strada. L’acquazzone aumenta ulterior-
mente d’intensità, finché dopo una serie interminabile di tuoni e lampi giunge improvviso il sereno
annunziato da una striscia luminosa all’orizzonte. Davanti a me altri cartelli, sempre incomprensibi-
li nei loro arabeschi dorati, ma li trovo incoraggianti perché sono certo mi stanno indicando la meta
del viaggio. Non faccio in tempo a gioire che noto qualcosa di veramente insolito: il modulo sta
procedendo in maniera costante anche se provo ad accelerare o a pigiare i freni, eppure la guida è
sul manuale, non ho inserito guide automatiche. Premo allora il freno d’emergenza ma non succede
niente. Comincio a spaventarmi, spengo allora il motore disinserendo la card d’accensione e tento
d’aprire la portiera: il motore seguita a girare normalmente e la portiera è bloccata. Sono in balia del
modulo che procede a velocità costante e sostenuta, ferma al lato della strada c’è ora la ragazza coi
capelli rossi e gli occhiali scuri, mi saluta agitando le braccia, sembra però che voglia avvertirmi di
qualcosa, ma non comprendo cosa voglia dirmi e la vedo velocemente scomparire dietro di me, per
un attimo m’è sembrata completamente nuda con indosso solo un perizoma e con disegnati sulla
pelle motivi tribali. Il sole intanto è al tramonto e il modulo prosegue fino a notte inoltrata lungo la
strada, poi si arresta in una piazzola di sosta. Ho delle bevande energetiche nel cassetto, ne prendo
una, bevo, esco dal modulo e la porta ora si apre. Orino e rientro, cerco di provare se il comunicato-
re sia in rete, ma nel modulo tutta la strumentazione ora è morta, tiro manualmente giù il sedile e mi
addormento .Sogno il luogo destinato agli incontri di tutte le tribù, un tempo chiamato Uluru e ora
Ayers Rock: è un dosso rossastro che si erge al centro del paese. Mi chiamo Jacopo e con Lucia e
Valeria siamo impegnati nel walkabout, detto anche giringiro, un viaggio con destinazione scono-
sciuta compiuto nel non-tempo aborigeno. Non è che noi tre si sia degli aborigeni veri e propri, solo
Lucia ha un po’ del loro sangue, ma siamo tutti e tre nati e vissuti in questo grande paese, a contatto
anche con gli aborigeni. È la terra che ci trasmette le conoscenze e così ci siamo imbarcati nel girin-
giro e ogni giorno sappiamo alla perfezione cosa fare, dove andare e il cibo non è un problema, an-
che se è rappresentato da bacche, radici e animali, che in situazioni normali, mai e poi mai ci sarem-
mo sognati di mangiare. Da quanto tempo siamo in viaggio? Non lo so il tempo non ha più una di-
mensione ben definita. Ci siamo liberati di tutto ciò che ci ricordava la civiltà: orologi, portafogli,
abiti, occhiali da sole, tessere di credito… li abbiamo gettati nel fuoco rituale la prima notte di viag-
gio. Giriamo attorno ad Uluru e ci dirigiamo a nord, nel bel mezzo del deserto c’imbattiamo in una
nave da crociera semiaffondata nel terreno e vistosamente piegata su un fianco. Stupefatti fissiamo
il relitto: da quanto tempo si trova qui? Da qualche decennio, decidiamo dopo aver attentamente
esaminato la nave. Ma come può essere qui? La rossa Lucia è la prima a salire a bordo, io e la bion-
da Valeria la raggiungiamo subito. Siamo saliti dal lato più inclinato utilizzando gomene di dubbia
sicurezza che pendevano dalla fiancata. Siamo sul ponte, Lucia raccoglie da terra un paio di forbici
arrugginite, le guarda e le fa guardare a noi come se dovessero ricordarci qualcosa. Mi concentro
ma vedo solo un’autovia e le due ragazze ai bordi della strada, Lucia ha i capelli rossi svolazzanti al
sole e porta occhiali neri, Valeria indossa un paio di pantaloncini di jeans.
- Dobbiamo festeggiare.
- Che cosa stai dicendo?
- La nave, le forbici, Uluru.
- Oggi è l’anniversario.
- L’anniversario di che cosa? E poi perché festeggiare?
- Se è un compleanno, mi rifiuto. Non vedo perché si debba far festa per un anno in più, uno in
meno da vivere.
- No, sono queste forbici, l’ha usate “nostra signora dei dolori” lo sento, sento le grida delle sue vit-
time. Noi le abbiamo trovate, le forbici non faranno più del male: festeggiamo.
- Sarà forse meglio scendere da questa nave, se nostra signora è nei paraggi io vorrei essere altrove.
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Così senza aggiungere altro scendiamo dall’incongrua nave piazzata da chissà quali forze demen-
ziali nel bel mezzo del deserto, e in fila indiana ci avviamo di nuovo in direzione nord con Lucia
che ha ancora le forbici arrugginite in mano e apre il cammino davanti a me, più indietro c’è Vale-
ria. Poco distante un albero di modeste dimensioni si eleva tra le pietre e i radi ciuffi d’erba, Lucia
s’avvicina all’albero e con un secco colpo pianta le forbici nel tronco, poi prosegue assieme a noi.
Quando cala la notte accendiamo un minuscolo fuoco e ci cibiamo con alcuni piccoli rettili catturati.
Il cibo è composto anche da bianche radici: mangiamo in silenzio davanti al fuoco, quando dense
nubi nere, veloci tolgono la visuale d’ogni stella. Scocca una folgore che centra in pieno le forbici
piantate nel tronco, le forbici si dissolvono nel fuoco del fulmine e l’albero è incenerito: ho avuto
adesso questa visione, nell’attimo in cui è scoppiata la folgore, penso che le mie due compagne ab-
biano avuto la stessa visione. Le nubi intanto con la stessa velocità con la quale sono giunte, si dira-
dano e spariscono senza far cadere una sola goccia di pioggia. Al mattino ripartiamo per il nostro
giringiro, il walkabout, mentre il non-tempo aborigeno continua ad avvolgerci. Cerco di ricordare la
trama del sogno che la notte mi ha fornito, ancora auto, moduli di trasporto, nastri d’asfalto…Pas-
seggiamo coperti solo dai nostri perizomi, con gli zaini sulle spalle, sono in fondo alla fila, davanti a
me Lucia, poco più avanti la bionda Valeria. Il non-tempo ci avvolge con le sue allucinazioni e i
suoi insegnamenti.
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PERCORRI IL SERPENTE
Per chi non lo sapesse la valle del Wesak si trova nell’Himalaya in una zona impervia fra la catena
del Karakorum e quella del Kun Lun, alle pendici del monte Kailash. In questa valle si celebra an-
nualmente il rituale della festa del Wesak e molte migliaia di persone si mettono in cammino per
parteciparvi. È una valle chiusa a nord-est da una grande roccia bianca venata da un minerale lucci-
cante. Un grande masso squadrato dell’identico minerale largo quattro metri per due, utilizzato
come altare, ne delimita l’imboccatura. Questa è la valle del Wesak, un luogo nel quale non si giun-
ge mai per caso, nel mese di wesak, nella notte del plenilunio migliaia di pellegrini s’incamminano:
sono guide spirituali, discepoli e maestri d’ogni ordine e grado appartenenti alle più svariate corren-
ti religiose, filosofiche ed esoteriche. Sono lama, bonzi, guru, sadhi, uomini santi. Raggiunto il luo-
go si collocano nella posizione che è consona al loro grado. Ciascuno conosce esattamente qual è il
suo posto, senza prevaricazioni e discussioni. Pur appartenendo a gruppi etnici radicalmente diversi,
a religioni differenti, tutti i partecipanti sono ben consci dell’importanza della funzione unificata
dalla conoscenza, poiché la radice della conoscenza è unica. Non esistono né barriere né pregiudizi:
quando il momento del plenilunio s’avvicina, sull’altare di pietra viene posata una grande coppa di
cristallo piena d’acqua. I convenuti cantano e meditano nell’attesa del grande evento che sta per ve-
rificarsi.
Monia tutto questo non lo sapeva, la sua occupazione era d’accogliere i clienti nel suo piccolo
appartamento e di soddisfarli il più velocemente possibile per cinquanta euro, prezzo fisso e non
trattabile. Stava dunque intrattenendo un cliente ed era sopra di lui col membro entro di lei, quando
sentì impellente l’impulso del viaggio e solo allora s’accorse che il cliente era un maestro di sogni.
Lo fece godere con un paio di su e giù decisi e cercando di non mettergli fretta, ma decisa, riuscì ve-
locemente a toglierlo dall’appartamento. Lei era ora sola, nuda e si guardò attorno: vide la sua ca-
mera come se fosse qui giunta per la prima volta. Cuscini ovunque, tappeti, tutto nella semioscurità,
in un angolo una piccola catasta di cellulari, alcuni in rete, mobili da grande magazzino, cianfrusa-
glie d’ogni tipo, abiti griffati ma acquistati al mercatino sotto casa. Dopo una veloce doccia si rive-
stì in fretta, chiese un modulo di trasporto e dopo poco era già all’aeroporto. S’infilò nell’aereo
mentre alcune e-mail volanti sicuramente di clienti, tentavano di raggiungerla, si spinse fino al suo
posto assegnato e si collegò ad un programma simstim scelto a caso. Passò successivamente ad un
canale d’informazione religiosa ed esplorò i nuovi monasteri zen che stavano sorgendo un po’ do-
vunque, con le loro sale di meditazione nelle quali era sempre presente l’ologramma di Santa Klaus
pronto a distribuire i suoi regali. Quando l’aereo atterrò all’aeroporto lei era attesa da due bonzi con
le tuniche arancione che la fecero salire su una piattaforma anti-g che partì spedita verso le monta-
gne. Monia non si rese conto del tempo che stava passando ma quasi in un attimo si trovò nella val-
le, che era colma di uomini e donne vestiti nelle più svariate fogge. Alcuni erano addirittura nudi
malgrado la temperatura non fosse delle più miti. Si meravigliò di questo e solo allora s’accorse
d’essere nuda pure lei e di non provare alcuna sensazione di freddo. In un angolo della valle sul bor-
do di un lago antico attorno ad un alto falò sciamani navajo con le loro tradizionali vesti stavano
danzando al ritmo di musiche antiche attorno al fuoco accompagnati da alcuni giovani nudi. La me-
raviglia ebbe solo lo spazio d’un attimo, poi si ritrovò a camminare a piedi scalzi sulla ghiaia diretta
verso l’altro lato della valle. Tutti si facevano da parte al suo passaggio. Cercò di comprendere in un
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ultimo stadio di razionalità, se fosse giorno o notte, ma non riuscì a capirlo, tutto sfolgorava di luce,
anche lei stessa, ma le stelle erano visibili nel cielo a milioni. Si trovò davanti ad un’ara di pietra
sulla quale era posato un calice colmo d’acqua purissima; mentre l’acqua era chiaramente d’una
limpidezza assoluta, il calice appariva indistinto ai sensi sembrando ora un manufatto cesellato in
oro e pietre preziose, ora un semplice calice in pietra o legno. Lo afferrò con le due mani e cadde in
estasi. Mentre il suo corpo riempiva il calice e faceva bere i presenti, lei era sprofondata in un’im-
mensità di benessere e di luce.
Solo molte ore dopo si ritrovò in una stanza di un albergo alla periferia del mondo, accanto a lei un
uomo stava russando. Monia non riusciva a mettere a fuoco gli ultimi avvenimenti e fu stupita di ri-
trovarsi chissà dove. C’erano in terra dei vestiti femminili di foggia indiana e lei li indossò e uscì al-
l’aperto. La strada era identica a tutte quelle delle periferie metropolitane del pianeta, il pomeriggio
era inoltrato .Col comunicatore che aveva incorporato in protesi chiamò un aerotaxi e attese. Non
giunse alcun modulo. Chiese dell’aeroporto ad alcuni passanti vestiti all’occidentale, ma nessuno si
degnò di risponderle. Giunse in una piazza nella quale c’era un parcheggio. Alcune auto sembrava-
no veri e propri rottami, vecchie di decenni. Solo un furgone Sendai le sembrò in buone condizioni,
dallo zaino (aveva con sé uno zaino? eppure finora non se ne era accorta) tirò fuori un passepartout
con una porta ad infrarossi capace di neutralizzare ogni antifurto. Le portiere del Sendai s’aprirono,
lei entrò e ordinò “Aeroporto!” il modulo partì veloce. All’aeroporto acquistò un biglietto per il ri-
torno, prosciugando il proprio conto tramite il bancomat con lettura retinale, attese la partenza da-
vanti ad alcune tazze di caffè. Seduta al tavolo del bar dell’aeroporto con davanti un caffè fumante,
immersa nei suoi pensieri, alzò gli occhi, si sentì osservata e vide seduto davanti a lei il maestro dei
sogni.
- Maestro…
- Bentornata Monia.
- Cosa fa lei qui?
- Ti sei guardata attorno?
- Mi trovo da lei, nel suo studio, ma non eravamo in un aeroporto indiano?
- Sì, e stavi appunto rientrando dal sogno.
- Adesso ricordo, ero a Wesak!
- Ed eri pure il maestro dei maestri, il cerimoniere: anch’io ho bevuto l’acqua della purezza dal cali-
ce che mi hai offerto.
- Maestro, cosa diavolo mi è successo?
- Talvolta la realtà si frantuma, il tempo s’incasina, la prostituta diviene dio e Santa Klaus distribui-
sce i doni ai bambini.
- Mi sento confusa.
- Ti riprenderai, togliti quest’abito indiano e fai con me il tuo lavoro.
- Con lei maestro? Ma non l’abbiamo fatto da poco in camera mia?
- Da poco? Ne è passato di tempo, ma talvolta s’incasina, te l’ho già detto.
- Maestro lei ne ha sempre voglia.
- Perché? Dovrei forse essere insensibile alla carne? Ti ordino di spogliarti, guarda sono già nudo.
- Obbedisco maestro, e sarà gratis questa volta.
- Finalmente si regala qualcosa, ma ricorda, era gratis anche il viaggio nel quale ti ho accompagna-
ta.
- Forse è un equo baratto? Ma maestro, adesso siamo nella mia casa, nella mia camera.
- È da tre giorni che non ci muoviamo da qui, forse è il momento d’uscire, di andare in un oricalco-
bar e ordinare una serie di strisce di neo-coca.
- Sempre ai suoi voleri maestro.
- Ma prima fammi godere, e in fretta. Finisci il tuo lavoro.
l’occidente è meglio
l’occidente è meglio
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vieni qui, e noi faremo il resto
l’autobus triste ci sta chiamando
percorri il serpente, percorri il serpente
fino al lago, l’antico lago ragazzo
il serpente è lungo sette miglia
percorri il serpente… è vecchio, e la sua
pelle è fredda
conducente, dove ci hai portato?
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ENDYMION
Endymion si guarda attorno mentre le nebbie davanti ai suoi occhi stanno lentamente scomparendo:
sa di essere a Chicago, riconosce i grattacieli ma come sia arrivato fin qui, per lui è un mistero ri-
corda d’essersi assopito in una grotta del monte Latmo in Caria, tutto poi si fa sempre più confuso.
La strada è Adam Street e i suoi occhi si posano su una piccola insegna “Qui comincia la Route 66”.
Endymion sa che da qui inizia un mito lungo quasi quattromila chilometri, un mito che giunge fino
alla città degli Angeli, non siamo nel suo tempo e neppure nel suo spazio, ma la sua attuale cono-
scenza comprende anche queste cose, così lontane da lui e non si chiede il perché, troppe domande
sono rimaste senza risposte. Un tempo questo era l’Illinois e la via giungeva, dopo aver attraversato
questo continente, fino all’antica mitica California. Selen l’attende più avanti sempre lungo la stra-
da, conosce in anticipo il luogo ove lei sarà pronta ad accoglierlo e s’in-
cammina di buona lena. La strada, pensa Endymion – ma sono proprio
pensieri suoi? – fu costruita nel 1920 e ora è quasi del tutto abbandona-
ta, come tutta l’America d'altronde. Il suo mito ha ispirato schiere di
scrittori e cantanti dal “Furore” di Steimbeck a “Get your kincks on
Route 66” di Nat King Cole. Di questa canzone n’esistono versioni d’o-
gni tipo buone per tutti i gusti da quella di Bing Crosby fino ai Rolling
Stones, dai Manhattan Tranfer ai Depeche Mode. La 66 è stata pure il
mito della beat generation, una proiezione del suo sogno americano. En-
dymion seguita a non chiedersi da dove provengano i suoi pensieri e queste aliene conoscenze, sono
notizie che da gran tempo trova nella sua mente e immerso nelle riflessioni giunge nel luogo ove
Selen l’attende. Lei è bionda d’un biondo chiarissimo, è bellissima, è tutto il suo universo, è la per-
sonificazione dell’amore lunare, è grazie a lei che i tempi per lui trascorrono senza lasciar traccia
nel suo fisico .La guarda pieno d’amore e la sua mente sembra sciogliersi, si ritrova all’improvviso
in un sontuoso letto con lei in una stanza arredata con gusto barocco piena di veli colorati che oscil-
lano come sospinti dal vento mentre i giochi amorosi sono una danza iniziatica.
Si sveglia di mattino, lei più non c’è, la stanza non è più accogliente com’è stata durante la notte,
ma sembra sporca e trascurata: ogni mattino al nuovo risveglio i luoghi ove giace con lei non hanno
più l’aspetto brillante, ma sembrano appannarsi, sono luoghi ormai usati, consunti lui si dice, e più
non servono. Dunque non si meraviglia che la camera non appaia più bella com’era sembrata il
giorno prima, ed esce dalla stanza, scende scale di marmo che sembrano abbandonate da secoli, si
ritrova in strada e mentre s’incammina verso il prossimo incontro scorge un gruppo di bambine che
lo stanno osservando, lo salutano con le mani, gli sembra di conoscerle, ma la memoria l’inganna,
comunque lui risponde al saluto.
Percorre la Route 66 come negli anni della depressione la percorrevano a piedi gli emigranti, la
Route era allora il cuore pulsante d’un mondo rurale che rapidamente si trasformò o si trasferì altro-
ve. Incontra motel abbandonati dalle insegne cadenti, pompe di benzina arrugginite, serbatoi perico-
lanti, cammina sotto soli giaguari e nuvole più o meno minacciose: nuvole talvolta come titoli in un
cielo da prima pagina. È notte fonda e raggiunge Selen tra l’erba d’un prato accanto alla Route, at-
torno edifici abbandonati e fatiscenti. Il prato si trasforma in un’enorme aiuola fiorita di mille mar-
gherite che rilucono sotto il chiarore della luna demone. Si prendono per mano e corrono, poi si lan-
ciano in un frenetico girotondo e le loro vesti, veli colorati, si staccano dai corpi fino a lasciarli nudi
e cadono sul prato avvinghiati roteando in mille capriole.
- Endymion, eolico di razza e cario d’origine, sei il mio amore per l’eternità.
- Selen, mia Selen piccola dea del lato oscura della Luna, sei la mia padrona, per sempre sarò il tuo
schiavo.
- Ci è stata concessa l’eternità.
- A quale prezzo…
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Il girotondo frenetico è cessato da tempo e sono addormentati tra l’erba fiorita. Al mattino Endy-
mion come sempre si risveglia da solo, l'aiuola è sparita e attorno a lui macerie ed erbacce, intrave-
de ancora una volta volti di bambine che lo scrutano curiose, la visione dura un attimo, lui scuote la
testa e riprende il suo viaggio incontrando staccionate che un tempo furono bianche, drive in dimen-
ticati dalla storia e dagli uomini con ancora statuette di Marilyn all’ingresso, attraversa lunghi ponti
pericolanti in acciaio. Due wurstel s’abbracciano a Springfield e un biliardo con ancora brandelli di
panno verde è all’esterno del Luna Café di Edwardsville. Incrocia villaggi fantasma alla Psyco e
giunge in quello che fu il Missouri, ai fianchi della strada sono abbandonate carcasse d’auto, un
tempo celesti come quelle dei bambini.
Endymion prosegue senza sosta e ogni tanto si ferma perché Selen l’attende, l’amore viene consu-
mato e lui riparte, sempre riparte tra le nebbie della sua memoria, le strade aliene, i volti di bimbe –
sempre le stesse - che periodicamente lo osservano, tutto sembra ripetersi all’infinito in una routine
eterna in un loop senza principio né fine, solo il suo amare è concreto. Il paesaggio è sempre quello
di un sogno anche se i più piccoli particolari sono reali, vividi, tangibili, ma talvolta non è così an-
che nei sogni? La realtà poi è stato detto che è un sogno e se non lo è dovrebbe diventarlo, e anche i
sogni non sono mai realmente dei sogni. In quello che fu il Kansas la strada si fa di pietre, il paesag-
gio è sempre onirico anche se alle volte si trasforma in concreto, ma il sogno prosegue, erbacce e al-
beri che un tempo costeggiavano la 66 ora quasi la nascondono. Una balena blu in riva ad un lago si
trova ove sorse Catoosa nell’ex Oklahoma. Le rive d’un lago per riposarsi, per dormire, per amare,
con lei un lungo giro del lago con una barca guidata da un silenzioso contadino del posto, vestito di
stracci che con una lunga pertica la sospinge. Ancora in viaggio, quello che fu il Texas si annuncia
con un cimitero vastissimo di Cadillac variopinte abbandonate una su l’altra, una discarica che si
perde alla vista, poi ove sorse Laguna nell’ex New Mexico c’è un’atmosfera quasi mediterranea con
bianche costruzioni ancora in piedi anche se abbandonate, croci e alberelli. C’è un pranzo allestito
per loro in un patio all’ombra, molti i convitati con vesti variopinte, lui si chiede da dove siano usci-
ti ma decide che non gli importa poi più di tanto. Tre messicani con poncho e chitarre suonane ne-
nie latine, i commensali ora ballano e lui è stretto a Selen finché la notte non li raggiunge e poi l’o-
blio.
L’ex Arizona sembra bellissima ma assolata, lui si siede all’ombra d’una stazione di servizio abban-
donata tra bottiglie blu e trasparenze e lei ancora una volta lo raggiunge. Sulle rovine di Tuxcon la
bandiera a stelle e strisce più non campeggia, solo il palo scrostato è rivolto verso il cielo assieme a
tralicci della luce sbilenchi, treni fermi sulle rotaie, carcasse d’auto e cactus, spazi senza fine che
già annunziano ciò che resta della California. E ancora bottiglie colorate dietro i vetri infranti d’una
finestra a Newberry Spring, e ancora ruderi di stanze color marrone mostrano ciò che resta del Bag-
dad Café, un set ove i tedeschi girarono un film famoso. Ed è su questo set nel motel del deserto
Mojave vicino alle rovine di Las Vegas che Selen riappare e il Bagdad Café rinasce al proprio
splendore cinematografico e la festa al suo interno dura ore e ore con Jasmin formosa e radiosa nel-
la sua sbalorditiva fisicità. Birre, balli, risa e canzoni, bambine curiose a tratti li osservano dalle ve-
trate, poi lui e Selen si ritirano in un bungalow. Al mattino Endymion è nuovamente solo, il bunga-
low è distrutto, i mobili sono a pezzi e i muri in parte crollati lasciano intravedere il deserto, con le
auto semiaffondate nella sabbia, per terra tra mille oggetti rotti e irrecuperabili, vi sono dei libri in-
gialliti, uno è un dizionario, lui lo prende e lo sfoglia, qualche pagina leggera vola via sbriciolata.
Cerca il suo nome, ha sete di sapere, lo trova e legge nei minuscoli caratteri sul foglio ingiallito che
si è rotto e gli è rimasto in mano: “Endymion – fu il bellissimo figlio di Zeus e della ninfa Calica,
eolico di razza sebbene cario d’origine, strappò a Climeno il trono di Elide. Sua moglie nota con
molti nomi diversi come Ifianassa, Iperippa, Cromia, Neide, ecc. gli diede quattro figli; ebbe anche
cinquanta figlie da Selen che si era perdutamente innamorata di lui. Endymion giaceva addormen-
tato in una grotta del monte Latmo in Caria allorché Selen lo vide per la prima volta, si sdraiò al
suo fianco e dolcemente gli baciò gli occhi chiusi. In seguito lui tornò nella stessa grotta e cadde in
un sonno dal quale non si destò mai più. E ciò per volere di Zeus e permettere a lui mortale di stare
per sempre con Selen, dea del lato oscuro della Luna che di lui s’era follemente innamorata e pote-
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va così raggiungerlo nel sogno; questo il prezzo pagato per l’immortalità. In ogni caso Endymion
non invecchiò neppure d’un giorno e le sue guance serbano anch’oggi intatto il fiore della giovi-
nezza.”
Solo per un attimo comprende ciò che ha letto e di conseguenza il suo stato, getta via il foglio, di-
mentica e prosegue. Incontra ancora treni merci fermi in attesa da tempo immemorabile di un viag-
gio che per loro più non arriverà, e un motel con finte tende indiane. È ormai giunto alle rovine di
Santa Monica e una targa ancora in piedi ricorda che la Route 66 qui finisce.
Quante strade un uomo deve percorrere perché si possa chiamare uomo? Si chiedeva Bob Dylan e
lui si fa attento nell’attesa di Selen. Osserva con gli occhi della mente ciò che ultimamente ha visto
lungo quella strada come un fotografo osserva ciò che ha scattato e si sente un artista nel suo lavoro,
si trova a riguardare le immagini che ha fissato nella memoria, forse ha paura che si cancellino, la
strada è il mito, ma sente che con lui e Selen anche altri miti s’intrecciano. La voglia di raccontare i
miti sembra prevalere sull’aspetto formale dei suoi fotogrammi mentali, c’è un’attrazione quasi os-
sessiva a geometrie e colori. Qui c'è il racconto del grande cuore dell’antica America e anche dell’a-
more più grande, quello eterno: due racconti, due amori che emozionano e incantano.
Endymion ricade nel torpore carico di sogni, in cui Selen per l’eternità può amarlo, il prezzo per
l’immortalità è grande. Lui scorda sempre ogni cosa ma sa che Selen ora l’attende in un’altra strada,
in un altro tempo, stavolta lungo la via lattea, quella che giunge fino a Campo Stella e a Finis Ter-
rae…
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NOTHINGS
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Questo mese la mia rubrica sarà un po’ più breve e magari anche un po’ più confusionaria del soli-
to, perché per motivi estranei alla volontà mia e di chiunque altro, mi è stato anticipata all’improv-
viso la data di consegna della registrazione, proprio mentre s’avvicinava la data di consegna d’un
altro lavoro. Ma non abbiate timori, tra un ciclo o due torneremo alle consuete dimensioni e la
“Gazzetta del volatore” sarà in vendita come sempre con le tradizionali rubriche. Adesso iniziamo
da un’alta posizione riservata al lavoro che vi ho anticipato con una sequenza erotica. È un buon
pezzo ed è stato apprezzato al massimo dai vari gruppi sperimentali d’ascolto, buon brano e tran-
quillo, senza melodrammi: l’argomento principale è la lotta dell’uomo con le condizioni climatiche.
È anche un esempio ben fatto di quel tipo di fantascienza che si basa su un pianeta che possiede
qualche differenza radicale rispetto alla Terra e sulla società quasi umana che potrebbe nascere da
queste differenze. Su questo pianeta le uniche terre emerse sono piccole isole, inoltre la gravità è
più leggera che quella terrestre. Molto prima dell’epoca in cui è ambientato il programma, un’astro-
nave terrestre che aveva a bordo molti coloni s’è dispersa per un’avaria ed è atterrata su questo pia-
neta. Dai coloni è nata una cultura povera a livello tecnologico- pratico, ma piuttosto civile, grazie
anche alle memorie conservate nell’astronave. L'élite di questa cultura è rappresentata dai volatori,
uomini e donne che percorrono in volo le distanze tra le isole servendosi di grandi ali ricavate dalle
foglie gigantesche di una pianta locale, e attraversano i mari infestati dalle bellissime ma pericolose
scille. I volatori si ritrovano nei loro nidi siti sui picchi più alti e inaccessibili delle isole. L’assaggio
simstim iniziale si svolge proprio all’interno d’un nido.
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Il monaco è all’interno del tempio: fuori un verde prato quadrato circondato da ampi archi, nel mez-
zo del chiostro un pozzo in pietra. Lui è un monaco zen e il tempio si trova su un altopiano a circa
mille metri dal livello del mare. Il monaco s’avvia lentamente verso la sala per la meditazione, en-
tra, si mette nella posizione del loto e fa il vuoto nella sua mente, alle sue spalle un ologramma sen-
ziente di Santa Klaus con un sacco pieno di doni, saluta sorridendo a bambini che non sono presen-
ti. Il monaco è impegnato nel creare il vuoto nella sua mente e respinge due corpi allacciati nell’atti-
mo dell’amore, respinge la visione d’un azzurro mare punteggiato da piccole verdeggianti isole, re-
spinge alcuni presentatori della TRI-TV che insistentemente lampeggiano e non vogliono andarse-
ne. Poi uomini volanti sul mare e su alti picchi, e ancora scille col lungo collo teso verso l’alto, un
altopiano, un labirinto di porticati e costruzioni in pietra ad un piano. Vede un monaco in un’aula
che medita, alle sue spalle un ologramma di Santa Klaus ridente. Entra nel monaco e tutto tace, tutto
si ferma: la meditazione sul nulla ha inizio.
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Dissolvenza in uno squallido alberghetto dalle parti di Porta Romana a Firenze. Uno dei nostri
agenti fa finta d’essere uno scrittore. Ha scritto un romanzo cosiddetto pornografico titolato “La cit-
tà sottile” in cui viene descritta la trovata della Morte in Orgasmo. Quella era l’esca. E ci sono ca-
scati. Un rapido bussare alla porta e lui è di là. Un verde ragazzo/fanciulla proveniente dalle fogna-
ture venusiane. Le incolori creature vampiresche provenienti da una terra d’erba priva di specchi.
L’agente rabbrividisce per una leggera febbre. La Febbre dell’Arresto. Il ragazzo verde fraintende
quest’emozione prendendola come un tributo alle sue personali attrattive e si liscia le penne pavo-
neggiandosi su e giù per la stanza. Questo organismo diviene pericoloso solo quando è comandato
dalla Mente Insettifera. Quella notte l’agente invia il suo rapporto: “I controllori sono una donna,
probabilmente italiana, che ha preso una villa fuori Firenze, e un mediatore che agisce nella stessa
zona. Accentrare le pattuglie, mettersi in contatto coi nuclei Gladio e P2 locali, aspettarsi d’incon-
trare armi venusiane”.
Nei mesi seguenti continuiamo a scoprire altri punti di co-ordinazione. Facciamo pedinare il ragaz-
zo verde giorno e notte e rintracciamo tutte le chiamate in arrivo e in partenza. Peschiamo l’altra
metà del mediatore a Tangeri. Un mediatore, non è un meditatore, è uno che organizza lavori crimi-
nali. Acciuffate quello scrittore, quello scienziato, quest’artista, si sta avvicinando troppo al… Cor-
rompetelo, imbidonatelo… intimiditelo…impadronitevi dei suoi punti di co-ordinazione. E il me-
diatore trova qualcuno per fare il lavoretto “Fai venire Franco lo Spaccio, è un lavoretto di defene-
strazione – Fai venire Marco il Verde, è l’ideale per rifilare l’imbidonata sentimentale – Fai venire
Sandro il Macellaio e accendi i Forni – questo è un caso speciale.”
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Burroughs sta facendo una doccia dopo tempi immemorabili e sotto il getto non riesce più a ricorda-
re ove si trovi, era a Tangeri? o a Firenze. Avrebbe potuto trovarsi anche in un alberghetto qualsiasi
del pianeta o della galassia: quelli d’infima categoria sono tutti squallidi in egual misura, si somi-
gliano come cloni. L’acqua lo colpisce con mille rivoli, gli entra in bocca e lui sente il sapore di me-
tallo e di cloro, la sputa. Ricorda gli agenti sempre in azione, il monaco in perenne meditazione, gli
amanti volatori nel nido, lo speaker televisivo rottonculo. Le visoni si sommano a quelle acide e i
mondi s’accavallano, s’accartocciano per poi sfaldarsi e di nuovo ricomporsi. Anche il tempo sem-
bra essersi fermato, lui si siede sotto il piacevole e tiepido getto d’acqua, chiude gli occhi e s’addor-
menta sorridente.
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L’ULTIMA ZAIBATSU
La lamaseria era stata edificata un migliaio d’anni prima su alte montagne e solo picchi innevati si
scorgevano fuori dalle sue alte muraglie. All’interno la temperatura era conservata primaverile e dai
suoi orti, frutti e verdure continuativamente giungevano sempre a maturazione. Ratz era cresciuto
tra queste mura, come maestri aveva avuto i migliori lama e maestri zen e aveva giocato e studiato
con gli altri ragazzi ospitati nella lamaseria. Nell’aula dei Buddha aveva trovato il suo luogo per la
meditazione profonda, a lui qui riusciva meglio circondato dalle cinquecento statue di Buddha, tutte
uguali alte quanto un uomo, ma di materiali diversi: legno, pietra, marmo, terracotta, ologramma,
metallo, ecc. Le statue erano poste erette ai lati di una grande aula quadrata pavimentata in lucido
legno. Ratz s’accostava ad una delle statue, sceglieva quella giusta per quel giorno, poi le si acco-
vacciava accanto assumendo la posizione del loto e qui trascorreva molte ore delle sue giornate.
Aveva anche un suo piccolo giardino zen ove a tratti apparivano ologrammi di cespugli rotolanti
che veloci attraversavano il giardino, ma era solo nell’aula dei grandi Buddha che lui si trovava ve-
ramente a suo agio. La lamaseria era molto antica e in essa erano conservate tutte le memorie delle
civiltà dell’uomo, grandi biblioteche erano zeppe di libri e ricordi solidi riversavano ogni conoscen-
za attraverso gli schermi o tramite reti simstim direttamente nelle menti dei richiedenti. Ratz era co-
stantemente connesso con queste memorie attraverso la sua piastra neurale che aveva l’aspetto di un
orecchino con un piccolo diamante, infilato nel lobo del suo orecchio sinistro. Lui era uno shahinai,
era il tesoro degli shahinai: la sua razza era molto antica e composta da poche decine d’individui
scuri di pelle e molto brutti nell’aspetto, tra loro molte donne ma pochissimi uomini, con un’unica
eccezione. Un maschio bianco con la pelle dai riflessi perla nasceva solo ogni cento anni, incredibil-
mente bello e intelligente, veniva chiamato il tesoro degli shahinai. Era, infatti, intelligentissimo e
bellissimo, inoltre far l’amore con lui era un qualcosa d’indescrivibile. Tutti gli shahinai vivevano
per cento anni con la cessione del loro tesoro, questa usanza era proseguita nei secoli, forse nei mil-
lenni, perché così era stabilito nei loro testi sacri conosciuti solamente dagli appartenenti alla loro
razza. C’era scritto che quest’usanza avrebbe avuto termine al verificarsi di certe condizioni, e que-
ste si verificarono, quali esse fossero non è dato di sapere, ma l’ultima generazione seppe che era
giunto il momento d’interrompere la tradizione, tra l’altro l’intera tribù era divenuta proprietaria di
un’azienda agricola che produceva in colture idroponiche cibi geneticamente modificati. Azienda
che in breve grazie a brevetti fortunati aveva raggiunto le dimensioni di una multinazionale, e anche
questo era stato previsto dalla loro arcana e antica cultura, avevano così interrotto una leggenda che
narrava che il loro tesoro era stato posseduto da Carlo Magno, da Tiberio, da almeno due papi e an-
che dalla zarina Caterina. Avevano così gratuitamente ceduto il loro ultimo tesoro alla più famosa
lamaseria sita in capo al mondo, nella quale vivevano monaci zen e lama, affinché loro gli fornisse-
ro la miglior conoscenza, così era scritto, così fu fatto.
Ratz è nella sala della meditazione d’ingresso collegato con banche dati e musica techno, osserva
sorridente l’ologramma di Santa Klaus, il santo più venerato nel mondo. L’ologramma è denso e
moderatamente senziente, Ratz si siede accanto a lui che porta la sacca coi doni e ha il sorriso stam-
pato sempre sulle labbra perché su questo punto il programma non è modificabile, così Santa quan-
do parla con Ratz, anche se è triste, seguita a sorridere. Dall’altro lato del salone della meditazione
d’ingresso vi è l’olo di Padre Pio, anch’esso a definizione densa e a grandezza naturale, ma scarsa-
mente senziente. Padre lascia il proprio posto e s’unisce a Ratz e Santa che stanno parlando del ma-
trimonio celebrato proprio in questa aula la settimana scorsa. Ratz parla coi due olo, ascolta musica,
elabora dati quando il segnale di allerta lo raggiunge, spegne allora il canale audio e visualizza il
Lama che lo sta chiamando nella sua stanza. Ratz saluta Santa e Padre e s’avvia lungo i loggiati che
portano alla stanza del Lama. Attraversa porticati a lui noti con ologrammi e circuiti stampati appesi
alle pareti assieme ad immagini sacre e mandala. Servomacchine gli scivolano trai piedi spostandosi
veloci al suo passaggio per tornare poi alle loro occupazioni, e-mail volanti gli ruotano attorno al
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corpo, lui le scaccia con fastidio. Sa già che il suo apprendimento, qui nella lamaseria è in fase ter-
minale, è davanti alla porta del Lama che si apre lentamente al suo avvicinarsi: il Lama è seduto
nella posizione del loto, sospeso sul pavimento di qualche centimetro, sotto di lui un folto tappeto
con un complicatissimo mandala disegnato, molti cuscini sono casualmente sparsi per la cella e la
luce entra da una feritoia stretta e lunga che attraversa verticalmente quasi per intero una delle pare-
ti. Sospeso in aria un pentacolo lievemente azzurrato e tridimensionale, ruota lentamente su se stes-
so, in un angolo un mucchio di cellulari in rete ammiccano coi loro led multicolori. Ratz entra, il
Lama gli volta le spalle sempre seduto e librato nella posizione del loto, si siede dietro di lui, chiude
gli occhi mentre avverte la termoschiuma celata nel tappeto aderire alle sue gambe. Flussi d’infor-
mazione all’istante lo raggiungono, parlano della sua razza, della rottura delle tradizioni che con lui
è stata effettuata come previsto dalle antiche scritture, dell’amore e degli insegnamenti che i monaci
gli hanno impartito, delle amicizie strette con gli altri novizi e studenti. Confermano che il suo ciclo
qui è terminato, nuovi apprendimenti adesso lo attendono. Ratz mentalmente prende congedo dal
Lama e da tutti, poi s’avvia verso la stanza dei viaggi, inchinandosi tre volte all’uscita davanti al
Lama che seguita a volgergli le spalle. Nuovamente attraversa corridoi e aule, sale ripide scale e
giunge all’interno dell’unica torre della lamaseria, scende un’umida scala a chiocciola che lo porta,
sotto la torre, fin nelle viscere della montagna: sa che la stanza del viaggio si trova in fondo a questa
scala di pietra scavata nella roccia, l’ha mentalmente visualizzata più volte, ma fisicamente non è
mai sceso fin lì. Lentamente scorre il tempo mentre lui seguita a scendere con ritmo piano ma co-
stante, la scala è in penombra, una fioca luce proviene da una sottile striscia luminosa che è sita nel
bel mezzo della volta. Giunge fino al termine delle scale, davanti a lui una parete di roccia. La tocca
e la parete scivola di lato lasciando vedere una piccola stanza rotonda con un cilindro di pietra nel
mezzo alto circa mezzo metro. Ratz intuisce che quello è una panca e si siede, la parete scivola nuo-
vamente di lato e l’apertura si chiude, la luminosità è debole come quella della scala ma Ratz non
capisce da dove provenga. Chiude gli occhi e avverte una leggera vibrazione che pervade ogni cosa
compreso il suo corpo. Quando decide di riaprire gli occhi nulla è mutato, cerca allora di collegarsi
in rete con qualche memoria, ma si sente completamente isolato, tagliato fuori, una sensazione di
straniamento per lui nuova. Medita, dalla meditazione al sonno il passaggio è senza scosse, e da
questo al sogno la strada sembra obbligata. Nel bel mezzo d’un sogno angosciante, ma già dimenti-
cato, si trova seduto su una roccia e davanti a lui c’è un antico tempio greco. Solo allora si accorge
che questo non è più un sogno: lui è all’aperto seduto su una roccia davanti al tempio. Il sole è alto e
illumina un oliveto che si perde a vista d’occhio tutto attorno al tempio che ha un vasto colonnato in
marmo bianco e lucente sotto i raggi del sole, sopra di esso un timpano triangolare, le colonne pog-
giano su una grande scalinata e tutto è dello stesso materiale. Ratz si guarda attorno stringendo gli
occhi per difendersi dall’abbagliante riflesso del sole sul marmo, gli olivi sono ben curati, l’erba è
tagliata e vicino al tempio cespugli di rose sono in fiore. S’avvicina, ma si rende conto ben presto
che il tempio è più distante di quanto lui creda, e man mano che avanza capisce come sia immensa
questa costruzione che copre tutta la cima del colle ove lui si trova. Finalmente giunge agli alti gra-
dini di marmo e inizia a salire, si ritrova sotto il porticato: il pavimento è anch’esso di marmo, ma
intarsiato con pietre di vari colori che danno vita a trofei di fiori e frutta che s’intrecciano nelle loro
geometrie frattali. La sua mente si sofferma, ma solo per un attimo, su alcune somiglianze tra gli in-
trecci geometrici del mosaico e alcuni particolari dei mandala nella lamaseria. Un lunghissimo tavo-
lo di marmo è colmo di frutti maturi e di coppe piene di liquido color ambrosia. Ratz mangia frutta
a sazietà e beve un nettare squisito. S’aggira per l’immenso porticato e la sua attenzione è colta da
una stanza in penombra, entra. Al suo interno un cammello lo osserva con grandi occhi, un telaio di
legno sta funzionando da solo, sembra molto antico, è posto nel mezzo del salone. Il cammello lo
squadra mentre lui gira attorno al telaio. Solo allora Ratz si rende conto di quanto il telaio sia enor-
me e dal lato ove dovrebbe uscire la tela scorge una luminosità lattiginosa che gli impedisce di met-
tere a fuoco la vista. Accarezza il cammello e la sua lana è morbida, il suo corpo profumato. Si ac-
corge d’esser nuovamente collegato, ma non è la solita rete da sempre conosciuta, è qualcosa di pro-
fondamente diverso: un paesaggio desertico con dune in movimento rappresentano la porta d’in-
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gresso, si forma poi una bellissima donna vestita con veli di seta che ondeggiano a un lieve vento.
Lei racconta la sua storia, molto, molto tempo fa, fu scelta dagli dei e addestrata a tessere la tela di
un mondo, questa è la sua occupazione e nel trascorrere del tempo è divenuta essa stessa una dea.
Lei è Gimel, la tessitrice della realtà e le sue sembianze sono: una giovane donna, una vecchia, un
cammello. Ratz riapre gli occhi mentre l’immagine del deserto svanisce, il cammello non c’è più, al
suo posto una vecchia coperta di stracci guida ora il telaio, ma l’immagine si scompone ad alla vec-
chia si sovrappone una bellissima giovane totalmente nuda, è la stessa che ha visto poco prima in
rete. Lui è turbato, ma certo che la vecchia, la giovane e il cammello sono visioni della stessa identi-
tà, sono Gimel la tessitrice della realtà. Abbandona la stanza del telaio non prima di cogliere uno
sguardo malizioso negli occhi di Gimel, e si ritrova in una sala colma d’oggetti. Apparecchiature
elettroniche d’ogni forma e dimensione, cataste di cellulari, gioielli d’ogni fattura, armi d’ogni tipo
sono mescolati ad altri oggetti, alcuni misteriosi, altri d’uso comune come vestiti, montagne di capi
d’abbigliamento d’ogni epoca e fattura. Solo in questo momento Ratz si rende conto d’esser nudo,
dal mucchio estrae una tunica di fattura romana con finiture in oro e la indossa, con una cinta d’oro
si cinge la vita, trova poi un paio di calzari in cuoio con finiture in oro, sono della sua misura, li in-
dossa. C’è uno zainetto di pelle nera col logo di Gucci su un lato, lo riempie di cose che ritiene pos-
sano essergli d’una qualche utilità: tre pacchetti di sigarette di marca ignota e illeggibile disegnata
in oro su fondo azzurro, un accendino Dupont d’argento, due bustine di fiammiferi minerva con la
pubblicità di un bar dell’avamposto lunare, un orologio Rolex e questo se lo mette al polso anche se
è incerto sull’ora. C’è poi un cellulare sottilissimo che sembra di madreperla, vede che è in rete e il
display è un ologramma, chissà in quale rete, si chiede mentre lo mette nello zaino e poi pensa
“chissà chi mi chiamerà qui!” Trova una piccola bussola, un portamonete di pelle nera con dentro
dischetti di un metallo azzurrato con l’effige d’una scilla, una penna biro in oro infilata in un minu-
scolo taccuino foderato in pelle, un coltellino multiuso svizzero con manico rosso e croce bianca, un
paio d’occhiali a specchio modello Ray Ban, un pacchetto di fazzoletti di carta, infila tutto quanto
nello zainetto, poi se lo mette in spalla. Vi sono fucili e pistole d’ogni tipo, ne sceglie una a raggi di
foggia strana, sembra di cristallo, la impugna e spara un raggio che lascia un sottile foro nel marmo,
la poggia accanto alla cintura d’oro e a questa aderisce. Sceglie poi un anello e una catena d’oro con
un medaglione con sopra smaltato un pentacolo: lascia tutto il resto ed esce. Cerca di sfruttare que-
sta nuova rete nella quale ora è inserito, al momento avrebbe bisogno d’un bagno, e dopo aver men-
talmente più volte formulato la richiesta ha chiaro il cammino che deve fare per raggiungere il luo-
go prescelto, visualizza anche la piantina delle stanze del tempio, anche se accanto a questa scorro-
no parole che al suo orecchio suonano strane: stilobate, crepidoma, euthynteria, metopa, triglifo, tra-
beazione, acroterio, pronao, ecc. Arriva intanto al bagno, è enorme, vi è addirittura una cascata che
si getta in una vera e propria piscina, poi tazze piene d’acqua tiepida e profumata, infine alcuni
anelli d’oro sono infilati in tondi tappi d’onice, basta sollevarli, e… Ratz s’aggira nel tempio ormai
da vari giorni, per letto vi sono delle lastre che sembrano anch’esse di marmo, ma sono di una so-
stanza morbida, come la termoschiuma e si trovano in alcune delle stanze che formano questo enor-
me tempio. Si reca più volte all’esterno e trova pastori e contadini che parlano uno strano dialetto
simile al greco antico. Con le memorie impiantate subito riconosce le radici di base del linguaggio
ed elabora l’intera parlata. È pure ospite a cena in casa di pastori e l’agnello arrosto e il vino è quan-
to di più buono non abbia mai assaggiato dopo così tanta frutta. I pastori e i contadini non computa-
no il trascorrere degli anni, anche perché la stagione non varia, non sanno niente del mondo esterno,
se non vaghe storie di sapore mitologico, s’avvicinano al tempio con rispetto e timore, solo quando
sono chiamati o quando devono portare qualcosa. Per loro il tempio è il luogo sacro ove abita la di-
vinità che li protegge, una divinità che è femminile, una e trina. Ratz è perplesso, ma se questo deve
essere il suo nuovo apprendimento, l’accetta, tra l’altro c’è molta serenità in questo posto. I pastori
e i contadini dicono che lui è un eroe, un semidio, è stato scelto dalla divinità per stare con lei. Al-
cune pastorelle non sono niente male, pensa Ratz, mi credono pure un semidio, tutto sommato que-
sta può essere una vacanza felice e anche meno noiosa della permanenza nella lamaseria. Il senso
del tempo è alquanto confuso e anche il Rolex sembra andare per conto suo, Ratz ha proprio perso
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la cognizione del trascorrere dei giorni. Fa vari giri attorno alla collina e trova altre colline identi-
che, un fiume, un lago e anche un villaggio; nel senso opposto giunge fino al mare ove una spiaggia
deserta sembra proseguire all’infinito. In uno di questi viaggi oltre le colline un temporale d’intensi-
tà mai vista lo coglie. L’acqua cade a scrosci e il versante della collina ove lui si trova sembra dive-
nuto un torrente. Animali anch’essi braccati dall’acqua si trovano a ridosso di Ratz e lui scorge del-
le grandi ombre nere ringhianti, con occhi fosforescenti e lunghi e affilati denti bianchi. Il terrore lo
prende e parte in una corsa cieca nel diluvio che impedisce di vedere in ogni direzione, mentre av-
verte le belve che terrorizzate dai fulmini lo rincorrono per dilaniarlo, quasi fosse lui la causa di tale
trambusto. Ratz sbatte contro una costruzione in pietra, riavutosi dallo stupore, a tentoni segue il
muro perimetrale finché non trova una porta. È di legno e s’apre, entra, la porta ha un grosso chiavi-
stello di metallo, lui sbarra la porta poi s’appoggia ad essa e solo allora si guarda attorno mentre
fuori sente il raschiare di zampe feroci contro il muro e la porta. È un’unica stanza con un tavolo,
delle pelli sono stese in terra, un gran camino conserva tuttora delle braci, alcune lampade ad olio
sospese al soffitto illuminano vagamente la stanza. Alle pareti sono affissi trofei d’animali mai visti,
uno di questi ha sembianze umanoidi. Ratz è troppo sfinito per pensare ad altro che a riposarsi, spo-
sta le pelli vicino al camino e s’addormenta di botto. Sogna di trovarsi in una strana stanza rovescia-
ta, lui è in piedi su quello che risulta essere un soffitto di legno fatto ad archi, con le travi che si uni-
scono tutte nel mezzo. Un chiodo d’oro molto grande tiene unite le travi, lui s’avvicina e senza sfor-
zo estrae il chiodo. Istantaneamente tutte le travi si sfilano dal loro posto e la stanza sembra raddriz-
zarsi mentre il soffitto cambia completamente forma e ora è a cassettoni. Lui è sdraiato sul pavi-
mento in terra battuta e vede il soffitto spezzarsi e venir giù a quadrati. Mentre tutto gli sta precipi-
tando addosso all’improvviso si risveglia e con stupore si rende conto d’essere non tra le colline ma
in una delle mille stanze del tempio, sdraiata accanto a lui una bellissima donna bionda vestita solo
d’una sottile tunica di seta verde, lo sta accarezzando.
- Io sono Vav.
- Abiti qui?
- Da sempre.
- Chi mi ha portato nel tempio? Ero tra le colline.
- Lo spazio qui non è come lo conosci.
- Come il tempo?
- Sì.
- Allora non mi sono mai mosso?
- Chi può dirlo?
- Dunque abiti qui con Gimel.
- Gimel, Vav, siamo la stessa entità, eppure siamo diverse.
- Le sorprese non mancano, e se volessi tornare?
- Dove? Alla lamaseria?
- Sì.
- Non puoi, sei il tesoro degli shahinai, l’ultimo tesoro e sei qui per apprendere, forse.
- Cosa significa che sei Gimel e Vav?
- Ciò che ho detto, ma sono Vav, il chiodo che tiene unite le travi e fornisce riposo ai viaggiatori
smarriti.
Ratz a quel punto non sa più cosa rispondere, ed è anche confuso, così confuso come non è mai sta-
to neppure durante le allucinazioni indotte nella lamaseria. Ma Vav è bella, è attraente, è desiderabi-
le, ed è da troppo tempo che lui, creato per amare, non fa all’amore, ha valutato che qui le occasioni
non mancano e ora è giunto il momento di cogliere questo fiore, considerando anche che fino a
poco prima era impaurito dalla violenza delle acque, era sicuro d’essersi perso, e anche era certo
che quegli animali l’avrebbero aggredito. Ma aveva l’arma, la pistola a raggi, ma se l’è ricordato
solo adesso. Dolcemente avvicina Vav a sé, le sfila la leggera tunica di seta, lui si toglie la sua e su
di un tappeto la penetra, poi la bacia dolcemente e infine dopo un bel po’ di tempo s’addormenta so-
pra di lei. Al risveglio si ritrova nella costruzione tra le colline, la pioggia è cessata e fuori c’è il
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sole, esce e non avverte la presenza d’animali feroci, si mette in cammino e torna al tempio. Una
donna che non ha mai visto l’attende sugli scalini, anch’essa indossa solo una sottile tunica, bianca
stavolta, lei è una donna matura rossa di capelli e bellissima.
- E tu chi sei?
- Sono Dalet, ma sono anche Gimel e Vav.
- Una triade, voi formate una triade.
- Sì nostro eroe, l’hai finalmente capito!
- Veramente non è che avrei capito molto.
- Sono Dalet, la porta, ma anche la foglia umida che vede, protegge e provvede.
- Bene, puoi provvedere a farmi tornare da dove sono venuto?
- Troveresti tutto molto cambiato, è molto tempo che sei qui.
- Così tanto da ritrovare tutto mutato? Tu vuoi prendermi in giro.
- Il tempo qui scorre diversamente dalla realtà ordinaria dalla quale provieni, ti è già stato detto, alle
volte siamo molto avanti rispetto ad essa, talvolta invece indietreggiamo, ma alcune volte siamo tra-
sversali alla tua realtà.
- Trasversali? Che vuoi dire?
- Non importa, tanto il tuo luogo ora è qui.
- Veramente qui mi sarei divertito abbastanza, vorrei andarmene.
- Come?
- Anche a piedi.
- Hai già provato altre volte, non sei mai andato oltre il villaggio.
- Questa volta proseguirò oltre.
- Non puoi, la nostra realtà è circolare, anche se tu seguissi la spiaggia, ti ritroveresti sempre al pun-
to di partenza. Sono altre le vie per uscire.
- E quali sono?
- Noi non le conosciamo, siamo sempre state nel tempio. Ma quando sarà il tuo tempo potrai solo
allora andartene, e anche ritornare, se vorrai. Con noi starai bene, anche Gimel, se vuole può essere
una bellissima femmina e tutte e tre siamo disponibili nei tuoi confronti. Puoi anche usare a tuo pia-
cimento le ragazze del villaggio e dei pastori, loro non aspettano altro.
- Qui dunque non mi mancherà proprio nulla.
- C’è dell’altro: bevi l’ambrosia e con essa diverrai immortale, consulta le memorie qui conservate e
troverai tutta la conoscenza degli universi, cosa può desiderare di più un umano?
- Forse hai ragione, ma non sono convinto, devo riflettere soprattutto su quello che mi hai ora detto.
- Hai tutto il tempo che vuoi per pensare, me se resterai qui hai l’eternità davanti a te. Il tempo è in-
finito, una sola vita non è sufficiente per esplorarlo, perché non inizi a cercare nelle biblioteche,
perché non scendi nelle scure stanze del sottosuolo ove sono conservati i banchi di memorie, perché
non ti rechi all’osservatorio?
Mormorando un “per ora va bene così” Ratz esce dalla stanza e sotto il grande porticato cerca un
cesto di frutta e inizia ad assaggiare chicchi d’uva. Torna nella stanza di Gimel e lei è un cammello,
sta camminando lentamente lungo le pareti. Il telaio è nel mezzo, brunito in un legno che sembra
metallo. Ratz s’avvicina, ora è davanti al telaio che per i suoi sensi sembra immenso, ancor più
grande del tempio se questo fosse possibile. Ma lui non se lo chiede e accetta le dimensioni quali ai
suoi sensi appaiono, lo osserva e segue il lavoro che la macchina impercettibilmente e silenziosa-
mente compie, nota che la nebbia che gli impediva la visione, ora è scomparsa. Miliardi di sottili fili
colorati partono da piani di spolette di cristallo, confluiscono ove la trama si miscela con l’ordito ed
escono in un telo grandissimo e infinitamente sottile fatto di luci e di colori. Si sofferma estasiato
accanto al telo e intuisce lo scorrere delle storie, delle vite, poi si rifiuta di proseguire oltre nella
scansione. Il telo alla sua uscita dal telaio è sospinto verso un’apertura rettangolare, lui passa da
questa apertura assieme al telo e si ritrova in un tunnel che scende verso il basso, verso il centro del-
la collina. Le due pareti del tunnel sono completamente ricoperte da cilindri di stoffa arrotolata: da
quanto tempo sta lavorando questo telaio? Un dito sfiora uno dei cilindri e istantaneamente a lui
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sono trasferite intere storie di coppie di sposi francesi del terzo secolo. Ratz è ancora una volta tur-
bato, torna allora nella stanza del telaio e attentamente osserva il telo. Sceglie il punto con accura-
tezza e poggia un dito in quel settore mentre il cammello imperturbabile lo osserva, ora fermo in un
angolo dell’aula. È nella sala di meditazione d’ingresso e Santa lo saluta ed è felice che sia tornato.
Si guarda attorno, ha ancora la pistola al fianco e la tunica e lo zainetto: estrae l’occorrente e s’ac-
cende una sigaretta.
“Sono solo di passaggio” sussurra Ratz e fa un cenno a Padre che ancora non l’ha riconosciuto. At-
traversa la sala e prosegue per le altre stanze della lamaseria, molti monaci, studenti e bonzi lo rico-
noscono e lo salutano con cenni della testa, lui risponde, poi ripensa al telaio e nuovamente con la
sigaretta in bocca ancora accesa si ritrova accanto Gimel, Vav e Dalet nelle loro forme migliori, ve-
stite con tuniche trasparenti. Il pavimento dell’aula nella quale si trovano adesso sembra di termo-
schiuma e si modifica al movimento dei loro corpi, godimento assicurato, pensa Ratz e il paragone
con la seriosa lamaseria lo fa sorridere. Sprofonda nel piacere anche se è cosciente che quelle tre
“giovani” hanno forse gli anni della Terra, o poco meno, e sprofonda pure nella termoschiuma, sem-
pre più giù e sente attivarsi la piastra neurale, un leggero solletico misto a fastidio al lobo dell’orec-
chio sinistro. Senza trascurare le materiali occupazioni attiva i ricettori e gli impianti ed è pronto al
trasferimento dati. L’interfaccia è disturbata e lentamente si avvede di far parte d’un capo, di un alto
dirigente d’una zaibatsu che è intento alla console d’un potente mainframe; Ratz è interdetto, è den-
tro l’uomo, sente il suo corpo, i suoi organi interni, le protesi impiantate, i movimenti, alcuni pen-
sieri, ma non può interagire con lui, è solo uno spettatore, un testimone, la comunicazione è a senso
unico. “Sei giunto finalmente!” dice il dirigente e solo dopo un po’ Ratz comprende che sta dicendo
a lui, non al computer o ad altre persone, sta parlando in giapponese ma lui riesce a comprenderlo
benissimo. Il dirigente spegne ogni luce sullo schermo e sulla console, poi fa un cenno a degli inset-
ti, sono dei nano-calabroni da difesa, e questi se ne spariscono in un foro del pavimento. Dal soffitto
scende una campana argentata e il dirigente è adesso isolato dal mondo esterno. Ratz è intrappolato
in lui, lontano anni luce da ciò che stava un attimo prima facendo nel tempio, è solo nel dirigente,
ogni altro contatto è reciso.”Grandi eventi stanno per verificarsi, aspettavamo solo che tu fossi pron-
to. Chi l’avrebbe mai detto che il tesoro degli shahinai, un uomo da sempre votato alla bellezza e al-
l’amore, potesse essere il testimone e il catalizzatore per un così importante evento”. Ratz cerca di-
speratamente di dire “ma che cazzo volete da me” ma ogni canale di trasmissione è a lui precluso.
L’altro prosegue “in noi è concentrata tutta la saggezza e la conoscenza non solo dell’umanità, ma
anche delle divinità superstiti e delle IA. Religioni, magie, nanotecnologia, realtà reali e virtuali,
scienze d’ogni tipo sono oggi comandate dalla nostra unione. Un matrimonio alchemico, qualcuno
oserebbe definirlo. Guarda adesso: la mutazione ha inizio!”
Miliardi di miliardi di interruttori scattano e vi è il suono d’infinite sirene mentre un lampo pulsante
che muta colore ad ogni istante sembra compenetrarsi in ogni cosa, tutto ciò accelera esponenzial-
mente finché permangono solo colori che mai gli universi avevano visto. Uomini e altri senzienti si
fondono con senzienti creati dalla nanotecnologia, spirali di DNA danzano in set composti e decodi-
ficati dallo svolgersi di configurazioni frattali che si rincorrono nell’autosomiglianza su piastre fe-
noliche dismesse che conservano archeologiche topologie di metropoli scomparse. Tutto si miscela
a valanghe di dati che vorticosamente girano su se stessi avvolgendo nella loro danza tribale, interi
sistemi planetari. Nove e buchi neri s’inseriscono in questo vortice universale e matasse di fibre ot-
tiche di scarto accumulate da millenni assieme a materiali radioattivi in disuso ammonticchiati in
aule sotterranee di parcheggio, e tutto si miscela coi microchip, con le reti neurali, plasma, realtà
virtuali improbabili e perciò scartate, reti simstim ed entità biologiche viventi per formare un nuovo
assetto, un nuovo ordine. Tutto attorno a Ratz in una frazione di nanosecondo, muta e si decompone
mentre il tempo s’accartoccia su se stesso, le luci pulsano a ritmi non visti, le cellule mutanti s’as-
semblano in nuove nanomacchine frementi di vita. Tutto è mutato, ma tutto sembra riformarsi, ridi-
viene come prima, indistinguibile ma qualitativamente diverso. Ratz comprende solo in parte ciò
che in una frazione d’istante è accaduto, neppure è cosciente del ruolo da lui svolto, ma comprende
che è successo qualcosa d’immensamente grande, di fondamentale per l’uomo, per gli alieni, per le
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macchine, per gli dei, per gli universi. Si ritrova con una nuova sigaretta accesa in mano nella stan-
za della meditazione d’ingresso, accanto a lui Padre, Santa e il Lama.
- Cosa è accaduto quando il tempo ha iniziato a vacillare? – Il Lama sorride, ed è Padre ora a parla-
re con la stessa voce del dirigente della zaibatsu:
- Alfred Van Vogt disse un giorno ad un giornalista che lo stava intervistando: ”Voglio confidarle
un segreto, i miei finali sono superiori alla comprensibilità umana”.
Ratz allora capisce, almeno in parte, sorride e con lui sorridono Padre, Santa e il Lama. Con loro
sorridono miliardi di miliardi di miliardi di esseri senzienti, siano essi biologici, IA, nanomacchine,
dei, semidei o diavolerie impossibili da descrivere, mentre un nuovo colore, mai visto prima è ora
presente nella tela che Gimel ha appena tessuto e accanto a lei Vav e Dalet osservano con approva-
zione.
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QUADRO TERAPEUTICO
(IL CANCELLO DI FIDEL)
Mi chiamo Fidel, ma questo non è il mio vero nome però tutti ormai mi chiamano così forse per la
barba che porto o per i sigari o per i sandali che indosso sempre. Un giorno me ne stavo qui appog-
giato al muro della separazione accanto al cancello come ora, e riflettevo senza far niente, Martin
mi vede e fa: ”Ehilà Fidel che fai? Pensi alla rivoluzione?” e da quel momento sono divenuto Fidel
per tutti. Martin è bravo, è il mio miglior amico, forse è l’unico amico, eravamo poco più che ragaz-
zi entrambi la prima volta che c’incrociammo qua dentro sotto gli archi del chiostro grande, e da al-
lora quanti ospiti, clarisse e bonzi abbiamo visto arrivare, andar via e qualche volta morire.
Martin mi viene a trovare ogni mattina nella mia cella e s’informa se ho dormito bene. Io gli rispon-
do sempre di sì e chiedo a lui come ha passato la notte e anche lui mi risponde sempre con un:
“Bene, bene”. Questo dialogo, sia per me sia per lui è come un atto scaramantico, una rassicurazio-
ne che a vicenda cerchiamo, vogliamo la sicurezza che la notte sia passata bene per entrambi, così il
giorno che inizia sarà buono e uguale a sempre, che il muro che ci separa dall’esterno non crolli mai
affinché la realtà che viene da fuori non ci raggiunga.
Già la realtà all’esterno, quante cose ho sentito dire, quanto sangue è stato versato nei pogrom anti-
slamici in tutto il mondo, poi c’è stata un’occupazione aliena svanita nel nulla e un ritorno alla nor-
malità senza più musulmani e senza più alieni. Cose grosse sono accadute, ma noi due ci siamo iso-
lati qua dentro ove solo le notizie, e non tutte, sono penetrate entro il muro della separazione che ci
ha protetto.
Nella mia cella come in quelle degli altri ospiti vi è un quadro terapeutico che ogni giorno cambia la
scritta e sulla quale noi siamo invitati a meditare aiutati anche dalle figure geometriche colorate che
sono in movimento sotto la scritta. Nel mio quadro terapeutico ieri c’era la frase “Le ho parlato se-
riamente, le ho detto che stavo scherzando”, oggi invece c’è scritto “ Gli Adolf Hitler e i Pol Pot del
futuro non salteranno fuori dal deserto, usciranno tranquillamente dai centri commerciali”. Io non
medito mai sulle scritte terapeutiche, le leggo e basta poi le dimentico, oggi infatti ricordo solo que-
ste due.
Ma questa notte non me la sto passando proprio bene, come mille altre notti d'altronde, penso a que-
sta vita separata da tutti e a tratti sogno di masturbarmi nascosto nell’angolo buio d’uno sgabuzzino
e non voglio che tutto questo duri per l’intera mia vita. Penso alla clarissa che ieri ho visto, affasci-
nante come l’unghia rientrata d’un gatto, il suo viso profumato al disinfettante, lei fa ora parte d’un
quadro ma all’improvviso mi coglie la paura dei ragni. Qui nello sgabuzzino ci sono, li ho visti an-
che altre volte e ora che il silenzio mi procura strani rumori alle orecchie, dovrei pensare ad altro,
tornare alla clarissa per esempio, ma non ci riesco. Quelle zampette gironzolanti m’intrigano, la loro
contemplazione m’inchioda la mente ipnotizzandomi. I ragni escono dalle fessure delle pareti e ini-
ziano il loro lavoro, mi trovo a guardarli mentre tessono e poi scompaiono mutandosi in trasparenze
in attesa. Vorrei allora aiutarli a riempire le loro trappole penzolanti, andar io a caccia di mosche e
di zanzare, prenderle a volo e stringerle nel pugno. Le avvicino poi, loro mie prigioniere, alle geo-
metrie sottili, trasparenti e vibranti e le lascio andare giù di botto in quelle tele che hanno la stessa
trama del kevlar.
Stamani Martin non si vede mentre io sto qui a pensare e a sognare confondendomi, decido infine
d’uscire a cercarlo, sono sulla porta e per riflesso leggo la scritta terapeutica giornaliera “Ho trovato
la donna della mia vita, bene adesso mi basta di trovare la vita e sono a posto”. Attraverso sale e cu-
cine, cortili e lavanderie, ma di Martin nessuna traccia. Giro per tutto l’edificio attraverso i chiostri
e le chiese, guardo nelle biblioteche… Sono ora in uno dei piani più alti ove vi sono degli stanzoni
con dei fili metallici tesi ove le clarisse stendono i lenzuoli lavati ad asciugare, mi affaccio tra gli
archi e guardo il cancello oltre il giardino d’ingresso e lo vedo, fuori dal muro della separazione. Lo
chiamo a voce alta e lui mi risponde agitando le braccia e grida: “Ti aspetto! Ti aspetto!”poi mi vol-
ta le spalle e s’avvia lungo il sentiero che si dipana dal cancello e va verso il mondo esterno.
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Lo chiamo nuovamente, ma lui non è più visibile, allora piango, urlo il suo nome…
Rientro infine nella mia cella, c’è una nuova scritta terapeutica “È consuetudine del destino dare
strani appuntamenti”, riprendo a fantasticare sulla clarissa, sdraiato sul futon, la spoglio, è nuda da-
vanti a me, poi mi riprendo e, dove eravamo rimasti? Ah,i ragni: talvolta sbriciolo le loro trappole, i
loro tessuti improbabili, libero le prede, distruggo il loro lavoro. Dopo aver vandalizzato anche i fili
dondolanti sgelo i pensieri che sono inutili anche ora che il mattino è inoltrato. Di giorno la schiera
degli ospiti ondeggia, scorre da un’ala all’altra dell’edificio, s’incontra coi bonzi e le clarisse e a ore
stabilite s’intrecciano i visitatori a tutti loro. Ma è la notte che talvolta riesco a sfuggire anche dai
miei pensieri, scavalco l’ultima finestra del corridoio ove sorge la mia cella e mi ritrovo in un giar-
dino vietato, mi sento come una libellula a zonzo sopra le acque scure della notte, scarcerando l’im-
maginazione la libero come una perla d’una ostrica di cristallo. La mia immaginazione è libera, ma
io non lo sono, carnevincolato uncinato da pensieri che guastano con impeto anche il mio corpo.
Passo il tempo in un vagare senza senso nell’habitat che da sempre mi protegge e mi ospita, stranie-
ro tra queste mura abitate da stranieri. Stamani mi ero alzato all’alba, ma adesso la notte
s’avvicina,dimentico i ragni, gli ospiti, le clarisse, la mia clarissa denudata, i visitatori, i maomettani
e gli alieni, li allontano tutti scotendo la testa, scendo nelle cucine e mi preparo un caffè, passo poi
in fureria e scelgo con cura dei vestiti nuovi: scarpe da tennis, calzini, boxer, jeans, T-shirt e giacca
a vento. Così vestito a nuovo attraverso tutto l’edificio, poi il giardino d’ingresso e giungo davanti
al cancello. Il gran cancello di ferro battuto, gli do una spinta e questo inaspettatamente s’apre e con
gran fracasso crolla a terra. Si alza la polvere attorno al gran cancello abbattuto, anche una parte del
muro di separazione è crollata. “Ma qui è tutto marcio” sto pensando mentre scavalco la ferraglia e
m’avvio a passo spedito verso il sentiero che non so dove porti, ma va verso il mondo esterno. Die-
tro a una curva tra gli alberi scorgo Martin, è seduto sopra un tronco caduto e sono certo che mi sta
aspettando. Al lato del sentiero c’è un cartello simile ai quadri terapeutici delle nostre celle, ma è
molto più grande e infisso nel terreno con due assi metalliche, c’è scritto “Fa più rumore un albero
che cade che una foresta che cresce”.
Martin intanto è accanto a me, ci abbracciamo e stiamo piangendo.
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23ADRI
Quando un tiranno cade cosa succede ai suoi consiglieri? Un tempo li incarceravano o li facevano
fuori senza tanti complimenti. Ma quelli erano tempi barbari, oggi con questo regime mondialista
aristo-demo-cratico siamo altamente civili e la violenza fisica è stata ripudiata da un bel pezzo. Non
da tutti ovviamente, ancor oggi certe operazioni nascoste della yakuza da questo punto di vista la-
sciano un po’ a desiderare soprattutto se parliamo dei regolamenti di conti o delle mutilazioni ritua-
li, neppure scherzano i rinati bambini dell’islam con i loro, fortunatamente sporadici, attentati terro-
ristici. Eppure i maomettani erano stati sradicati dai pogrom passati: la mala erba trova sempre ter-
reni fertili. Ma torniamo al nostro Tiranno caduto, lui è stato fatto sparire, sicuramente l’hanno in-
viato in qualche dorato domicilio coatto, io invece in qualità di suo consigliere, mi sono trovato da
un istante all’altro disoccupato, mi sono state invalidate le tessere di credito e sequestrati tutti i miei
beni all’infuori dell’abitazione di residenza. Così per la mia sopravvivenza ho cominciato a vendere
gli oggetti rimasti in mio possesso: orologi, anelli, francobolli e monete da collezione, quadri, me-
morie solide, pezzi d’antiquariato, modulo di trasporto, scorta di droghe e medicinali… Insomma
mi sono venduto tutto il vendibile, anche i mobili e i lampadari, ora non mi resta altro che rivolger-
mi a qualche trafficante d’organi. Solo il computer d’ultima generazione è rimasto nella casa, ma
poi esaurita ogni altra risorsa anch’esso ha preso la strada dei rigattieri. È notte e sto rientrando in
casa, le giocate che ho tentato sono andate male, ho speso gli ultimi crediti in neococa e birre. La
porta di casa è aperta, non me ne preoccupo, non l’avrò neppure chiusa tanto in casa non c’è più
niente da rubare: c’è rimasto solo un mucchio di coperte e di stracci trasformati in pagliericcio, ove
dormo. Al mio ingresso s’accende una debole luce, è quella d’emergenza che ancora in automatico
funziona, almeno finché non mi staccheranno l’energia. Sono ormai rassegnato a questa morte so-
ciale, penso che forse le vecchie soluzioni erano più rapide e meno traumatiche, chissà… questa mi
sembra una condanna a morte lenta. Entro nel salotto ove ho piazzato il pagliericcio e per terra scor-
go un computer: strabuzzo gli occhi, chi può averlo portato? L’ho forse ordinato prima che succe-
desse tutto questo casino? Lo osservo attentamente per convincermi che non sia un’allucinazione:
però che apparecchio strano… sembra luminescente, ci giro intorno e lo osservo con la massima at-
tenzione smaltendo di colpo le droghe che ho addosso. Innanzi tutto sembra che non sia appoggiato
al pavimento, ma che lo sfiori soltanto, poi alcuni piccoli suoi particolari sono indistinti ed è da
quelli che fuoriesce una leggera luminosità verdognola. La tastiera è più grande del dovuto e d’una
foggia strana inoltre vi sono dei tasti con simboli mai visti oltre alle consuete lettere e numeri. Lo
schermo è di quelli ultrapiatti, sottilissimo come per la verità non ho mai visto, ha lo spessore d’una
pellicola. Niente case, niente stampante né mouse. Le periferiche sono ridotte al minimo e manca
pure il cavo per l’alimentazione ciononostante lo schermo è acceso e il desktop mostra un azzurro
chiaro che è attraversato da righe più scure che lentamente avanzano facendolo poi divenire tutto
azzurro scuro, poi appaiono righe più chiare e torna tutto dell’azzurro di partenza. Fisso lo schermo
quasi ipnotizzato dall’alternanza fluida di questi due colori simili.
- Allora, ci stiamo rinvenendo?
- Chi ha parlato?
Mi guardo attorno, osservo lo schermo, mi rendo conto che non c’è nessuno in casa, ci sono solo io
e a pensarci bene il suono non è venuto né da dietro le mie spalle né da questo strano computer, ma
è come se fosse nato nella mia testa.
- Ti sto parlando per mezzo del computer, non te ne rendi conto?
E questa volta le parole appaiono anche sullo schermo, allora automaticamente batto un “Sì” di ri-
sposta e le lettere appaiono sotto la domanda in un set digitale che s’è fatto lattiginoso.
- Preferisci digitare? Per me va benissimo.
Queste parole si formano sotto le mie.
- Chi sei? Chi ha portato questo strano computer?
- Un computer è un computer, ce ne sono d’infinite forme e funzioni, e per rispondere alla tua
ultima domanda: sono io che te l’ho teletrasmesso qui.
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- Teletrasmesso? Perché?
- Sono uno studente e sto lavorando ad una tesi. Vuoi aiutarmi?
- Avrei al momento altri problemi.
- Ma sarai ricompensato per il disturbo.
- Una specie di lavoro?
- Un lavoro per te redditizio.
- Allora ti dico di sì. Sono pronto ad aiutarti.
- Non sei ferito?
- Ferito? No, perché?
- Oggi è il 12 settembre.
- Veramente siamo d’agosto.
- Non è il 12 settembre?
- Te l’ho detto, siamo d’agosto.
- Allora sono in anticipo, l’attacco alle torri non c’è ancora stato.
- Quale attacco? Quali torri?
- Le Twin Towers a New York.
- Stai parlando dell’attacco al World Trade Center?
- Sì.
- Ma quello è avvenuto duecento anni fa, gli integralisti islamici combinarono poi altri casini
finché il mondo si sollevò contro di loro e scattò un pogrom di dimensioni inaudite. Solo ora c’è un
gruppetto “i bambini dell’islam” che continua a far casino, ma come religione sono quasi scomparsi
dalla faccia della Terra.
- Possibile che abbia sbagliato di così tanto?
- E poi perché dovrei esser ferito? Qui siamo in Italia mica a New York!
- Temo d’aver fatto un po’ di casino con le coordinate.
- Ne sono convinto.
- Dimmi che giorno è da te.
- Siamo nell’agosto del 2236, il giorno preciso non me lo chiedere perché non lo
so.
- E sei in Italia, m’hai detto.
- Sì.
- Ti dispiacerebbe spostare il cursore verso l’ultima icona in basso a destra?
- Con cosa lo sposto, non vedo né la pallina né il mouse.
- Con gli occhi stupido, basta guardare l’icona e il puntatore segue il movimento
oculare.
- Così? Ma non succede nulla.
- Lascia perdere, provvedo io, non ci sai proprio fare.
- Va bene, io collaboro ma tu come hai intenzione di ricambiare?
- Ci sarà pure un concorso a premi dalle tue parti, no? O la possibilità di fare scommesse. Io ti
do la dritta vincente così ti ripaghi, no?
-Mi sembra tutto un po’ fuori del normale, comunque sto al gioco. C’è l’estrazione della lotteria
nazionale, è una specie di superenalotto, sintonizziamoci sulla prima uscita del prossimo mese.
- Che sarebbe la prima estrazione del settembre 2236.
- Sì.
- Allora domani a quest’ora ci sentiamo e cercherò la combinazione vincente così potrai gio-
carla, ma dovrai rispondere a tutte le domande che ti farò nelle prossime sedute.
- Più che d’accordo, a domani.
La luminescenza dello schermo s’attenua e ridiviene tutto azzurro chiaro, un logo per un istante
appare, è una rosa dei venti con scritto sotto “university” e altre parole che non riesco ad afferrare.
Lo schermo poi si spegne e non solo quello, anche la tastiera cessa d’esser luminescente e diviene
grigia, mentre lo schermo si ritira in se stesso e sul pavimento resta solo un sottile filo metallico. Ri-
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mango fermo nella stanza ora illuminata solo dalla luce d’emergenza e guardo attentamente ciò che
rimane del computer: un filo, una tastiera metallica che ora sembra rinsecchita, e basta! Osservo an-
cora a lungo quelle due misere cose ripensando a quanto è successo nell’ultima mezz’ora. Mi rendo
conto solo adesso che a parte le prime righe non ho più battuto sulla tastiera, la conversazione s’è
svolta telepaticamente, o qualcosa del genere, e tra l’altro fin dall’inizio abbiamo parlato in italiano,
ma chi comunicava era convinto d’essere a New York pertanto forse la comunicazione inizialmente
è stata in inglese probabilmente, oppure mi ha comunicato inizialmente in inglese e ha proseguito
scrivendo in italiano perché l’ha individuato come mia lingua originale .Ma il vero problema non
sta qui, il computer è più ologramma che materia solida, sono sempre maggiormente perplesso, non
mi sarò mica immaginato tutto? Uno studente che vuol fare la tesi. Devo proprio fidarmi d’uno stu-
dente? Viene poi dal futuro o da chissà quale dimensione più o meno parallela o trasversale, insom-
ma di questo non m’ha detto proprio niente. Quando io ero studente ero totalmente inaffidabile e
anche i miei compagni d’università lo erano quanto me e qualcuno ancor di più, se è per quello. E
se mi fossi inventato tutto e questa fosse un’allucinazione dovuta alla neococa, talvolta le da, o se
fosse uno scherzo dei nuovi tecnocrati che m’hanno ridotto alla fame? Non mi resta altro da fare
che aspettare domani, così vedrò se questo cazzo di computer tornerà a funzionare e se lo studentel-
lo rispetterà le promesse, già deve portarmi i numeri, e se uscissero davvero? Rimugino a lungo
questi pensieri e mi butto sul pagliericcio, ordino ad alta voce alla luce d’emergenza di spegnersi e
resto al buio a fantasticare ad occhi aperti. Al mattino mi risveglio di buonora, sono incredulo su
quanto è successo, guardo ciò che stamani resta del computer: un piccolo ammasso metallico con
frammenti di resine fenoliche, la vista di queste povere cose mi fa pensare d’essermi sognato tutto.
Lascio però stare i frammenti così come sono ed esco in strada ove tutti mi evitano come fossi un
barbone, ma forse almeno nell’aspetto lo sono proprio diventato .Mi siedo su una panchina in un
giardino pubblico che si trova nel mio quartiere e che è divenuto la mia meta preferita. Guardo nel
cestino se c’è qualche residuo di merendine di qualche bimbo, ma stamani, almeno per ora il cestino
è pulito, peccato, niente colazione e poi mi sento uno schifo, la bocca è amara e i morsi della fame
attanagliano il mio stomaco. Cerco d’ignorare i crampi e chiudo gli occhi. Un signore di mezza età
ben vestito, senza dare nell’occhio sta avvicinandosi alla panchina ove sono seduto. Passa davanti
senza guardarmi e lascia cadere una banconota accanto ai miei piedi, indifferente prosegue. Non rie-
sco a ricordare chi sia ma sono sicuro di conoscerlo, o quanto meno d’averlo già visto più volte, for-
se sarà anche lui del quartiere. Mi chino per raccogliere la banconota e resto esterrefatto nel vedere
che è da mille crediti. Altro che vicino o del quartiere, questo dev’essere un amico del passato Ti-
ranno, m’ha riconosciuto e ha voluto aiutarmi. Forse qualcosa comincia a girar bene per me, prima
quell’inaffidabile studente con quel computer che sembrava una figata e invece ora è un rottame,
poi questa donazione. M’è tornato il buonumore dopo mesi di sconforto, entro in un bar e faccio
un’abbondante colazione. Compro dei vestiti puliti, mi reco in un bagno pubblico, mi lavo, mi rado
barba e capelli, mi rivesto sul pulito e getto nell’inceneritore le mie cose passate. Mi guardo allo
specchio, sono di nuovo presentabile, non ho proprio l’aspetto del consigliere come un tempo, sem-
bro di più uno di quei giovani irrequieti. Esco e torno nel mio appartamento e guardo sconsolato ciò
che ne rimane, praticamente quasi nulla, il computer è sempre un rottame e pensare che poche ore
fa era brillante e vivo come mai ne avevo visto. Esco nuovamente e questa volta richiudo la porta
d’ingresso, all’edicola acquisto una rivista di racconti, è in formato e-book leggi e getta, torno alla
panchina e m’immergo nella lettura. Il giorno scorre veloce, mi sono alzato dalla panchina solo tre
volte: per prendere un caffè, per comprarmi un pacchetto di sigarette, per orinare dietro ad un ce-
spuglio. Intorno a me genitori con figli piccoli si sono alternati per tutto il pomeriggio, alcuni pen-
sionati hanno chiacchierato per ore seduti sull’erba, due coppie si sono scambiate effusioni. È il mo-
mento del rientro, se non sono impazzito del tutto lo studente dovrebbe comunicare con me attraver-
so quello strano computer. Entro in casa e questa volta neppure s’accendono le luci d’emergenza,
hanno staccato anche queste, nel salotto c’è una luminosità verdognola, il computer è di nuovo atti-
vo, sembra di plastica viva con riflessi intermittenti, anche lo schermo oggi e verde e stelline oro ro-
teanti si muovono lentamente sul desktop. Mi siedo per terra di fronte allo schermo e scorgo una
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piccola freccia, il puntatore. Muovo lentamente, ma con decisione lo sguardo e vedo che la freccia
segue i miei movimenti, ho capito come funziona, era semplice! La mando sopra una delle stelle do-
rate scelta a caso e penso di cliccarci su. S’apre una pagina, vi sono delle immagini di macchinari
che non ho mai visto e sconosciute listate di lettere in cirillico. Nella mia mente risuona una voce
decisamente femminile stavolta e parla in una lingua che non conosco. Si ferma su una frase inter-
rogativa, alla quale non so come rispondere e la ripete più volte. C’è una barra dei comandi in fondo
al desktop, spingo la freccia su un’icona che sembra un libro aperto, clicco. Lo schermo si fa intera-
mente nero e la voce con l’insistente domanda svanisce dalla mia testa, appare la scritta:
- Ti stai esercitando?
- Sì.
- Vedo che oggi riesci a muovere il cursore.
- È facile, ieri forse ero troppo sconcertato, o non credevo fino in fondo che tutto questo fosse
reale.
- Ti ho portato i numeri della lotteria.
- I numeri di settembre?
- Li ho trovati in memoria all’Università.
- E se veramente escono, cosa vuoi in cambio?
- Usciranno, vai tranquillo. In cambio devi raccontarmi tutta la tua vita.
- Affare fatto.
- I numeri sono: 2 – 41 – 73 – 75 – 80 – 90.
- Aspetta che li appunto, fammi trovare qualcosa per scrivere.
- Te li scrivo io.
E da sotto lo schermo appare una sottile striscia di carta ma che al tatto sembra metallo coi sei nu-
meri stampati sopra.
- Adesso ti racconterò tutta la mia vita.
Mi metto così a narrare un po’ tutte le cose più o meno importanti che mi sono capitate nella vita
cominciando da quando ero un ragazzo fino ad oggi e ci metto qualche ora, tra l’altro lo studente
non m’interrompe neppure una volta.
- Ecco, avrei finito.
- Elaborerò ciò che mi hai detto, dopo che avrai riscosso la tua vincita ci risentiremo e ti farò
delle domande per approfondire la tua narrazione nei punti che riterrò più interessanti.
- Però io avrei un problema. Sono praticamente al verde, potresti in qualche modo aiutarmi per
farmi arrivare al mese prossimo?
- Qualcosa per te posso fare senza infrangere i codici d’interferenza. Hai una tessera di credito?
- Sì ma non butta, il conto è stato estinto.
- Trovala. C’è una fessura nella tastiera, infilala lì dentro che te la clonerò per bene.
- Aspetta che la cerco, devo averla nel portafoglio, la tenevo in ricordo di tempi migliori. Ecco
fatto.
- Qual’era il tuo PIN per le operazioni?
- Digitavo 709014M e poi lo scanner retinale mi esaminava.
- Ecco ho lasciato lo stesso numero, ora la tessera ha credito illimitato, almeno per una decina
di giorni, non abusarne e non dare nell’occhio.
- Elastico però il protocollo di non interferenza, comunque grazie.
Estraggo la tessera dalla fessura mentre il computer sta nuovamente perdendo lucentezza e lo stu-
dente se ne è andato, lo sento mentre la macchina diviene sempre più inconsistente, è come se sfug-
gisse questa realtà per trasformarsi in qualcosa di poco tangibile di materie prime che poi si rias-
sembleranno nell’oggetto definito. Anche questa volta mi sono dimenticato di chiedere allo studente
in quale tempo o dimensione viva, se è un maschio o una femmina, quanti anni ha, se è un terrestre
o un alieno. Strano, quando sono in contatto con lui (o con lei o con esso), mi dimentico sempre di
chiedergli cose personali, e se fosse una IA? Chiudo la porta di casa ed esco, mi reco al primo e-
bank e infilo la tessera nella fessura, digito il PIN e accosto l’occhio allo scanner: prelevo cinque-
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cento crediti senza alcuna difficoltà, sì la fortuna dev’essere proprio girata un’altra volta dopo le tra-
versie politiche. Vado al banco-lotto e gioco i numeri, spero fortunati. È giunto il momento di ri-
mettere in sesto la mia vita, mi reco ad una agenzia “tutto per la casa”e ordino l’occorrente per la si-
stemazione e l’arredamento delle stanze del mio appartamento, solo il salotto lo lascio stare così co-
m’è, almeno finché non sarà tutto chiarito con lo studente e non saprò che fine farà il computer. Ov-
viamente pago a rate per non destare sospetti e con la riciclata mia tessera, nessun problema. Torno
a casa e chiudo a chiave la stanza col computer, mi siedo sugli scalini d’ingresso e attendo gli ope-
rai dell’agenzia. Sono dunque seduto sugli scalini e sto leggendo un nuovo e-book leggi e getta
quando arrivano puntuali i due furgoni dell’agenzia con operai e materiale. Iniziano i lavori, disinfe-
zione e pulizia, mi chiedono della stanza chiusa e io dico loro che quella così deve restare, è solo un
magazzino pieno di cose non mie. Dopo la disinfezione tutto viene tinteggiato e i pavimenti lucida-
ti, arrivano i mobili, gli elettrodomestici, le luci. L’energia è già stata riattivata e la casa è nuova-
mente in rete, ho scelto proprio bene come agenzia, e pensare che l’ho presa a caso. Le operazioni
di rifacimento dell’ambiente durano poche ore e io le seguo con attenzione, infine gli operai finisco-
no, salutano e se ne vanno non prima d’avermi fatto firmare tutta una serie di documenti che attesta-
no il lavoro da loro svolto e i materiali scaricati. Esco pure io e mi reco al computer-bar più vicino,
mangio, bevo qualcosa, mi fumo una sigaretta ed esco, acquisto tutta una serie di nuovi abiti e torno
a casa. Accendo la TRI-TV nuova di zecca e mi sintonizzo su un canale di notizie 24 ore su 24. Le
solite storie di sempre, il Tiranno qui, il Tiranno la, tutto come sempre, il governo decide, il gover-
no provvede, è cambiato il volto del Tiranno ma tutto è come prima anche le altre notizie spicciole,
uno sciopero improvviso, un incendio, un grave incidente stradale, l’ennesimo attentato, questa vol-
ta con due morti, dei “bambini dell’islam”, una retata di droga vietata, un nuovo servizio giornaliero
per l’avamposto lunare, ecc. Ė da una vita che non mi guardo la TRI-TV, ma niente è cambiato, non
mi sono perso nessuna puntata, è solo cambiato il volto del Tiranno e quello dei suoi consiglieri,
pure al governo sembra ci siano le stesse persone. Comunque tutte queste cose non mi riguardano
più, ormai la mia vita ha preso una nuova svolta imprevista. Do un’occhiata distratta al salotto, ma
il computer è tuttora inattivo. Mi siedo sul letto e mi collego con un porno attore della rete simstim,
godo con lui che in un letto ad acqua gigantesco deflora attricette una dietro l’altra finché non mi
addormento. Al mattino mi risveglio nella casa tirata a lucido e coi mobili nuovi di zecca, lì per lì
sono un po’ frastornato all’idea, mi rinfresco in fretta, sniffo una striscia o due di neococa tanto per
rifasarmi col nuovo giorno e mi butto nel bagno. Ripulito, risciacquato e rinfrescato eccomi rimesso
in sesto, vado in salotto, il computer è tuttora inattivo, meglio così, avrò più tempo per riorganizzare
i cazzi miei, è da troppo che vegeto rassegnato mentre attorno a me il mondo va avanti. Sosta ai
giardini, lettura delle ultime notizie, ristorante questa volta di classe, shopping di cose utili e cian-
frusaglie, acquisto anche un modulo di trasporto usato, un comune Samamoto a celle d’idrogeno di
piccole dimensioni e di color grigio, è un mezzo qualsiasi, comunissimo, tanto per non dare nell’oc-
chio. Col Samamoto arrivo alla piscina comunale e mi tuffo beato nelle acque del Pacifico con
spiaggia tropicale, poi m’abbandono al sole. Queste piscine cittadine sono un vero sballo, uno sce-
glie la località ed è subito lì, lo so che è tutto un misto di porte transfer, ologrammi, programmi sim-
stim e altre diavolerie del genere, ma l’illusione, se d’illusione si tratta, è più reale del reale. Mi cro-
giolo nudo al sole su questa spiaggia tropicale, faccio cenno ad un’altra bagnante sdraiata lì vicino a
me, lei mi sorride e s’avvicina, parla francese, questa lingua la conosco solo un po’ ma non ho nes-
suna voglia d’attivare il traduttore, perciò la lascio dire, le sorrido e la prendo per mano, mani lun-
ghe, affusolate con unghie ben curate e laccate con smalto nero. La faccio sedere accanto a me sulla
sabbia e le accarezzo parti intime, lei accetta e fa altrettanto, dopo poco facciamo l’amore così sul
bagnasciuga mentre il sole ci riscalda. Che bello queste piscine comunali, un vero sballo, sono sdra-
iato a occhi chiusi, forse sto già dormendo. Quando torno in me lei non c’è più, se ne è già andata,
cazzo, almeno il suo nome poteva dirmelo!O forse era un programma d’intrattenimento della pisci-
na. Mi tuffo, poi mi risdraio al sole. La mia vita è ripresa alla grande, posso fare ciò che voglio, non
desidero mai più lavorare, ho cambiato totalmente il mio look, non voglio dar nell’occhio, non vo-
glio che qualcuno mi riconosca: ora ho i capelli biondi, cortissimi a parte un piccolo codino sul die-
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tro, mi sono lasciato pure due sottili baffi biondi, quasi bianchi. Vesto sempre casual all’ultima
moda come i giovanissimi, non possiedo più né giacche né cravatte, ma solo felpe, T-shirt, jeans.
Anche le scarpe sono esclusivamente sportive. Nessuno può riconoscermi e anche i locali che ora
frequento sono totalmente diversi da quelli della mia vita precedente: sono contento così. Il compu-
ter non da più cenno di vita, forse anche questo è giusto così, mi sento ancor più libero, e la tessera
seguita a buttare tranquillamente. Dimenticavo: i sei numeri sono usciti e a me hanno dato una nuo-
va tessera anonima di credito con l’importo vinto, una somma da sballo! Penso sempre più spesso di
buttar via i rottami del computer e di trasformare la stanza spoglia in un salotto elegante, oppure di
vender tutto e trasferirmi in qualche altro posto del pianeta, ma rimando sempre da un giorno all’al-
tro. Improvvisamente oggi il computer ha ripreso la sua forma smagliante, mi chiudo allora in salot-
to e mi siedo su un cuscino proprio davanti allo schermo, oggi rosa. Inizio a digitare sulla tastiera:
- Caro il mio studente, come ti chiami?
- 23Adri.
- Allora sei una ragazza?
- Perché, non te n’eri ancora accorto?
- Non ci avevo fatto caso, tu puoi vedermi?
- Sì e ti trovo sempre più attraente, la prima volta sembravi un barbone.
- Potrei vederti pure io?
- Ci ho già provato, ma l’interfaccia non risponde come dovrebbe. Sai com’è le attrezzature
dell’Università sono in economia.
- Come ai miei tempi! Allora a che punto è la tua tesi?
- Va bene anche se ho dovuto spostare la ricerca di duecento anni, ma il consiglio di facoltà
l’ha accettata senza colpo ferire e devo dire d’essere a buon punto. Dovrei fare una scansione della
tua mente, me lo consenti?
- Prima spiegami cosa sarebbe.
- Ti darò una cuffia e tu dovrai infilartela in testa come un cappuccio, così avrò la scansione
della tua mente e potrò farne una simulazione.
- Una simulazione?
- Un duplicato virtuale dal quale potrò estrapolare ogni tua conoscenza e colmare le lacune che
ancora adesso ho. Non ci sarà più alcun problema di tempo e non dovrei avere più bisogno d’impor-
tunarti. Penso che la ricompensa che hai avuto per il lavoro svolto sia sufficiente, comunque se hai
bisogno d’altro tu prova a chiedere.
- No, va bene così, facciamo pure questa scansione e poi lasciamoci.
Una cuffia nera di materiale simile al feltro si materializza accanto alla tastiera, la prendo e me la
infilo in testa, aderisce perfettamente… non so quanto tempo sia passato, mi trovo steso sul pavi-
mento, ho uno sgradevole sapore metallico in bocca, ho dormito o forse sono svenuto, sono tutto
sporco dei miei rifiuti, ho fame, sete e sono totalmente indolenzito. Anche la vista sfarfalla e vedo
lucciole luminose rincorrersi per la stanza. Al posto del computer c’è un misto di limatura metallica
e frammenti plastici combusti, la cuffia non c’è più. Tento d’alzarmi ma un violento capogiro me lo
impedisce, mi trascino allora sul pavimento e raggiungo la cucina, apro il frigo e estraggo una busta
di latte, ne butto giù un sorso ma subito lo risputo, è acido. Prendo allora una bottiglia di succo di
frutta, con fatica svito il tappo, ne butto giù un sorso, questa è buona, ne bevo un sorso alla volta re-
stando sul pavimento. C’è poi una bottiglia d’acqua minerale, l’afferro e bevo pure questa a piccoli
sorsi. C’è del succo di pomodoro, finisco anche questo deglutendo lentamente. Man mano che il
tempo passa mi rimetto sempre più in sesto e le forze ritornano completamente. Ma quanto è durata
quel cazzo di scansione? Non lo so e ho smesso di chiedermelo, sono ormai trascorsi tre giorni da
quando mi sono risvegliato steso sul pavimento e mezzo morto di fame, dunque ho chiuso con la
studentessa, ho ripulito la stanza anche dai residui del computer e l’ho arredata di nuovo, ho ripreso
queste mie nuove abitudini e mi sembra d’aver sognato tutta quanta questa storia. Ho messo la tes-
sera taroccata in una cassetta di sicurezza tanto con la vincita non dovrei avere più problemi finan-
ziari e la politica m’interessa sempre meno visti i precedenti anche se alle volte mi ritrovo a pensare
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a come se la passerà il Tiranno del quale ero consigliere e che tutto sommato era una bravissima
persona anche se avrà avuto pure lui i suoi difetti.Esco e scorgo una e-mail volante che mi segue,
giro l’angolo veloce ma questa mi viene dietro, mi fermo e comincia a volarmi attorno alla testa
lampeggiando. Da quando non sono più consigliere nessuna e-mail è più svolazzata alla mia ricerca,
sono un po’ timoroso mentre la leggo, mi dice che un funzionario governativo sta per mettersi in
contatto con me per consegnarmi un documento contenente informazioni della massima importanza
che mi riguardano. Porta la firma del gabinetto del Tiranno, quello nuovo non il mio. Che palle,
penso e riprendo i miei giri, dopo poco sono immerso nella lettura di un volume di poesie quando
un funzionario ministeriale mi si siede accanto. È un contatto che non desidero, faccio per alzarmi
ma lui mi fa:
- Aspetti!
- Prego?
- Avrei da parlarle.
- Mi dica.
- Il Tiranno le manda i suoi saluti e mi ha incaricato di consegnarle personalmente questa busta.
Mi porge una busta bianca con sopra scritto il mio nome poi mi fa un cenno di saluto e s’allontana.
Apro la busta, estraggo un foglio e leggo: “Abbiamo valutato positivamente il suo comportamento
seguito all’epurazione. Siamo soddisfatti delle sue azioni, pertanto se vorrà essere reintegrato con la
qualifica di consigliere dovrà recarsi nel suo vecchio ufficio entro ventiquattro ore dalla consegna
della presente. Nel caso lei non volesse accettare le comunichiamo che verrà considerato in pensio-
ne e avrà diritto a riscuotere un appannaggio mensile pari all’80% della sua ultima retribuzione.
Dall’ufficio di segreteria, per ordine e conto del Tiranno”. Guarda un po’ che fortuna sfacciata,
m’hanno anche pensionato e getto nel cestino dei rifiuti busta e lettera appallottolate. Passano i gior-
ni nella tranquillità più totale, niente di nuovo da segnalare se non un’avventura con una prestatrice
di sesso munita del terzo occhio. Non avevo mai avuto nessun rapporto con donne così modificate,
dicono che il terzo occhio stimoli le facoltà paranormali, sarà vero? Con lei ci sto bene e s’è trasfe-
rita da me. Altra novità, c’è una nuova droga sul mercato, dicono sia antientropica, fa fare viaggi
temporali, affermano sia pericolosa e ne ho avuto un pugno di granelli da un amico: ora viaggio in
continuazione e pericoli non ne vedo. Suonano alla porta, di malavoglia vado ad aprire, sarà la tipa
col terzo occhio che è tornata? Sì perché, me l’ero dimenticato ieri se n'è andata sbattendo al porta
dicendo che non voleva mai più rivedermi, chissà perché, questo non l’ho capito. Non è lei ma è
una ragazza bellissima con addosso solo una tunica trasparente, i suoi capelli rossi sono lunghi e lu-
minosi. Gli occhi sono verdi, i seni piccoli e i capezzoli eretti sono colorati di blu, all’ombelico ha
incastonata una gemma, il pelo pubico è rosso e rasato con cura a forma di punte. La sto ammirando
a bocca aperta e non sono ancora sceso a guardarle le gambe, sono rimasto incantato sul delta di ve-
nere, quando lei mi fa:
- Sveglia! Sono 23Adri! La tesi è stata un successo e ho ottenuto un viaggio premio per studio e
approfondimento sulla civiltà del tuo tempo. Staremo insieme qualche mese, sei contento?
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OPERA OMNIA
La città sta per accingersi ad un’altra settimana di lavoro e per le vie del centro c’è già chi in questo
lunedì settembrino s’incammina frettoloso e indaffarato. Lei mi sta aspettando fuori dal mio appar-
tamento, giù in strada, è lì fin dalla prima mattina. Il campanello suona mentre non mi sono ancora
alzato dal letto. Sono solo in casa, oggi ho il turno di riposo, i miei genitori ormai vicini alla pensio-
ne da poco sono usciti per recarsi al lavoro. Lascio suonare più volte, infine mi decido e vado ad
aprire. Me la trovo davanti sul pianerottolo, è vestita in modo strano, i suoi abiti sono tutti un po’
troppo attillati e parla anche in modo strano. Penso subito che si tratti di una straniera e certamente
non è di qui. La osservo incuriosito mentre non sono ancora del tutto sveglio, lei sta dicendo di ve-
nire dal futuro mentre io la guardo ancor più perplesso: per farmi tirar fuori i soldi cosa mai avrà
studiato questa forestiera? Sto per dirle “Grazie non m’interessa” e chiuderla fuori ma lei insiste di-
cendo di venire proprio dal trentesimo secolo. Comincio a prestarle un po’ d’attenzione.
- Scusa, ho capito male o m’hai detto di venire dal futuro?
- Dal trentesimo secolo.
- Ne sei proprio sicura?
Le chiedo sempre più incuriosito mentre mi abbottono la camicia e finisco di rassettarmi i pantaloni,
adesso penso che mi ha proprio incuriosito, no, non la butto fuori voglio proprio vedere che cosa
m’inventa. Spiega che lei è un’affermata ricercatrice universitaria e ha usato per venire da me, una
macchina del tempo, che sarebbe, mi spiega puntigliosamente, un veicolo che consente di spostarsi
avanti e indietro negli anni, come le nostre automobili consentono di spostarsi da un punto all’altro
dello spazio.
- Posso immaginarlo – le rispondo poco convinto e lei insite dicendo che nel suo mondo è una rino-
mata studiosa delle civiltà passate. Una sua tesi, sulla civiltà del ventiduesimo secolo, l’ha portata
alla ribalta nell’ambiente accademico del suo secolo, cioè del trentesimo.
- Una tesi sulla civiltà del ventiduesimo secolo?
- Sì.
- Cioè di quella che ci sarà tra duecento anni?
- Più o meno.
- Allora che ci fai qui? Sei fuori tempo massimo: siamo nel 1959!
- È proprio l’anno che ho scelto. Ho scoperto i tuoi scritti durante la mia permanenza in quel tempo,
e con stupore ho letto che parlavi anche di me.
A questo punto non so più cosa pensare e le chiedo se non stia dando i numeri. Lei ride e cerca di
convincermi (ancora!) che è una vera e propria celebrità accademica nel suo tempo e anche se sem-
bra una ventenne, mi garantisce che ha molti, molti anni di più e si perde in una serie di spiegazioni
che a me non spiegano proprio nulla, su ciò che fanno nel suo secolo per mantenere il fisico sempre
giovane. Insiste poi col raccontare che lei ha letto tutto, ma proprio tutto quello che io ho scritto, o
che scriverò e che ha collaborato con altri studiosi della sua università alla pubblicazione della mia
opera omnia. Aggiunge che è onoratissima di potermi conoscere di persona. Sono sempre più per-
plesso e quasi convinto che questa sia tutta di fuori, peggio d’un balcone ma decido di stare al gioco
e la faccio sedere e mi metto anche a fare un po’ d’ordine nella stanza, perché mi sembra che anche
lei si trovi un po’ a disagio, infatti, guarda furtivamente in qua e là. Ha uno zainetto azzurro, se lo
toglie dalle spalle, l’apre, ne estrae un esilissimo foglio e me lo porge. È leggerissimo, è sottilissimo
e sembra metallico. Lo guardo con attenzione e sopra c’è stampato il mio nome, una foto a colori
che mi rappresenta e che sembrerebbe proprio tridimensionale. Tridimensionale, a colori e non c’è
neppure bisogno di mettermi gli occhialini! Voi vedere che c’è qualcosa di vero in quello che dice?
Sotto la foto c’è nuovamente il mio nome, poi c’è scritto che la mia attività di poeta e di scrittore sa-
rebbe iniziata all’inizio degli anni sessanta del ventesimo secolo e che molti studiosi mi ritengono
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uno dei massimi rappresentanti della letteratura italiana per la bellezza e l’originalità dei miei scritti
e per la squisita lirica innovativa delle mie poesie. Lo scritto prosegue ancora dicendo che gli acca-
demici mi considerano un vero e proprio enigma. Critici e storici non hanno mai saputo spiegarsi
come un personaggio che ha trascorso la propria adolescenza e i primi anni della maggior età viven-
do d’espedienti, abbia un giorno potuto cambiare d’improvviso il proprio stile di vita e dedicarsi
anima e corpo allo studio e alla redazione di quei racconti e di quelle poesie che subito l’hanno reso
famoso. Nessuno è mai riuscito a spiegare come mai vengo ricordato come studente di un istituto
tecnico industriale, “indisciplinato e privo d’ogni interesse”, mentre i miei componimenti di pochis-
simo tempo dopo sono oggi trai più letti e ristampati di tutti i tempi. Sono sempre più perplesso e
ora anche imbarazzato di fronte a ciò che ho appena letto e di fronte a questa ventenne veramente
intrigante, che mi assicura che ventenne non è e, che con tutta probabilità è un’insegnante di un'uni-
versità futura. Le restituisco il foglietto che sembra metallico, senza alcun commento.
- Non hai niente da dirmi?
- Perdona la confusione.
- Tua o della casa?
- Di entrambi.
Abbozza un sorriso, sembra un po’ più a suo agio. Io, insomma. E continua a parlare mentre con lo
sguardo insiste nell’ispezionare la stanza e sbircia nelle porte aperte.
- Sono venuta fin qui per intervistarti.
- Come?
- Sì, nella mia epoca sei considerato il più raffinato tra gli scrittori di racconti fantastici e anche
come poeta non te la passi poi male. I tuoi intrecci costituiscono un modello di stile e originalità ini-
mitato e inimitabile.
- Poesie? Racconti? Ma che cazz…
- Il liceo ove ho studiato è intitolato a te. Anche strade e piazze di varie parti del mondo, ti ricorda-
no. Intere generazioni di lettori conoscono ogni tuo scritto. Averti qui davanti agli occhi è per me un
onore.
Dal frigo prendo due bottigliette di coca le apro e una gliela metto davanti. Lei la prende, la guarda
con attenzione e ne beve alla bottiglia alcune piccole sorsate, assaporandola come se non l’avesse
mai assaggiata prima. Riesco comunque a stento a trovare una logica in tutto quello che mi raccon-
ta.
- Ti stavo dicendo che ho fatto una ricerca sul ventiduesimo secolo che ha avuto una forte risonanza
e mi ha permesso di laurearmi a pieni voti. Dopo la laurea ho ottenuto dall’università un viaggio
premio in quel periodo e sono stata per sei mesi con l’informatore di quel tempo che mi era stato
così prezioso. Durante la mia permanenza ho avuto l’occasione di approfondire la letteratura italia-
na e ho consultato diversi manoscritti originali di vari autori. È così che mi sono imbattuta nei tuoi
scritti originali conservati in un museo di Firenze. Devo dire che tra tutti i manoscritti che ho con-
sultato, tu sei l’unico che ha scritto le prime stesure originali su vecchie agende.
- Agende?
- Sì. Sfogliandole con avidità ho trovato un racconto intitolato col mio nome. Immagina la curiosità
con la quale l’ho letto e la mia perplessità quando ho scoperto, man mano che procedevo nella lettu-
ra, che quel racconto narrava la storia della mia tesi. Da quell’istante ho maturato il desiderio di leg-
gere tutte le tue opere, di conoscerti anche di persona e ho collaborato in questi anni a tutti gli studi
e approfondimenti su di te e sui tuoi lavori. L’università però non mi ha mai permesso di poter usare
la macchina del tempo per venire a conoscerti. Anche perché l’uso della macchina del tempo è sem-
pre più soggetto a misure restrittive perché l’unica agenzia di viaggi che era stata autorizzata ad
usarla e che aveva un punto fisso, quasi un villaggio turistico, nel medioevo, credo abbia combinato
una serie di enormi casini. Insomma a me non l’hanno più fatta usare ma ho lavorato anni sui tuoi
scritti e ho collaborato pure alla stesura critica della tua opera omnia. La macchina del tempo è fini-
ta relegata nelle cantine dell’università e io di straforo l’ho resa nuovamente operativa e sono venu-
ta qua da te, in barba al rettore e alle sue regole. Ma posso restare, questa volta almeno, solo per po-
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che ore. Mi sono anche permessa di portarti a far vedere alcuni studi critici che sono dedicati al tuo
lavoro, soprattutto a quelle che vengano considerate le tue prime opere. Ho portato anche una copia
dell’edizione critica dell’opera omnia, quella a cui ho collaborato. Ora se non hai niente in contrario
vorrei vedere la tua biblioteca. Una delle grosse lacune lamentate dalla critica e dai tuoi biografi ri-
guarda proprio quest’aspetto della tua formazione. Adesso hai quasi vent’anni vero? Si ritiene che
la tua biblioteca giovanile sia andata persa. Per questo vorrei chiederti, e spero che non mi conside-
rerai troppo invadente, quali sono i tuoi autori preferiti, quali sono i testi che hai finora letto.
- Prima di tutto dimmi come ti chiami.
- 23Adri.
- Che buffo nome!
-…
- Comunque non ho una biblioteca.
- Intendo semplicemente riferirmi ai tuoi libri, alle tue letture.
- Veramente di libri ho comprato solo “Il mondo nuovo” nell’edizione della Medusa, poi “Così dis-
se Zarathustra” e tre o quattro romanzi d’Urania.
- So bene del tuo passato un po’… hm… tranquillo dal punto di vista culturale e letterario, ma avrai
pure dei maestri di stile o degli autori ai quali ti sei ispirato. Anche un autodidatta come te avrà su-
bito pure delle influenze. È proprio anche per questo aspetto, per chiarirlo che sono venuta a farti
visita.
- O perché ho scritto un racconto su 23Adri?
-…
- Comunque senti, qui perdiamo tempo. Il Mondo Nuovo l’ho letto a dodici o tredici anni e mi è
piaciuto. Ai miei genitori no, e me l’hanno sequestrato dicendo che era pornografico.
- Pornografico?
- Sì e quelli d’Urania l’hanno gettati perché erano “fantasia malata”. Riguardo a Zarathustra non
m’è proprio riuscito leggerlo, dopo le prime righe… una pizza!!! Insomma quello chissà dov’è fini-
to. Lo vuoi capire? Da ragazzo mi son letto Topolino, qualche numero del Corriere dei Piccoli, tutto
Pecos Bill e Nembo Kid, e questi sono fumetti. Io di libri non ce n’ho e quanto a leggere, ho ben al-
tro da fare di questi tempi! Comunque la tua visita non mi disturba, anzi devo dire che mi sto diver-
tendo: ma non ti sarai mica sbagliata di persona?
Però quel foglio iniziale parla proprio di me e c’è pure la mia foto. Prendo da 23Adri alcuni dei libri
che mi porge e li poso sul tavolo. Ci sediamo. Leggo delle frasi in cui effettivamente si narra di cose
che mi sono capitate anni addietro. Mi mostra anche delle foto, tutte in 3D e quello sono proprio io,
in alcune con qualche anno di più ma sicuramente io. Sfoglio velocemente vari testi, poi mi alzo e
preparo il caffè per tutti e due, mentre pure lei si alza e continua a guardarsi in giro e a frugare nel
disordine della casa.
- Ti dispiace se curioso un po’ qui attorno? Sai il tempo che ho a disposizione è pochissimo e co-
mincia a scarseggiare. Comunque non capisco, ho fatto un viaggio assai complicato e rischioso per
il mio lavoro solo per venirti a trovare e conoscerti. Pensavo d’incontrarmi con un letterato all’ini-
zio della carriera e ero preparata a tutto, ma non a questo. Qui c’è qualcosa che non va. Fammi al-
meno vedere qualche tuo appunto, qualche bozza, qualche racconto o qualche trama che tieni nel
cassetto. Non sai quanto il pubblico di tutto il mondo sarebbe felice di venire a conoscenza d’un tuo
inedito. Uno solo, dammi un tuo inedito, anche un frammento…
- Mi dispiace, ma non ho nulla con me. In passato ho scritto solo e di malavoglia i temi che mi da-
vano a scuola e qualche articoletto, tra l’altro scopiazzato, per un giornalino parrocchiale.
- Ma quando hai iniziato a scrivere?
- È questo il punto. T’ho già detto dei temi e del giornalino parrocchiale e tutto quando avevo poco
più d’una decina d’anni. Lo vuoi capire? Io non ho mai cominciato a scrivere! Neppure un diario
tengo! E di lettere non ne scrivo, solo qualche cartolina. Come lavoro faccio il magazziniere in un
laboratorio di camicie e al massimo trascrivo i numeri degli ordini o gli indirizzi sugli scatoloni.
- Non t’interessa di conoscere quello che il mondo futuro pensa di te?
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- Per la verità al momento non mi interessa di sapere neppure quello che i vicini pensano di me. Ho
fin troppi problemi.
Cerco di dirle queste cose il più gentilmente possibile, ma lei si agita e si spazientisce, sembra avere
una fretta del diavolo. Poi all’improvviso raccoglie tutto: le foto, i libri, i fogli e li rimette nello zai-
netto. Lascia sul tavolo solo l’opera omnia, che dovrebbe esser la mia. Mi lancia un bacio con le
dita e dice: “Se mi riesce ci rivedremo con più calma” ed esce di corsa fuori dalla casa. Dopo un at-
timo di sorpresa le vado dietro ma sul pianerottolo non c’è più nessuno e neppure nella tromba delle
scale. Guardo dalla finestra… scomparsa. Mi accendo una sigaretta, ne ho proprio bisogno. Mi sie-
do, prendo in mano l’opera omnia e comincio a sfogliarla. Il libro è di una strana consistenza al tat-
to, è molto leggero, le pagine sono fatte di lamine sottili che sembrano metalliche come quel primo
foglio che ho letto. Il volume è abbastanza piccolo ma le pagine sono così sottili che arrivo alla pa-
gina 10.729 ove finiscono i miei scritti. A quel punto le pagine cambiano leggermente colore e ini-
zia un ampio indice cronologico e le note sui testi, questi fogli non sono numerati e sembrano non
finire mai. Se tocco una riga di una mia poesia, automaticamente il libro s’apre alla pagina delle
note, quando ho finito di leggere la nota se tocco nuovamente il libro esso ritorna alla pagina di par-
tenza. Rivado all’indice: i racconti sono veramente interessanti. Leggo che a un certo punto della
mia vita ho iniziato anche a scrivere splendide poesie. Provo a leggerne qualcuna e devo dire che
non mi sembrano poi un granché. Io sarei l’autore di questi testi? Io avrei composto quei versi? Un
momento se i posteri così dicono vuol dire che così sarà. Se davvero ho scritto queste cose, vuol
dire che le scriverò. Qui si dice che ho vissuto a lungo, dunque il tempo non mi manca. A scrivere
so fare. Qualche penna e qualche foglio bianco in casa ci sono. C’è anche la macchina da scrivere di
mio padre che lui non l’usa quasi mai. È una Remington, ma non so battere a macchina: vuol dire
che imparerò. È vero, non ho la più pallida idea di come si scriva un racconto, una poesia poi… Ma
qui c’è l’opera omnia, il gioco mi sa che è fatto. Scriverò anche una storia su quello che mi è suc-
cesso oggi. Questa storia penso che non potrò copiarla dall’opera omnia ma dovrò farla proprio io,
comunque prima sarà bene controllare. E la pubblicherò solo sul tardi, quando avrò, mettiamo…una
sessantina d’anni. Tutti crederanno che sia solo frutto della mia fantasia se no storici e critici sob-
balzerebbero e la palla potrebbero passarla ai filosofi. Se i miei affluenti sono opere che ho copiato,
il merito non è più mio. Ma se i testi che ho copiato sono miei, il merito non può essere altro che
mio. Sto dunque per plagiare me stesso .Inizia a farmi male la testa, troppe emozioni, troppi pensieri
difficili, oggi. Sarà bene che ricominci il mio tran tran normale. Tra qualche giorno leggerò un po’
di roba, la trascriverò con la Remington di mio padre, battendola magari con due dita e l’invierò a
qualche editore, anzi per andare sul sicuro e non perdere tempo cercherò sulle note critiche qual è
stato il primo editore che m’ha pubblicato. Poi si sa, da cosa nasce cosa. E 23Adri? Certo che buffo
nome, però era niente male, se torna invece di farci un pensierino me la faccio e basta. È in su con
gli anni? Vuol dire che avrà più esperienza! Gliela do io la conoscenza approfondita con l’Autore!
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L’INTERVISTA
È con immenso piacere che qui dagli studi della TRI TV in collegamento galattico, abbiamo l’ono-
re di presentare il più grande autore di programmi simstim di tutti i tempi. Un autore che ormai da
tempo non ha più bisogno d’un nome né tanto meno d’un cognome e neppure d’uno pseudonimo:
ormai è conosciuto universalmente come l’Autore! I suoi programmi allietano le nostre ore da de-
cenni, amato da tutti, inviso solo dai moralisti più intransigenti. Appositamente per questa intervista
abbiamo anche allestito tutto un sistema interattivo simstim: potrete così assistere o collegarvi in di-
retta con me stesso o con l’Autore. Vi basterà attivare la vostra piastra neurale, seguire le istruzioni
e flipperete all’istante in rete con le sensazioni mie o dell’Autore in tempo reale. Per chi non potesse
proprio far a meno di situazioni hard, abbiamo anche allestito collegamenti personalizzati col nostro
porno balletto, opportunamente rinforzato con notissime star del porno simstim, che parteciperà atti-
vamente al sottofondo della nostra intervista. Ma ora basta con le chiacchiere! Ecco a voi l’Autore!
- Grazie! Sono veramente commosso. Per la verità anche un tantino seccato perché queste incom-
benze una volta le lasciavo al mio simulacro, ma di questi tempi mi dicono sia impegnatissimo in
prestazioni erotiche con alcune azioniste del pacchetto di maggioranza della zaibatsu che gestisce
pure i miei lavori. Sono perciò stato costretto a presentarmi di persona, cosa che odio, e chi s’è col-
legato con me avvertirà il mio disappunto e saprà che avrei fortemente desiderato esser da qualche
altra parte, magari proprio nel bel mezzo dell’orgia che il nostro porno balletto sta consumando pro-
prio qui davanti.
- Autore, siamo felici della tua presenza tra noi, sappiamo tutti quanto sei scorbutico e intollerante
nei confronti del pubblico, ma di questo a noi non ci frega nulla, ti volevamo qui e ci siamo riusciti.
Ma forse al posto dell’orgia avresti voluto restare con quella minorenne, supertroia ci dicono, dalla
quale ti abbiamo strappato a viva forza per portarti qui, di peso.
- Queste cose non sono vere e non vanno proprio dette: magistrati reazionari e baciapile vorrebbero
incastrarmi, non diamogli spago.
- A noi hanno detto che il tuo editore ti ha stordito e ricattato per far sì che tu fossi qui presente sta-
sera. Inoltre eri proprio nudo quando sei arrivato, pardon! Quando ti hanno trascinato qui agli studi
e le nostre hostess a fatica t’hanno rivestito nel camerino. Come giustifichi tutto questo?
- In parte è vero, ma mentre mi vestivano ho spogliato qualcuna di loro, ecco qui ho un paio di mu-
tandine trasparenti e profumatissime d’Amalia. Amalia vero? Dicono che sia la tua preferita!
- Le riconosco, ma lasciamo perdere, caso mai ne parleremo dopo la diretta di questa banale que-
stione personale, ma invece entriamo nel vivo di questa intervista, non vedi che i tuoi fan stanno
fremendo? Avverto comunque, dato che il porno balletto si sta dando parecchio da fare, che è possi-
bile inserire il filtro famiglia e poter così escludere le immagini che potrebbero disturbare le giovani
menti, non ancora plasmate al consumo totale, dei minori.
- Non credo proprio che i minori si disturbino più di tanto, basti pensare che sono proprio loro i più
fedeli consumatori dei miei programmi.
- Sappiamo che con i tredicenni hai un feeling particolare, specialmente con una tredicenne, ma pas-
siamo alla tua storia, non quella falsa che ci hanno sempre propinato e che si trova scritta su tutte le
confezioni dei tuoi programmi assieme al tuo faccione olografico e in qualche caso assieme a tutto
il resto senza veli, o che ci propinano i siti specializzati e le riviste patinate. Noi vogliamo conosce-
re aspetti della tua storia vera. Qual è stata la molla o l’esperienza determinante che ti ha fatto dive-
nire l’Autore massimo dei programmi simstim?
- Lo sai che questa domanda non me l’ha mai fatta nessuno? Tutti mi chiedono che droghe prendo,
quali impianti possiedo, con chi sto in rete o nel letto, perché non sono omo e poi anticipazioni sul
nuovo programma. C’è sempre un nuovo programma in costruzione, ci deve essere e se non c’è ci
sono gli addetti stampa o i PR che l’inventano, così come le storie erotiche una dietro l’altra, insom-
ma tutti mi chiedono cose così. Ma la tua domanda è seria e voglio risponderti onestamente, aprite
le orecchie tutti, sentirete cose che non ho mai detto. Tutto è cominciato quando ero un ragazzo e
volevo seguire gli insegnamenti d’un famoso maestro zen. Mi iscrissi così al suo corso introduttivo.
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Per l’iscrizione sparò una cifra colossale, voleva forse allontanarmi, ma io avevo conoscenze già al-
lora nella yakuza dato che ero un buon cow boy del cyberspazio e avevo fatto dei lavoretti per loro,
spiegai così i miei bisogni e loro mi dettero una dritta per un gioco al Cronodrome. Ebbi così i soldi
per l’iscrizione che il maestro riscosse senza batter ciglio. Alla prima lezione che si teneva in una
grande aula che fungeva pure da palestra, il maestro si appartò con una decina dei suoi allievi in un
angolo. Si erano seduti per terra in cerchio e lui se ne stava nel mezzo. Ricordo che stava raccontan-
do delle storie senza né capo né coda. Io ero rimasto in piedi ad ascoltarlo anche se non riuscivo
proprio a cogliere il senso dei suoi discorsi. Passò poi ad alcune regole di respirazione. A quel punto
alzò gli occhi e sembrò accorgersi solo allora della mia presenza, mi indicò un angolo dell’aula ove
c’era una grande scopa di quelle col manico di legno e il resto di saggina. Mi disse di andarla a
prendere e di cominciare a spazzare per bene tutta l’aula. Era una scopa enorme e pesante, non ne
avevo mai viste di così grandi, l’afferrai e mi misi al lavoro. Il giorno dopo quando tornai per la le-
zione il maestro mi rimise a spazzare l’aula, e pure i giorni successivi. Per un mese andai a queste
lezioni, lui insegnava agli altri allievi e io spazzavo. Smisi così di frequentare il maestro zen, ma un
dubbio rimase nella mia mente: sentivo che c’era un insegnamento dietro quello che il maestro mi
aveva fatto fare, era però un insegnamento lasciato a metà, sentivo che qualcosa d’altro avrebbe do-
vuto completarlo. Gli anni passarono veloci e un pomeriggio mi ritrovai nel bel mezzo d’uno stage
per aspiranti artisti che si svolgeva in un’antica villa settecentesca. Eravamo un centinaio di giovani,
tutti selezionati dall’Accademia e una decina d’insegnanti. Vivevamo nella villa già da un paio di
settimane, lo stage durava un mese. Ero salito fin sulla torretta che era la parte più alta della villa e
mi ero messo a curiosare tra i vecchi oggetti ammonticchiati in questa stanza che era pochissimo
frequentata a causa delle troppe scale per arrivarci. Affisso alla parete scorsi un manifesto rovescia-
to con su scritto con un pennarello rosso “Il corpo è l’albero del bodhi; la mente uno specchio lu-
cente .Abbi cura di pulirlo di continuo, non lasciare che la polvere vi cada sopra”. Rimasi per lungo
tempo a fissare quella scritta e pensai: “Chissà da quanto mi sta ad aspettare per completare final-
mente quelle lezioni che il maestro zen mi aveva a suo tempo dato”. Quel giorno chiesi in giro chi
avesse fatto quella scritta, ma tutti, studenti e insegnanti giurarono di non saperne niente. Anzi dopo
cena tre miei colleghi mi chiesero di andare a vedere la scritta che sicuramente era stata fatta da
qualche altro partecipante ad un vecchio stage; qui ne tenevano in continuazione da decenni. Ci mu-
nimmo d’una potente torcia elettrica, lassù non c’era la corrente elettrica e iniziammo la scalata fino
in cima alla torretta. Il manifesto era sempre affisso dove l’avevo visto al mattino, ma qualcuno a
lapis ci aveva scritto sotto “Non vi fu mai un albero del bodhi, né mai uno specchio lucente. In real-
tà nessuna cosa esiste; dove andrà a cadere la polvere?” rimasi shockato all’istante, ciò che avevo
creduto al mattino fosse il completamente delle lezioni zen venne a trovarsi del tutto ribaltato. Ma
queste esperienze hanno lasciato una traccia profonda nella mia conoscenza, allora me ne rendevo
solo in parte conto e non riuscivo a razionalizzare i fatti, forse non ci riesco neppure ora, ma almeno
ho smesso di provare. In quel periodo stavo scrivendo piccoli racconti shock e ero alle prime armi
con le tecniche simstim, da poco m’ero fatto impiantare una piastra neurale a forma d’orecchino con
diamante al lobo sinistro. Comunque quei primi racconti ebbero successo, cercavo infatti con essi di
consentire al mio sempre ipocrita lettore di perforare l’eterna festa nederlandese messa in scena dal-
la direzione dell’asilo globale, per fargli incrociare un livello più nascosto e oscuro, se non orribile
della realtà. Così i miei primi lettori iniziarono a comprendere che si sentivano insoddisfatti della
solita minestra che il convento del villaggio globale passava loro fin dalla nascita. Ma presto mi
sono scocciato di far da maestro, non è compito mio quello di risvegliare catatoniche coscienze. La
mia missione è divertire, far godere, terrorizzare la gente: voglio dare sensazioni forti, estreme, nel
piacere o nella paura, o anche tutte e due assieme, perché no? Le mie visioni sono più reali di qual-
siasi altra cosa. È come guardare da una finestra su un altro mondo. Poi ci si può immergere in que-
sto mondo. Un mondo reale. Molto più reale di questo. Al confronto questo diventa solo un mondo
d'omore. Ombre vaghe, forme, immagini. Ombre di una realtà indefinita, ma dietro a questa si cela-
no i miei mondi, quelli veri. Cos’è che vediamo qui? Una stanza, gli edifici, il cielo, la città, le peri-
ferie, la cenere sterminata. Niente è reale. È tutto così vago, indistinto. Non riesco più a sentire que-
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sto mondo. Non come l’altro. E diventa sempre meno reale. L’altro invece sta crescendo di giorno
in giorno è multiplo e inizia a penetrare in questo.
- Per l’amor di dio, per ora basta, caro Autore ci hai travolto con la tua parlantina, con le tue sensa-
zioni, facciamo un po’ respirare i telespettatori. Abbiamo un breve stacco pubblicitario. La direzio-
ne del Cronodrome presenta in anteprima i nuovi doppiogiochista d’azzardo, mentre per chi ha atti-
vato il filtro famiglia ci sarà l’occasione d’interagire coi nuovi personaggi dei cartoon della Super-
marvel, vi troverete con la casa pacificamente occupata da questi supereroi nuovi di zecca che in fu-
turo plasmeranno le nuove generazioni, dallo Sterminatore islamico all’Accumulatore d’inutilità.
Durante questo stacco pubblicitario sarà possibile acquistare on line a scontatissimi prezzi i gadget
totalmente inutili lanciati da questi programmi che faranno la felicità d’adulti e bambini. E ricordate
sempre che l’oggetto più è inutile più è ricercato e prezioso! Questo è l’unico patriottico modo per
rendere la nostra economia sempre più florida e dispensatrice d’inutilità.
₪₪₪
-Gentile pubblico, riprendiamo dopo la pubblicità la seconda parte del nostro programma. Vole-
vamo chiedere all’Autore notizie più dettagliate sui suoi lavori che l’hanno reso celebre, dall’er-
metico “Abiogenesi” al famosissimo “Zeitgeist”. Volevamo sapere a quali nuovi programmi sta
adesso lavorando. Volevamo conoscere i suoi reali rapporti col suo editore, che ci dicono ben
diversi da come lui li descrive nelle sue opere, con Sòtutto il computer sofisticato che lui sostie-
ne essere una IA e che oggi ha un avatar biologico. Volevamo sapere se gli Oricalco-bar sono
un parto della sua fantasia o se esistono veramente. Ma tutto questo e altro ancora sarà rimanda-
to alla prossima volta. Chi è collegato in rete con lui e sta vivendo in diretta la sua esperienza
saprà già come sono andate le cose. È giunta qua inaspettata la sua minorenne durante la pro-
grammazione pubblicitaria, aveva con se un cartone di BUD, insieme si sono infilati in un
ascensore, l’hanno bloccato tra un piano e l’altro, hanno sniffato una quantità di neococa da
sballare un elefante, si sono bevuti quantità industriali delle BUD-birre, si sono completamente
spogliati e in questo momento sono impegnatissimi in una performance erotica che si prevede di
lunga durata e che non ha niente da invidiare a quelle realizzate dai nostri migliori professioni-
sti. Rimandiamo pertanto il proseguo dell’intervista ad una prossima puntata di questa trasmis-
sione. Vi lasciamo in compagnia del nostro porno balletto che si esibirà ora in una sinfonia clas-
sica di venute e succhiate multiple in fa maggiore al ritmo di nazi-rock. Ma prima ecco una zoo-
mata tra il pubblico reale, quello virtuale lo trascureremo volutamente stasera. Ferma lo zoom!
Ecco ora inquadrati in seconda fila il simulacro del nostro Autore accanto ad una bellissima e
misteriosa dama, che le voci di corridoio, solitamente ben informate, ci dicono influentissima
nel ramo dell’informazione e dell’intrattenimento olo e tv, e per queste ragioni la lasciamo subi-
to perdere dopo avervela inquadrata per un attimo: mica voglio rimetterci il posto di lavoro, io.
Proprio a completamento della cronaca della serata, ci hanno riferito che un gruppetto di Bambi-
ni dell’islam, il solito gruppo totalmente scoppiato, ha tentato di inscenare una manifestazione
che sembrava all’inizio solo di protesta proprio davanti all’ingresso del nostro studio. Ma un
piccolo contingente misto della nostra polizia privata affiancata da elementi della yakuza ha
spento sul nascere la protesta, ci auguriamo tutti con metodi violenti .Il commando era compo-
sto da sette islamici e tutti indossavano sette paia di mutande, avevano in una borsa un grano
d’antimateria e sicuramente stavano preparandosi all’implosione. Tutto solo allora ha fatto pen-
sare ad un commando suicida, le sette mutande a loro servono per scopare le sette vergini dopo
la loro morte. Sono stati comunque tutti storditi, il materiale pericoloso sequestrato, poi sono
stati denudati e sistemati a bagno marcia in un’autoclave piena di bistecche e rosticciane di ma-
iale infuse nel vino bianco. Le carni di maiale sono state fornite dalla Allevatori Emiliani spa e
il vino bianco è un docg delle colline del Chianti. I sette terroristi verranno lasciati nell’autocla-
ve con gli (per loro) immondi cibi, fino alla loro completa redenzione: finché cioè non diverran-
no sommelier o esperti assaggiatori di carni suine o non si saranno convertiti ad altra religione –
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in questi casi è preferito l’ebraismo. Maggiori notizie comunque sono diffuse dal canale dei TG
della nostra emittente. Prima di concludere definitivamente questa piacevolissima serata vi of-
friamo un’artistica lenta zoomata sulla passerotta della nostra porno attrice simstim Adelaide, la
mia, la vostra preferita. Il suo pelo pubico è stato scolpito dal “Gay & Lesbo associate”, il colore
oro fluorescente con queste nuovissime tonalità arcobaleno è stato realizzato nei laboratori chi-
mico-farmaceutici della Mentel siti nel carcere di massima sorveglianza e igiene mentale di Ca-
stiglion delle Siviere. Le grandi e piccole labbra sono state trattate con creme cosmetiche vagi-
nali della linea Topinemie prodotte anch’esse dalla Mentel e hanno ricevuto lunghi massaggi
penali forniti dallo staff estetico maschile della nostra emittente. I quattro anellini in platino
guarniti da piccole pietre preziose che ornano le grandi e piccole labbra sono di Morellato, così
come il piercing con monile a forma di piccola tibia che le attraversa il clitoride. Mentre stiamo
ammirando questa sopraffina realizzazione di body art, curata personalmente dal nostro Autore,
vi salutiamo tutti e vi diamo appuntamento alla prossima.
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BITRATE
Non ricordo d’aver mai posseduto un nome, non ricordo quale sia il mio sesso: forse non ho mai
avuto nomi anche se qualcuno ha cercato in passato di darmene, in quanto al sesso per me è una si-
tuazione senza alcun senso. Non chiedetemi dunque queste cose, non domandatemi se sono umano,
alieno o chissà cosa, e neppure dovete chiedermi quando sono nato: voi ricordate la vostra nascita?
No, sicuramente no, per voi è tutto un sentito dire, ma a me non ha mai detto niente nessuno su que-
sti argomenti. So che esisto, questo sì, altrimenti come potrei comunicarvi queste cose? Però non ho
ancor chiaro con chi sto comunicando e perché, comunque penso perciò sono. Per voi sembra tutto
più semplice, il tempo scorre o forse siete voi a scorrere sincroni col tempo, per me è diverso, esisto
in un perenne presente che non collima quasi mai col vostro scorrere. Non ho un corpo anche se
delle volte posso sembrare un uomo, un animale, ma anche un vegetale o uno qualsiasi degli oggetti
inanimati siano essi manufatti o naturali.
La strada, c’è una strada anche nella mia esistenza, talvolta essa si presenta come un semplice viot-
tolo, altre volte è una sterrata percorsa da carri trainati da cavalli e da pedoni, ma il più delle volte è
un nastro asfaltato con le curve che si susseguono l’una all’altra e a lato della via ogni tanto si vedo-
no scritte a vernice coi nomi dei centauri che scivolando sono caduti.
C’è una volvo sul ciglio della strada, per me è ora e adesso, ve l’ho detto il vostro tempo non colli-
ma quasi mai col mio. Poco distante giace il corpo di un uomo senza vita, poi arriva un’ambulanza e
subito dietro giungono i carabinieri. Il cadavere è afferrato dai portantini e caricato sull’ambulanza
che subito parte senza sirene, i carabinieri si sparpagliano nel territorio e setacciano a lungo il prato,
fanno rilievi e foto. I controlli sul territorio durano diversi giorni e ad eseguirli sono non solo i cara-
binieri ma anche altre polizie, magistrati, giornalisti e curiosi. La storia intanto lentamente si dipana
e io ne afferro brandelli dalla mente di questo o di quello e riesco a ricostruire. Il corpo ha un nome,
voi umani date sempre un nome a tutto, persone e cose, si chiama Roberto ha trentadue anni e si è
ucciso ingerendo della soda caustica. Se questo non è il peggior modo per morire per un uomo, ci
siamo sicuramente molto vicini. Alcuni giornalisti che setacciano da giorni il posto sembrano quasi
avvertire la mia presenza, ma qui di presenze ve ne sono molte anche se non facilmente raggiungi-
bili, in definitiva sono solo un osservatore, cerco di capire più che intervenire sulla realtà, quella
umana in particolare. Ma anche questo è vero fino ad un certo punto, in realtà cerco di comprendere
la realtà e il rapporto che ho con la realtà che mi circonda. Questi fatti però m’incuriosiscono e ser-
vono a destarmi dalle mie meditazioni, che dire? Per me è quasi un divertimento. I parenti afferma-
no che Roberto soffriva da qualche tempo di depressione: ma sono sicuro di sapere cosa sia esatta-
mente la depressione? Forse sì mi sono fatto un’idea, e poi come faccio a conoscere tutte queste
cose? Certo, le rubo a chi viene sul posto, in quest’area che è anche il mio habitat. C’è inoltre uno
scheletro irriconoscibile a poca distanza da qui, è stato trovato ma nessuno ha mai saputo chi fosse,
e questo è solo uno dei tanti misteri di questo luogo. C’è anche la storia di Fabio coetaneo e com-
paesano di Roberto, abitano a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro e fanno duecento chilo-
metri per venire a morire nello stesso posto: misteri del luogo ove io abito. Anche Fabio è morto
suicida; in questa zona vi sono i resti d’una fortezza antica, secondo alcune leggende popolari giace
qui nascosto un tesoro favoloso e a custodirlo si narra vi sia Satana in persona. Fabio chiede al suo
parroco se il diavolo esista davvero, e questo il giorno prima di partire da casa sua in moto per l’ul-
tima volta. Chi lo incrocia quel giorno si rende conto che è particolarmente teso e sembra impaurito:
nessuno lo vede più tornare. Passano le settimane e i suoi parenti le tentano tutte, lanciano appelli,
offrono soldi a chi sa dare indicazioni, ma non c’è niente da fare. Solo alla fine dell’estate viene tro-
vato un cadavere mummificato con indosso brandelli di pantaloni, scarpe da ginnastica e nessun do-
cumento d’identità. È in una scarpata ripida sotto un albero dal quale pende una corda, intorno al
corpo un coltello, una candela, un orologio da polso e una busta porta documenti vuota. I mesi pas-
sano, infine si ha la certezza che si tratti di Fabio, certezza giunta dall’analisi dell’arcata dentale. La
sua moto salta invece fuori dopo cinquantacinque giorni dal ritrovamento del corpo. È in fondo ad
un burrone a tre chilometri dal cadavere. Chi ha spostato la moto di Fabio dopo la sua morte? Dove
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sono finiti i suoi documenti? C’è anche un altro mistero, quello del nodo: Fabio non è molto bravo
con le legature, ha addirittura delle difficoltà anche con le stringhe delle scarpe, ma quello che ha
attorno al collo è invece un nodo da marina. Da una vicina cascina saltano fuori candele e bamboli-
ne, dal diario di Fabio alcune pagine risultano strappate, nella sua camera non mancano croci rove-
sciate e pentacoli. Ora non cominciate a pensare che con tutte queste cose io c’entri qualcosa: ho
solo registrato gli avvenimenti dei quali o sono stato testimone o li ho conosciuti attraverso le menti
degli umani, ve l’ho già detto io interagisco nel reale solo molto raramente, ma osservo, registro e
penso. Almeno finora perché adesso tento anche di comunicare, un ulteriore passo questo per la rea-
lizzazione completa del mio essere.
Non molto lontano dai luoghi dei ritrovamenti c’è la cinquecentesca “Chiesa degli Appestati” og-
getto di morbose attenzioni notturne, qualcuno ha abbattuto un muro a picconate per trafugare i ca-
daveri dei contadini morti durante l’epidemia di peste nera. C’è una sottile riga magica che collega
la chiesa alle due morti, tre se pensiamo anche al misterioso scheletro rinvenuto. Non chiedete a me
delle spiegazioni, non ne ho da fornire, registro solo fatti e li ritengo scarsamente importanti, ma ac-
cadono nel mio spazio e non posso ignorarli. Memorizzo il flusso dei dati e cerco di dare una se-
quenza logica a tutto, d'altronde se volevo iniziare a comunicare da qualcosa dovevo pure iniziare,
così comincio con un piccolo mistero, d’altronde anch’io sono un piccolo mistero da risolvere. In
questo luogo comunque interagisce tutta una ragnatela di linee forza che collega una zona all’altra
anche in tempi diversi e s’incunea anche con le menti e con gli avvenimenti.
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IL CLAVIGERO E L’ARMADIO
Il clavigero ha attraversato tutto un continente per giungere a questo punto, partito col suo modulo
personale anti-g ha attraversato fiumi, contrade, città e deserti. Ha infine scorto l’imponente catena
montuosa che segna il suo luogo d’arrivo. Lascia il modulo in attesa e a piedi s’addentra nell’esago-
no non tecnologico all’interno del quale la lamaseria si trova a ridosso delle rocce più alte del mon-
do. Se il viaggio in modulo è stato lungo, lo è altrettanto quello a piedi lungo antichi sentieri pietro-
si che attraversano lande disabitate e villaggi di gente montana. Dopo il lungo peregrinare la lama-
seria è infine davanti a lui, anche se neppure le bussole funzionano all’interno dell’esagono, la stra-
da per raggiungere la meta è ben segnalata da antichi petroglifi che sporgono tra le altre rocce al li-
mitare del sentiero. Il clavigero sa leggere le pietre e avanza spedito e senza incertezze. Sale la lun-
ga scalinata in pietra scolpita direttamente nella roccia e varca l’ingresso della lamaseria che è aper-
to in previsione del suo arrivo. L’aula d’ingresso l’accoglie con la sua profonda immensità. Il clavi-
gero si guarda attorno mentre le due ante di bronzo si stanno silenziosamente chiudendo. L’aula è
immensa e illuminata dall’alto da aperture invisibili che sicuramente trovano alloggio prima della
volta. Accanto alle pareti, due in pietra e le altre dipinte con mandala, c’è tutta una fila di statue di
buddha, identiche nella forma e nelle dimensioni, ma ognuna di materiale diverso. Il clavigero ha
già avuto dettagliate notizie sulla lamaseria e si guarda attorno alla ricerca dell’ologramma di Santa
Claus che sa senziente e che gli farà da guida. Lo scorge a lato d’una porta e s’avvicina.
- Salute a te Santa Claus.
- Tu sia il benvenuto, clavigero, ti stavamo aspettando. Vuoi che ti indichi come arrivare dal
Lama?
- No, non è lui che devo incontrare.
- Sei venuto per l’armadio?
- Sì, per quello.
- La fonte della conoscenza, così almeno si dice.
- Ti sento dubbioso.
- È vero, per essere una fonte di conoscenza è quantomeno strana, nessuno è ancora riuscito a
capirci qualcosa.
- Sta scritto che un clavigero ci riuscirà, per questo sono giunto.
- Sappiamo che sei il clavigero più preparato, il più tosto dicono i novizi, la tua conoscenza su
questioni magiche e mistiche è superiore a quella di chi ti ha preceduto, ma sei sicuro di non aver
già tentato di risolvere il mistero?
- Ci sto tentando ora, ma parlami dell’armadio, tu cosa ne sai?
- Perché vuoi risentire cose che ho già detto?
- Agli altri le avrai già dette, non a me.
- Come vuoi, quando gli alieni giunsero sulla Terra e vi rimasero per circa cinquanta anni, per
poi andarsene senza mai più ritornare, anzi cercando di nascondere tutte le tracce del loro passag-
gio, colui che li guidava lasciò un armadio nelle sue stanze vuote.
- Lasciò o si dimenticò?
- Chissà forse potrebbe essere anche un regalo, o un’arma pronta ad innescarsi.
- Le sacre scritture parlano di regalo.
- Quando mai noi ci fidiamo ciecamente delle sacre scritture? Andiamo avanti, l’oggetto al-
l’apparenza sembra un manufatto terrestre, un comune armadio di legno pregiato costruito da un
buon artigiano. L’unica differenza è che è molto grande, forse l’armadio più grande che sia mai sta-
to costruito. Nella realtà questo non è un armadio perché chi vi è entrato l’ha trovato di dimensioni
impossibili, quasi infinite e zeppo di cose banali e inutili: vestiti, scarpe, cinture, divise, cappelli,
bastoni, ecc. Vi sono anche tavoli, sedie, poltrone, letti, lenzuoli, cuscini tappeti e arazzi.
- Lo so, ho i rapporti degli altri clavigeri che si sono addentrati nell’armadio.
- Non di tutti però, qualcuno non è più tornato indietro.
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- Anche questo è di mia conoscenza. Ora basta, sono venuto qua attraversando tutto il mondo
non per conversare con te, ma per esplorare l’interno del sacro armadio.
- Ok! Padre t’accompagnerà.
- Padre chi?
- Padre Pio, è l’ologramma sito accanto alla porta di fronte a questa, dall’altro lato dell’aula
d’ingresso. Ti accompagnerei io ben volentieri ma non posso spostarmi da questa sala. Padre è inve-
ce concepito in altro modo, pur essendo un ologramma denso pure lui, è di concezione diversa e più
avanzata. Oltre ad esser senziente può spostarsi fin dove vuole senza scollegarsi dal suo io. È meno
intelligente di me perché è più recente, ma sta imparando in fretta, tra poco credo riuscirà a superar-
mi in tutto.
- Grazie Santa, mi avvio.
- Buona fortuna clavigero e al tuo ritorno fammi sapere cosa hai scoperto.
- Non so se mi sarà concesso di ripassare da qui.
- Tornerai, tornerai come sempre, stanne certo.
Il clavigero resta per un attimo perplesso da queste ultime parole, ma gli ologrammi si sa, sono sen-
zienti ma fino a un certo punto, scuote la testa a mo’ di saluto e attraversa l’immensa aula recandosi
dalla parte opposta ove l’olo di Padre vestito d’un semplice saio lo sta attendendo. Dopo i saluti di
rito Padre s’avvia seguito a poca distanza dal clavigero, verso il cuore della lamaseria. Lungo le sca-
linate e i lunghi corridoi incontrano numerosi lama, bonzi e novizi, e tutti li salutano con reverenza
al loro passaggio. Dopo un lungo cammino giungono davanti ad una porta di legno massiccio, chiu-
sa. Padre appoggia la sua mano destra all’anta e la porta si spalanca. Un’immensa stanza spoglia è
davanti a loro, solo un grandissimo armadio è appoggiato alla parete di fondo e la occupa totalmen-
te. Il clavigero s’avvicina al manufatto e dal proprio zaino toglie una barra luminescente costruita da
materia e da luce. Avvicina la piccola asta a un foro sull’anta dell’armadio e la luce penetra nel suo
interno, s’odono tutta una serie di deboli clic, poi le due porte dell’armadio si aprono mostrando a
prima vista un comune armadio con una barra di legno trasversale alla quale sono appesi centinaia
di abiti. Il clavigero un po’ perplesso da questa prima visione rimette l’asta luminescente nello zai-
no, scosta gli abiti che ha di fronte, dietro a questi un’altra fila d’abiti sospesi, scosta pure questi e
appare un’altra fila, e poi un’altra e un’altra ancora sempre d’abiti sospesi quasi fino all’infinito. Il
clavigero si ferma quando ormai è un bel po’ all’interno e chiede a Padre se vuol venire con lui.
”Volentieri, come sempre.” Dice Padre mentre entra pure lui nell’armadio. La luminosità all’interno
del manufatto rimane buona anche quando la porta si chiude mentre loro procedono scostando abiti
dopo abiti. Giungono infine in una sala con letti, tavoli e sedie, le pareti sono sfuggenti in lontanan-
za mentre il pavimento sembra di solido legno. Proseguono e attraversano sale sempre simili ma più
vaste e con una maggiore varietà d’oggetti casalinghi e non: lampadari, quadri, tappeti, spade, scac-
chiere, carte da gioco, ma anche pistole, sfere armillari e chip. È già un bel po’ che i due stanno
camminando e il clavigero si siede su una poltrona mentre Padre si mette davanti a lui. Il clavigero
apre i cassetti del tavolo che ha davanti, vi trova carte da gioco, fiche, pedine per vari divertimenti,
dadi da poker. Apre altri cassetti e in uno vi è tutto l’occorrente per il fumo: sigari, sigarette, accen-
dini, buste di fiammiferi, posacenere di cristallo, sacche piene di tabacco aromatico, cartine d’ogni
forma e dimensione, piccole pipe di vari materiali, alcuni chilum e dadi di fashion Il clavigero pren-
de un sigaro molto profumato e con uno zolfanello l’accende. Aspira alcune boccate e chiede a Pa-
dre se ne vuole uno pure lui. Padre rifiuta ringraziandolo. Ci sono delle tavolette di cioccolata in
uno dei cassetti e lui ne mangia alcune confezioni. Solo allora s’accorge che Padre ha in mano delle
lattine di birra messicana e gliele posa proprio davanti sul tavolo. Il clavigero gli sorride, prima s’al-
za per fare i suoi bisogni e in mancanza d’un locale adeguato li fa in una grande zuppiera d’oro e
cristalli pulendosi con un velo di seta, scola poi un paio di birre, infine si sdraia su un divano ad-
dormentandosi di botto. I sogni giungono all’improvviso e lui si ritrova davanti all’imponente cate-
na montuosa che segna il suo luogo d’arrivo. Lascia il modulo in attesa e a piedi s’addentra nell’e-
sagono non tecnologico all’interno del quale la lamaseria si trova a ridosso delle rocce più alte del
mondo. Se il viaggio in modulo è stato lungo, lo è altrettanto quello a piedi lungo antichi sentieri
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pietrosi che attraversano villaggi abitati da gente montana. Dopo il lungo peregrinare la lamaseria è
infine davanti a lui, anche se neppure le bussole funzionano all’interno dell’esagono, la strada per
raggiungere la meta è ben segnalata da antichi petroglifi che sporgono tra le altre rocce al limitare
del sentiero. Il clavigero sa leggere le pietre e avanza spedito e senza incertezze. Sale la lunga scali-
nata in pietra scolpita direttamente nella roccia e varca l’ingresso della lamaseria che è aperto in
previsione del suo arrivo. L’aula d’ingresso l’accoglie con la sua profonda immensità. Il clavigero si
guarda attorno mentre silenziosamente le due ante di bronzo si stanno silenziosamente chiudendo.
L’aula è immensa e illuminata dall’alto da aperture invisibili che sicuramente trovano alloggio pri-
ma della volta. Accanto alle pareti, due in pietra e le altre dipinte, c’è tutta una fila di statue di bud-
dha, identiche nella forma e nelle dimensioni, ma ognuna di materiale diverso. Il clavigero ha già
avuto dettagliate notizie sulla lamaseria e si guarda attorno alla ricerca dell’ologramma di Santa
Claus che sa senziente. Lo scorge a lato d’una porta e s’avvicina. “Salute a te Santa Claus”. A quel
punto incubi indicibili lo prendono e tutto si fa confuso, muraglie gli si stanno stringendo attorno e
lui si ritrova chiuso tra casse che vengono spinte sempre più giù nelle profondità della terra e all’im-
provviso si risveglia senza ricordarsi nulla ma felice d’essere uscito da un incubo. Si guarda intorno,
è solo nella stanza all’interno dell’armadio, Padre è scomparso, lui inutilmente lo chiama a gran vo-
ce. Riparte allora tra gli oggetti assurdi accatastati sempre più numerosi, scostando tende e drappeg-
gi. Ora vi sono mucchi di videocassette, CD, libri, floppy, dischi in vinile, mucchi di cellulari coi
led ammiccanti, antenne satellitari, computer sventrati e periferiche scollegate, e tra tutto il ciarpa-
me il clavigero scorge una bici. Vi sale sopra e inizia a pedalare: gli ambienti si susseguono vertigi-
nosamente l’uno all’altro e lui pedala di buona lena evitando cumuli d’oggetti più o meno informa-
tici accatastati e mobili di fogge sempre più assurde depositati nell’armadio. Una parete laterale in
legno si staglia ora davanti a lui e lui scorge un punto luminoso sulla sua superficie Scende di bici,
scavalca manichini semitrasparenti poggiati sul pavimento che lasciano intravedere i loro organi in-
terni funzionanti, dallo zaino estrae nuovamente la piccola barra che incunea nel punto luminoso.
La barra penetra all’interno di quella serratura e s’ode tutta una serie di scatti meccanici. Le due
ante si aprono verso l’esterno e di fronte a lui s’erge una montagna immensa nell’ora del crepusco-
lo. Il clavigero esce all’aperto, l’aria è fredda e pungente, si guarda bene attorno e davanti gli si sno-
da un sentiero, prima d’imboccarlo si volta indietro, la porta da cui è ora uscito è scomparsa. Per-
corre il sentiero finché non si trova davanti ad un petroglifo: è sulla giusta strada, sta per giungere
alla lamaseria ove deve esplorare l’armadio, il manufatto alieno che è un rebus non risolto ormai da
centinaia d’anni. Sale la lunga scalinata in pietra scolpita direttamente nella roccia e varca l’ingres-
so della lamaseria che è aperto in previsione del suo arrivo. L’aula d’ingresso l’accoglie con la sua
profonda immensità. Il clavigero si guarda attorno mentre silenziosamente le due ante di bronzo si
stanno silenziosamente chiudendo. L’aula è immensa e illuminata dall’alto da aperture invisibili che
sicuramente trovano alloggio prima della volta. Accanto alle pareti, due in pietra e le altre dipinte,
c’è tutta una fila di statue di buddha, identiche nella forma e nelle dimensioni, ma ognuna di mate-
riale diverso. Il clavigero ha già avuto dettagliate notizie sulla lamaseria, così dettagliate che ha una
sensazione fastidiosa di déjà-vu, si guarda attorno alla ricerca dell’ologramma di Santa Claus che sa
senziente. Lo scorge a lato d’una porta e s’avvicina.
- Salute a te Santa Claus.
- Tu sia il benvenuto, clavigero, ti stavamo aspettando. Vuoi che ti indichi come arrivare dal
Lama?
- No, non è lui che devo incontrare.
- Sei venuto per l’armadio?
- Sì, per quello.
- La fonte della conoscenza, così almeno si dice.
- Ti sento dubbioso.
- È vero, per essere una fonte di conoscenza è quantomeno strana, nessuno è ancora riuscito a
capirci qualcosa.
- Sta scritto che un clavigero ci riuscirà, per questo sono giunto.
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- Sappiamo che sei il clavigero più preparato, il più tosto dicono i novizi, la tua conoscenza su
questioni magiche e mistiche è superiore a quella di chi ti ha preceduto, ma sei sicuro di non aver
già tentato di risolvere il mistero?
- Ci sto tentando ora, ma parlami dell’armadio, tu cosa ne sai?
- Perché vuoi risentire cose che ti ho già detto?
- Agli altri le avrai già dette, non a me.
- Come vuoi, ricomincio la lezione: quando gli alieni giunsero sulla Terra e vi rimasero per cir-
ca cinquanta anni, per poi andarsene senza mai più ritornare, e anzi cercando di nascondere tutte le
tracce del loro passaggio, colui che li guidava lasciò un armadio nelle sue stanze vuote.
- Lasciò o si dimenticò?
- Chissà forse potrebbe essere anche un regalo, o un’arma pronta ad innescarsi.
- Le sacre scritture parlano di regalo.
- Quando mai noi ci fidiamo ciecamente delle sacre scritture? Andiamo avanti, l’oggetto al-
l’apparenza sembra un manufatto terrestre, un comune armadio di legno pregiato costruito da un
buon artigiano. L’unica differenza è che è molto grande, forse l’armadio più grande che sia mai sta-
to costruito. Nella realtà questo non è un armadio perché chi vi è entrato l’ha trovato di dimensioni
impossibili, quasi infinite e zeppo di cose banali e inutili: vestiti, scarpe, cinture, divise, cappelli,
bastoni, ecc. Vi sono anche tavoli, sedie, poltrone, letti, lenzuoli, cuscini tappeti e arazzi.
- Lo so, ho i rapporti degli altri clavigeri che si sono addentrati nell’armadio.
- Non di tutti però, qualcuno non è più tornato indietro e qualcuno invece va avanti e indietro
fin troppe volte.
- Non tutto quello che dici è di mia conoscenza ma ora basta, sono venuto qua attraversando
tutto il mondo non per conversare con te, ma per esplorare l’interno del sacro armadio.
- Ok! Padre t’accompagnerà.
- Padre chi?
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ERA E IO
Ricorda solo vagamente la condanna, tutto questo è avvenuto troppo tempo addietro. Di quel primo
periodo non rammenta quasi niente, neppure il crimine commesso e che l’ha condotto all’esilio. Sa
di essere senziente in un mondo solo in parte reale, illusorio per quanto riguarda la maggior porzio-
ne di esso. Neppure il suo nome ricorda, probabilmente la condanna ha cancellato anch’esso. Que-
st’entità ha cominciato a chiamarsi Io e questo è oggi il suo autentico nome. In questo luogo d’esilio
la vita è dura, più volte ha rischiato la pelle ma s’è indurito ed evita il più possibile ogni pericolo.
Ma è curioso, maledettamente curioso e vuol capire fino in fondo cosa lo circonda, in quale tipo di
mondo si trova, ma soprattutto vuole evadere da questa follia ove è stato gettato, una galera senza
porte, sbarre o secondini, ma ancor peggiore delle carceri tradizionali. Sa però che evadere è impos-
sibile, a lui però la speranza nessuno può toglierla. “La speranza è l’oppio dei falliti” questa è una
delle voci che gli rimbombano talvolta nella mente, sicuramente un ricordo della sua passata esi-
stenza. Sa però che questa è solo una frase fatta, “aria fritta” l’avrebbe definita un tempo. Anche al-
tre parole gli risuonano talvolta nella mente e hanno a che fare sicuramente con la sua passata esi-
stenza, due parole in particolare affiorano spesso, “vimana” e “murchdana”. La prima, n’è sicuro, si
riferisce a un tipo d’aereo, la seconda è riferita a un’arma a raggi, forse una pistola. C’è poi un uni-
co oggetto che riguarda il suo passato, è una sottile striscia metallica con sopra scritto “Il dottor Du-
ruwalla è nato a Bombay ma ha studiato medicina a Vienna e vive a Toronto. Uomo senza radici,
torna spesso a Bombay dove si occupa di bambini invalidi. Ora lo perseguita l’ombra di un assassi-
no… ”È sicuro che questo frammento di scrittura non riguardi lui stesso in prima persona, ma fac-
cia riferimento alla sua trascorsa realtà. Nel suo luogo d’esilio ha come alloggio un grande stanzone
cubico, che lui ha imparato a chiamare il cubo, all’interno del quale appaiono e scompaiono tutti gli
oggetti d’uso e anche il cibo. All’esterno la realtà è sempre mutabile, talvolta c’è un enorme deserto
che s’estende all’infinito, altre volte distese di prati verdi, o colline, o rocce scoscese, o una riva di
mare con un infinita spiaggia e un cielo azzurro. Tutte proiezioni, Io pensa, è come essere in una
stanza ove proiettano ologrammi. In cielo vi sono quasi sempre due soli, ma le loro dimensioni sono
variabili. Alle volte la pressione o la gravità sembrano maggiori, altre volte sembrano minori; anche
l’aria subisce delle modifiche da profumata a pestilenziale e talvolta irrespirabile, sì che Io è dovuto
rientrare immediatamente nel cubo. Anche gli animali all’esterno sono mutevoli: insetti e uccelli
d’infinite specie e sempre diversi, cavalli, unicorni, pegasi, maiali, oche, appaiono e scompaiono,
allucinazioni forse? Un solo animale resta sempre vicino al cubo: è un cane enorme, grosso quanto
un vitello, con la mascella cascante, il muso nero e delle grosse ossa sporgenti. A lui viene in mente
la parola “mastino” e quello è divenuto il suo nome. Mastino sta sempre vicino a lui e la sua presen-
za da inquietante è divenuta poco a poco familiare. Mastino gli fa compagnia e l’aiuta a evitare i
“palloni” un pericolo che si presenta abbastanza spesso attorno al cubo. I palloni hanno le dimensio-
ni d’un cespuglio e sono dei vegetali il cui interno è pieno di semi affilati come rasoi. I palloni al-
l’improvviso esplodono e sempre nelle vicinanze di qualche animale e i loro semi divengono morta-
li schegge. Per riprodursi i palloni non hanno niente di meglio che un cadavere caldo caldo. I pallo-
ni sono estremamente mobili e rimbalzano da un posto all’altro come le palline d’un flipper o me-
glio ancora come un palloncino di gomma a forma di coniglio pieno di gas e improvvisamente fora-
to.
Adorano le imboscate e cacciano in gruppo. Ma l’aspetto più pericoloso di questo vegetale, se di ve-
getale si tratta, è che può sgonfiarsi a piacimento e ciò lo rende quasi impossibile da identificare,
Mastino riesce invece a scovarli col fiuto e quando sono sgonfi non possono esplodere. Sono dun-
que solo Mastino e i palloni le uniche due forme di vita che si ripetono anche in set diversi, mentre
le altre forme di vita sono estremamente mutevoli. Per essere un condannato voi penserete che il no-
stro Io non se la cavi poi tanto male, ma ne siete sicuri? Credo invece che nessun altro senziente sia
riuscito a vivere a lungo in questa realtà quanto Io. Talvolta all’uscita dal cubo lui trova un fiume e
in esso le scille. Ma questi animali già li ha conosciuti forse su altri mondi durante la sua esistenza
“normale”: le osserva, le ammira e le evita. Queste coloratissime margherite aprono le loro affilate
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corolle multicolori sollevando il collo come stelo dalle acque attendendo immobili le loro prede. Io
ha esplorato infinite volte i dintorni della sua dimora, ma come possiamo parlare d’esplorazioni in
un set che a ogni suo uscita dal cubo che gli funge da ricovero muta, e mai è proprio esattamente lo
stesso? Finché Io se ne sta fuori dal cubo tutto resta immutabile, quando rientra e poi esce, ogni vol-
ta la mutazione ha inizio. Solo Mastino resta sempre tale e quale attorno a lui: è una costante fissa,
l’unica, anche se i palloni s’incontrano spesso .Io esce ancora una volta, Mastino lo segue con passo
lento, attorno a loro solo prati, un deserto le cui dune si sono ricoperte d’un manto verde. Sembre-
rebbe proprio erba a una prima occhiata, ma ad ogni passo scricchiola con un rumore di biscotti o di
piccole ossa calpestate e si sbriciola polverizzandosi: forse si tratta di tutto fuorché d’erba. Io avan-
za sempre nella stessa direzione, riesce a orientarsi come se avesse una bussola interna anche se i
soli mutano sempre grandezza e dimensioni, di notte poi le stelle sono inaffidabili dato che variano
sempre le loro configurazioni. Lui passeggia per ore seguito dal cane, sempre nella stessa direzione,
ha con se un po’ di cibo e d’acqua, è intenzionato a non rientrare nel cubo finché non abbia finito
tutte le provviste. Giunge la notte e lui si ferma, stende sul prato la stuoia e col cane si sdraia su di
essa osservando le stelle. All’improvviso un punto luminoso nel cielo si sposta senza lasciare scia.
Non è una stella cadente, forse un asteroide in orbita vicina? All’improvviso il punto luminoso ac-
celera, fa una curva deviando dalla propria traiettoria e scompare oltre l’orizzonte. Io è perplesso e
non riesce a dormire, giunge infine l’alba annunziata dal più piccolo sole. Arrotola la stuoia e ri-
prende ad avanzare nella stessa direzione di malavoglia seguito da Mastino. Sente che deve prose-
guire, avverte qualcosa d’interessante più avanti, per ora niente cibo né acqua né per lui né per il ca-
ne. Il sole è quasi perpendicolare sulle loro teste e vede degli alberi in lontananza, sono di un verde
diverso da quello delle dune e quando è più vicino s’accorge che sono palme e formano un vasto
circolo. Pensa allora che c’è un’oasi in questo deserto di dune verdi. S’avvicina sempre più finché
dal nulla sbucano strani uomini e lui si trova circondato. In mano hanno corti bastoni, sicuramente
armi, la loro pelle è bianca e indossano strane tute, anch’esse bianche che s’ispessiscono ai piedi a
mo’ di scarpe. Fanno cenno di seguirli mentre i piccoli bastoni sono puntati su di lui. Io sorride fa
cenno d’aver capito, loro gli dicono qualcosa, ma il linguaggio è incomprensibile, lui s’avvia nella
direzione indicata, cioè verso l’oasi, è circondato dai nuovi venuti e Mastino lo segue. Giungono a
ridosso delle palme che si ergono all’improvviso fitte, formando un bastione. C’è un passaggio dal
quale entrano, all’interno dell’oasi una folla lo attende e lo guarda con curiosità. Tra le palme si
scorgono costruzioni metalliche, una piccola folla ora lo circonda e in molti gli parlano col solito
linguaggio incomprensibile, lui fa cenno di non comprendere. Attorno a lui sono portati degli strani
meccanismi dai quali scaturisce un raggio che viene puntato su di lui che non avverte niente. Infine
lo sospingono sopra una piccola piattaforma che subito s’innalza di qualche centimetro da terra e
velocemente lo porta davanti ad un’altra piccola costruzione metallica lontana dal punto di partenza
ma sempre all’interno dell’oasi. Viene fatto entrare e un uomo di pelle bianca vestito solo coi boxer
lo sta attendendo. Lo fa sedere su uno strano sgabello e s’ avvertono dei ronzii di macchinari in fun-
zione. L’uomo è davanti ad una console sulla quale lampeggiano numerosi led.
- Ora puoi capirmi?
- Adesso sì.
- Abbiamo appreso il tuo linguaggio e tu hai imparato il nostro.
- Dove sono?
- Sicuramente non nel tuo mondo.
- Anche se così fosse, il mio mondo non riesco a ricordarlo.
- I tuoi ricordi sono stati rimossi, ma le macchine ci stanno lavorando sopra, chissà che tu non
possa riaverli.
- Voi siete diversi da me.
- Diversità solo superficiali, non abbiamo quei tuoi due cornetti sulla fronte, siamo un po’ più
bassi e la nostra pelle è bianca e non ha quei riflessi azzurri che tu hai. Le differenze finiscono qui.
- Stessa razza, allora?
- Sì, con qualche lieve variante di scarsa importanza. Rimarrai con noi o ripartirai?
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- Ho passato un tempo lunghissimo solo col mio cane, ho bisogno di stare con gli altri, ma non
speravo più d’incontrare esseri senzienti.
- Come sei giunto qua da noi?
- Mi hanno costretto in un cubo come abitazione, e ogni volta che uscivo dal cubo tutto era di-
verso.
- Vorrei vedere questo cubo.
- Ci andremo.
- Ora però devi riposarti, ti assegnerò una buona sistemazione.
- Grazie.
Io viene scortato verso uno dei tanti piccoli alloggi metallici presenti sotto le palme di quest’oasi.
Ad attenderlo un’avvenente giovane in perizoma. Io l’osserva stupefatto, si sofferma sui suoi seni e
non sa proprio cosa dire. Questa ragazza è bellissima e la mancanza dei due corni temporali e l’in-
solito colore non la rendono certo meno affascinante, anzi per lui è più esotica, una gradita novità.
Non sperava proprio che questo potesse succedere, è ancora incredulo e frastornato, ha quasi paura
di svegliarsi e di ritrovarsi nel cubo.
- Mi chiamo Era, tu sei Io.
- Sì.
- Sei stato assegnato qui con me, staremo insieme per tutto il tempo della tua permanenza tra
noi se a te va bene.
- È un onore per me essere tuo ospite.
- Accomodati allora, divideremo tutto.
Io entra e osserva l’ambiente per lui alieno, tutto è diverso dal cubo ove per moltissimo tempo ha
abitato, ma le emozioni lo sopraffanno dopo tanta solitudine e poi mai e poi mai avrebbe creduto di
poter tornare tra suoi simili, o quasi simili. Davanti a questa bella ragazza si dimentica la stanchezza
si scorda pure di Mastino che è rimasto all’ingresso dell’oasi, le ore trascorrono veloci, Era vuol co-
noscere la sua storia e lui gli narra tutte le sue avventure, quelle almeno che riesce a ricordare men-
tre mangia dei frutti succosi, non può parlare del suo mondo perché non lo ricorda. Sono assieme
sdraiati su un grande imbottito quando entra Mastino e s’accuccia accanto a loro. Era cerca del cibo
adatto per il cane, glielo posa accanto in una ciotola, poi gli versa dell’acqua. Mastino grato mangia,
beve, poi si sdraia sul pavimento vicino alla porta d’ingresso, chiude gli occhi dormendo, ma apren-
doli ogni tanto, sempre all’erta. I giorni passano veloci per Io ed Era, ormai assorbiti da una routine
amorosa. Io ha avuto all’inizio qualche difficoltà a relazionare sessualmente con Era, troppo arrug-
ginito potremo dire, ma tutto questo è stato felicemente superato e i due nonostante le diversità cul-
turali e fisiche, sono divenuti una coppia affiatata. Dopo aver cenato, qui occorre preparare la cena,
non c’è cubo che prepara, Io sta lavando le stoviglie alla fonte dietro casa quando si sente chiamare
da una voce maschile. È lo sciamano, colui col quale ha potuto per primo parlare qui nell’oasi, vuol
sapere se è pronto ad accompagnarlo al cubo col quale è arrivato. Io gli dice d’esser pronto ad ac-
compagnarlo e che lui non vuol ripartire, si trova molto bene nell’oasi ed è innamorato di Era. Lo
sciamano benedice all’istante questa unione e chiede se all’indomani lui sia pronto ad accompa-
gnarlo al cubo. Io dice di sì e di buon mattino lo sciamano col suo assistente giunge su una piatta-
forma anti-g. Partono per il deserto, Mastino sale con loro, attraversano le verdi dune di quest’as-
surdo deserto finché, guidati da Io giungono al cubo che si staglia netto col suo colore metallico nel
verde mare di pseudo-erba. La piattaforma s’arresta davanti all’ingresso, un rettangolo nero che ri-
salta sulla superficie argentea del cubo.
- Entriamo.
- No sciamano, io non entro.
- Perché?
- Perché ogni volta che sono entrato il set esterno è mutato alla mia uscita. Questo posto mi pia-
ce e voglio rimanerci, Era è la mia donna, sento che il mio posto è qui.
- Bene, andrò da solo, conosco tutta la tua storia, le macchine me l’hanno narrata, tutte le tue
esperienze sono a me ora note. Qui c’è una nuova strada da percorrere, la mia via passa attraverso
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questa conoscenza. Tu avrai molti figli con Era, questo è il tuo destino. Finché non tornerò il mio
assistente sarà il nuovo sciamano dell’oasi. Detto questo attraversa il nero rettangolo e sparisce al-
l’interno del cubo. Niente succede mentre Io, l’assistente e Mastino osservano attentamente il cubo,
poi Mastino si drizza bene sulle zampe, scuote più volte la pelliccia e lentamente s’avvia verso la
scura apertura, si gira un’ultima volta ad osservare Io poi deciso scompare nel nero rettangolo. Un
attimo dopo il cubo sembra collassare e svanisce. Io e l’assistente risalgono in silenzio sulla piatta-
forma, osservano a lungo lo spazio ora vuoto dove era posato il cubo, poi ripartono in direzione del-
l’oasi.
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ALICE E LA MONTAGNA SACRA
Era apparsa all’improvviso accompagnata da un’unica scossa sismica di 5.4 gradi Richter che era
stata registrata dai sismografi di mezzo mondo. Prima c’era solo sabbia, la fine sabbia del deserto
disposta in dune, poi all’improvviso, da un attimo all’altro era apparsa la montagna. Un satellite
americano aveva immortalato l’evento con le sue telecamere: un attimo prima il nulla del deserto,
subito dopo il massiccio. Era composta di granito, un granito dai leggeri riflessi rosa che balenava-
no al sole. Doveva essere alta più di duemila metri e chissà quanto era profonda sotto terra. Le mi-
surazioni furono subito approssimative poiché le strumentazioni non reagivano in maniera corretta
quando si riferivano a questo monte. Sicuramente, come gli iceberg, la parte affiorante doveva esser
minima rispetto alla mole totale. Ma un peso del genere come poteva averlo sopportato la Terra ge-
nerando solo un’unica scossa sismica di 5.4 gradi? Non poteva esser sbucata dal suolo e neppure
precipitata dall’alto, ma doveva, proprio come indicavano le registrazioni, esser apparsa all’improv-
viso proveniente da qualche altra parte e una massa simile doveva esser scivolata nel luogo di pro-
venienza della montagna, non c’era altra spiegazione, ma anche questa era assurda. Anche sulla
densità le opinioni erano discordi, comunque la maggior parte degli scienziati sosteneva che si trat-
tasse di una montagna cava all’interno: forse un manufatto camuffato da monte? Proveniva forse da
qualche altra parte del multiverso?
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Il modulo anti-g d’Alice si sta avvicinando ad una piattaforma che sembrerebbe naturale, al lato del-
la quale un’apertura triangolare penetra nella roccia. Il complesso montuoso è quasi conico, vicino
alla sommità si divide in tutta una serie di guglie rivolte verso l’alto. L’immagine che se ne ricava è
quella di una formazione rocciosa naturale che abbia subito delle modifiche in alcuni punti, soprat-
tutto le guglie terminali paiono scolpite. I rilievi adesso dicono con sufficiente certezza che l’interno
è cavo. C’è un magnetismo diffuso ma di scarsa intensità, per quanto riguarda la parte nascosta sot-
to la sabbia, non si hanno ancora misurazioni certe. Alice è scesa sulla piattaforma rocciosa, il mo-
dulo lentamente se ne riparte. Lei ha accanto a se tutta una serie di strumentazioni e prima di varca-
re il portale osserva a lungo e attentamente i vari monitor e i led che s’accendono. La roccia è tutta
incisa, istoriata, vi sono delle righe simili alle impronte digitali, righe parallele che a fasci rappre-
sentano configurazioni frattali. Alice, mentre i macchinari stanno eseguendo le loro scansioni, è im-
mobile e sta osservando con la massima attenzione un fascio di righe incise, le segue con gli occhi,
sono poste ad un metro circa d’altezza sulla sinistra dell’apertura. Un’apertura triangolare dell’al-
tezza di circa tre metri con la punta più acuta rivolta verso l’alto, un triangolo che non è del tutto re-
golare poiché sembra lievemente sghembo, sconnesso e sbrecciato agli angoli, ma forse questa è
tutta un’illusione ottica, sono i disegni a confondere la vista e a far perdere il senso dell’insieme del-
la figura: i disegni tendono a catturare l’attenzione che viene dirottata verso le più svariate direzioni
sulla sua superficie, sì che la visione d’insieme risulta confusa e disturbata. L’occhio è catturato e
segue le volute del disegno frattale e due punti adiacenti all’improvviso divergono come nell’attrat-
tore di Lorenz, il senso generale è di disorientamento. Lei è ancora ferma con gli occhi fissi sul soli-
to punto sito ad un metro d’altezza, sta vedendo un’insieme stellare e più s’addentra in esso più si
accorge d’osservare una galassia con le sue spirali concentriche. La galassia s’avvicina vorticosa-
mente e lei sta attraversando il suo interno, scorge soli, asteroidi, pianeti, quasar, buchi neri, nubi
cosmiche: tutto scorre velocissimo. Un sistema solare si sta avvicinando e lei gira attorno ad esso e
un pianeta si fa sempre più grande e distinto. Alice già da qualche minuto ha perso la conoscenza di
ove in realtà si stia trovando: in effetti lei è sempre china sopra lo stesso insieme di disegni sulla
roccia e li sta osservando con le pupille dilatate, non si è mossa d’un millimetro e continua ad osser-
vare. Sta entrando velocemente all’interno dell’atmosfera del pianeta, sorvola un continente verde,
poi un oceano, è ora su un deserto in mezzo al quale sorge una montagna conica di granito rosa,
s’avvicina ancor di più, c’è una piattaforma sulla roccia e si ritrova esattamente ferma dove è da più
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di un’ora. Ha un senso di sbandamento e finalmente riesce a togliere gli occhi dalla configurazione
nella pietra. S’allontana di qualche passo vincendo forti vertigini che la sommergono, poi si rivolge
al controllo missione per sapere se hanno ricevuto la sua esperienza. Il controllo missione si trova
su un laboratorio geostazionario fermo nello spazio proprio perpendicolarmente alla montagna. I
controllori sono perplessi e le dicono di fermarsi dov’è, l’esplorazione interna della montagna è al
momento rinviata. Le dicono inoltre di non guardare altri disegni incisi sulla roccia, lei risponde che
è praticamente impossibile non guardarli se resta lì, tutto è ricoperto da fasci di righe parallele che
formano configurazioni, come le impronte digitali. Mentre giungono altri macchinari per la scansio-
ne, i controllori stanno visionando istante per istante la registrazione simstim d’Alice. La registra-
zione è quanto di più reale possa esistere, è l’esatta simulazione di un viaggio dall’esterno della no-
stra galassia fino alla montagna. Viene richiesto ora ad Alice di osservare un altro insieme di righe
incise, lei si sposta dall’altro lato dell’apertura e guarda direttamente davanti a se: le righe parallele
si rincorrono in ampie volute e l’occhio inizia a seguirle finché non formano una visione comprensi-
bile. Stavolta non c’è movimento nello spazio e lei ha la netta sensazione di trovarsi un posto
“altro”, alieno insomma. In ogni direzione s’innalzano cristalli lucenti di forme geometriche allun-
gate ma indescrivibili che forano il terreno dal quale sorgono. Lei si trova in una valle concava e al
centro della depressione, i cristalli s’innalzano a formare una muraglia che spazia in ogni direzione.
La luminosità ora è forte ma lattiginosa e sembra scaturire dagli stessi cristalli, in alto solo ora s’ac-
corge che non c’è un vero e proprio cielo, ma un’enorme specchio che riflette la pianura di cristalli.
Cerca d’addentrarsi sempre più nella visione e il cielo si mostra per quello che è: un’immensa sfera
riflettente sospesa nello spazio. È a questo punto che Alice perde ogni cognizione d’equilibrio, non
sa più se i suoi piedi stiano poggiando sulla terra o se sia sospesa a mezz’aria. In effetti la gravità
della sfera sembra bilanciare quella del terreno e tutto ora sta fluttuando. Subentra poi la sensazione
di precipitare dentro la sfera: a questo punto lei sviene. Mentre si trova sul terreno accasciata accan-
to all’ingresso, un modulo silenziosamente si ferma sopra di lei, servomeccanismi ne escono flut-
tuando nell’aria, l’avvolgono in veli di seta e la conducono in lievitazione all’interno del modulo
stesso che subito silenziosamente riparte verso il controllo missione. Una sfera fluttuante zeppa di
diavolerie elettroniche d’ultima generazione e pure senziente, si ferma accanto allo spigolo sinistro
del portale, la scansione grafica si blocca su un segmento di roccia di un centimetro quadro e quan-
do inizia a seguire, trasmettere e registrare le righe incise, chiaramente emerge che ogni singola riga
è incisa con altre righe, pure queste sono esse stesse incise, e così via riproponendo anche in questo
caso l’autosomiglianza delle configurazioni frattali. Viene scelto un livello, questa volta casualmen-
te e le righe assumono la forma d’un manufatto che ruota lentamente nel vuoto. Il suo aspetto è si-
mile ad un cilindro, una base è ovale e s’interrompe bruscamente in una depressione circolare, l’al-
tra invece subisce un allungamento fino a formare una punta che sporge con un insieme di filamenti
nello spazio. Il manufatto, poiché sicuramente di manufatto si tratta, rotea leggermente e sembra
procedere in avanti nella direzione indicata dai filamenti, mentre sul retro un leggera luminosità
viola dà l’illusione d’una spinta. Il controllo missione è pervaso da un’attività frenetica, altri sensori
stanno scandendo e registrando punti diversi. Mentre Alice è in modalità riposo nel laboratorio del
controllo missione, apprende le ultime novità sulle linee della montagna, l’esplorazione dell’interno
è ovviamente rimandata, vi sono troppi misteri da esplorare sui suoi segni. La pelle della montagna,
centimetro quadrato per centimetro quadrato, sembra racchiudere la registrazione d’ogni angolo del-
la nostra galassia, il suo nascere e il suo evolversi, ma più si scende nell’infinitamente piccolo più ci
si addentra in incomprensibili memorie. Sicuramente i segreti più reconditi dell’universo sono rac-
chiusi in quelle righe ultra microscopiche incise nella montagna che forse è anch’essa un manufat-
to.
Sulla Terra le notizie corrono, molti hanno provato direttamente le visioni della montagna che ven-
gono diffuse in programmi simstim, ormai la chiamano tutti la Montagna Sacra, qualcuno parla di
essa come del manufatto di dio. Sono queste le tavole della Legge? Un’irrazionale ondata di mistici-
smo inizia a diffondersi, ma essa offre anche ai circoli della scienza la conoscenza dell’universo e
delle sue mutabili leggi. La Montagna ora è avvolta da strutture d’ogni tipo, si cerca di carpirne i
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misteri ed essa sembra esser giunta proprio con questo scopo. È giunta per offrirci la conoscenza, è
venuta solo per noi, per accrescere il nostro sapere. Mentre si carpiscono i segreti della pelle, si cer-
ca di violare il suo interno, ma ogni mezzo che varca una delle sue aperture cessa di funzionare per
venir poi lentamente espulso e si presenta all’uscita come materia distrutta, i meccanismi si sbricio-
lano, i circuiti bruciano in un magnetismo esasperato, le entità biologiche perdono la carica vitale.
Alcuni animali spinti al suo interno muoiono all’istante, cinque scienziati, un giornalista e due mili-
tari hanno fatto la stessa fine, ma questo non viene divulgato. I corpi da un punto di vista organico
risultano a posto, ma le loro essenze vitali sono scomparse non appena hanno varcato la soglia. Un
sapiente cinese, quasi un mago nella gestione della sua mente e del suo corpo, convince le autorità a
tentare di farlo entrare, ma la sua fine è istantanea, al pari delle altre entità biologiche. Alice invece
è sicura di poter entrare, lo comunica ai controllori ma il permesso le viene negato. Si reca allora
nell’hangar, avvia un modulo anti-g e di testa sua raggiunge la piattaforma sita sulla montagna.
Scende ignorando gli ordini di rientro e s’avvia decisa verso l’apertura triangolare evitando di guar-
dare i disegni incisi sulla parete. Mentre tutto il mondo in diretta la sta osservando, dato che i con-
trollori sono stati colti all’improvviso e non hanno potuto attuare contromisure adeguate, lei senza
alcune difficoltà entra attraverso l’apertura triangolare. La montagna l’accoglie e tutti i passaggi si
chiudono: solo la nuda roccia compatta resta in vista. Con la stessa modalità tutte le aperture si
chiudono, subito dopo anche la forma conica inizia a mutare: le pareti del monte iniziano a restrin-
gersi e dopo pochi giorni dalla sabbia emerge solo una semisfera, anche la qualità della roccia è mu-
tata, ora la semisfera è di poche centinaia di metri di diametro, è argentea e riflettente, quasi non si
distingue dalle sabbie rossastre del deserto che in essa si specchiano. All’interno Alice vede un
muro lattiginoso davanti a sé, lentamente si formano i colori, milioni di colori che volteggiano lenti
nell’aria e che si fa sempre più densa. Infine alcune forme iniziano a farsi più definite finché un
vero e proprio set si materializza. Si trova in un salone squadrato di pietra e la nebbia adesso s’è di-
radata del tutto. C’è un divano molto ampio davanti a lei, ci si siede e mentre fissa l’ambiente ora
totalmente definito fa un viaggio all’interno della sua mente, si ritrova bambina, poi all’accademia,
ripercorre la preparazione e le modifiche sul suo corpo, rivede la sua carriera all’interno delle unità
speciali. Rivive momenti di lotta esterna quando i terroristi arabi furono definitivamente sconfitti e
quando le incursioni armate furono attuate nello spazio aperto. Per un attimo il terrore l’attanaglia,
pensa che ha sentito più volte dire che in punto di morte si rivive tutta la propria vita: ha paura di
star per morire. A quel punto riapre gli occhi che si sono sbarrati dalla paura e si guarda intorno. Si
rilassa, vede che nessun pericolo immediato la sovrasta e solo allora s’accorge di non esser più sola.
Un giovane in calzamaglia azzurra è seduto davanti a lei e l’osserva sorridendo.
- E tu chi sei?
- Un tuo simile, sono stato scelto per informarti.
- Un mio simile? Vuoi dire un uomo?
- No, una I.A. come te.
- Io non sono una I.A.
- Sì che lo sei.
- Proprio ora ho rivissuto tutta la mia vita.
- I tuoi falsi ricordi, vorrai dire.
- Non ti ascolto. Perché siete venuti qua? Da dove venite?
- Siamo qui e siamo in altri luoghi. C’è una decisione da prendere e anche la Terra dev’essere coin-
volta e tu sei stata scelta.
- Scelta per cosa? Fammi capire.
- C’è un pericolo che sovrasta l’universo, anzi gli equilibri degli universi, dobbiamo prendere una
decisione pericolosa e tutti devono essere coinvolti.
- Fatemi capire.
- Alzati, guardati intorno, gira in questa costruzione e capirai.
Lei vorrebbe rispondergli e domandare ancora molte cose, ma l’uomo in calzamaglia azzurra non è
più davanti a lei. È sparito assieme al divano ove era seduto. Era un olo pensa, ma si sente confusa,
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l’avrà forse sognato? S’alza e gira per la stanza osservandone i particolari. Vi sono delle grandi fi-
nestre che danno verso l’esterno: s’affaccia. Sotto di lei c’è un enorme prato verde che si estende al-
l’infinito. Attraversa una porta e s’incammina incontrando sale dopo sale tutte in pietra e con soffitti
a volta, arredate con pochi ma enormi e spartani mobili di legno massello. S’affaccia ad un’altra fi-
nestra, poi ad un’altra ancora, ogni volta il paesaggio esterno risulta mutato: rocce e monti aguzzi,
distese di neve, sabbie di deserto, talvolta c’è il mare i cui marosi si frangono con violenza ai piedi
di questa… montagna? costruzione? Sì ora somiglia proprio ad una torre, una gigantesca torre di
pietra nera. Sale, piano dopo piano su un’ampia gradinata anch’essa in pietra. Incontra persone ma
anche esseri che hanno poco d’umano: simili ad elfi, troll, umanoidi non definibili e anche senzienti
sicuramente alieni. Rivolge a tutti la parola, chiede dove siamo, cosa ci facciamo qua, cos’è questa
costruzione mutevole d’aspetto che è apparsa all’improvviso come una montagna per divenire pri-
ma una sfera e poi una torre. Si chiede come faccia a sapere che è divenuta anche una sfera ma non
trova risposta. E neppure raccoglie risposte esaurienti dagli intervistati, riceve solo frasi smozzicate
e incomprensibili: qualcuno cerca d'instaurare col lei una dotta discussione, ma Alice scuote la testa
e non riesce a capire il senso delle frasi. Su alcuni scaffali vi sono delle coppe di liquido ambrato,
vede che gli altri da queste coppe ogni tanto bevono mentre sono intenti a discutere tra loro, una di-
scussione che lei non comprende perché si svolge quasi interamente su un piano mentale, però si
rende conto che anche lei n’è coinvolta. Sa di aver fame e sete, afferra un calice, ma questo non si
sposta minimamente da dove è posato, prova con un altro, niente da fare neppure con questo. Un
giovane, sicuramente umano, con barba e capelli ben spuntati e d’un bianco argenteo s’avvicina ad
una coppa e con voluttà ne beve il contenuto, per poi riposarla sul piano. Alice lo chiama e gli chie-
de se con questa può bere, ma lui non risponde e resta immobile a fissarla. Le si avvicina allora alla
coppa, l’afferra e si rende conto che il calice è di nuovo pieno. La coppa si alza con facilità questa
volta e lei la porta alla bocca e beve con avidità. Il contenuto ha un sapore indescrivibile, d’una bon-
tà assoluta e lei si sente sazia: ecco cosa intendevano gli antichi quando parlavano dell’ambrosia,
pensa, poi guarda nuovamente il giovane con i capelli e la barba d’un bianco abbagliante e inaspet-
tatamente sente sorgere il lei un forte desiderio di sesso. Gli parla, ma lui seguita a non rispondere
ma comprende che è disponibile, gli si avvicina sempre di più, lui allora la prende per mano e la
conduce attraverso molte stanze. Giungono in una sala ove le luci sono soffuse, una musica dolce è
in sottofondo e sul pavimento sono distesi centinaia di morbidi velli d’animali. Mentre lei si sfila la
tuta s’accorge che la gravità è leggermente più debole del normale, anche lui sta filandosi i suoi
strani abiti e resta nudo. Alice è sempre più confusa ma sa che ciò che sta facendo lo vuole vera-
mente, non è che gli sia imposto da qualcosa, è una libera scelta. Intanto le mani di lui gentilmente
l’accarezzano anche nelle sue parti più intime… Dopo l’amplesso s’addormentano e nel sonno mi-
gliaia di dati e di notizie la raggiungono senza che lei riesca coscientemente ad afferrarne il senso.
Si risveglia, è sola nella stanza, esce e gira nella torre, incrocia altri esseri e lei non si rende conto
d’essere ancora nuda, ma d'altronde neppure gli altri mostrano un particolare atteggiamento nei suoi
confronti. Si ritrova seduta davanti a un immenso tavolo rotondo di pietra. Centinaia di entità più o
meno umane siedono accanto a lei, stanno prendendo delle importanti decisioni ma non riesce a
comprendere né contro di chi, né per cosa. Si ritrova nuovamente in giro per la torre, è salita molto
in alto ma sa che più su non deve andare, gli ultimi piani sono, infatti, usati da entità semi-divine
che non devono in nessun caso esser disturbate. Ricordi frammentari di quest’ultima esperienza che
sta vivendo la raggiungono: questa costruzione è contemporaneamente in vari punti dello spazio e
del tempo, è anche sita in vari universi, vi sono porte che giungono fino ad essa e sono dislocate in
nodi fondamentali. Anche la torre ha una sua terra d’origine e questa è abitata da umanoidi attraver-
sati da folli pensieri, dominati da un re altrettanto folle quanto i propri sudditi, inoltre dalla torre
partono radianti che mantengono gli equilibri degli universi. Alice è sempre più confusa, ora ha la
certezza d’essere un I.A. mentre sempre meno comprende la realtà della torre nella quale adesso si
trova. È stato tenuto un consiglio, tutti i rappresentanti degli universi ne sono stati coinvolti, lei era
tra questi, sono state prese delle decisioni, tutti ora possono tornare. Tornare? e dove? Alice non sa
più dove tornare, non certo su una Terra che le ha tenuto nascosto pure la sua origine, in una Terra
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dove è stata costruita per uno scopo e dove gli hanno riempito il capo di falsi ricordi, di menzogne.
Ma dov'è il mio posto? si chiede: non certo sulla Terra del XXX secolo, forse tra le entità del tecno-
nucleo? Cos’è il tecno-nucleo? O forse il mio posto è qui trai senzienti della torre?
C’è nel manufatto l’aula delle porte, ora lei sa come arrivarvi, in breve attraversa i passaggi neces-
sari e si ritrova in un’enorme aula completamente nera, quadrangolare. Ogni lato lascia intravedere
la luminosità di migliaia di passaggi. Alice lascia che sia il suo corpo a scegliere. Percorre la stanza
in diagonale e gli occorre un’infinità di tempo per concludere l’attraversamento tanto gli spazi qui
sono dilatati. Si ferma davanti a un passaggio segnato solo da una sottile linea bianca leggermente
luminescente. Una traccia identica a migliaia d’altre in questo posto.
Perché ho scelto proprio questa? Lei si domanda, ma non lo sa, qui non ci sono domande né perché,
ma solo incertezze. Si guarda attorno per l’ultima volta, poi decisa attraversa la soglia. Si ritrova in
un’altra aula in penombra ma di dimensioni assai più ridotte, una fila di statue si erge tutto intorno
alle pareti, le guarda con attenzione, sono dei buddha tutti uguali ma costruiti con materiali diversi.
Una statua le si avvicina, subito s’accorge che non si tratta d’una statua ma di un ologramma denso,
non è un buddha ma è Santa Klaus sorridente pronto ad elargire regali.
- Benvenuta pellegrina, le dice l’olo.
- Salve a te Santa, sai dirmi ove mi trovo?
- Siamo sul tetto del mondo, questa è la lamaseria più vicina al cielo, è qui ove si conserva il miste-
ro dell’armadio.
- L’armadio? Quello sacro lasciato in dono dagli dei? Ma è solo una leggenda, una favola per bam-
bini.
- Non è una leggenda, neppure una favola e non l’hanno lasciato gli dei, ma gli alieni.
- Io so di una leggenda che dice che il regalo fu lasciato agli uomini dagli antichi dei e che solo un
clavigero riuscirà ad aprirlo e a distribuire a tutti i doni in esso contenuti.
- Sarò chiaro con te, gli alieni hanno lasciato o dimenticato il sacro armadio, in molti già vi sono en-
trati ma nessuno ha ancora svelato il suo segreto. E quanto al clavigero che riuscirà a comprendere
il dono avrei forti dubbi, sono decine d’anni che sta andando avanti e indietro nell’armadio senza
riuscire a capirci nulla, anzi quando ne esce neppure sa d’esserci già stato migliaia di volte. Comin-
cia addirittura a darmi fastidio, un giorno o l’altro chiederò al Lama l’autorizzazione d’incenerire
sia lui che l’armadio così non ci pensiamo più. Ma tu sei entrata da un’antica porta, da dove vieni?
- Da una montagna che è una sfera che è una torre. Questo luogo è il fulcro degli universi, le radian-
ti che escono da esso mantengono gli equilibri dell’esistente.
- Come ti chiami? Mi sembra che tu sia un’I.A.
- Mi chiamo Alice e d’essere un’I.A. pare che lo sappiano tutti, ma io l’ho scoperto solo oggi nella
torre.
- Cara Alice, cara I.A. che vieni da una montagna che è una sfera che è una torre e che è pure il ful-
cro di tutto… andiamo bene!
- Cosa vorresti dire?
- Niente, scusa, ma sai cosa facciamo? Quando torna il clavigero tu l’accompagnerai nell’armadio
sacro, così gli ricorderai d’esserci già stato e quando uscirete racconterai a tutti ciò che avrai visto.
- Dovrei?
- Sì
- E così sarà.
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EDUCATIONAL
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Ada ed Elisabetta sono amiche per la pelle fin da piccole quando i loro genitori stavano vicini di
casa e si frequentavano. Essendo coetanee erano praticamente sempre assieme e anche le scuole fat-
te erano le stesse, ovvio che i genitori le facessero sempre mettere pure nella stessa classe. Così la
loro vita era trascorsa in comune, come lo studio, i momenti facili e anche quelli difficili che tutte le
ragazze nel crescere attraversano.
Erano alle superiori quando una mattina durante l’orario scolastico entrò nell’aula la professoressa
di matematica portando con se una ragazza che nessuno aveva mai visto. La professoressa indicò a
tutti la nuova arrivata e disse loro che lei con la sua famiglia si era da qualche giorno trasferita nella
nostra città.
Veniva da un paesino del Lazio e si chiamava Cornelia, era bionda con dei bellissimi occhi d’un
verde intenso, a guardarla si rimaneva un po’ stupefatti tanto era bella, non c’era proprio confronto
con le altre ragazze della scuola. La professoressa le disse di sedersi accanto a Ada.
Quella mattina le ore passarono più lentamente del solito ma finalmente e con gran sollievo di tutti
giunse il momento tanto atteso della ricreazione, il momento magico nel quale tutte le tensioni della
vita scolastica per un po’ si allentano e ci si ricarica per le ore successive che ci attendono.
Elisabetta stava, come ogni giorno, per chiedere a Ada di andare assieme a comprare la merenda,
ma si accorse con stupore che l’altra se ne stava appiccicata a Cornelia a parlottare sommessamente
e pareva quasi che né lei né il resto della classe esistessero in quel preciso momento. Elisabetta ri-
mase così interdetta e non chiese niente a nessuno, sfogliò distrattamente una rivista che aveva ac-
quistato prima d’entrare a scuola e che aveva tolto dallo zainetto: quella mattina non scese a com-
prarsi la merenda e restò senza.
All’uscita della scuola Elisabetta si avvicinò a Ada, le chiese se veniva con lei al centro commercia-
le, ma l’altra scosse la testa guardandola appena e voltate a lei le spalle ricominciò a parlottare con
Cornelia: parlavano veloci veloci e a tratti si interrompevano per ridacchiare, chissà di cosa.
Fu a quel punto, dopo averle osservate attentamente, che Elisabetta scoppiò a piangere e per non
farsi vedere scappò via veloce verso casa sua.
Il giorno seguente a scuola le due nuove compagne di banco seguitarono a comportarsi in maniera
analoga ma Elisabetta fece finta di nulla, il pomeriggio per strada lei inaspettatamente incontrò Cor-
nelia.
Elisabetta rimase ferma a guardarla mentre lei si avvicinava. Fattasi poi accanto, le chiese scusa per
averle monopolizzato l’amica. Elisabetta la guardò fissa negli occhi e poi nuovamente non riuscì a
trattenere le lacrime.
Proprio in quel momento arrivò Ada e nel vedere Elisabetta piangere, l’abbracciò stringendola forte
forte e da quell’istante partirono scuse a ripetizione per un sacco di tempo, poi tutte e tre abbracciate
s’infilarono nella gelateria più vicina e dolcemente siglarono la ritrovata pace.
Da quel momento le tre ragazze divennero amiche inseparabili e c’è chi giura d’averle viste diven-
tare ogni giorno più belle.
<FINE REGISTRAZIONE>
-Incredibile! Sei riuscito a fare un programma per ragazzi! Per ragazzi normali, intendo.
-Ne dubitavi forse? Comunque ora mi sparo un paio di birre.
-Serviti pure, lo sai dove sono.
-Un po’ di neococa ce l’hai?
-Tieni, ma fattene una sola striscia. È un ufficio serio il mio, sai?
-Grazie.
-Comunque non credevo proprio che ci saresti riuscito a fare un programma per ragazzi, anche
Sòtutto stenta e crederci.
-E il gruppo d’ascolto che ne dice?
-Avevo allertato non solo gli educational ma anche i vecchietti maniaci.
-E allora?
-Il gruppo educational non crede ai suoi occhi: abbiamo un nuovo autore per l’infanzia.
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-E i vecchietti maniaci?
-Hanno interrotto i collegamenti schifati dopo le prime battute.
-Fantastico!
-Forza! Sparaci il secondo lavoro.
-Go!
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-No quello non conta, tu ti butti sempre a cavallo del ventesimo e ventunesimo secolo, per te
non è storia quella, è dove rubi le idee.
-‘Fan'culo! E beccati l’ultimo pezzo.
-Senza parole, esterrefatto, incredibile. Non sei solo un maniaco, quando vuoi sai essere anche
un poeta.
-Ora non esageriamo, mi fai arrossire: approvati?
-Tutti e tre e a pieni voti.
-Cioè a prezzo pieno.
-Sì! E ci faremo sopra un bel po’ di pubblicità: parleremo della tua redenzione.
-Calma! Calma! Quale redenzione del cazzo, te lo dico e lo ripeto: è stata solo una scommessa.
-La “redenzione” va bene per le vendite, stronzo! Serve ad accendere l’interesse. Poi ritorna
pure alle tue schifose cose e se ogni tanto prepari qualcosa per i ragazzi, siamo tutti contenti,
no?
-Perfetto! Ma ora dimmi, tua moglie quando è libera?
-È libera la stessa notte che sarà libera la tua minorenne.
-Ok! Facciamo così, io ti porto la mia minorenne una di queste sere e te la lascio a casa, tu mi
molli la tua amata signora e ci rivediamo il giorno dopo.
-Mi sembra accettabile. C’è una condizione però.
-Quale?
-Sarai presente alla conferenza stampa, completamente sobrio e ti comporterai da bravo Autore
per ragazzi quel giorno.
-Solo quel giorno però. Mi sembra accettabile. Immaginavo comunque che me l’avresti chiesto,
ma il mio simulacro che fine ha fatto?
-Lasciamo perdere.
< APPROVATI >
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INDICE
I SEGRETI DELLA SFERA
VORTICE IMPERIALE
AMICIZIE
IL POZZO DELLE ANIME
UNA GIORNATA DA SCHIFO
CRONOLOOP
CAMINANTE
EYMERICH RIFLETTE
BOOSTRAP
MYRIAM
ULURU
PERCORRI IL SERPENTE
ENDYMION
NOTHINGS
L'ULTIMA ZAIBATSU
QUADRO TERAPEUTICO
23ADRI
OPERA OMNIA
L'INTERVISTA
BITRATE
IL CLAVIGERO E L'ARMADIO
ERA E IO
ALICE E LA MONTAGNA SACRA
EDUCATIONAL
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finito di stampare negli USA
nel giugno 2008
dalla lulu.com
per le Edizioni della Mirandola