Il Senso Del Vivere
Il Senso Del Vivere
Il Senso Del Vivere
IL SENSO
DEL VIVERE
1
(cenno biografico sull’autore)
Altri scritti:
“Là dove cielo e terra si incontrano” – (La preghiera e la Messa nella vita del cristiano)
2
PREFAZIONE
Il cristiano guarda alla sua clessidra con gli occhi luminosi di un figlio di
Dio. Ama la clessidra perché ama la Vita; vive la vita e perciò gioisce della
clessidra. La tiene nelle sue mani senza scuoterla o abbandonarla, e quando è il
momento la capovolge, perché il cristiano continuamente "ricomincia" nella sua vita
di figlio di Dio.
Il cristiano sa che gli appartiene la vita e gli appartiene il tempo, e non li
separa perché, in noi creature, la vita senza il tempo è un'utopia e il tempo senza la
vita è il nulla.
3
*********
Abbandonata la clessidra, la tecnica ci ha dato l’orologio. Orologi sempre
più sofisticati, autentici capolavori di fantasia per la forma e di precisione per la
tecnica stanno scandendo su tutti i meridiani della terra gli istanti infinitesimali della
vita umana. E così abbiamo prodotto milioni di orologi, ma forse abbiamo perduto il
senso del tempo e smarrito il cammino della vita.
Dio è l’unico, vero orologio dell’uomo, il solo che possa illuminare il nostro
cammino nel tempo e far scorrere nel tempo il flusso della Vita. Dobbiamo tornare al
Sole, il sole divino: Gesù Cristo. E’ lui la «pienezza del tempo». Egli abbraccia il
tempo da cima e fondo e lo illumina tutto: «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e
l’Ultimo, il Principio e la Fine... Colui che era, che è e che viene». Da duemila
anni questo Sole illumina il mondo, ma da sempre e per sempre Egli illumina
l’umanità. E’ lui l’orologio della storia umana, lui: Gesù Cristo, unico Salvatore,
ieri, oggi e nei secoli.
4
Occorre ripeterlo con forza: Gesù Cristo è l’unico Salvatore, ieri, oggi e nei secoli:
lo «ieri» di Cristo è la sua Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione
nella loro realtà storica come i Vangeli ce l’hanno consegnata e nel loro perenne
valore salvifico;
l’«oggi» di Cristo è la Chiesa; in essa, con il Vangelo e i sacramenti, Cristo
continua la sua presenza di Salvatore. Il cristiano - occorre ripeterlo - non crede ad
un uomo del passato, ad uno dei grandi spiriti dell’Umanità. Budda è morto,
Confucio è morto, Maometto è morto, Socrate e Platone sono morti; e sono morti
anche Abramo, Mosè e i Profeti. Cristo è vivo perché è risorto e ha vinto la morte.
Infatti la sua stessa morte non è stata una «morte», ma è stata il sacrificio della sua
Vita per la salvezza del mondo.
infine, i «secoli dei secoli» sono la sua eternità, dove Cristo risiede alla
destra del Padre nella gloria come unico, grande intercessore per tutta l’umanità.
********
Natale 1999: la Chiesa entra dunque nel terzo millennio della sua storia.
Vi entra con una rinnovata e più profonda consapevolezza che Colui che
duemila anni fa è nato a Betlemme, l’ha costituita come «segno levato fra le
Nazioni». Un «segno» che ha attraversato secoli di storia segnati dal sangue dei
martiri, dall’eroica dedizione di tanti pastori, dalla vita di innumerevoli testimoni
dell’amore di Dio; ma anche un segno che è passato attraverso venti impetuosi e
terribili tempeste che hanno inferto dolorose ferite e lasciato profonde cicatrici sul
suo corpo, e tuttavia è un «segno» del quale tutti i popoli della terra, oggi come non
mai, hanno bisogno.
L’umanità, questa folla sterminata di esseri umani che copre la terra, appare
sempre più come un gregge sbandato senza pastore. Negli ultimi secoli molti
mercenari hanno preteso di essere pastori, e i lupi hanno sbranato interi popoli, e i
popoli stessi sono diventati lupi rapaci gli uni per gli altri.
Un’umanità stremata e sbandata approda così, col suo carico di valori e di
orrori, al terzo millennio dell’era cristiana come su un altopiano dopo una lunga e
faticosa scalata. L’ultima rampa di questa scalata, il secolo ventesimo, è stata la più
dura e drammatica di tutto il suo lungo viaggio nella storia. Questo secolo dilaniato
dalle ideologie, drogato dai successi tecnici e materiali, rimarrà come uno dei più
crudeli e disumani nell’esperienza dell’umanità. Milioni di esseri umani sono stati
sacrificati dall’odio: guerre senza interruzione, crudeli e devastanti, hanno
attraversato quasi tutte le regioni del pianeta, idee impazzite e princìpi deliranti
hanno costruito lager, gulag, foibe, forni crematori, hanno giustificato genocidi,
pulizie etniche, deportazioni forzate, violenze e terrorismi che non hanno risparmiato
esseri innocenti e indifesi. Un secolo duro e violento in cui si è distrutto molto e
costruito sul nulla, un secolo in cui la dignità della persona umana ha subito violenze
e umiliazioni che hanno pochi riscontri in altre epoche della storia.
Questa progressiva pazzia che si è scatenata contro l’uomo e contro Dio ha
procurato alla Chiesa migliaia di martiri: dall’Estremo Oriente al Messico, dalla
Spagna ai Paesi dell’Est, in molte regioni dell’Africa e dell’America Latina...
Davvero, al termine di questo secondo millennio «la Chiesa è diventata nuovamente
Chiesa di martiri» (TMA n. 37). Essa dunque continua ad essere più che mai segno
di contraddizione, e tuttavia l’unico segno levato fra le Nazioni che offra all’umanità
confusa e stressata una Verità certa e una salvezza vera.
5
Verità e salvezza hanno un Nome che è di origine divina perché è stato
imposto dall’alto: «Lo chiamerai Gesù», cioè «Dio-che-salva». E’ dunque un nome
costitutivo della persona e della sua missione. La persona è il Figlio di Dio, la
missione è la salvezza degli uomini. L’una e l’altra non possono venire meno, ma
riempiono il Tempo e la Storia. Incontrare Cristo, vivo e vivente nella Chiesa, è la
grande sfida del terzo millennio alla quale sono chiamati tutti i popoli della terra,
tutte le Nazioni, tutte le culture e le civiltà. E’ questo il grido profetico lanciato al
mondo dal Pietro del 2000: «Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo! Alla sua
salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici,
i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa cosa è
dentro l’uomo. Solo lui lo sa. Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro,
nel profondo del suo animo, del suo cuore, così spesso è incerto del senso della sua
vita su questa terra. E’ invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete,
quindi, - vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia - permettete a Cristo di
parlare all’uomo. Lui solo ha parole di vita, si! di Vita Eterna».
L’Autore
6
IL TEMPO
1 - Una leggenda
3 - Tempo ed eternità
Lo scopo di queste pagine non è quello di percorrere ciò che gli uomini
hanno detto o pensato su questi argomenti, né di ascoltare la voce delle cose nel loro
inarrestabile fluire. All'intelletto umano, sorretto dalle sole forze naturali, il mistero
del tempo non ha mai svelato pienamente il suo volto, né ha aperto le profondità del
suo abisso. Davanti al mistero del tempo, la mente umana è stata dominata da un
senso di smarrimento come davanti a una cosa troppo opaca e immanente per essere
penetrata e insieme troppo irriducibile e trascendente per essere dominata. L'autore
del Qoelet, il noto libro sapienziale dell'Antico Testamento, tutto pervaso da un senso
di angoscia davanti alla precarietà del mondo, ricorda l'impotenza dell'intelletto
umano di fronte al mistero del tempo: "Ho considerato l'occupazione che Dio ha
dato agli uomini... Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la
nozione dell'Eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire
l'opera compiuta da Dio dal principio alla fine". 2
Solo la Rivelazione ha svelato pienamente il significato del tempo, lo ha
illuminato e reso trasparente, ha aperto un varco attraverso il quale l'eternità ha fatto
irruzione nel mondo. C'è un passo stupendamente solenne che leggiamo nella liturgia
del Natale: "Dum medium silentium tenerent omnia, omnipotens Sermo tuus, Domine,
a regalibus sedibus venit", 3 che possiamo liberamente tradurre: "Il tuo Verbo
onnipotente, o Padre, dalle sedi eterne del cielo ha rotto il silenzio del tempo e delle
cose ed è entrato nel mondo". Cristo, la sua Umanità Santissima, ecco l'immensa
finestra spalancata sul tempo: attraverso essa l'eternità ha inondato di luce la storia
2
Qo. 3,10-11
3
Sap. 18,14-15
8
del mondo.
Seguiremo, dunque, la strada della Parola di Dio; essa non esclude
l'intelligenza e la riflessione degli uomini, ma vi aggiunge la luce della fede.
Attraverso questa luce scopriremo che l'eternità non solo è la coordinata del tempo,
ma anche la sua "pienezza" e il suo significato, e costituisce la garanzia del suo
compimento.
4 - “O cara Eternità”
La Parola, il Verbo di Dio, che nella "pienezza dei tempi" si è fatta Carne,
costituisce il punto di riferimento per ogni evento del pensiero e della vita
dell'umanità. L'Incarnazione del Figlio di Dio nel grembo verginale di Maria, evento
che non ci meraviglia più, tanto vi siamo abituati, resta il fatto determinante nella
storia dell'umanità e nell'intera creazione; esso divide il tempo in due, dando alla
vicenda umana il senso di un "ritorno al Padre", che diventa il senso ultimo e finale
della storia. Alla luce di Cristo, Luce vera che illumina ogni uomo, il tempo e
l'eternità svelano il loro volto e il loro mistero: il tempo appare così il luogo della
fede, l'eternità il luogo della visione; al tempo appartiene la speranza,
all'eternità appartiene il possesso; nel tempo ferve il desiderio, nell'eternità
esplode l'amore. Fede, speranza, desiderio: il tempo; visione, possesso, amore:
l'eternità. E tuttavia, in Cristo, la fede già contiene la visione, la speranza contiene il
possesso, il desiderio contiene l'amore. Tutto però in modo imperfetto. Infatti, finché
siamo sulla terra non è possibile "vedere" se non per speculum et in aenigmate, di
riflesso come in uno specchio, nell'oscurità della fede; non possiamo amare se non
nella speranza, perché quaggiù nessun vero possesso è possibile.
L'eternità misura il tempo e, in un certo senso, rivela l'atteggiamento del
cuore umano. Ci sono "anime di eternità" che vivono profondamente immerse nella
luce della fede così da non avere quasi cognizione del tempo; per loro il fluire degli
avvenimenti è un fatto accidentale perché la realtà vera, quella che scorre sotto il
loro sguardo contemplativo, è ciò che Dio compie in quegli avvenimenti. Ci sono poi
"anime del tempo", che appartengono solo al tempo, che sono come naufragate nel
fiume delle cose e degli avvenimenti, dove tutto viene divorato dalla precarietà.
Sono anime che non sanno vedere un futuro oltre le cose, e rischiano di perdere tutto
il loro passato.
Ma ci sono anche anime che soggiornano nella mediocrità perché vivono il
tempo con una fede senza rischi, con una speranza senza pazzie, col cuore precluso
all'estasi dell'amore. Il cristiano che vive nel mondo è chiamato a coniugare insieme,
nella sua vita, tempo ed eternità, a percorrere cioè la strada della santità nelle
situazioni ordinarie della sua esistenza. Non c'è altra strada per essere felici. I
cammini della fede, della speranza, del desiderio portano a Cristo, "Via, Verità e
Vita". Gesù Cristo: il Tempo e l'Eternità; è Lui la pienezza del tempo, è Lui
sostanza dell'eternità.
Così il tempo cessa di essere un mistero e diventa un tesoro. Non un "tesoro
nascosto" ma un tesoro che nasconde la stupenda ed esaltante avventura dell'uomo
che cerca, incontra e incessantemente desidera il suo Dio.
Dopo aver sperimentato l'incontro con la misericordia di Dio, in un
crescendo splendidamente irresistibile, S. Agostino esclama:"O aeterna Veritas, et
Vera Caritas, et cara Aeternitas! O eterna Verità, o vera Carità, o cara Eternità! Tu sei
il mio Dio, a Te sospiro giorno e notte (...) Tardi ti ho amato, Bellezza tanto antica e
tanto nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là ti
cercavo. Mi avventavo, io deforme, sulle cose belle da te create, che, se non fossero
9
in te, neppure esisterebbero." 4 Quel "tardi", così pieno di nostalgia e di rimpianto,
contiene tutto il tempo che abbiamo perduto lontani da Dio, ad inseguire i fuochi
fatui della superbia o a giocare con i fantasmi dell'amor proprio, ad ingannarci con le
menzogne del piacere. O cara Aeternitas! O Tesoro nascosto nel tempo! Luminoso
Mistero che non ti dischiudi "ai sapienti e agli intelligenti ma ti riveli ai piccoli». A
Te convergono i cammini della fede, i sentieri della speranza, tutti i desideri
dell'Amore!
5 - L’essere e il tempo
Si dice che il tempo non è una realtà sussistente, un'entità a sé, ma è una categoria
delle cose, un modo di essere della realtà creata. In effetti, il tempo in sé non esiste.
Ciò che invece esiste è l'essere: l'Essere per eccellenza, Dio, Colui-che-è,
infinitamente; e gli esseri finiti, le creature. Gli esseri finiti sono tali perché limitati,
sono quindi misurabili. Lo spazio e il tempo sono misure, misurano appunto gli
esseri creati.
Dio è la pienezza dell'Essere, non ha limiti, non soggiace quindi a nessuna
misura. Dio non è né spazio né tempo, l'Essere di Dio è l'Eternità. L'essere delle
creature è tempo e spazio, e nel tempo e nello spazio è misurato il loro movimento. Il
moto fondamentale delle creature è quello iniziale, il passaggio dal non-essere
all'essere, dal nulla di sé stesse all'esistenza. E' un moto possibile solo se l'esistenza
viene partecipata da Colui che è l'Essere da sempre, l'Essere-da-sé e per-sé. Il tempo
è dunque misura dei rapporti tra gli esseri finiti e misura del loro moto, ma è anche
rivelazione del legame profondo che gli esseri finiti hanno con l'eternità. L'essere
creato è infatti partecipazione all'Essere di Dio, e questo ci ricorda una verità
fondamentale che tocca l'aspetto esistenziale del nostro essere: la creaturalità. Il
nostro "essere-creature" fonda la vincolazione esistenziale che abbiamo con Dio.
Una delle carenze che più incide sulla cultura moderna e che ha indebolito
paurosamente il pensiero dell'uomo contemporaneo è la perdita della consapevolezza
di essere creatura. L'uomo ha così falsato la realtà di sé stesso, ha smarrito la propria
identità e ha compromesso radicalmente i suoi rapporti con la verità delle cose.
L'angoscia esistenziale che caratterizza le ideologie moderne di ogni colore, - non
dimentichiamo che l'ottimismo marxista, così come quello scientista o laicista
mascherano un profondo pessimismo sull'uomo - può essere superata solo
ricuperando la dimensione creaturale dell'essere, una creaturalità che rimanda alla
Sorgente, a Colui che è Fonte di ogni realtà, a quell'Essere divino che libera l'uomo
dalla caducità esistenziale, dalla perdita della propria identità.
La perdita del senso creaturale è conseguenza della negazione e del rifiuto di Dio.
L'uomo, rifiutando il suo riferimento ontologico a Dio, e quindi la sua creaturalità,
crede di celebrare la propria libertà e la propria autonomia, crede di diventare il
demiurgo della propria vita e del proprio destino; in realtà si ritrova travolto dal
tempo senza appigli per le sue aspirazioni più profonde e per i suoi desideri più
sublimi, chiuso nel suo essere contingente, senza prospettive e senza futuro.
4
S. Agostino, Confessioni, 1.7,27
10
In fondo, l'angoscia dell'uomo che ha perduto Dio e ha rifiutato la fede non è
che una claustrofobia dello spirito. Il suo pensiero ripiegato su sé stesso ha perduto il
respiro dell'eternità, l'apertura agli orizzonti di Dio. Il termine stesso "esistenza",
ex-sistere, indica che il mio essere viene da un Altro; io "in-sisto" su un
fondamento che non sono io, mi appoggio, mi radico fuori di me stesso. Il mio
rapporto esistenziale con Dio è ciò che mi definisce, mi fa essere, mi rende
intelligibile. Senza Dio, io non sono nemmeno pensabile.
Del resto, se l'uomo non è creatura di Dio, chi è?...Forse un prodotto della
Natura, cioè di una matrigna che non ha nome, non ha volto, non ha identità? Forse il
frutto di una forza cieca, anonima, indefinibile? L'uomo, così, non sa più da chi
viene e perché esiste. Un senso acuto di smarrimento lo pervade, lo minaccia una
sensazione di paura davanti a ciò che egli non sa prevedere o non sa dominare, lo
avvolge una insicurezza di fondo che si scatena nel bisogno di appropriarsi di sé
stesso, di trovare certezze nelle proprie risorse, spesso in atteggiamenti di
aggressività intellettuale, di violenza edonistica e di presuntuoso pragmatismo. In
realtà queste reazioni tentano di coprire una profonda tristezza, una nostalgia, un
malessere esistenziale che insegue implacabilmente l'uomo che ha perduto Dio. E' la
"sindrome dell'orfanello", di chi non sa chi è suo padre, di chi ignora la sua
appartenenza e la sua famiglia.
11
8 - Ritrovare le origini
5
Eb. 31,16
6
Salmo 2, 7
7
Gn, 1, 26
12
Questo rapporto di creatura può aprirsi a un dialogo divino, a un colloquio
intimo, o anche a un silenzio d'amore dove le parole sono intensi moti dell'anima che
guarda a Colui che l'ha creata e contempla le meraviglie della sua sapienza e della
sua onnipotenza. "Dominus, Dominus noster, quam admirabile est nomen tuum",
Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra. 8
In noi cristiani questo atteggiamento contemplativo si fa orazione, che
diventa canto di lode, di adorazione, di gratitudine. La gloria di Dio, che è lo
splendore delle perfezioni divine, si dispiega davanti agli occhi stupiti dell'anima che
non trattiene il suo grido di ammirazione e di esultanza: Laudamus Te! Benedicimus
Te! Adoramus Te! Glorificamus Te! Lode a Te! Adorazione a Te! Grazia e
benedizione per la tua gloria immensa, o Dio, mio Dio!
Stare con verità al nostro posto di creature è stare davanti a Dio avendo
deposta ogni sufficienza, ogni pretesa, ogni malumore, ogni diffidenza, ogni
aggressività. E' libertà, libertà vera, piena; è capacità di muoversi in mezzo a tutte le
creature senza legami, perché quando si contempla il volto di Dio ogni altro volto
svanisce, ogni creatura rivela la sua analogia che rimanda totalmente a Lui, alla sua
onnipotenza, al suo splendore, alla sua grazia. Tutte le creature, anche le più perfette,
le più seducenti, le più affascinanti, hanno un'unica risposta alla inquietudine
dell'animo umano: quaere super nos! cerca sopra di noi. (S.Agostino)
Così il massimo di dipendenza - quella di creatura che è tutta da Dio e che è
tutta per Iddio, a Lui totalmente votata - è anche il massimo di libertà. E' la vera
"devozione" cristiana. Il latino "de-vovere" significa appunto libertà da ogni legame
per diventare decisione interiore di servire Dio e la sua causa. Tutte le creature sono
allora voci amiche che non ci distraggono da Dio ma ci raccontano invece la sua
gloria esplosa nella creazione. "I cieli narrano la gloria di Dio, e l'opera delle sue
mani annuncia il firmamento". 9 Il cristiano sa essere contemplativo in mezzo al coro
delle cose create e anche nel frastuono delle realtà terrene: il lavoro, le attività della
vita quotidiana, gli affetti nobili e puliti, le vicende che accadono nella vita della
società e dei popoli.
Dobbiamo metterci al nostro posto di creature e guardare a Dio per
vivere in profondità. La profondità della vita, anzi la profondità di tutte le cose
consiste nel loro rapporto con Dio; solo allora le cose diventano una strada per
arrivare a Lui. Perciò lo strepito di tutto ciò che può accadere intorno a noi non
impedirà il nostro raccoglimento interiore, né ci toglierà la pace che è propria di chi
sa di vivere sicuro nelle mani di Dio. Chi non sa pensare sé stesso come creatura
amorosamente vincolata al suo creatore non sarà mai un contemplativo, né di Dio né
del creato, e finirà sepolto nel chiasso di avvenimenti che non hanno storia né
significato. Non c'è solitudine più opprimente e insieme più assordante di quella in
cui precipita un'anima quando ha perduto Dio o rifiuta il proprio rapporto con Lui.
Il tempo diventa un baratro se gli togli l'eternità! E tu non sei fatto per il
baratro o per la disperazione. Non ingannarti: quando l'uomo smarrisce o
semplicemente dimentica Dio, dimentica l'Eternità, e diventa un vagabondo nel
tempo, un errante nella propria storia, un barbone senza fissa dimora, sperduto tra le
cose, una sorta di ubriaco che gira su sé stesso, intorno a sé stesso...; la sua esistenza
terrena sarà un cammino doloroso e difficile, diventerà un viaggio agitato, in tutte
le direzioni senza direzione, e alla fine si concluderà in un naufragio, senza certezze
e senza speranza. Se ritrovi Dio, le sue braccia forti, sicure, dolcissime, hai ritrovato
il filo della tua vita, hai ritrovato te stesso, la tua eternità, la tua pace. Camminerai
verso la vita, la verità, la gioia. "Ciò che il nostro tempo chiede è tempo e solo
tempo, mentre ciò di cui ha bisogno è Eternità". (Kierkegaard).
8
Salmo, 8, 2
9
Salmo 18, 1-2
13
IL TEMPO:
ITINERARIO DELLA FEDE
Quale Fede?
"Questa è la vita eterna: che conoscano Te, l'unico vero Dio e Colui che tu
hai mandato, Gesù Cristo". 10 Con queste parole Gesù si rivolge al Padre nella
preghiera sacerdotale al termine dell'ultima Cena. La "Vita eterna" nell'insegnamento
di Gesù è il fine supremo dell'uomo; si identifica con la gloria di Dio, che è il fine
ultimo di tutte le cose. Gesù ci presenta la vita eterna come una realtà definitiva,
perfetta, permanente, rispetto a tutto il resto che è transitorio, imperfetto, caduco; le
sue parole dal tono paradossale sono categoriche: "Se il tuo occhio ti è occasione di
scandalo, càvalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita (eterna) con
un occhio solo che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco" 11 .
Come dire: l'unica cosa necessaria per l'uomo, la sola che valga la pena, è la Vita
Eterna, e perciò conoscere l'unico vero Dio e Colui che Egli ha mandato, Gesù
Cristo, è l'unica conoscenza veramente importante.
Affermare queste cose in un mondo come l'attuale, che dà importanza a tutto,
anche alle cose più effimere e insignificanti, a tutto fuorchè a Dio, può sembrare un
linguaggio provocatorio, incomprensibile. Lo è certamente per la mentalità di questo
mondo, ma è il linguaggio della verità perché è Parola di Dio, parola che non
inganna. Questa conoscenza del vero Dio, - di Colui che ha creato tutte le cose, che
si è rivelato in Gesù Cristo, Figlio suo e Redentore dell'uomo - questa conoscenza
commisura il tempo e l'eternità: il tempo perché qui sulla terra essa è oggetto della
nostra fede, l'eternità perché in cielo sarà causa della nostra beatitudine. In cielo,
infatti, la conoscenza di Dio sarà immediata e diretta, infusa e trascendente.
Immediata, perché non avverrà attraverso i nostri concetti ma attraverso l'essenza
stessa di Dio; diretta, perché non conosceremo Dio attraverso sue opere ma in sé
stesso; infusa, perché non sarà frutto della nostra attività intellettuale ma di un
intervento esclusivo di Dio; e infine sarà trascendente, perché supererà ogni capacità
creata. In altre parole, conosceremo Dio "come Egli è". 12
Questa conoscenza è chiamata "visione" - "vedremo" Dio -; visione che
richiede in noi una facoltà soprannaturale che i teologi chiamano "lumen gloriae", la
luce della Gloria; ed è chiamata visione "beatifica" perché, proprio nel "vedere Dio
come Egli è" consisterà la nostra beatitudine eterna. La "visione beatifica" non
interesserà soltanto la nostra facoltà conoscitiva ma coinvolgerà interamente il nostro
essere; sarà una conoscenza di comunione intima e piena con l'Essere stesso di Dio.
Nessuna esperienza umana, per quanto esaltante, può paragonarsi, anche
lontanamente, alla beatitudine della Vita Eterna, né può esserci sulla terra un termine
di confronto che possa esprimere la nostra comunione con Dio nel cielo.
10
Gv. 17,3
11
Mt. 18,9
12
1 Gv. 3,2
14
Intanto, "finché abitiamo nel corpo, in esilio lontano dal Signore,
camminiamo nella fede e non nella visione". 13 "La Chiesa, scrive S.Agostino,
conosce due vite: una è nella fede, l'altra nella visione; una nel tempo del
pellegrinaggio, l'altra nell'eternità della dimora; una nella fatica, l'altra nel riposo;
una lungo la via, l'altra nella patria; una nell'attività, l'altra nel premio della
contemplazione". 14 Qui sulla terra, la nostra conoscenza del vero Dio, del Dio Uno e
Trino rivelato da Gesù Cristo, non può essere che velata e mediata. Velata perché ha
bisogno di segni, mediata perché passa attraverso i concetti e i simboli intellettuali.
E' comunque una conoscenza che esige, anch'essa, una luce soprannaturale, il "lumen
fidei", la luce della fede. "Nessun uomo in verità ha mai visto Dio né lo ha fatto
conoscere, ma Egli stesso si è rivelato. E si è rivelato nella fede, alla quale soltanto è
concesso di vedere Dio". 15
11 - Fede umana
Esiste invece una fede umana che si presenta come fede religiosa ed è invece
la grande "Scimmia", quella che nell'Apocalisse è chiamata la Bestia, la quale,
operando grandi prodigi, "seduce gli abitanti della terra". 16 Questa "fede", che ha
la pretesa di essere "religiosa", di esprimere cioè il nostro rapporto con Dio ed è
invece una diabolica falsificazione della religiosità, si regge su una forma corrotta
di fede umana, da cui prolifera il fanatismo, l'irrazionalità, spesso la perversione
degli stessi rapporti umani: è la "fede" delle sètte e di altri movimenti pseudo-
religiosi.
Gli uni e le altre utilizzano elementi della religiosità umana e perfino elementi
della fede cristiana (riti liturgici, passi della Bibbia, formule della dottrina
cristiana...) per "scimmiottare", adulterandolo e deformandolo, il senso religioso
insito nella coscienza dell'uomo, riuscendo spesso a farsi annoverare tra le
13
2 Cor. 5,6
14
S.Agostino, Tratt. 124,5-7
15
Lettera a Diogneto
16
Ap. 13,14
15
espressioni della religiosità ufficiale.
Se le ideologie rappresentavano una forma di razionalismo rigido ed
esasperato, una pazzia più o meno lucida dell'intelligenza, le sètte e i movimenti
pseudo-religiosi hanno le caratteristiche dell'irrazionalità, della negazione
dell'intelligenza; sono espressioni, a livelli più o meno intensi, di una emotività
esasperata e confusa che cerca la sua sicurezza nel fanatismo di massa o nella figura
di un leader religioso, un santone, un "predicatore" illuminato, un guru, un qualsiasi
"fondatore" purchè carismatico, la cui personalità sappia incarnare gli ideali di forza,
di successo e di potenza che si nascondono nel "super-uomo" mancato, presente in
tante psicologie deboli, o che almeno costituisca, tale leader, una garanzia contro le
proprie frustrazioni, contro la carenza di senso esistenziale, o la perdita di consenso
nel proprio ambiente di vita: la famiglia, la professione, il ruolo sociale, sia esso
civile o religioso.
Si tratta dunque di una "fede" umana ma adulterata, fondata cioè tutta su una
testimonianza umana assolutamente inaffidabile perché sganciata da ogni riferimento
con la realtà, da ogni supporto storico legato a fatti o ad avvenimenti, farcita di
principi astratti pseudo-scientifici e pseudo-mistici che hanno impatto sull'emotività
e scatenano atteggiamenti acritici, istintuali. Da qui il loro facile aggancio al mondo
dello spiritismo, della magia, della stregoneria, con rituali iniziatici e occulti.
A questa fede umana falsificata e corrotta è pienamente applicabile il noto
anatema di Geremia: "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo, che pone nella carne
il suo sostegno e il cui cuore si allontana dal Signore". 17
Ora l'umanità può conoscere che il vero Dio, Colui che l'ha creata e l'ha
predestinata da tutta l'eternità, non è un Dio lontano, inaccessibile, che dall'alto della
21
cfr. Es. 3,1-15
22
Es. 3,7-8
18
sua trascendenza contempla impassibile la storia degli uomini. Il Dio del cielo e della
terra, il Creatore di tutte le cose, pur restando un Dio "nascosto", perché trascendente
ad ogni conoscenza, si è fatto vicino agli uomini, si è fatto presente con la sua
potenza di creatore e soprattutto con la sua misericordia di Redentore: "Ho visto la
miseria del mio popolo e sono sceso per liberarlo". Diventare consapevoli della
presenza di Dio nella nostra vita, "vederlo" come colui che ci salva, questa è la fede.
Mosè viene interpretato dalla tradizione patristica come figura profetica di Gesù
Cristo; ma potrebbe essere anche il prototipo di ogni credente. Anche noi abbiamo la
possibilità di udire la voce di Dio che ci parla: il nostro roveto ardente è l'Umanità
Santissima di Gesù. Lì il Padre è presente, lì ci rivolge la sua parola, lì rivela sé
stesso e attua il suo disegno di salvezza. Gesù stesso lo afferma esplicitamente:
"Filippo, come puoi dire: mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il
Padre è in me?". 23
Allo stesso modo del roveto ardente dell'Oreb, che "bruciava nel fuoco e non
si consumava", l'Umanità Santissima di Gesù resterà ormai per sempre in mezzo
agli uomini come il "luogo" della presenza salvifica di Dio, evento determinante
nella storia umana, fonte di verità e di salvezza per tutti coloro che nella fede si
avvicineranno a Lui.
Ma occorre imitare Mosè, che si è lasciato attirare dal roveto ardente; anche
noi dobbiamo lasciarci attirare da Cristo, senza ingannarci con gli idoli falsi del
mondo, anche noi dobbiamo "toglierci i sandali", rinunciando alle nostre presunzioni,
all'orgoglio dell'intelligenza e del cuore; anche noi dobbiamo ascoltare la sua voce e
non opporre resistenza agli inviti di Dio. Il tempo è ormai dominato da ciò che è
accaduto a Betlemme, a Nazareth, a Gerusalemme. Senza quel "Roveto ardente" gli
uomini sarebbero rimasti, come Mosè nella terra di Madiam, errabondi e smarriti nel
deserto della loro esistenza, a pascolare il gregge delle proprie dottrine e delle
proprie vane realizzazioni, senza nemmeno sapere che sono fatti per una "Terra
promessa", per un "paese grande e spazioso dove scorre latte e miele". 24
La fede è un dono grande di Dio. E' un dono che eleva la nostra intelligenza e
la rende capace di conoscere e penetrare le verità che Dio ci ha rivelato. Alla luce di
queste verità la nostra mente può cogliere il senso soprannaturale del nostro cammino
sulla terra e le profondità eterne del tempo presente.
Il dono della fede è associato al grande dono della grazia. E' come un dono nel
dono. La fede, infatti, ci viene infusa con la grazia santificante nel Battesimo e
cresce in noi col crescere della grazia. Dio non si limita a farci conoscere il suo
disegno di amore; con la Rivelazione Egli ci fa anche dono di sé stesso, ci chiama a
una conoscenza che implica la partecipazione vitale alle verità che Egli ci ha
rivelato.
La Teofania del Roveto ardente e i segni prodigiosi nei quali Dio si rivelava al
suo popolo, culminarono in un'altra grande manifestazione: la Teofania del Sinai. Dio
chiama Mosè sulla montagna e lo fa mediatore di una solenne alleanza con il suo
popolo. 26 Come pegno e documento di questa alleanza gli consegna le tavole della
Legge: "Mosè convocò tutto Israele e disse loro: Il Signore nostro Dio ha stabilito
con noi un'alleanza sull'Oreb (...), Egli disse: Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho
fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione servile (...). Non ti farai idolo né
immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra (...)
non ti prostrerai davanti a quelle cose e non le servirai. Perché io, il Signore tuo
Dio, sono un Dio geloso (...) Non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio
(...) Osserva il giorno del Sabato per santificarlo, come il Signore tuo Dio ti ha
comandato (...) onora tuo padre e tua madre, perché la tua vita sia lunga e tu sii
25
Gv. 1,17
26
Es. 19,16 seg.
20
felice nel paese che il Signore tuo Dio ti darà. Non uccidere. Non commettere
adulterio. Non rubare. Non pronunciare testimonianza falsa contro il tuo prossimo.
Non desiderare la moglie del tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo,
né il suo campo, né il suo bue (...)". Queste parole pronunciò il Signore parlando a
tutta la vostra assemblea sul monte, dal fuoco, dalla nube e dalla oscurità, con voce
poderosa, e non aggiunse altro. Le scrisse su due tavole di pietra e me le diede". 27
I Comandamenti diventano così agli occhi degli Ebrei uno dei segni più
evidenti e insieme più commoventi della presenza di Dio in mezzo a loro; una
garanzia che Dio non li aveva abbandonati e che si prendeva cura di loro. Tutta la
storia d’Israele è sotto il segno di questa alleanza, e la Legge, che sarà considerata da
tutto Israele come un dono di predilezione, rimarrà il termine di confronto nel
rapporto tutto singolare del Popolo eletto con il suo Dio.
Ora, la fede ci fa vedere in Cristo il nuovo e definitivo legislatore
dell'umanità, il nuovo e unico Mediatore della nuova Alleanza tra Dio e gli
uomini, Colui che ha portato la grazia all'interno della Legge e ha dato ad essa una
nuova dimensione: la dimensione della libertà e dell'amore. Perciò la Legge diventa,
in Cristo, vocazione ad essere perfetti secondo le Beatitudini del Vangelo, cioè
secondo la nuova dignità di figli di Dio. Se viene meno la fede, anche la coscienza,
come testimone della legge, si oscura, e se manca la grazia, non solo rimane
incomprensibile la morale delle Beatitudini, ma gli stessi Comandamenti
dell'Alleanza risultano gravosi e spesso impraticabili.
Abbiamo paragonato la nostra vita sulla terra al viaggio degli Ebrei nel
deserto, un viaggio di speranza che ha avuto come strada la fede. Ma c'è un altro
viaggio nel quale possiamo ritrovare esplicite analogie con quell'avventura umana e
divina che è il nostro cammino sulla terra: è il viaggio dei Magi sulla strada per
Betlemme. Anche per loro c'è stato un "roveto ardente" dal quale il Signore li ha
chiamati e si è loro manifestato come in una teofania: "Abbiamo visto sorgere la sua
stella e siamo venuti per adorarlo". 36
Quella stella è stata per loro una rivelazione, il segno di una chiamata, di un
invito a cercare il "Dio-che-è-venuto-a-salvarci". Per loro, pagani e uomini di
mondo, la salvezza aveva il significato della regalità, il "Redentore" avrebbe
ristabilito la signoria di Dio su tutte le cose, avrebbe riunito tutti i popoli della terra
34
Sal. 94,11
35
Gv. 11,25
36
Mt. 2,2
23
in un unico regno, governato con giustizia e nella pace. Quei Magi risposero alla
chiamata e si misero in cammino alla ricerca di Cristo "per adorarlo", disposti cioè a
riconoscerlo come Re e Salvatore, a sottomettersi a Lui e a servirlo.
Commuove innanzitutto la prontezza con la quale questi uomini saggi e
potenti rispondono alla chiamata di Dio; si lasciano condurre con fiducia e senza
incertezze dalla fede e non temono di affrontare un viaggio di cui non conoscono il
percorso, la durata, le difficoltà, un viaggio che offriva una sola certezza: li avrebbe
portati a incontrare il Re dei Giudei, il grande Atteso da tutti i popoli.
E difficoltà ne hanno certamente incontrate prima di arrivare a Gerusalemme:
fatiche, stanchezza, sacrifici. Ma la certezza che veniva loro dalla fede è stata più
forte di tutti i timori e di tutti i dubbi che venivano dalle situazioni difficili di un
viaggio pieno di incognite e, umanamente parlando, molto simile a una pazzia.
Arrivati poi a Gerusalemme, la prova della loro fede toccò il momento più
duro e cruciale. Si aspettavano di trovare la città in festa, tutta un tripudio per la
nascita del Gran Re; trovarono invece una città indifferente, dominata dal sospetto e
dalla paura. Per di più quella che era stata la loro certezza e la loro guida, la stella
apparsa in Oriente, scompare dal loro cammino. Le stesse informazioni, pur esatte e
sicure dei sacerdoti e degli Scribi, celavano una strana freddezza e un inspiegabile
disinteresse. Infine l'ignoranza di Erode, pur cammuffata da un ostentato entusiasmo,
come poteva accordarsi con l'importanza di un fatto così grande e atteso?
Ebbene, nonostante tutto questo i Magi continuano a "credere"; non dubitano,
non desistono, non si lasciano scoraggiare o fermare. Avevano visto la stella e non
potevano dubitare. Gli uomini possono anche ingannarsi o ingannare, e possono
anche tradire, ma il Cielo no! Il loro viaggio non era finito e la strada intrapresa,
anche se per un momento nascondeva la sue tracce, non poteva esaurirsi nel nulla,
come nella sabbia del deserto. Bisognava continuare, insistere, cercare; la meta era
certa, il cammino sicuro, la direzione era giusta. Fu allora che la stella riapparve, e
con la stella la luce e la gioia: il cielo confermava il suo messaggio.
Giunsero così a Betlemme, e quella stessa fede che li aveva guidati li fece
cadere in ginocchio senza esitazioni e senza scandalo anche se il grande Re, l'Atteso
delle genti, si presentava a loro in un alloggio umile e disadorno, nella debolezza e
nella semplicità di un Bambino che non aveva nulla di regale, in un luogo lontano dai
centri della potenza mondana. Videro il Bambino e adorarono il Re, videro l'uomo
e credettero in Dio.
Il nostro viaggio sulla terra conosce le stesse esperienze e gli stessi momenti
del viaggio compiuto dai Magi: incontreremo il dubbio, la stanchezza, la tentazione e
tante altre difficoltà; anche la stella della fede sembrerà eclissarsi sul nostro
cammino e a volte ci potrà apparire come un'illusione o un inganno. Incontreremo la
freddezza e l'ostilità di un ambiente dominato dallo scetticismo e dalla miscredenza;
troveremo folle che vanno in senso contrario al nostro cammino perché stanno
allontanandosi da Dio; potranno assalirci il timore del ridicolo e la paura della
emarginazione, o anche lo sconcerto per il silenzio di Dio davanti alla violenza delle
passioni umane....; ma non dobbiamo fermarci, non possiamo dubitare. Abbiamo
visto anche solo una volta, magari da bambini, la stella della fede nel cielo della
nostra anima? Abbiamo udito, sia pure tra mille voci assordanti, la voce della Chiesa
che ci indicava la strada? Ebbene, non dubitiamo, non lasciamoci intimorire o
fermare da nulla e da nessuno. La meta non potrà essere che la grotta di Betlemme
con il Bambino e sua Madre. Lì, in quella grotta, si incontrano la verità di Dio e la
verità dell'uomo, lì la vita prepara la sua rivincita sulla morte, lì la nostra offuscata
dignità di creature trova lo splendore della nuova dignità di figli di Dio.
24
24 - Il cammino dei discepoli di Emmaus.
Sulle orme dell'Esodo, abbiamo seguito il viaggio degli Ebrei nel deserto, un
viaggio epico verso la salvezza. Lo abbiamo chiamato "Epopea della Salvezza" e
l'abbiamo paragonato al viaggio che l'intera umanità è chiamata a percorrere sulla
terra attraverso il cammino della fede.
Abbiamo poi calcato le orme dei Magi perché anche ciò che è sapiente, nobile
e potente sulla terra deve trovare la strada che porta a Betlemme e scoprire
nell'umiltà di un Bambino la sapienza di Dio e la potenza di Dio.
Ma c'è nel Vangelo il racconto di un altro viaggio, un viaggio meno grandioso
e imponente, un viaggio quasi in incognito, senza rumore, ma non meno drammatico,
che può suggerirci alcune riflessioni sulla fede utili a ciascuno di noi e ad ogni anima
che voglia incontrare il Signore. In quel viaggio, non è un popolo che si muove verso
una terra promessa, non sono dei nobili e dei sapienti che vanno a Gerusalemme per
cercare il Re di tutta la terra, ma sono due viandanti, uno anonimo e l'altro di nome
Cleopa, che viaggiano proprio nel giorno in cui si è compiuta la salvezza: il giorno
della Risurrezione, il giorno della Fede; ma camminano non sulla strada della fede
bensì su quella del dubbio, dello scetticismo, della tristezza. Infatti si allontanano da
Gerusalemme, la città di Dio, città della pace, la meta cui deve tendere ogni anima.
Narra dunque San Luca 37 che nel giorno stesso di Pasqua, due discepoli erano
in cammino verso Emmaus, un villaggio a quindici chilometri da Gerusalemme;
erano tristi e delusi, convinti di essersi ingannati sul conto di Gesù, sulla sua persona
e sulla sua missione: "Noi speravamo che fosse Lui a liberare Israele!". Frattanto
Gesù in persona si accostò e si fece viandante con loro, "Ma i loro occhi erano
incapaci di riconoscerlo". Allora Egli cominciò a spiegare loro le Scritture, partendo
da Mosè e dai Profeti, su tutto "ciò che si riferiva a Lui".
Ogni creatura vive nel tempo e si muove nel tempo, ma l'uomo fatto a
immagine e somiglianza di Dio vive e si muove nel tempo in modo unico e singolare:
a lui è dato di vivere con dimensione di eternità. In questo viaggio nel tempo noi
cristiani abbiamo come strada la fede. Su questa strada possiamo muoverci con
passo deciso e sollecito ma anche con passo lento e faticoso, magari con scivoloni e
cadute, come pure possiamo muoverci speditamente e senza fatica con l'aiuto di
mezzi comodi e veloci che il Padrone della strada - il Signore - ci mette a
disposizione. Sul nostro cammino della fede, infatti, il Signore è presente con la luce
della sua verità - il suo vangelo - e con la grazia dei suoi sacramenti. Inoltre la
Chiesa ci guida e ci accompagna lungo il percorso con l'attenzione e la cura proprie
della sua missione materna. Talvolta succede anche che il Signore ci fa "volare" nella
fede con interventi particolari della sua grazia e con i doni dello Spirito Santo.
Da parte nostra i passi che muoviamo su questa strada corrispondono ai singoli
atti di fede che esprimiamo nella nostra vita aderendo di volta in volta al Signore.
Ora, ci sono cristiani che non compiono mai atti di fede; sono coloro che hanno
38
Lc. 24,32
39
Gv. 16,20
26
dimenticato Dio nella loro vita e hanno abbandonato la preghiera e i sacramenti. In
loro la fede è morta e la loro vita non è molto diversa da quella dei pagani che non
conoscono Dio. Senza la fede, il loro cammino sulla terra è molto simile a un
viaggio nel buio, nella nebbia più fitta, e non sanno da dove viene e dove conduce il
loro sentiero. Il lungo silenzio che li separa da Dio e che dura da anni, conosce solo
il vociare assordante dei ragionamenti umani; essi continuano nella vita
accontentandosi delle provvisorie certezze del sapere umano, della buona salute, del
successo economico ma in realtà portandosi dentro un immenso bisogno di Dio.
Ci sono poi cristiani che compiono solo raramente atti di fede; la loro vita
infatti si svolge quasi abitualmente secondo i criteri di questo mondo. Sono anche
persone perbene, si comportano onestamente, ma non sanno vedere la loro esistenza
in riferimento a Dio. Ogni tanto pregano, ma per motivi molto umani e, "quando se
la sentono", vanno anche in chiesa, soprattutto nelle occasioni tradizionalmente
sentite dalla massa dei credenti. Per loro le cose che veramente contano sono il
lavoro, la buona salute, la carriera, i conforts della vita e la posizione sociale. La
fede è rimasta come rattrappita dentro il loro cuore, quasi soffocata da un
materialismo pratico dove il Signore appare raramente e con fatica. Fanno ricordare
il terreno occupato dalle spine nella parabola evangelica del seminatore.
Ci sono ancora cristiani che compiono frequentemente e anche abitualmente
atti di fede. Ricorrono a Dio nella preghiera ogni giorno, compiono i doveri
quotidiani con rettitudine sapendo di dover rendere conto a Dio, sanno compiere
sacrifici per aiutare gli altri, santificano abitualmente le feste e ricorrono con
frequenza ai sacramenti, sanno prendere dalle mani di Dio quanto accade nella loro
vita. Gli atti di fede sono in loro frequenti, la fede è diventata pressoché abituale, un
"abito" appunto: hanno la virtù della fede. Come ogni creatura umana, hanno limiti e
difetti, debolezze e cedimenti, ma lottano con umiltà e perseveranza appoggiandosi
all'aiuto e alla misericordia di Dio. In essi si può vedere realizzata l'espressione
biblica: justus autem meus ex fide vivet. 40 Nell'uomo che cerca la santità la fede è
diventata vita.
Infine, ci sono cristiani che vivono la fede eroicamente; in essi questa virtù è
diventata non solo così abituale da dare senso soprannaturale a tutte le cose piccole e
grandi della loro vita, ma ha portato la loro anima all'unione intima, quasi abituale,
con Dio. Nulla li turba più: non le tribolazioni della vita, non la malattia, non il
disonore, non la fatica..., Tutto hanno abbandonato nelle mani di Dio. Avvertono
quasi istintivamente quello che Dio chiede a loro e si lasciano guidare, quasi portare
da Lui, con assoluta docilità. Vivono talmente uniti a Dio che si lascerebbero
uccidere piuttosto che dispiacergli in qualche cosa. La fede è per loro criterio e
misura di tutto, ed è arrivata a permeare profondamente tutte le altre virtù cosicché
non si nota più distinzione tra fede e amore; tutto nella loro vita è illuminato dalla
fede, tutto è mosso dall'amore.
28 - Fede e preghiera.
Possiamo dire che il grado di fede raggiunto dalla nostra anima può darci la
misura della nostra vita cristiana. Vediamolo in alcuni aspetti particolari della vita
spirituale dove la fede ha un ruolo insostituibile. Innanzitutto il rapporto tra fede e
preghiera. E' un rapporto reciproco: senza la fede non si dà preghiera cristiana e
40
Ebr. 10,38
27
senza la preghiera la fede manca del suo respiro e si spegne.
Abbiamo detto "preghiera cristiana", cioè la preghiera di Cristo, quella che lui
ha praticato e che lui ci ha insegnato. La preghiera di Gesù si differenzia da tutte le
altre forme di preghiera che troviamo nella religiosità umana. Nelle varie religioni la
preghiera nasce dall'uomo; suppone un naturale bisogno del divino che spinge la
mente e l'animo dell'uomo a cercare Dio. La preghiera assume così la forma di
invocazioni propiziatorie, di riti e pratiche cultuali che hanno forte incidenza sulla
emotività e che a volte si esprimono con formule elaborate e di effetto, oppure si
sviluppano in forme più interiori come meditazioni intellettuali, esercizi spesso
impegnativi di ascesi e di purificazione, tecniche psicologiche per approppriarsi del
proprio corpo e del proprio mondo interiore. Esprimono comunque la nostalgia
dell'animo umano che ha sempre desiderato Dio e lo ha affannosamente cercato.
Tuttavia l'unione con Dio è una realtà che trascende l'uomo e ogni sua iniziativa, una
realtà della quale non ci si può impossessare con nessuno sforzo naturale e con
nessuna tecnica umana per quanto raffinata.
La preghiera è l'elevazione dell'anima a Dio. Noi cristiani sappiamo di non
poter appoggiarci su alcuna forza nostra per arrivare al trono di Dio, e sappiamo
anche di non avere titoli per essere da Lui ascoltati: non abbiamo meriti, non
abbiamo virtù, non abbiamo opere proporzionate. L'unico titolo che abbiamo è quello
conferitoci da Gesù: siamo figli. Lui stesso ce lo ha ricordato: "Quando pregate dite
così: Padre..." Già questo, di rivolgerci a Dio e di chiamarlo Padre, è un grande atto
di fede; ma poi ogni preghiera, da quella più semplice a quella più sublime deve
nascere dalla fede nella paternità di Dio. Quanto più viva è questa fede tanto più la
nostra preghiera si trasforma nel colloquio intimo di un figlio con suo padre.
La strada dell'orazione si identifica dunque con quella della fede. Una fede
vera, autentica, genera in noi un senso vivo e gioioso della nostra filiazione divina, ci
mette subito al nostro posto, non solo di creature ma di figli che Dio ha chiamato alla
sua intimità, alla partecipazione della sua stessa vita. E' una prospettiva così bella e
affascinante che dovrebbe rendere la preghiera facile e spontanea, invece la nostra
superbia, la nostra paura, il demonio stesso, ce la rendono così difficile e faticosa che
il Signore ha dovuto rimproverarci: "Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone
ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che
glielo chiedono". 41
La filiazione divina diventa così il fondamento del nostro rapporto con Dio, e
perciò il fondamento di ogni nostra preghiera. Tale è stata la preghiera di Gesù. Chi
mai potrà penetrare il mistero sublime di tante notti passate da Gesù in intimo
colloquio col Padre? Quella preghiera, che ha impressionato così profondamente gli
apostoli, è diventata per ogni cristiano, discepolo del Signore, il modo nuovo e
assolutamente esemplare di stare con Dio e di parlare con lui. Per questo una
preghiera che nasca dalla filiazione divina è sempre efficace perché Dio non vuole
rifiutare nulla a un figlio che crede in lui e si abbandona al suo amore paterno. Anzi,
sappiamo che Dio ascolta anche i peccatori quando la loro preghiera scaturisce da un
cuore umile e contrito, quando si riconoscono bisognosi della sua misericordia e si
affidano alla sua bontà di Padre. Il vero impedimento alla preghiera è la superbia;
essa ci fa stare davanti a Dio con l'atteggiamento della pretesa, come se avessimo
dei diritti o potessimo contare sui nostri meriti.
La nostra condizione davanti a Dio è quella di debitori insolventi che non
hanno di che pagare. 42 Anche le nostre opere buone più preziose non sono che poveri
41
Lc. 11,13
42
Mt. 18,25
28
spiccioli che valgono ben poco agli occhi di Dio. Gli unici meriti che possiamo
vantare sono quelli che ci ha guadagnato Gesù sulla croce. Il suo sacrificio ha
accumulato per noi un tesoro infinito, e solo attingendo a questo tesoro noi possiamo
pagare i nostri debiti con Dio e riparare il male fatto con i nostri peccati. Gesù porta
ancora nella sua carne i segni della passione, e con essi sta davanti al Padre nella
gloria del cielo come nostro Grande Intercessore. Perciò la Chiesa, nella sua liturgia
conclude tutte le preghiere rivolgendosi al Padre "per i meriti di nostro Signore Gesù
Cristo.".
Questa umiltà è caratteristica esclusiva della preghiera cristiana; è anche
l'atteggiamento che garantisce autenticità e gioia al nostro rapporto con Dio.
Possiamo infatti stare davanti a Lui e dirgli con assoluta fiducia: "Padre, sono tuo
figlio, peccatore e pieno di miserie, ma tuo figlio. Tu hai chiesto a Gesù, il tuo figlio
prediletto, di dare la sua vita per me; io te lo offro, e insieme con lui ti offro me
stesso, la mia vita, tutte le cose che porto nel mio cuore. Ti offro anche tutto ciò che
mi appartiene, non esclusi i miei peccati, le mie miserie, la mia debolezza".
Noi saremo ascoltati da Dio non per la nostra preghiera, ma per la nostra
fede; quella fede che ci porta ad essere fermamente convinti che Dio ci ama, e ci ama
non per i nostri meriti, per le nostre virtù o qualità che spesso non ci sono, ci ama
solo in forza della sua paternità divina. Dubitare di Lui è il torto più grave che
possiamo fare a Dio, perché è mettere in dubbio quello che lui ha fatto per noi: ci ha
fatti suoi figli e ci ha dato Gesù come Redentore. Sono questi i due punti di forza
della nostra preghiera.
Questa fede umile ma fermamente convinta ci libera dalla pretesa e ci riempie
invece di audacia santa, secondo quelle parole di Gesù: "In verità, in verità vi dico:
se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, Egli ve la darà. Finora non avete
chiesto nulla nel mio nome. Chiedete ed otterrete, perché la Vostra gioia sia piena". 43
Chiedere nel suo nome vuol dire appoggiare la nostra preghiera su Cristo crocifisso,
ma vuol dire anche che dobbiamo pregare come ha pregato Gesù: Egli si è sempre
fidato e affidato alla volontà del Padre. Dal primo momento, da quando è entrato nel
mondo - "Vengo, o Padre, a compiere la Tua volontà" - fino al momento estremo
della passione - "Padre, non sia fatta la mia ma la tua volontà" - tutta la vita di
Cristo è stata una preghiera di obbedienza al Padre. Anche noi, quando andiamo a
pregare, andiamo a consegnarci con assoluta fiducia nelle mani di Dio; Egli sa più di
noi, e ci ama.
30 - La fede e la croce.
43
Gv. 16,23-24
29
di Colui che "nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti
grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà...
e divenne causa di salvezza eterna per coloro che gli obbediscono" 44 , è un frutto
prezioso della nostra fede.
La croce di Gesù santifica il dolore, lo riscatta dalla maledizione,
impedisce che diventi bestemmia, trasformandolo invece in preghiera, in
espiazione, in salvezza. Anche in questo trova valore e significato la nostra
partecipazione al sacrificio della Messa. Sul Calvario accanto a Gesù Crocifisso e
Innocente c'erano due colpevoli condannati alla stessa pena. Uno di loro si
contorceva nella ribellione e trasformava il suo dolore in bestemmia, l'altro,
consapevole che il dolore nasce dal peccato o comunque è sempre segno del peccato,
seppe trasformare la sua sofferenza in preghiera: "Gesù, ricordati di me nel tuo
regno!". In quel momento il dolore dell'uomo diventa dolore di Cristo, l'unico dolore
veramente innocente, che salva e che redime. "In verità ti dico, oggi sarai con me in
Paradiso". 45
Talvolta la sofferenza arriva improvvisa e violenta, come un urto, mette alla
prova la solidità della nostra fede, rivela quali sono i veri atteggiamenti della nostra
anima, e mostra fino a che punto sia abituale in noi la preghiera e quanto sia filiale il
nostro rapporto con Dio. La sofferenza può portare allora a quella forma
squisitamente cristiana di preghiera che chiamiamo "preghiera di abbandono"; Gesù
l'ha vissuta in modo sublime nel momento supremo della sua vita: "Padre, nelle tue
mani abbandono il mio spirito". 46
L'ATTO DI FEDE
Abbiamo visto qual è l'oggetto della nostra fede: Dio che rivela sé stesso e
realizza, per mezzo di Cristo, il suo progetto di salvezza, la redenzione dell'uomo,
chiamandolo alla perfetta comunione con Lui. Ma al fine di fortificarci nella fede e
di comprendere più chiaramente la nobiltà e la preziosità di questo dono, giova ora
esaminare l'atto di fede in sé stesso, così come si compie in noi. Sulla terra non c'è
atto più nobile di quello di aderire a Dio attraverso la fede; è questo, infatti, l'atto più
sublime dello spirito umano.
Ogni atto di fede impegna profondamente tutto l'uomo, la sua facoltà
intellettiva, la sua volontà, il suo cuore; è un atto profondamente umano e tuttavia è
un atto totalmente soprannaturale perché esige l'azione di Dio nella nostra anima;
ogni atto di fede è un mistero di libertà e di grazia. Dall'analisi sul ruolo che
ciascuna facoltà del nostro spirito svolge nell’atto di fede, comprenderemo anche la
necessità di una sempre più generosa purificazione interiore perché la fede si liberi
pienamente e pervada tutta la nostra vita.
Vediamo innanzitutto il ruolo dell'intelletto. Ci riferiamo, ovviamente, a un
intelletto normale, cioè sano nel suo modo naturale di conoscere, libero quindi dalle
ideologie, quelle malattie dell'intelligenza che rendono l'uomo incapace di formulare
il benché minimo atto di fede.
Il ruolo dell'intelletto è fondamentale, non solo perché la fede implica
un'attività conoscitiva, ma anche perché l'intelligenza è chiamata a svolgere un
triplice lavoro nell'atto di fede: 1) ci documenta l'esistenza di verità rivelate da
Dio; 2) ci mostra che queste verità sono credibili, perché vengono da Dio e sono
accompagnate dalla sua testimonianza; 3) ci ricorda, infine, il dovere di assentire a
queste verità perché Dio è il Signore, e ha diritto all'omaggio anche intellettuale della
sua creatura.
31
33 - L’intelletto nell’atto di fede.
47
2 Gv. 7
48
Dei Verbum n. 19
32
34 - Purificare l’intelligenza.
36 - Il dovere di credere.
37 - “Intelletto cristiano”
Il compito decisivo nell'atto di fede spetta allora alla volontà. E' lei in
definitiva che si piega in adorazione davanti all'autorità di Dio, e mette la nostra
ragione in ginocchio davanti a Cristo, "Credi tu nel Figlio dell'uomo? - chiese Gesù
al cieco nato - ed egli disse: "Io credo, o Signore!" e gli si prostrò dinnanzi". 58 . In
altre parole l'intelligenza indica alla coscienza dell'uomo e alla sua libertà, a chi e
che cosa deve credere e perché deve credere, ma poi l'atto di fede dipende dalla
volontà. L'uomo crede se vuole credere, e se non vuole non crede, quali che siano i
ragionamenti e anche le evidenze razionali che gli vengano presentate. E' così che
l'atto di fede diventa un atto di adorazione all'autorità di Dio.
A questo punto la purificazione dell'intelligenza è strettamente legata alla
rettitudine della volontà in quella che è la virtù più difficile per il nostro spirito:
l'obbedienza. E' una virtù che viene considerata, come abbiamo visto, indegna
dell'uomo perché ritenuta lesiva della sua libertà, di quella libertà soprattutto che si
ritiene costitutiva dell'uomo adulto e autonomo: la libertà di pensiero. Non c'è dubbio
che l'ossequio intellettuale sia la forma più profonda e più impegnativa di obbedienza
e costituisca un vero "omaggio", cioè sottomissione della nostra persona in ciò che
58
Gv. 9,35
36
gli appartiene di più nobile e prezioso: l'intelligenza; la fede come obbedienza -
oboedientia fidei - è perciò una vera e propria oblazione della nostra persona
all'autorità di Dio.
Ma la nostra intelligenza dovrebbe allora ricordarsi che abbracciare la
Verità è diventare profondamente liberi, che "servire Dio è regnare". Tra verità e
libertà c'è un rapporto assoluto, quasi univoco. Nella menzogna non c'è libertà. La
forma di menzogna oggi più diffusa è il mancato rispetto della verità delle cose,
verità che viene sostituita dal pensiero inteso come criterio ultimo di verità, e dalla
coscienza soggettiva eretta a norma suprema di comportamento.
Il principio evangelico: "La Verità vi farà liberi" 59 ha enorme importanza
riguardo ai problemi della conoscenza, come vedremo. Qui interessa ricordare il peso
morale che ha la coscienza ai fini di un atto di fede che sia omaggio della nostra
libertà all'autorità di Dio. Solo una coscienza integra può combattere con successo
una battaglia che esige lealtà, umiltà, sincerità e fortezza per arrivare alla
oboedientia fidei, obbedienza che è la più alta espressione di libertà e insieme è
l'atto di adorazione più nobile che possiamo compiere verso Dio.
Talvolta questa decisione della volontà di consegnarsi a Dio nell'atto di fede
comporta un’intensa sofferenza, è accompagnata da una lotta interiore che fa gemere
la coscienza. Ma è una decisione estremamente liberante, e fa sperimentare la verità
delle parole di Gesù che possiamo così parafrasare: "Chi vorrà salvare la propria
libertà, la perderà, ma chi perderà la propria libertà per me, la salverà".
Infine questo omaggio della nostra libertà, questo chinarsi della volontà
all'autorità di Dio, costituisce il valore meritorio dell'atto di fede, come avvenne ad
Abramo, che credette a Dio contro ogni speranza, e Dio glielo accreditò come
giustizia. 60 La Chiesa nella sua liturgia definisce Abramo: "nostro padre nella fede";
egli obbedì a Dio fidandosi totalmente ed eroicamente di lui anche quando ciò che
Dio gli chiedeva - come il sacrificio del figlio Isacco 61 - appariva incomprensibile e
umanamente assurdo, anzi crudele e inaccettabile. Credere è aprire un credito con
Dio, il quale ripaga restituendo il cento per uno.
59
Gv. 8,32
60
Gen. 15,6
61
Gen. 22,1-18
37
profondo della nostra anima. "Dove c'è il tuo tesoro, lì c'è pure il tuo cuore". 62
E' anche vero che il cuore è il luogo di risonanza delle situazioni emotive; lì si
accumulano i dati delle nostre sensazioni e delle nostre esperienze. E quando queste
sono state negative, hanno cioè provocato dolore, lacerazioni o ferite, possono
diventare determinanti nell'orientare in senso negativo il nostro cuore. In persone di
natura particolarmente sensibile, certe umiliazioni subite nell'adolescenza, i vuoti
affettivi dell'infanzia, le ingiustizie patite, gli insuccessi nella vita professionale o
sentimentale, possono provocare atteggiamenti di protesta, di rifiuto e anche di
chiusura alla fede e al rapporto personale con Dio.
Ancora peggiore è la situazione di un cuore corrotto, un cuore che si sia
abbandonato ad amori illeciti o ignobili, ai piaceri dei sensi o alle comodità della
vita, all'avidità delle ricchezze o alle soddisfazioni di questo mondo, al disordine di
una vita senza ideali e senza scrupoli. Tutte queste cose contribuiscono a legare
l'uomo alla terra, a gettarlo nel disordine di una vita senza valori. E' il caso dell'uomo
carnale che non comprende le cose di Dio.
A un cuore corrotto Dio risponde con il silenzio; tale fu il comportamento
di Gesù davanti ad Erode. Possiamo perciò comprendere facilmente l'importanza
della purificazione del cuore in ordine all'atto di fede. "Beati i puri di cuore, perché
vedranno Dio". 63 La fede non è possibile quando il cuore non è retto e pulito.
La purificazione del cuore comincia dalla sincerità interiore alla quale
corrisponde la sincerità della vita e della condotta. Molti non credono "..perché le
loro opere sono malvage. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla
luce perché non siano svelate le sue opere". 64 Il rifiuto della fede è spesso
conseguenza di una vita bugiarda: "Voi avete per padre il diavolo... egli non ha
perseverato nella verità perché in lui non c'è verità. Quando dice il falso, parla del
suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me invece voi non credete,
perché dico la verità". 65
Un secondo aspetto della purificazione del cuore consiste nella lotta interiore
contro le passioni. Sono soprattutto due le passioni che appesantiscono il cuore:
l'impurità e la cupidigia delle ricchezze. L'una è come fango appiccicoso e malsano
che toglie ali alla fede, l'altra è una sorta di pinguedine spirituale che soffoca il
respiro dell'anima. Sono come catene che imprigionano il cuore e gli impediscono di
muoversi verso Dio.
41 - La fede di Maria
Con Santa Teresa d'Avila è interminabile il corteo di anime che, come Abramo,
Mosè, i Profeti, gli Apostoli e i Martiri, hanno percorso la strada della fede nel loro
cammino sulla terra, e potremmo anche dare spazio a più profonde e ampie riflessioni
sul dono e sulla virtù della fede, ma tutto sarebbe insufficiente e incompleto se, alla
fine, non fermassimo lo sguardo e il cuore davanti a Colei che, come nessun'altra
creatura si pone a modello e ad esempio di fede, e che sulla strada della fede precede
ogni credente. E' lei, la Vergine credente, che nella fede ha accolto il disegno di Dio
per la salvezza degli uomini - "Sono la serva del Signore; avvenga di me quello che
tu hai detto" 68 - è lei, la Vergine madre, che attraverso l'obbedienza della fede ha
concepito e partorito il Figlio di Dio fatto uomo; è lei, la Vergine corredentrice che,
unita alla morte del Figlio, ha accettato che fosse piantata la croce anche nel suo
cuore - "Una spada ti trapasserà l'anima" - è lei, la Vergine Sposa, che nel Cenacolo
ha atteso nella fede lo Spirito Santo diventando madre della Chiesa pellegrinante nel
tempo.
Questa fede di Maria costituisce la sua beatitudine sulla terra - "Beata Colei
che ha creduto" 69 - ed è questa la beatitudine riservata ad ogni credente, ad ogni
cristiano che voglia imitare Maria e seguirla nel cammino della fede. "Beati gli
occhi che vedono quello che voi vedete" 70 , e "Beati coloro che pur non avendo
visto, crederanno". 71 La sera del Venerdì Santo, la fede si era spenta sulla terra; Lei,
67
S.Teresa D'Avila, Castello Interiore, 5 M.2
68
Lc. 1,38
69
Lc. 1,45
70
Lc. 10,23
71
Gv. 20,29
39
la Vergine Maria, ha perseverato nella fede quando più nessuno credeva, ha
conservato la speranza quando più nessuno sperava, è rimasta fedele quando tutti
erano fuggiti.
Credere è "vedere" Dio: vedere Dio nel mistero dell'Universo che mi circonda;
vedere Dio nell'uomo-Gesù, Figlio di Dio-Padre, il quale ha posto in Gesù la
pienezza della divinità; vedere Dio nel Crocifisso, che ha dato sé stesso per la
salvezza dell'umanità; vedere Dio negli uomini che Egli ha posto come fondamento
della sua Chiesa e li ha mandati nel mondo per annunciare il Vangelo ad ogni
creatura; credere è vedere Dio "nascosto" nei segni sacramentali: nell'acqua del
battesimo che mi fa figlio di Dio, nel pane e nel vino che nell'Eucarestia diventano il
Corpo e il Sangue di Cristo sacrificato per me, nell'accusa umile e contrita dei miei
peccati sui quali, nel sacramento del perdono, scende la misericordia di Dio per mano
del sacerdote, nel dono casto e fecondo del proprio corpo nell'amore coniugale per
servire la vita; credere è vedere Dio nel futuro della mia esistenza, oltre la morte,
quando, dopo avermi accolto nelle sue braccia, Dio chiamerà il mio corpo alla
risurrezione e mi renderà partecipe della sua vita eterna.
Su questa traiettoria dell'esistenza umana, lungo questo cammino della fede,
Maria ci precede, ci apre la strada, ci fortifica e ci ottiene di perseverare con fedeltà
e tenacia. Il suo fiat, un sì pieno e totale a Dio che la interpella, che la chiama, che
si impossessa di lei per farla madre della nostra salvezza, un fiat che esprime la sua
fede umile e innamorata è la radice della sua beatitudine: "Beata colei che ha
creduto".
In un mondo secolarizzato che ha voltato le spalle a Dio, lo ha emarginato
dalla propria vita e lo ha dichiarato inutile se non ingombrante ed oppressivo, vivere
la fede in lui è andare contro mano, contro la cultura ufficiale che ha forgiato la
mentalità scettica e mondana oggi dominante. Maria sta davanti all'umanità come
colei che "indica la strada" - la Odigitria - e gli uomini devono convincersi che la
vera felicità, la "beatitudine" non conosce altre strade se non la strada della fede che
porta a Gesù Cristo e, attraverso di lui, al Padre. Beata colei che ha creduto, ma
anche Beato chiunque accoglie la parola di Dio e la osserva. 72
72
Lc. 11,28
40
IL TEMPO:
CAMMINO DELLA SPERANZA
QUALE SPERANZA?
La fede è la strada. Vivere nel tempo senza la fede è vivere senza una
direzione, senza una meta che ci orienti. E' come vagare in un deserto senza orme,
smarriti sotto un cielo senza stelle, chiusi da un orizzonte tutto uguale. E' vagare
inutilmente intorno a sé stessi, intorno alle proprie orme. E si finisce col morire di
sete.
Ma aver trovato la strada non basta, né basta conoscere la meta. Occorre la
convinzione che la meta è possibile e che la strada non tradisce: occorre la Speranza.
E' un errore di prospettiva pensare che l'eternità cominci dove finisce il tempo e che
la meta sia al di là della strada. La meta invece è a portata di mano perché l'eternità
non ha una durata, è tutta "presente", in ogni attimo del tempo. La meta dunque è
possibile e la strada non delude.
Nella vita non possiamo camminare senza il pane della speranza. Per noi
cristiani questo pane è la fiducia in Dio, e la meta è la perfetta comunione con Lui
nel cielo. Il pane della speranza è forza e sostegno per la nostra anima perché genera
in noi la certezza che Dio non inganna. Per chi cammina senza speranza la strada non
finisce mai, e la meta non ha nome. La speranza è come una rugiada mattutina per
l'anima, è come la manna che alimentò quotidianamente gli Ebrei nel deserto. Senza
il pane della speranza ogni strada si fa deserto e nessuna meta è possibile.
Esiste un pane mondano da cui dobbiamo guardarci, un pane fraudolento, che
delude la fame del cuore umano e tende a surrogare la speranza cristiana: è
l'ottimismo mondano. A questo pane allude Gesù quando raccomanda agli Apostoli:
"...guardatevi dal lievito dei Farisei e dal lievito di Erode". 73 I Farisei ed Erode sono
i falsi fornai di questo mondo: i Farisei si preoccupano che la speranza abbia la
forma del pane anche se non è pane vero, perché mettono la loro fiducia non in Dio
ma nella legge; Erode, che nega la legge, pone la sua fiducia nella libertà e non
nell'Amore.
La forma di ottimismo mondano più diffusa nella nostra epoca e in tutta la
cultura moderna è l'ottimismo ideologico. Nasce dalla Ragione considerata fonte
unica di ogni progresso e si esprime in una fede assoluta nelle risorse
dell'intelligenza umana: le certezze del pensiero scientifico, le realizzazioni della
tecnica, il potere della politica e dell'economia. In questo ottimismo terreno l'unica
preoccupazione è l'efficienza, il successo nella soluzione dei problemi economici e
sociali, prescindendo totalmente dalla valenza morale dei mezzi e delle realizzazioni.
In un simile contesto culturale, nel quale manca ogni riferimento alla dignità
dell'uomo e alla sua dimensione religiosa, non ci sono alternative all'efficienza
ottimistica se non il caso, con le sue leggi cieche e deterministiche. Perciò, o
l'ottimismo o la rassegnazione.
73
Mc. 8,15
41
43 - La speranza mondana.
44 - La speranza teologale.
45 - Speranza e santità.
Dire che l'oggetto ultimo della speranza è Dio stesso in una perfetta ed eterna
comunione con lui, è come dire che siamo chiamati alla santità. E' una meta che va
oltre ogni possibilità umana e nessuno potrebbe aspirare a tanto se non sapesse che
ciò corrisponde ad una precisa volontà di Dio; questo infatti è il suo progetto su di
76
Ap. 21,4
77
1 Tim.1,1
43
noi dall'eternità: "In lui (in Cristo) ci ha scelti prima della creazione del mondo, per
essere santi e immacolati al suo cospetto". 78 La meta è tanto alta che pochi cristiani
sono veramente convinti di essere chiamati alla santità. Sono invece molti che
giudicano perfino poco praticabili i Comandamenti di Dio e vogliono adattarsi ad una
vita cristiana più "normale". La loro speranza non va oltre le esigenze della
mediocrità, si accomodano su un livello di vita onesto, da galantuomini, limitandosi a
non fare del male a nessuno e a rispettare tutti. Tarpano così le ali della speranza
cristiana che in tal modo non conosce più le divine audacie della santità evangelica,
le pazzie di un amore che non si appaga di mediocri desideri.
Dicevamo che la speranza sta tra la fede e l'amore, e partecipa dell'una e
dell'altro. Ora, se la fede "è fondamento delle cose che si sperano", 79 poco spera chi
poco crede. E poiché sulla terra il nostro modo di amare è il desiderio e non si può
sperare ciò che non si desidera, poco spera chi poco ama. Più grande è la fede, più
profondo è l'amore e più audace diventa la nostra speranza. "Non volare come le
galline quando puoi elevarti come le aquile". 80
I Vangeli si concludono con l'Ascensione, e tutto il Nuovo Testamento si
chiude con l'invocazione dell'Apocalisse: "Vieni, o Signore Gesù". Tra i Vangeli e
l'Apocalisse ci sono in mezzo gli Atti degli Apostoli, come dire che tra la salita di
Gesù al cielo e il suo ritorno nella gloria c'è in mezzo il cammino della Chiesa nei
secoli. E' il cammino della speranza.
Una speranza, questa della Chiesa, assoluta, piena, tanto intensa da essere
traboccante. E' fondata sulla certezza che si sta realizzando il disegno di Dio e si
vanno compiendo le sue promesse. Questo atteggiamento traspare evidente da tutto il
comportamento degli Apostoli, e da ogni parola dei loro discorsi e delle loro lettere.
Tanto che Pietro ricorda ai primi cristiani di essere stati "rigenerati per una speranza
viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce". 81 I
cristiani perciò devono essere testimoni sempre pronti a "rendere ragione della
speranza che è in loro". Il martirio infatti è stato sempre, agli occhi dei primi
cristiani, la prova della loro speranza.
In tutto il Vangelo non troveremo una sola frase di Gesù che sappia di
mediocrità. Egli non dubita di additarci la perfezione più alta, la santità di Dio: siate
perfetti com'è perfetto il Padre vostro. Possiamo capire meglio queste espressioni di
Gesù, espressioni che ci sembrano paradossali, assolutamente improponibili, lontane
da qualsiasi possibilità e aspirazione, se teniamo presente che l'essenza della santità è
Dio stesso e che "Dio è amore". La perfezione cristiana consiste dunque nell'amore
di Dio - un amore che prende tutto il cuore, tutta l'anima, tutta la mente e tutte le
forze -, e nell'amarci fra noi "come Dio ci ha amati". Quel "come" vuole ricordarci le
esigenze senza limiti dell'amore cristiano e il modo divino di esercitarlo. Certamente
esso colloca la meta della perfezione cristiana ad un livello immensamente lontano
dalle nostre possibilità, e tuttavia nessuno al mondo pensa di non sapere amare. Tutti
siamo convinti di avere un'inesauribile capacità d'amore, e perciò tutti possiamo
essere santi, tutti possiamo e dobbiamo tendere alla pienezza dell'amore.
Non dimentichiamo che Gesù proponeva la strada e la meta della santità come
volontà di Dio alle folle della Galilea, prescindendo totalmente dalle loro circostanze
e dalla loro situazione. Erano infatti persone di ogni età e condizione: vecchi,
bambini. malati, pescatori, madri di famiglia, piccoli artigiani, autorità, perfino
78
Ef. 1,4
79
Ebrei, 11,1
80
Cammino, n. 7
81
1 Pt. 1,4
44
pubblici peccatori come i pubblicani, i profittatori, le prostitute. Di una di esse ha
affermato: "Le sono perdonati i suoi molti peccati, perché molto ha amato". 82
Dunque tutti, perché tutti possiamo amare, possiamo tendere alla santità.
Possiamo amare nelle poche cose grandi che ci è dato di fare nella vita, ma
soprattutto possiamo molto amare nelle tante cose piccole della vita quotidiana, nei
piccoli doveri di ogni momento. E' questa la strada "ordinaria" della santità, quella
che il beato Escrivà chiamava l'eroismo di fare con perfezione - per Amore - le
piccole cose di ogni giorno. E' così che la nostra comunione con Dio, meta ultima
della nostra speranza, diventa una realtà meravigliosa che illumina ogni momento
della nostra giornata. Il "pane della speranza", è un pane quotidiano; non deve venir
meno nella nostra bisaccia di viandanti, perché deve sostentarci in ogni passo del
nostro cammino sulla terra.
Nessuna creatura può raggiungere Dio ed entrare in comunione con Lui con le
sole possibilità della natura. La speranza di arrivare ad una meta così alta, ad un bene
così grande, non può avere altro fondamento che Dio stesso. Solo Dio può fare in
modo che lo possiamo raggiungere, e lo ha fatto abbassandosi fino a noi: "per noi
uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo" (Credo). Dio, infatti, "ha tanto
amato il mondo da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui abbia la
Vita eterna". 83 E' Gesù Cristo, dunque, la nostra speranza; in Lui c'è la potenza di
Dio e la fedeltà di Dio
Riflettiamo per un momento su questi due attributi di Gesù: potenza di Dio e
fedeltà di Dio. Nel Credo noi proclamiamo l'onnipotenza di Dio Creatore: egli ha
dato l'esistenza a tutte le cose e tutto sussiste per mezzo di lui. Ma egli è anche
intervenuto, soprattutto nella storia degli uomini, molte volte e "con mano forte e
braccio potente". Già nell'Eden il serpente maligno aveva ingannato i progenitori ma
il Signore aveva promesso la rivincita su di lui: "Io porrò inimicizia fra te e la
donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa". 84 Questa
rivincita fu realizzata da Gesù con la sua vittoria sul maligno. I miracoli da Lui
compiuti sulle malattie, sugli spiriti immondi, sulle leggi della natura, su tutte le
forze del male, per cui le folle e gli Apostoli stessi esclamavano meravigliati: "donde
vengono a costui questa sapienza e questi miracoli?", 85 sono segni e insieme prove
che "il principe di questo mondo sarà cacciato fuori".
Ma la vera vittoria di Cristo, là dove si è rivelata tutta la potenza di Dio, è
stata la Risurrezione. Quel sepolcro vuoto vale quanto il "fiat" della creazione.
Anzi vale di più; la creazione è la vittoria della potenza di Dio sul nulla delle
creature, la Risurrezione di Cristo è la vittoria di Dio sulla "corruzione" delle
creature. La Risurrezione infatti è inseparabile dalla croce e la presuppone. Gesù
crocifisso appare come la sconfitta di Dio e vittoria del Maligno; ma fu vittoria
apparente, perché sulla croce è stato crocifisso "l'uomo vecchio", l'uomo del peccato.
Il Crocifisso infatti rivela la nostra condizione: la condizione dell'uomo "mortale",
82
Lc. 7,47
83
Gv. 3,16
84
Gen. 3,15
85
Mt. 13,54
45
sconfitto, ripudiato da Dio, l'uomo fatto maledizione, devastato dal peccato e dalla
morte. Cristo crocifisso ha preso su di sé la sconfitta dell'uomo. Gli Apostoli,
invece, e tutti noi, siamo tentati di vedere nella croce la sconfitta di Dio e perciò la
fine di ogni speranza. Per tutti noi, come per gli Apostoli, la croce rimane uno
"scandalo", una incomprensibile assurdità, e comprendiamo perfettamente
l'atteggiamento di Pietro che tenta di distogliere Cristo dalla decisione di "salire a
Gerusalemme".
Nella prospettiva della croce, la vicenda di Gesù appariva sconcertante,
contraddittoria. Gesù era sempre stato signore delle situazioni e degli avvenimenti,
aveva mostrato di conoscere i pensieri e le intenzioni di tutti e non era mai caduto nei
tranelli e nelle insidie dei suoi nemici. La sua potenza soprannaturale, - "Dio era con
Lui", diceva la gente - e la sua forza morale erano sotto gli occhi di tutti. Come
spiegare allora la sconfitta della croce? Dove era finita tutta quella "forza che usciva
da Lui e sanava tutti?". 86 Gesù nella passione appariva irriconoscibile e inspiegabile.
Il suo contegno di assoluta remissività, la sua impotenza di fronte agli avvenimenti,
la sua debolezza davanti a tante accuse ridicole e ingiuste, il suo abbandono totale in
balìa dei suoi nemici...., tutto questo era incomprensibile. La morte di Gesù appariva
perciò come la sconfitta totale, la catastrofe che travolgeva ogni attesa e ogni
speranza. "Noi speravamo che fosse lui!...." dicevano tristi i due discepoli di
Emmaus. Né il fatto impensabile della risurrezione, né le spiegazioni, pur così
chiare e persuasive di Gesù, servirono a illuminare il mistero della sua morte. Per gli
Apostoli come per tutti noi, capire la croce, saper vedere in essa non la sconfitta di
Dio, ma la sua vittoria, non la fine di ogni speranza, ma l'inizio della vita e della
redenzione, sarà un dono dello Spirito Santo. Lo troviamo come uno dei temi
fondamentali nella predicazione di San Paolo. Egli vedeva nella morte di Gesù non
la debolezza di Dio ma il trionfo della sua potenza. "Noi predichiamo Cristo
Crocifisso, ... potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è
più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini". 87
93
Gv. 14,27
94
Beato J. Escrivà, E' Gesù che passa, n. 65
48
51 - La Speranza, madre della pazienza.
Nella lettera ai Gàlati San Paolo ricorda tra i frutti dello Spirito una virtù che
Gesù stesso raccomanda a quanti attendono la sua venuta: la pazienza. E' una virtù
che nasce dalla speranza ed è strettamente legata al tempo. La pazienza, infatti, è la
perseverante e operosa sopportazione delle sofferenze che si incontrano per
raggiungere ciò che si spera. La speranza diventa allora attesa fiduciosa, un'attesa
sempre docile, docile al tempo e docile alla vita; sa infatti che il cammino della
speranza, come tutte le cose, appartiene al tempo e alla vita, e il tempo e la vita sono
galantuomini, non deludono. Perciò la speranza sa attendere e sa accettare senza
inquietudine le difficoltà che incontra, e diventa così fonte di serenità e di pace.
C'è una pazienza per così dire spicciola, quella legata alle situazioni ordinarie
della vita quotidiana: una persona molesta, un contrattempo inopportuno, un
imprevisto fuori orario, una difficoltà nel lavoro, un piccolo malanno di salute ecc.
Per essere legata a tante piccole circostanze della giornata, non significa che questa
pazienza abbia poca importanza. Non c'è di peggio che muoversi tra le cose della vita
quotidiana con inquietudine, con affanno o con insofferenza. Il Signore vuole che
conduciamo una vita serena, che sappiamo prendere le contrarietà con spirito
positivo e con buon umore, sapendo dare a ogni cosa il "suo" tempo: il suo e non
il "nostro", che spesso non coincide col "passo di Dio". Questo modo di vivere la
pazienza è molto umano e molto soprannaturale. Molto umano perché tale pazienza
va forgiando a poco a poco il nostro carattere, lo semplifica, lo rende più amabile e
disponibile, e insieme è molto soprannaturale perché tale pazienza nasce da una
visione di fede che ci fa considerare le cose secondo la loro giusta misura, in
riferimento a Dio e al nostro profitto spirituale.
I frutti di questa pazienza sono tutti preziosi; essa ci aiuta a raggiungere un
sempre maggior dominio di noi stessi, contribuisce ad una maggiore stabilità
d'animo, permette di vivere meglio la presenza di Dio e ci fa seminatori di pace e di
allegria in famiglia, sul lavoro e dovunque svolgiamo le nostre attività.
52 - Pazienza e fortezza.
Ma c'è anche una pazienza che gli autori spirituali mettono in relazione più
direttamente con la virtù della fortezza: è la pazienza necessaria per testimoniare
la nostra fede o per portare a compimento i nostri doveri e la nostra missione
nonostante gli ostacoli e le difficoltà che si possono incontrare. Questa pazienza è
vista come virtù dei forti, di quelle anime che sopportano le tribolazioni e le
persecuzioni a causa della loro fede, per amore di Dio e di Gesù Cristo, restando a lui
fedeli fino al sacrificio supremo. Molti servi di Dio furono mirabili esempi di questa
pazienza, ad esempio: Abramo, Mosè, Giobbe..., per non parlare dei martiri che
portarono all'eroismo questa virtù.
Ma l'ideale supremo di pazienza rimane il "Servo di Jahvè": Gesù; egli, nella
sua passione, ci ha lasciato di questa virtù il documento più commovente:
"Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto
al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori". 95
Ma anche per noi, e per ogni cristiano, la pazienza come fortezza riveste
un'importanza a volte decisiva se pensiamo che nella nostra vita non mancheranno le
tribolazioni e le avversità, e che la fedeltà al nostro cammino di cristiani deve essere
frequentemente pagata con le persecuzioni. Perciò Gesù avvertiva: "Sarete odiati da
tutti per causa del mio nome. (...) Con la vostra perseveranza - fedeltà paziente -
95
Isaia 53,7
49
salverete le vostre anime". 96
La mentalità del mondo è portata a considerare la pazienza nelle prove non
come fortezza bensì come debolezza. E' forte - si dice- chi si ribella, chi protesta e
magari reagisce alle avversità con la violenza. Si guarda perciò con sospetto
all'ascetica cristiana. E' vero che a volte si rischia di confondere la pazienza con la
rassegnazione inerte e passiva; dobbiamo allora ricordarci che grava su di noi il
dovere di difendere la verità, la giustizia e la pace fra gli uomini, e che il compito è
arduo ed esige sempre molta paziente fortezza.
Anche qui il nostro modello supremo è Gesù; Egli, che "non spezzerà la canna
incrinata e non spegnerà il lucignolo fumigante" 97 e si proporrà a noi come esempio
di mansuetudine - "imparate da me che sono mite e umile di cuore" 98 - ha, tuttavia,
agito con divina fermezza nel difendere la verità e la giustizia a favore di tutti,
specialmente dei piccoli, dei poveri e perfino dei peccatori.
Del resto, in tutta la Bibbia ci viene frequentemente ricordata la lunga
pazienza di Dio con gli uomini: Egli non vuole la morte del peccatore ma che si
converta e viva. Egli stesso si è dato il titolo di "Paziente" riferendosi alle continue
infedeltà del suo popolo.
Questa pazienza di Dio, espressione non tanto della sua fortezza quanto
piuttosto della sua misericordia, ci conduce a considerare l'altra forma della
pazienza, cui abbiamo accennato, e che in noi è più direttamente legata alla virtù
della speranza: l'attesa. Si tratta di una pazienza più profonda, molto interiore; è la
pazienza dello spirito. Sperare, in questo senso, è saper attendere; ma di un'attesa
non suggerita dalla neghittosità o dalla paura, motivi che non hanno nulla in comune
con la speranza, bensì di una "at-tesa", cioè di una tensione viva e al tempo stesso
serena verso il compimento di ciò che Dio ha promesso.
In questo senso la pazienza è "camminare al passo di Dio". E' una pazienza
squisitamente soprannaturale perché è figlia della speranza teologale; è la certezza
che Dio compirà la sua opera; come e quando non lo sappiamo, ma sappiamo che il
"passo di Dio" non conosce stanchezze e anzi suppone perfino la debolezza e la
miseria umana e ha previsto anche gli ostacoli che il male suscita continuamente sul
percorso della Grazia divina. Perciò non sono gli ostacoli, le persecuzioni, le umane
resistenze che possono fermare le opere di Dio, ma la nostra mancanza di fede, la
nostra carenza di umiltà, le nostre impazienze mondane. L'impazienza diventa allora
presunzione di abbattere gli ostacoli subito e con le nostre forze, tentativo di saltare i
tempi e forzare la natura delle cose, pretesa di sostituirsi a Dio nel governo del
mondo e delle stesse vicende della nostra vita.
La speranza paziente conosce invece l'orazione, un'orazione "lunga",
perseverante e fiduciosa; si appoggia a un lavoro silenzioso e sacrificato che non
risparmia nessun mezzo umano; non rifugge dallo sforzo di costruire situazioni
terrene che formino il presupposto per il "momento della grazia"; in altre parole,
rispetta e collabora con il misterioso dialogo tra l'umano e il divino, tra il tempo e
l'eternità, tra la storia degli uomini e il progetto di Dio.
Esempio mirabile di questa speranza paziente è stata l'attesa dei Profeti che
per secoli hanno aspettato e invocato Colui che doveva venire, l'Atteso da tutta
l'umanità. Dio non ha mai forzato i ritmi della natura o degli eventi; dall'eternità Egli
ha preparato la "pienezza dei tempi" per l'Incarnazione del Verbo. Gesù stesso ha
camminato decisamente verso la "sua ora", quella del sacrificio supremo, ma ha
96
Lc, 21,12
97
Mt. 12,20
98
Mt. 11,29
50
atteso il "momento" segnato dal Padre. Così pure gli Apostoli hanno atteso con
Maria, ma nella preghiera, "l'adempimento della promessa del Padre", 99 l'effusione
dello Spirito Santo. Del resto Gesù aveva avvertito i suoi discepoli: la cosa
importante non è conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua
scelta, quello che conta è mantenersi fedeli ed essere suoi testimoni nel mondo "fino
alla fine dei tempi e fino agli estremi confini della terra". 100
99
Atti, 1,4
100
Atti, 1,8
51
viventi seguono ritmi e tempi che non conoscono fretta, che non vengono mai
scavalcati; davvero "natura non facit saltus" come dice un antico proverbio. La fretta
è un male oscuro che è dentro di noi, è una dimensione sbagliata del nostro spirito, è
un modo falso perché sfasato di metterci di fronte al mondo, e soprattutto di fronte a
noi stessi e alla nostra vita. In definitiva, è un modo sbagliato di stare con Dio.
Perciò la fretta è sterile, porta con sé la tristezza della infecondità. La
fecondità della pazienza esige invece il saper stare nelle cose con perseveranza e
portarle con il loro peso, esige di sapersi dedicare al proprio compito e al proprio
dovere fino in fondo, di saper stare nel lavoro portandolo a compimento fino
all'ultima pietra. Il Signore non conosce la fretta fin da quando ha creato il cielo e
la terra. Conosce invece la pazienza: "Davanti a lui mille anni sono come il giorno
di ieri che è passato". 101 L'uomo ha dovuto attendere miliardi di anni per apparire
sulla terra. Fa pensare molto questo lungo tempo dell'universo senza l'uomo, che pure
era predestinato ad esserne il re, perché l'universo senza l'uomo appare come
qualcosa di afono e anche di opaco: una pura vibrazione senza suono, come si
esprimono i miti dei popoli antichi, un buio senza luce. L'uomo infatti è la voce delle
cose e la sua intelligenza illumina il creato. Perciò un solo attimo di coscienza
umana, un solo istante di vita spirituale vale più di tutti i cicli delle ere geologiche,
di tutti gli accadimenti della natura. In un solo istante dello spirito c'è tutto il tempo
dell'universo: l'uomo è, nel tempo, una densità trascendente.
L'universo dunque conosce la lunga pazienza di Dio creatore, una pazienza
operosa che rimane mistero ma che riempie tutti i millenni delle ère del mondo. Ma
anche la vita cristiana, la nostra crescita spirituale, ha i suoi tempi e i suoi ritmi; essa
cresce ora lentamente e ora più rapidamente lungo tutta la nostra vita terrena. E' Dio
che ha l'iniziativa e bisogna lasciare a Lui "i tempi e i momenti". La fretta è un modo
sbagliato di collaborare con la grazia di Dio; spesso contiene l'orgoglio
dell'autosufficienza che vuole prescindere dal lavoro dello Spirito Santo nell'anima
per puntare solo sulle proprie forze e sulla propria iniziativa. Così la fretta uccide la
speranza ed apre la strada allo scoraggiamento e alla sfiducia.
Non dimentichiamo che il Battesimo ha messo la grazia e la fede nella nostra
anima come un seme. Il suo sviluppo conosce il "passo di Dio" e la pazienza del
tempo. Scriveva San Giacomo ai primi cristiani: "Siate dunque pazienti,
fratelli...Guardate l'agricoltore: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della
terra finché abbia ricevuto le piogge d'autunno e le piogge di primavera. Siate
pazienti anche voi". 102 E' la stessa pazienza che devono avere i sacerdoti con le
anime, i genitori con i figli, gli insegnanti e gli educatori con gli alunni, e tutti coloro
che lavorano nella vigna del Signore e collaborano a qualsiasi attività apostolica.
Spesso, come per il seme dentro la terra, anche la crescita della grazia dentro
le anime non ci è dato di avvertirla e siamo tentati di pensare che Dio non agisca.
Ma Gesù ci assicura: "Il Padre continua ad operare" Dio opera incessantemente, ma
è anche paziente. La pazienza è dunque sempre operosa perché è frutto della
speranza. Nel Padre nostro chiediamo che si affretti il Regno di Dio sulla terra;
perciò la pazienza non ha niente a che vedere con la sterile rassegnazione e tanto
meno con la neghittosità; si esprime invece nella fedeltà piena alla missione, al
compito e alla responsabilità, anche piccola, di ciascuno; una fedeltà senza
inquietudini, senza abdicazioni e precipitazioni, ma anche senza lentezze, senza
rinvii, senza approssimazioni.
56 - Fedeltà e operosità.
57 - Speranza e povertà.
Gesù, nel Vangelo, ci parla insistentemente e con forza delle virtù della fede e
dell'amore; non parla mai esplicitamente della speranza. Il Signore non intende certo
ignorare o negare l'importanza di questa virtù, ma la considera così intimamente
unita alla fede e all'amore che diventa superfluo parlarne. In realtà, tutto il Vangelo
resterebbe incomprensibile se si prescindesse dalla speranza. Gesù stesso, il Figlio di
David, appariva agli occhi degli apostoli e delle folle di Palestina come la
realizzazione delle promesse di Dio; era dunque una speranza fatta certezza. Ma
vediamo alcuni insegnamenti del Signore che contengono un implicito riferimento
alla speranza.
Particolarmente importante è il suo insegnamento circa il nostro rapporto con
le cose e con i beni della terra: speranza e povertà. Nel Discorso della montagna, il
Signore ci mette in guardia ripetutamente dal pericolo di attaccare il nostro cuore ai
beni della terra. Già nelle Beatitudini, che possiamo definire "il cammino della
speranza", il Signore afferma: "Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei
Cieli". 104 Vale a dire che il Regno dei Cieli non può essere retaggio di chi ha messo
il cuore nei beni della terra, perché non si può "servire a Dio e a Mammona". E' una
scelta che non ammette alternative; infatti, "difficilmente un ricco entrerà nel regno
103
Mc. 11,14
104
Mt. 5,3
53
dei cieli". Perciò Gesù conclude: "Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola
e ruggine consumano e dove i ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori
nel cielo dove né tignola né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non
rubano. Perché, là dove è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore". 105
San Luca nel capitolo dodicesimo del suo Vangelo ha raccolto una parabola
del Signore che ci mette in guardia dalla cupidigia come da uno degli ostacoli più
temibili per la speranza cristiana. "La campagna di un uomo ricco aveva dato un
buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò? perché non ho ove riporre i miei
raccolti, e disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e
vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni, poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a
disposizione molti beni per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma
Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita e quello che hai
preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce
davanti a Dio". 106
L'uomo di questa parabola è il tipico uomo d'affari che la gente di mondo
giudica fortunato e previdente: sa utilizzare la sua fortuna e sa programmare con
intelligenza e realismo il suo futuro. Ma Gesù condanna quest'uomo; lo condanna
non per la sua intraprendenza e per la sua intelligente concretezza, ma per la sua
miopia e mancanza di prospettiva. La sua speranza si esauriva nelle certezze
offerte dai beni della terra, e tutto finiva nella felicità dell'effimero. Quest'uomo
fortunato e intelligente agli occhi del mondo era, in realtà, un idiota agli occhi di
Dio. Aveva dato più peso e più importanza alla felicità del benessere che alla dignità
della propria persona, soffocando nella quantità di beni terreni la sete incolmabile
della sua anima, e aveva commisurato l'eternità, che configura il futuro della vita
umana, alla durata effimera delle cose che passano. Sono gli stolti che costruiscono
sulla sabbia; tutte le cose della terra, infatti, le ricchezze e i tesori di questo mondo
sono sabbia mobile che non può offrire alcun fondamento al desiderio di felicità che
urge nel nostro cuore.
Si dice che tutte le cose passano, ed è vero. Ma Gesù, nella parabola del ricco
stolto, sembra dirci anche che siamo noi a passare perché abbiamo un'altra
dimensione, mentre le cose in qualche modo restano: "Stolto! questa notte stessa ti
sarà chiesta la tua anima; e tutto quello che hai preparato di chi sarà?" Come dire
che le cose hanno per misura il tempo, noi abbiamo per misura l'eternità. Ci
ricordiamo delle parole della Scrittura: "Non abbiamo quaggiù una cittadinanza
permanente, sed futuram inquirimus , ma andiamo verso la patria futura". 107
C'è dunque un legame profondo tra speranza e povertà, tra speranza cristiana e
la libertà interiore di chi si sforza di viaggiare nella vita "senza valigie". Quelli,
infatti, che mettono il cuore nei beni della terra sono per definizione "coloro che non
hanno speranza". 108 C'è tuttavia un modo per usare le cose della terra e camminare in
mezzo ad esse senza che diventino un ostacolo per il nostro cammino o un peso per la
nostra speranza: orientarle a Dio perché proclamino la sua gloria, e impiegarle
per il bene di tutti gli uomini.
Infatti tutte le cose dell'universo sono state create perché manifestino la gloria
di Dio, e rivelino la misericordia divina verso l'uomo, il quale nella varietà,
abbondanza e ricchezza delle creature, può contemplare la magnanimità di Dio,
rendergli grazie, e utilizzare ogni cosa per elevare non solo la qualità della sua vita
105
Mt. 6,19-20
106
Lc. 12,16-21
107
Ebr,. 13,14
108
1 Tess. 4,13
54
terrena, ma soprattutto per affinare lo spirito e promuovere la generosità nel servizio
di Dio. L'uomo è chiamato così a dare voce a tutte le creature, e a diventare
interprete del loro valore e del loro significato. E' questo l'aspetto positivo della
povertà cristiana, che fa di essa una virtù non rinunciataria bensì fortemente
operativa.
Il cristiano poi è chiamato a glorificare Dio nel lavoro, nella professione, negli
affetti nobili e onesti della vita, nelle responsabilità sociali e politiche, e quindi ha
bisogno di mettere in opera tutti i talenti che il Signore gli ha dato e di utilizzare tutti
i mezzi umani che servono per la maggiore efficacia della sua attività. La speranza
cristiana genera una povertà operosa, che si adopera generosamente a
promuovere il progresso umano in tutte le sue espressioni. Il male, dunque, non
stà nelle ricchezze ma nell’egoismo del cuore. Le ricchezze vanno collocate,
perciò, al loro posto: sono mezzi, strumenti che devono servire perché si realizzi il
progetto di Dio nell'uomo e nel mondo. Farle diventare il fine della vita significa
falsare la loro identità, e soprattutto ingannare miseramente noi stessi.
Dobbiamo dunque fissare il cuore là dove deve tendere la nostra speranza;
realizzeremo così quella libertà interiore che è necessaria per mettere mano ai beni e
alle ricchezze della terra senza timore e senza timidezza, con l'audace iniziativa e con
la coraggiosa intraprendenza di chi sente la responsabilità di operare per un mondo
più giusto e più degno dell'uomo. E' vigliaccheria lasciare alla mercè dei figli
delle tenebre che operano al servizio dell'egoismo umano le risorse e i beni della
terra che Dio ha destinato al bene di tutta l'umanità.
59 - Speranza e libertà.
113
Ct. 3,1-4
57
IL TEMPO:
LUOGO DEL DESIDERIO
QUALE AMORE?
61 - Dio è amore.
La nostra vita di figli di Dio sulla terra è un viaggio nella fede, nella speranza,
nell'amore. La fede è la luce, la speranza è il pane, l'amore è la vita. L'uomo, si dice,
non può vivere senza amare e senza essere amato. Dove non c'è amore, non c'è vita.
La vita è dono, è sete d'amore, è capacità d'amore.
Dove non c'è amore, non c'è nemmeno vera convivenza umana. Infatti
percorriamo il nostro viaggio sulla terra non da soli; siamo una moltitudine, un
fiume, e non possiamo stare insieme senza amarci.
E tuttavia l'amore non è di questa terra. "Dio è Amore!", afferma S. Giovanni
in una delle espressioni più folgoranti di tutta la Bibbia. L'amore, infatti,
appartiene a Dio, all'essenza stessa dell'Essere divino. Se nelle creature c'è
capacità d'amore è perché Dio si è fatto presente nel tempo, si è fatto dono alle sue
creature. L'Amore fluisce da Dio alle creature, le unisce a sé e tra di loro; l'amore
congiunge il tempo e l'eternità. Tutta la creazione e tutta la storia degli uomini
costituiscono un poema splendido e grandioso, un inno immenso all'Amore di Dio e
all'Amore di Colui che, fattosi uomo, ha voluto chiamarsi lo Sposo.
Tutto nel tempo è stato acceso da un atto d'amore: Dio crea perché ama; la
creazione è Amore. La storia del mondo è tutta percorsa dall'amore: Dio custodisce le
cose che ha creato e le conduce con forza e con grazia perché ama; la Provvidenza è
Amore.
Ma la creatura che più di tutte le altre rivela al mondo l'amore di Dio è l'essere
umano. Nell'uomo, Dio-Amore ha impresso il sigillo della sua immagine e ha
comunicato il dono della sua somiglianza. L'uomo è "immagine" di Dio per lo
spirito ed è "somiglianza" di Dio per la Grazia. Lo spirito tende al bene e vuole il
bene: ama; la Grazia fa l'uomo partecipe della vita divina e perciò dell'amore.
L'amore è dunque costitutivo della nostra natura di persone: possediamo una duplice
conformità, naturale e soprannaturale, all'Essere di Dio, al suo Essere-Amore.
Ma l'immagine di Dio è in noi non soltanto per la nostra natura di persone, ma
anche per la natura relazionale del nostro essere. Dio, infatti, nel creare l'uomo a sua
immagine e somiglianza, "maschio e femmina li creò", fissando così la forma più
profonda di relazione interpersonale, quella dell'uomo e della donna nell'amore
nuziale. 114 Infatti Dio disse: "Non è bene che l'uomo sia solo". 115 Il Signore aveva
posto Adamo nell'Eden, nel Grande Giardino del mondo, di fronte allo splendore del
creato. I suoi occhi potevano riempirsi di ogni bellezza: il verde intenso e tenero
delle foreste, l'azzurro del cielo, il bianco luminoso delle nubi, il turchino del mare,
il rosso vivo delle rocce, e i fiori...; non c'era bellezza che non fosse presente in
114
G.iovanni Paolo II, Catechesi (febbraio 1979)
115
Gen. 2,18
58
quella immensa sinfonia di fogge e di colori. Tutta la tavolozza con cui Dio aveva
dipinto il mondo era lì, davanti ai suoi occhi, in tutto il suo splendore... Ma il cuore
di Adamo era triste.
Allora Dio fece sfilare sotto lo sguardo di Adamo, come in una grande parata,
tutti gli esseri viventi nelle loro perfezioni: la forza del leone, l'agile potenza della
tigre, la solennità dell'elefante, la tenera mansuetudine dell'agnello, la raffinata
eleganza dell'antilope,... e tutti gli uccelli del cielo con il loro canto e nella splendida
varietà del loro piumaggio... Ma il cuore di Adamo era triste: "...non trovò un aiuto
che gli fosse simile".
"Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo che si addormentò;
gli tolse una delle costole... e plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una
donna, e la condusse all'uomo". Adamo, svegliatosi dal sonno, vide accanto a sé Eva
e un grido gli uscì dalla bocca e dal cuore: Ecco! questa sì "è carne dalla mia carne
e osso dalle mia ossa!" 116 e la tristezza se ne andò dal suo cuore. In quel momento
nacque l'amore sulla terra, e l'uomo, già "immagine" di Dio come persona, divenne
immagine della Trinità del cielo, come "due in una sola carne".
L'amore sponsale infatti è fondamento di tutte le altre dimensioni dell'amore
umano: l'amore paterno e materno, l'amore filiale, l'amore fraterno, lo stesso amore
coniugale, e anche l'amore famigliare in tutte le sue diramazioni: la parentela, la
nazione, la razza, fino all'immensa e unica famiglia costituita dal genere umano;
infine, l'amore verginale, che realizza la forma più sublime della sponsalità.
62 - La benevolenza.
Ma Dio, che è solo Amore e non cessa mai di amare, è entrato nella storia
umana come Misericordia: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio
unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna". 118 Gesù
Cristo: ecco la risposta dell'Amore divino alla miseria dell'uomo. Con Gesù inizia
così il tempo della misericordia, il tempo della Salvezza. E' il tempo della Chiesa
chiamata a portare il dono dello Spirito a tutti gli uomini. Scrive Sant'Agostino:
"Amare Dio è esclusivamente un dono di Dio. E' lui che, amandoci quando noi non lo
amavamo, ci ha concesso di amarlo. Siamo stati amati quando ancora gli eravamo
sgraditi, affinché ci fosse in noi qualche cosa per piacergli. Infatti lo Spirito del
Padre e del Figlio, che amiamo unitamente al Padre e al Figlio, riversa la carità nei
nostri cuori". Dunque, lo Spirito Santo. E' lui, anima della Chiesa, che accende nei
nostri cuori il fuoco dell'amore di Dio e la fiamma del desiderio. "Charitas Dei
diffusa est in cordibus nostris", l'amore di Dio è stato effuso nel mondo per mezzo
dello Spirito Santo che abita nei nostri cuori.
L'amore dunque è nell'uomo, ma non viene dall'uomo; è un dono che trascende
completamente le possibilità della creatura. L'amore viene da Dio. Viene dal Padre,
che ha creato per amore e conduce ogni cosa con sapienza e amore; viene dal Figlio,
che si è fatto uomo per amore e ha dato sé stesso sulla croce per amore; viene dallo
Spirito Santo che, dono increato ed eterno, si è fatto vita dell'anima e vita della
Chiesa. L'amore è la Trinità Santissima.
Possiamo dire che il dono dell'Amore divino è analogo al dono della filiazione
divina. L'unico figlio di Dio è il Figlio, la seconda persona della Trinità Beatissima;
noi diventiamo figli per partecipazione, figli nel Figlio. Così l'Amore; l'unico Amore
è lo Spirito Santo che sussiste in Dio come ineffabile Dono reciproco del Padre e del
Figlio, Dono sussistente nella terza Persona della Santissima Trinità: a noi è dato di
amare per partecipazione, amanti nell'Amante. Questo Amante, "ospite dolce
dell'anima", accende in noi il fuoco dell'Amore, e se ci lasciamo condurre da Lui, la
fiamma del desiderio divamperà nella nostra anima con "gemiti inenarrabili". Infatti,
come per la partecipazione alla vita divina "noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò
che saremo non è ancora stato rivelato" 119 , per cui "la creazione stessa attende con
impazienza la rivelazione dei figli di Dio" 120 , così è anche per l'amore. Esso è già
effuso nei nostri cuori, poiché "possediamo le primizie dello Spirito", ma ancora non
possediamo ciò che amiamo, per cui "gemiamo interiormente aspettando l'adozione a
figli". 121 Sulla terra nessun vero possesso è possibile, perciò quaggiù non
possiamo amare che desiderando. "Il tuo volto, o Signore, io cerco il tuo volto!"
64 - Ferita d’amore.
118
Gv. 3,16
119
1 Gv. 3,2
120
Rom. 8,19
121
S. Paolo, Lettera ai Romani, 8, (passim)
60
Molte anime grandi, le anime innamorate come quelle dei santi, hanno
sperimentato sulla terra il dolore dolcissimo del desiderio di Dio, un desiderio
insaziabile di comunione con Lui e di contemplazione del suo volto. Perciò molti
mistici definiscono questo desiderio: "una ferita d'amore". Ferita dolorosa e insieme
dolcissima che guarisce solo nella vita eterna. Pensiamo alle pagine ardenti e alle
espressioni infuocate uscite dalla penna di S.Agostino, di S. Bonaventura, di Teresa
d'Avila, di Caterina da Siena, di Bernardo di Chiaravalle, di Sant'Alfonso de' Liguori,
e di tanti altri che hanno sperimentato quale peso di felicità e di dolore comporti,
sulla terra, l'effusione dell'amore di Dio nell'anima. Sono giustamente famosi questi
versi di Santa Teresa: 122
L'alto fuoco d'amore mio Prigioniero, Dio!
da cui vivo afferrata ma a pensarmi signora
donò libertà di Colui che voglio e adoro
al mio spirito felice; muoio perché non muoio.
Che l'amore venga da Dio e che sia stato effuso sulla terra con lo Spirito
Santo, lo dimostra anche il fatto che l'amore soprannaturale non lo troviamo in
nessun'altra espressione cultuale umana, in nessun'altra religione. In tutte le epoche
gli uomini hanno praticato verso la divinità un culto di adorazione, di
propiziazione, di invocazione, mai di amore. La stessa "pietas" pagana verso gli dèi
era l'esercizio dei doveri di culto, la cui fedeltà rendeva l'uomo religioso un "uomo
pio", ma il culto restava sempre l'espressione di sentimenti che rimanevano estranei
all'amore. Gli dèi erano onorati, temuti, propiziati, mai amati.
122
S.Teresa D'Avila,
123
1 Gv. 4,10
124
Gv. 15,9
125
Gv. 15,11
61
E d'altra parte la divinità era considerata qualcosa di lontano, al di sopra dei
sentimenti umani. Tra gli déi e gli uomini esisteva una sorta di incommensurabilità.
La divinità poteva essere verso l'uomo benevola, non ostile, benigna e protettrice,
mai avrebbe potuto avere sentimenti d'amore. L'amore suppone ed esige una certa
"proporzione" fra le persone che si amano; ma nessuna proporzione era pensabile tra
l'uomo e Dio
Inoltre, nella religiosità cosmico-naturalista che troviamo nelle religioni
primitive, nelle varie religioni orientali e che arriva ad infiltrarsi anche nel pensiero
filosofico occidentale (vedi il panteismo di Spinoza, lo Spirito eterno di Hegel, il
vago teismo massonico-razionalistico che rivive in certe frange del laicismo
contemporaneo, ecc.), la divinità è concepita come una realtà impersonale, indistinta
dal mondo, nella quale l'uomo può venire assorbito perdendosi come un frammento
nel tutto. (Nirvana). Evidentemente ogni rapporto tra Dio e l'uomo rimane
radicalmente cancellato, in particolare diventa impossibile ogni rapporto d'amore.
Anche l'amore che esisteva tra le persone, era sempre un amore "profano"; non
nasceva da Dio ma si fondava sulla affinità, una specie di convergenza di forze
istintuali, affettive, culturali, etniche o semplicemente di simpatia, che portavano a
rapporti interpersonali poveri di contenuto, limitati, nei casi migliori, all'amicizia e
alla solidarietà.
Il paganesimo, poi, aveva portato a un indurimento dell'animo umano, a una
atonia dei sentimenti. Un autore antico scrive che i Romani erano "sine affectione",
privi di sentimento, incapaci di affetto e di commozione. Lo testimoniano la durezza
delle consuetudini, la condizione degli schiavi, il trattamento dei bambini e della
donna, la crudeltà delle punizioni, la brutalità disumana nei giochi gladiatori.
Nelle lettere scritte dagli Apostoli alle prime comunità cristiane troviamo
molte descrizioni della condotta perversa presente nella società pagana di allora,
società che non conosceva né l'amore di Dio né l'amore del prossimo, e alla quale
appartenevano anche i cristiani prima della loro conversione. Valga per tutti questo
passo della lettera di S.Paolo a Tito: "Anche noi un tempo eravamo (come loro)
insensati, ribelli, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella
malvagità e nell'invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda". 126
Purtroppo, lungo i secoli, sono molti i paganesimi che hanno conosciuto
analoghe malvagità di uomini senza sentimento. Ai nostri giorni le ideologie della
miscredenza hanno inventato i lager, le camere a gas, le torture spietate e crudeli, le
deportazioni forzate, i gulag, la tratta e il commercio dei bambini e innumerevoli
atrocità che hanno del diabolico, dove l'odio verso Dio diventa odio verso l'uomo. Si
comprende perciò la gioia che pervade il cuore di S.Paolo e che traspare nel brano
immediatamente successivo: "Quando però apparve la bontà di Dio, salvatore nostro
e il suo amore per gli uomini, - benignitas et humanitas salvatoris nostri Dei - Egli
ci ha salvati.... per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione nello
Spirito Santo effuso da Lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo
nostro Salvatore". 127
Il tempo della Chiesa è dunque il tempo dello Spirito Santo, il tempo della
vocazione all'Amore. Gli uomini devono capire che non è possibile costruire nessuna
"civiltà dell'amore" se non in Dio, creatore e padre di tutti; in Cristo che ci ha amato
e ha dato sé stesso per noi; nello Spirito Santo che, effuso nei nostri cuori, vi accende
il fuoco del desiderio e della contemplazione di Dio. Lo Spirito Santo ha reso
possibile l'amore tra l'uomo e Dio, perché la sua azione nell'anima ha prodotto
126
Tito, 3,3
127
Tito, 3,3-6
62
una sorta di "proporzione" fra noi e il Padre. Siamo diventati "connaturali" con
Dio per il dono della Grazia. Perciò non siamo più "stranieri né ospiti, ma
famigliari di Dio". 128 «Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di
Dio. E, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» 129 .
E' questo il fondamento della nostra amicizia col Signore. Vivere come amici
di Dio, amici che non hanno segreti, che si parlano cuore a cuore, che si trattano con
intimità e fiducia; questo, a pensarci bene, può apparire impossibile, quasi inaudito.
Eppure, in Gesù, Dio ha voluto farsi amico degli uomini: "Non vi chiamo servi, ma
amici." Dobbiamo dunque perdere la paura, dobbiamo non trattare il Signore a
distanza, dobbiamo avvicinarci a Lui fino a vedere il colore dei suoi occhi, il sorriso
delle sue labbra, ascoltare i battiti del suo cuore. Come Giovanni, come gli Apostoli.
Dobbiamo arrivare all'audacia santa di volergli bene, di chiamarlo per nome,
di dirgli: Gesù, mi succede questo e questo..., ma tu sei la mia forza, la mia certezza,
la mia luce; tienimi vicino a te, perché voglio esserti fedele, voglio lavorare con te e
per te, voglio che i miei amici diventino tuoi amici, che ti conoscano e ti amino."
Volergli bene e insieme sapere che egli mi vuol bene, è il cuore della vita
spirituale, è l'antidoto più efficace contro la mediocrità, è il segreto della fedeltà e
della pace. Molti cristiani si sono allontanati dalla fede, sono caduti nella
tiepidezza o non hanno desideri di santità perché non sono convinti che Dio li
ama e che possono avvicinarsi a Lui sicuri di essere accolti, capiti, perdonati,
amati.
Quando un'anima non crede all'amore di Dio, quando non si sente amata ma
solo giudicata da Lui, è condannata a vivere un cristianesimo triste, angosciato e
mediocre, perché si affannerà a cercare in sé stessa titoli e motivi per essere amata,
per meritarsi l'amore di Dio, ma non trovandoli, diventerà facile preda dello
scoraggiamento e della tristezza.
Dobbiamo lasciarci attirare dall'amore di Cristo, un amore divino e umano
perché ci arriva attraverso un cuore di carne come il nostro, che conosce l'affetto
umano e il calore dell'amicizia. Egli ci chiede il cuore - praebe mihi cor tuum -, ma
noi pensiamo che ci domandi cose: un po' di tempo, di lavoro, opere buone,
prestazioni.... L'amore non è dare le nostre cose, anche tutte, preziose o meno, ma è
dare il cuore, dare noi stessi, perché questo ha fatto il Signore. "Dilexit me et
tradidit semetipsum pro me" 130 , esclamava in un impeto di commozione l'Apostolo
Paolo - mi ha amato, fino a dare sé stesso per me! - E' davvero sconvolgente il
pensiero che Dio si è fatto uno di noi, e donandosi a noi come Figlio e come Spirito
Santo ci ha resi partecipi dell'intimità del suo Essere divino e del suo Amore.
FARSI DONO
67 - L’amore è dono.
Dio è amore e l'amore, in Dio, è dono; dono del Padre al Figlio e del Figlio al
Padre: lo Spirito Santo, Donum Dei. L'Amore non può essere che dono; ogni amore
porta al dono e si fa dono. Perciò l'amore è la vita, perché la vita è dono, tutta e
soltanto dono. Dono che si riceve e dono che si offre. Ricevere e donare, sono come
le pulsazioni della vita; come il battito del nostro essere. Ricevere e donare: come i
movimenti del cuore; se viene meno uno dei due momenti la vita si spegne. Anche
128
Ef. 2,19
129
Rm. 8,16
130
Gal. 2,20
63
l'esistenza umana senza il battito dell'amore si spegne; anch'essa è scandita dal ritmo
dell'amore.
In Dio troviamo solo il donare. Egli è la pienezza dell'essere, ed è totalmente
sufficiente a sé stesso, non vincolato, non necessitato, assolutamente esaustivo. Dio,
quindi, può agire solo donando, anzi possiamo dire che solo Lui può donare. Tutto
quello che Egli ha creato è puro dono, è puro amore.
Da questo amore viene ciascuno di noi. La nostra esistenza creaturale è pura
ricettività, è piena apertura all'essere, al dono che ci viene dall'Alto. Dono
assolutamente gratuito perché dal nulla veniamo. Tutto in noi è dono. Siamo dono e
continuiamo ad esserlo in ogni istante della nostra vita: siamo dono a noi stessi, e
siamo chiamati a diventare dono di noi stessi. E' questa la struttura intima della
nostra creaturalità. E' questa la libertà; libertà di ricevere, libertà di donare. Libertà
dell'amore.
Questo ritmo dell'esistenza ha un senso: va dal ricevere al donare, non
viceversa. Si riceve per donare. Perciò ogni egoismo, ogni ripiegamento su noi stessi,
ogni chiusura al dono è perdita di libertà, è perdita di essere. Tutto ciò che abbiamo
ricevuto è per essere donato. Dobbiamo farci dono totale, pieno, incondizionato, a
immagine e somiglianza di Dio.
Ogni persona si realizza se si apre alla vita; si apre alla vita se ama, ama
se si dona. Tutte le malattie dell'esistenza, molti malesseri spirituali e molti disturbi
psichici della personalità nascono dal fatto che non ci siamo realizzati come dono,
non abbiamo saputo trovare un modo oblativo di stare nella nostra vita e nel mondo.
Tutto il nostro viaggio nel tempo deve così diventare un anelito verso il dono di
sé. La stessa maturità umana coincide con la perfetta capacità di farsi dono. Perciò
l'egoista è un immaturo, e l'egocentrico è incapace di un’autentica vita intellettuale e
affettiva, di vita sociale. Già l'atto di nascere è dono, anzi lo stesso concepimento e,
prima ancora, l'incontro coniugale sono dono. Durante un rapporto d'amore, che sia
vero e autentico, la donna sa e sente di essere recettiva, tanto che in quel momento il
suo modo di essere è quello dell'abbandono totale di sé all'uomo, apertura piena al
dono, e avverte con un'esperienza intimamente esaltante e inesprimibile che il seme
che riceve è il dono che l'uomo fa di sé stesso al suo essere donna.
Dopo quell'incontro, l'atteggiamento di abbandono recettivo diventa in lei
trepida attesa di un altro dono: il concepimento, l'intervento misterioso della natura -
del Creatore - che trasforma il dono ricevuto dall'uomo in un dono più grande. E
quando la donna si accorge di aver concepito sente di essere stata profondamente
gratificata; tutto è avvenuto in lei senza di lei; un grido di gioia, che è gratitudine
verso Colui che ha dato al suo grembo il dono della fecondità, risuona nel suo intimo
come se venisse liberata da un incubo: la paura della sterilità, la paura di restare
esclusa dal grande mistero della vita. Anche il suo modo di essere cambia, da
recettivo diventa sempre più consapevolmente attivo; essa avverte che sta
misteriosamente trasformando il dono ricevuto in un dono da offrire, e nell'atto del
parto, nonostante il dolore e l'angoscia, essa sente che quella creatura è un dono
immenso che lei fa non solo all'uomo ma a tutta l'umanità, e insieme, quella creatura
è anche il dono che lei fa a sé stessa nel contempo che lo riceve dall'Alto.
Tutta la dinamica dell'incontro coniugale è governata dal significato del
dono e quindi dalla legge dell'amore. Ecco perché la contraccezione è un
controsenso; essa distrugge il dono nell'atto stesso di farlo; uccide l'amore
trasformandolo in egoismo e umilia la dignità della donna nella sua vocazione ad
essere dono per il dono: la maternità.
C'è di più: quando la donna concepisce nel suo grembo, avverte istintivamente
64
che quello che è avvenuto in lei non è un puro fenomeno naturale, è un intervento
divino "sempre"; è sempre un dono di Dio prima ancora di essere un dono dell'uomo.
Perciò un figlio è sempre da accettare come un dono, anche quando fosse frutto di
violenza. In tal caso quel figlio non è un dono dell'uomo, è un dono tutto e solo di
Dio. Perciò va amato ancora di più. La violenza è dell'uomo, la vita e l'amore sono di
Dio.
Parimenti, contrasta profondamente con la realtà e la natura del dono
l'atteggiamento della "pretesa". Un figlio non è mai un diritto, è sempre un dono. Il
volere un figlio a tutti i costi, con qualsiasi mezzo, non nasce dall'amore perché la
pretesa è figlia dell'egoismo. La scienza biologica può manipolare le leggi della vita
e può anche "fabbricare" un figlio, ma un figlio "artificiale" rischia di restare figlio
della scienza, cioè figlio di nessuno. Il desiderio della maternità è senza dubbio
l'aspirazione più nobile e profonda nascosta nell'essere della donna, è anzi la sua
vocazione, ma se il desiderio diventa pretesa, quella vocazione si trasforma in
arbitrio, e il figlio "preteso" difficilmente sarà amato come un dono perché è
posseduto come una proprietà. Esiste la violenza dell'uomo sulla donna, ma esiste
anche la violenza della donna sulla natura; il femminismo ha molte facce, questa è
certamente una delle più brutte. La donna, brutalmente aggredita dalla nostra cultura
edonistica e derubata dei valori più preziosi della sua femminilità, deve trovare il
senso autentico del suo essere donna, soprattutto la sua profonda capacità di amare
che si esprime nel servizio gioioso e nel sommo rispetto verso l'essere umano che le
viene affidato come un dono, e infine deve riscoprire la dimensione trascendente
della maternità.
Sappiamo infatti che la fecondità naturale, biologica, come la maternità fisica
non sono le uniche e nemmeno le più alte e gratificanti forme del dono che l'uomo e
la donna possono ricevere e possono scambiarsi. Esiste una maternità (e una
paternità) spirituale che va oltre e può anche prescindere dalla maternità fisica, e anzi
ne costituisce il contenuto profondo; è come l'anima stessa della maternità. Nessuna
donna può dimenticare questa vocazione e questa missione di farsi dono,
missione che costituisce il volto autentico della sua femminilità, perché a lei Dio
ha affidato l'essere umano, ogni essere umano.
E' una maternità, quella spirituale, che quando è associata al dono della
verginità, intesa come amore sponsale che lega a Dio interamente, raggiunge le vette
più alte e più gratificanti del dono perché partecipa all' Essere divino, all'Amore, in
modo più trascendente e soprannaturale. Chi può dire che Caterina da Siena, Teresa
d'Avila e mille altre donne fino a Madre Teresa di Calcutta siano state meno madri,
perché vergini, di tutte le altre donne che hanno concepito e partorito figli? La
fecondità secondo lo spirito è un dono assai più grande della fecondità secondo la
carne, ed è un privilegio che diventa insieme un dovere per ogni donna.
Anche il bambino, appena uscito dal grembo materno, nel suo essere spinto
verso la vita, nell'incominciare in quel momento la sua magica avventura nel mondo,
la sua progressiva apertura verso l'esistenza, avverte inconsciamente quasi
biologicamente che deve farsi dono. E subito il suo aggrapparsi ai seni materni, la
ricerca del contatto fisico col corpo della madre, il sussulto nel sentire risuonare la
voce paterna, non rispondono soltanto a un bisogno di sicurezza, ma anche
esprimono il suo modo, tutto istintivo e affettivo, di sentirsi dono per i suoi genitori.
Le esperienze negative nel primo periodo dell'infanzia, quando il bambino non
si sente accolto e amato, creano nodi affettivi e blocchi istintuali che possono gravare
pesantemente sullo sviluppo della personalità; sviluppo che deve esprimersi come
apertura verso il dono di sé, sempre più profondamente e compiutamente nelle
successive stagioni della vita.
131
Mc. 8,34
66
accompagnato dal senso vivo di Dio, della sua amorosa presenza, e dalla ferma
intenzione di non abbandonarlo per nessuna cosa al mondo. L'amore è tanto più
vero, quanto più conosce la purificazione del dolore, del distacco, della
contrizione del cuore. L'amore perfetto va dunque verso la perfetta libertà, verso
l'assoluta gratuità.
L'amore che vuol essere dono si trasforma, allora, in opere d'amore. Come
Dio, che ci ha amato con opere. La creazione è amore; la Provvidenza è amore; la
Rivelazione è amore; la Salvezza è amore. Gesù Cristo è il dono dell'amore assoluto
e totale. "Dio infatti ha tanto amato il mondo da darci il suo Figlio Unigenito...., il
quale ci ha amati e ha dato sé stesso per noi... perché chiunque crede in lui non
muoia ma abbia la vita eterna". 132 Sono queste sono le grandi opere dell'amore di
Dio per noi.
Anche in noi, l'amore deve esprimersi in opere. Le nostre opere d'amore sono:
l'osservanza dei comandamenti di Dio, l'adempimento fedele dei nostri doveri e il
servizio gioioso e generoso dei nostri fratelli. "Non c'è amore più grande di questo:
dare la vita per i propri amici". 133 Dare la vita significa servire, saper sacrificarsi
per gli altri, specialmente per i più poveri, i più deboli e per quelli che sono lontani
da Dio. Servire vuol dire dare la vita, non solo la nostra nel dono di noi stessi
vissuto quotidianamente in famiglia, sul lavoro, nelle responsabilità civili e sociali,
ma soprattutto dare "la Vita", quella divina, quella eterna, quella che Cristo ci ha
guadagnato col suo sacrificio sulla croce. Servire Dio è farci strumenti di grazia per i
nostri fratelli. "Se ami il Signore, devi "necessariamente" sentire il peso benedetto
delle anime, per condurle a Dio". 134
Conoscere, amare, servire. E' questo il senso oblativo della nostra vita sulla
terra. Conoscere: dono dell'anima alla verità di Dio; amare: dono della libertà alla
libertà di Dio; servire: dono del nostro lavoro e delle nostre fatiche al lavoro di Dio,
un lavoro di salvezza verso tutti gli uomini. E' così che l'amore ha aperto sulla terra
le vie della pace e della gioia. Avvenne a Nazareth; lo Spirito Santo ha fatto di
un'umile Donna il luogo del Dono; dono dell'umanità a Dio: ecce Ancilla Domini, e
dono di Dio all'umanità: et Verbum caro factum est.
Ma ognuno di noi può essere, deve essere, il luogo di questa pace e di questa
gioia. Il luogo dell'Amore!
"E Dio vide quanto aveva fatto; ed ecco era cosa molto buona". 135 Tutte le
cose create possiedono una caratteristica fondamentale: la bontà. Ogni essere in
quanto tale è un bene; un bene che, secondo il grado di perfezione della sua natura, si
inserisce nella bontà globale dell'universo come una nota in un immenso poema. Il
mondo creato è un ventaglio grandioso e stupendo che dispiega i mille volti
dell'unica bontà divina.
E tuttavia Gesù, rispondendo allo Scriba, affermava: "Perché mi chiami
buono? Nessuno è buono se non Dio solo". 136 Gesù vuole ricordarci che solo Dio è la
fonte di ogni bene e di tutto il bene. Tutta la bontà presente nelle creature è una
132
Gv. 3,16
133
Gv. 15,13
134
Forgia, n. 63
135
Gen. 1,31
136
Mc. 10.18
67
partecipazione alla bontà di Dio, ed è misurata dalle perfezioni distribuite in vario
grado e forma nelle creature; esse appaiono così ordinate al Creatore secondo un suo
sapientissimo disegno. Perciò gli esseri creati manifestano l'infinita bontà di Dio non
solo come causa prima ma anche come fine ultimo di ogni bontà. Tutto da Dio
procede e tutto a Lui si ordina.
In questa sinfonia di voci che proclamano la bontà divina, l'uomo occupa un
posto e un ruolo unico; egli partecipa alla bontà di Dio innanzitutto come sua
immagine per lo spirito, e ancor più come sua somiglianza per la filiazione divina.
Ma a questa bontà creaturale, "discendente", che procede da Dio, deve corrispondere
una bontà morale, "ascendente", che ordina l'uomo a Dio.
Questa bontà morale, che mobilita le nostre facoltà spirituali e impegna quindi
la nostra responsabilità, consiste nell'orientare a Dio la nostra vita e il nostro agire,
rispondendo alla chiamata divina di collaborare alla edificazione del regno di Dio, al
suo disegno di salvezza. Ora, è accaduto che l'uomo, buono per creazione, si è fatto
cattivo per sua decisione, disorientandosi da Dio e allontanandosi dalla sua bontà.
Ciò si ripete ogni volta che la nostra libertà di creature, che ci è stata data per
poter amare, si ritorce invece su sé stessa spegnendosi nell'egoismo, o s’impenna
nella superbia e nella ribellione autodistruggendosi nel male. Ora, il nostro agire
deve porsi come perfettivo del nostro essere; ma lo sarà solo se realizzerà in noi la
bontà di Dio, se risponderà all'amore con cui Dio ci ha amato prima della creazione
del mondo. La nostra bontà morale di creature, fatte a immagine di Dio, dovrà
dunque avere essenzialmente la dimensione dell'amore. Abbiamo già visto che il
nostro cammino di figli di Dio sulla terra è un viaggio nella fede, nella speranza,
nella carità, virtù teologali infuse da Dio nel Battesimo. Di esse S. Paolo scrive:
"Sono le tre cose che contano, ma di tutte la più grande è la carità". 137
Infatti se manca l'amore la fede è morta, la speranza è inefficace, la vita
cristiana si spegne. Ciò significa che la carità non è semplicemente una virtù, ma
l'essenza stessa della vita cristiana. Se "Dio è Amore", allora è cristiano solo colui
che accoglie l'amore di Dio, si lascia trasformare da questo amore e lo espande
intorno a sé. E' la carità, col suo dinamismo interiore, che rende possibile in noi la
crescita della vita soprannaturale; la carità fonda la nostra "bontà teologale", la sola
bontà che corrisponde alla nostra dignità di figli di Dio.
Ma la vita teologale del cristiano ha anche un aspetto morale; è chiamata a
percorrere la via dei Comandamenti, delle Virtù e delle Beatitudini. I
Comandamenti sono come la base, il fondamento della vita morale, le virtù sono il
suo sviluppo, le Beatitudini sono la sua perfezione. Ebbene, anche nella via dei
comandamenti, delle virtù e delle Beatitudini, la legge fondamentale del cristiano
rimane l'amore, e solo l'amore può dare la misura della perfezione morale dell'uomo.
Infatti, la legge dell'amore include innanzitutto la legge dei comandamenti:
"Se mi amate, osserverete i miei comandamenti". 138 Questa affermazione di Gesù, che
troviamo ripetuta più volte durante le affettuose conversazioni dell'ultima Cena, si
presta a una duplice interpretazione; la prima è la più ovvia: l'osservanza dei
comandamenti è la prova della sincerità dell'amore. "Non chiunque mi dice: Signore,
Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio" 139 ;
l'altra interpretazione, ribaltando il significato della frase, vede affermata nell'amore
la vera osservanza dei comandamenti; in altre parole, l'osservanza dei comandamenti
è autentica e sincera solo se nasce dall'amore. Per quanto possa sembrare assurdo, ci
137
1 Cor, 13,13
138
Gv. 14,15
139
Mt. 7,21
68
può accadere di osservare i comandamenti di Dio, anche i più piccoli, e non
amare.
Lo possiamo constatare a proposito del fratello maggiore del "figliol prodigo"
nella ben nota parabola di San Luca. 140 Quel fratello maggiore, che non si era
rattristato quando il fratello più piccolo se n'era andato malamente da casa (anzi,
forse aveva pensato in cuor suo, come traspare dalle parole del padre, che gli sarebbe
rimasta tutta l'eredità paterna), e si rattrista invece quando il fratello pentito viene
accolto con gioia festosa dal padre, quel fratello fa notare a suo padre di essergli
sempre rimasto fedele. Infatti da tanti anni lo serviva senza aver "mai trasgredito un
suo comando". Ma gli mancava l'amore, era vissuto più da servo che obbediva
anziché da figlio che amava. Perciò, osserva davvero i comandamenti solo colui che
è mosso dall’amore.
Già abbiamo ricordato la sottile ipocrisia nascosta nella "morale laica". In essa
i Comandamenti, arbitrariamente mutilati e ridotti, sono assimilati a un codice di
comportamento, a una regola di vita per persone civili. Ma anche molti cristiani
considerano i Comandamenti di Dio semplicemente una legge, e rischiano di limitarsi
alla pura osservanza di essa. Atteggiamento facilitato dal fatto che i Comandamenti
sono l'espressione della legge naturale scritta nella nostra coscienza, e induce in chi
li osserva un certo "benessere morale", proprio di chi "si sente a posto" con i propri
doveri. Da questo atteggiamento moralistico è facile finire nel moralismo puramente
legale, astratto e impersonale, il quale dimentica che l'essere naturale dell'uomo è
definito dal suo rapporto personale e amoroso con Dio, e non dal rapporto con
un codice o una legge. Diventa così più comprensibile l'altro significato delle parole
di Gesù: solo chi ama, osserva veramente i Comandamenti di Dio.
Ma l'osservanza amorosa dei Comandamenti non può essere sporadica, non
può fermarsi a qualche atto isolato, compiuto saltuariamente. Esso deve trasformarsi
in una disposizione abituale della nostra volontà, che ci porta ad agire costantemente
in conformità ai valori affermati dai Comandamenti.
Questa disposizione stabile, attiva, che porta a compiere abitualmente atti
buoni è ciò che chiamiamo "virtù morale"; essa diventa forza interiore, energia
spirituale che ci orienta decisamente verso il bene e tende a radicarci fermamente e
stabilmente nei valori che contribuiscono alla perfezione morale della nostra persona.
La statura morale di un uomo è data dalle virtù che egli possiede e dal
grado di perfezione che in esse egli ha raggiunto. Non solo: anche il bene comune,
il progresso autentico e ordinato di una società, di un popolo, di una qualsiasi
comunità hanno il loro fondamento nelle virtù morali dei cittadini, e non soltanto
nelle leggi sagge e giuste del loro ordinamento giuridico. Non basta una
Costituzione di alto e nobile contenuto legislativo, non bastano perfette strutture
sociali o un elevato progresso tecnico-economico per garantire il bene comune e il
vero progresso umano di un popolo se non si promuovono e non si favoriscono nel
contempo le virtù morali e civili dei singoli cittadini.
Perciò, se è vero che si attenta al bene comune emanando leggi ingiuste o
inique, ed evadendo dalle leggi giuste costituite, ancor più si attenta al bene della
comunità e alla sua ordinata convivenza quando si provoca o si coopera al degrado
morale dei cittadini demolendo i principi e i valori che sono fondamento delle virtù
morali. In questo campo, enorme è la responsabilità dei movimenti politici e
culturali, dei potentati che detengono i mass-media, i quali spesso uniscono l'agire
delittuoso alla viltà di mascherarsi dietro presunti diritti all'informazione e alla
140
Lc. 15,11-22
69
libertà di espressione per avallare invece il libertinaggio morale. L'aver separato il
progresso tecnico-scientifico, l'organizzazione politica e sociale dall'etica e dalle
virtù morali è una delle falsificazioni più rovinose operate dalla ideologia
laicista.
Fondamento di ogni società è la persona umana con i valori morali che essa
incarna; e se è vero che non tutti possono essere buoni architetti, buoni poeti,
filosofi, scienziati, buoni tecnici, ognuno può essere però buon cittadino, o
semplicemente un uomo buono. Non dunque la scienza, la politica, l'arte o qualsiasi
attività professionale sono alla base del valore di una persona, ma il suo essere
morale, le sue virtù, che costituiscono anche il fondamento di ogni retta convivenza
sociale.
E tuttavia non basta un uomo virtuoso per fare un cristiano. Il cristiano è tale
per il Battesimo che ha ricevuto, cioè per la grazia che lo ha fatto partecipe della
natura divina come figlio di Dio. Perciò, se le virtù morali sono ordinate a
perfezionare l'uomo naturale come immagine di Dio, per noi cristiani è necessaria la
Carità, cioè l'amore soprannaturale, che forgia e promuove in noi la filiazione divina,
ci configura sempre più a Cristo e ci fa entrare per mezzo di lui in una più profonda
intimità con Dio.
Nel cristiano, dunque, le virtù morali che già costituiscono la base della bontà
naturale, devono aprirsi ad una bontà più alta, soprannaturale, alla santità, che è la
pienezza dell'amore di Dio, Amore che trova la sua perfezione nelle Beatitudini.
74 - Un nemico: l’ipocrisia.
Sappiamo che tutto questo è opera di Dio che agisce in noi per mezzo dello
Spirito, ma sappiamo anche che c'è in noi un nemico mortale che si oppone all'amore
di Dio: la superbia. E' così che si possono praticare le virtù ma cercando
esclusivamente la propria perfezione, cioè per amore di sé stessi. Si può cadere in
una sorta di narcisismo spirituale che porta il nostro io a girare intorno alla propria
immagine e a considerarsi superiore agli altri per le virtù di cui si vede adorno.
Oppure ci si può appoggiare alle proprie virtù per sentirsi meritevoli davanti a Dio e
graditi ai suoi occhi. In altre parole si possono cercare e anche praticare le virtù e
non amare. Se manca l'amore mancherà alle virtù il valore soprannaturale,
l'impronta divina che le fa essere virtù cristiane, veramente perfettive del nostro
essere figli di Dio.
Quante persone si angustiano per la propria perfezione morale e perdono la
pace! Esse inaridiscono intorno ad un ideale astratto di perfezione, misurata sul
corredo di virtù che sono riuscite a indossare. E' fin troppo nota la figura del fariseo
salito al tempio per esporre davanti a Dio le proprie virtù e i propri meriti vantando
la propria superiorità sugli altri considerati invece peccatori. Certo noi difficilmente
indosseremo la sfrontatezza e la presunzione del fariseo, ma il desiderio di apparire
giusti davanti a Dio, non mescolati alla folla dei peccatori, tutti puliti e in ordine per
sfilare senza timore davanti - si pensa- al giudizio di Dio e degli uomini, in realtà
davanti al proprio giudizio, questo pericolo è sempre in agguato in ognuno di noi.
Anche arrivassimo ad avere il guardaroba più ricco e ridondante, il più
completo di ogni virtù, ma ci mancasse la veste nuziale, la carità soprannaturale, la
veste fiammante dell'amore di Dio e del prossimo, il nostro guardaroba servirebbe a
coprire una scimmia, un pupazzo inconsistente, che risulta ridicolo agli occhi di Dio.
San Paolo, nel suo "Inno alla carità", ha affermazioni che non possono lasciarci
indifferenti: "Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi
la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il
dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la
pienezza della fede così da trasportare le montagne ma non avessi la carità, non
70
sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per
essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova". 141 L'amore dunque deve
essere come l'anima di tutta la vita morale dell'uomo, nella sua dimensione naturale e
soprannaturale, "così che ogni esercizio di perfetta virtù cristiana non può scaturire
se non dall'amore e nell'amore ha il suo ultimo fine". 142
Tutto questo ci fa anche comprendere che le virtù morali non sono spontanee;
sono chiamate virtù acquisite, proprio perché richiedono un esercizio a volte lungo e
faticoso. La nostra vita di cristiani è tutta in salita. E non può essere altrimenti dal
momento che siamo chiamati a una perfezione che è partecipazione alla santità di
Dio. E' vero che le virtù sono opera della grazia, ma Dio concede la sua grazia
quando noi mettiamo il nostro sforzo personale, la nostra lotta interiore. E' uno
sforzo e una lotta che durano tutta la vita, e costituiscono un capitolo importante
dell'ascetica cristiana.
Anche nelle cose importanti di questo mondo nulla si realizza o si
conquista senza sforzo. Perfino nel mondo dello sport, quanti allenamenti (esercizi
atletici lunghi, pazienti, faticosi) sono necessari prima di raggiungere certi primati
sportivi! Non si diventa campioni, si dice, se non si impara a "soffrire", a "lottare", a
"sacrificarsi", in una parola a esigersi e a superarsi costantemente. Tutti questi
termini, che ormai sono entrati abitualmente nel lessico del giornalismo sportivo, in
realtà sono stati presi dal vocabolario dell'ascetica cristiana. Se dunque gli atleti,
scriveva S.Paolo ai Corinti, fanno tutto questo per una corona corruttibile, quanto più
dovremo farlo noi per una corona incorruttibile ed eterna! Perciò, continuava
l'Apostolo, "corro, ma non come chi è senza meta: faccio il pugilato, ma non come
chi batte l'aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù". 143
L'ascetica cristiana ha appunto due aspetti che le derivano direttamente dalla
realtà battesimale: il battesimo ha cancellato in noi il peccato originale ma ci ha
lasciato le inclinazioni al male; perciò è compito della lotta ascetica togliere da noi
ciò che ci allontana da Dio e sanare le ferite lasciate in noi dal peccato, ferite spesso
aggravate da abitudini viziose. Il battesimo ci ha poi conferito la grazia che ha
divinizzato la nostra anima e ha dato valore soprannaturale alle virtù umane che sono
fondamento della perfezione cristiana. Siamo perciò chiamati a perfezionare sempre
più in noi, attraverso l'esercizio della lotta ascetica, gli abiti delle virtù per vivere
secondo la nuova dignità di figli di Dio. Il sacerdote infatti, imponendoci la veste
bianca, ci ricordava che dobbiamo rivestirci di Cristo. "La vita del cristiano è
milizia, è guerra, guerra bellissima di pace che non assomiglia per nulla alle imprese
belliche degli uomini, perché queste si ispirano alla divisione e all'odio, mentre la
guerra che i figli di Dio combattono contro il proprio egoismo si fonda sull'unità e
sull'amore". 144
E' dunque l'amore che deve ispirare e sostenere la lotta ascetica, l'amore
di Dio e non il desiderio di meritarci un certificato di buona condotta. Così non
ci lasceremo prendere dallo scoraggiamento se la nostra lotta personale conoscerà i
momenti di stanchezza, di debolezza e anche di sconfitta, perché l'amore ci porterà a
ricominciare mille volte. Gesù caduto sotto la croce - sotto il peso dei nostri peccati -
non è rimasto a terra; e a farlo rialzare non sono stati i calci e le frustate dei soldati
ma l'amore, l'amore per il Padre e l'amore per gli uomini; e fu l'amore a trascinarlo
fino sul calvario, fino sulla croce.
141
1 Cor. 13,1-3
142
Catechismo Romano, Prefazione
143
1 Cor. 9,24
144
Beato J. Escrivà, E' Gesù che passa n. 76
71
La lotta ascetica, che esige spesso il sacrificio e la penitenza, è precisamente
una partecipazione alla croce di Cristo, ma è anche partecipazione alla sua vittoria, al
suo trionfo, alla sua libertà, alla sua gloria. Il beato J. Escrivà mettendo l'ultima
pietra all'ultima delle sue opere, vi lasciò scritte queste parole, che suonano come un
testamento: Questo è il nostro destino sulla terra: lottare, per amore, fino all'ultimo
istante. Deo Gratias!. Per amore! Dove c'è amore, la lotta interiore diventa gioiosa,
perseverante, efficace, e d'altra parte, la lotta ascetica conferisce all'amore la
garanzia della sincerità e della verità.
76 - Amore e Beatitudini.
145
Concilio Vaticano II n. 927 - Ap.Act.n.4
146
Salmo n. 41,2-3
72
"Signore, davanti a te ogni mio desiderio e il mio gemito a te non è nascosto". 147 C'è
un gemito segreto del cuore che non è avvertito da alcuno; (...) è la voce del
desiderio (...) Il tuo desiderio è la tua preghiera: se continua il tuo desiderio continua
pure la tua preghiera.... Qualunque cosa tu faccia, se desideri quel sabato (che è il
riposo di Dio), non smetti mai di pregare. Se non vuoi interrompere di pregare, non
cessare di desiderare. Il tuo desiderio è continuo, continua è la tua voce. Tacerai, se
smetterai di amare. La freddezza dell'amore è il silenzio del cuore, l'ardore
dell'amore è il grido del cuore. Se resta sempre vivo l'amore, tu gridi sempre; se gridi
sempre, desideri sempre; se desideri, hai il pensiero rivolto alla pace". 148
IL COMANDAMENTO DELL'AMORE
77 - Amore e libertà.
147
Salmo n. 37,10
148
S.Agostino, Commento sui Salmi: Sermone 37,13-14
149
Det. 6,4-5
73
78 - Quale libertà?
Nasce allora una domanda: com'è possibile "imporre" l'amore con un precetto?
Non è forse contraddittorio un simile comandamento? Se l'amore viene imposto gli si
toglie il suo requisito fondamentale: la libertà; lo si priva perciò di autenticità e di
valore. Per rispondere a queste domande, occorre restituire alle parole il loro
significato proprio, occorre cioè uscire da quel nominalismo intellettuale che ha
rovinato tanta parte del pensiero moderno e condiziona tuttora la cultura
contemporanea. Che cos'è veramente l'amore? E la libertà, cos'è essa veramente? Di
quale libertà si parla quando si discute sulla libertà dell'amore? Dovremo
necessariamente limitarci a semplici considerazioni dettate dal senso comune, un
senso comune che, almeno per noi cristiani, gode dell'aiuto inestimabile della fede.
Di solito quando parliamo di libertà pensiamo alle varie espressioni di essa
nella vita corrente: libertà di opinione, libertà di movimento, libertà di espressione,
libertà di scelte professionali, politiche, artistiche, libertà di rapporti umani, di
amicizie ecc. In tutti questi campi ha senso e va rispettata la "libertà di scelta". Di
fatto, nella vita quotidiana, noi esercitiamo continuamente la libertà di scelta.
Scegliamo le scarpe, la cravatta, il rossetto, il menù di mezzogiorno o, più
seriamente, abbiamo possibilità di scegliere la professione, l'ambiente di vita, le
amicizie, i candidati di un partito..., e così si possono scegliere infinite altre cose, ma
tutte relative; relative non solo in sé stesse perché la loro natura è limitata, ma anche
perché contingenti, non necessarie, legate al tempo e alla nostra condizione di
creature.
Ci sono invece cose che non si scelgono, che sfuggono totalmente alla
nostra volontà e alle nostre decisioni, e per le quali la "libertà di scelta" non ha
senso. Così è la vita: non si sceglie ma si riceve; così la verità: non si sceglie, ci
viene data; così il bene: non si sceglie, lo si accoglie. La nostra stessa identità
personale con le caratteristiche di natura, di carattere, di personalità non l'abbiamo
scelta noi, ci è stata data; e ancor più ci viene data la grazia, la vocazione, il nostro
destino. Così è l'amore. Tutte queste cose si possono accogliere o rifiutare, non
scegliere.
In definitiva si tratta della nostra realtà di creature, creature che sono state
"scelte", volute da Dio per amore. "(Egli) ci ha scelti prima della creazione del
mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci
ad essere suoi figli adottivi per opera di Cristo", 150 il quale ricorda ai suoi apostoli:
"Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi". In ultima analisi, Dio non può essere
oggetto di scelta, né Dio né il suo disegno su di noi. La libertà vera, nella sua identità
profonda e radicale, non sta dunque nella possibilità di scelta, ma nella capacità di
aderire pienamente e totalmente a Dio. E' un atto proprio dell'essere spirituale: lo
chiamiamo "responsabilità"; essa suppone in noi il dominio delle nostre azioni e
delle nostre decisioni. Senza libertà non è possibile amare. Ci è stata data la libertà
per poter rispondere all'Amore con l'amore. Ecco perché il rifiuto di obbedire a
Dio e alle sue "chiamate" non è espressione di libertà, ma autodistruzione della
libertà.
79 - Libertà e verità.
80 - La libertà dell’amore.
151
Gen. 2,17
75
umana, morendo sulla croce ci ha liberati dal peccato, e nella sua risurrezione, ci ha
restituito la nostra dignità di figli di Dio, eredi del Cielo. Ecco dunque da chi viene
la "libertà dell'amore", ecco qual è la vera libertà dell'amore, ed ecco anche perché
sulla terra abbiamo bisogno del comandamento dell'amore, della "legge dell'amore".
Cristo infatti ci ha liberati dal peccato e perciò ci ha liberati dalla legge del peccato:
"Siete liberi di quella libertà di cui Cristo vi ha liberati"; "Quando infatti eravate
sotto la schiavitù del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia ma quale
frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate? Infatti il loro destino è
la morte. Ora, invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio...avete come destino la
vita eterna. Perché il salario del peccato è la morte. Ma il dono di Dio è la vita
eterna in Cristo Gesù...o forse ignorate, fratelli, che la legge ha potere sull'uomo
solo per il tempo in cui egli vive?". 152 Nella vita eterna, infatti, non avremo più
bisogno né della legge né della grazia, entreremo nella libertà della gloria, la gloria
dei figli di Dio. Ci sarà dunque solo l'amore, la pienezza dell'amore, la piena «libertà
dell’amore».
81 - Il Comandamento dell’amore.
152
Romani, 6,20
153
Mt. 10,37
76
Di qui la seconda cosa affermata da questo comandamento: l'amore esige tutto
ed esige lotta. Amare con tutta l'anima, con tutta la mente, con tutto il cuore, con
tutte le forze significa che tutto il nostro essere è coinvolto nell'amore di Dio e che
nulla di noi e in noi può restare estraneo a questo comandamento. Anche l'elenco
delle facoltà - tutta l'anima, tutta la mente, tutto il cuore, tutte le forze - che
dobbiamo impegnare nell'amore di Dio ha un suo significato, perché non sempre la
nostra persona risponde completamente e simultaneamente alla domanda d'amore.
Si ama con tutta l'anima quando Dio riempie tutto il nostro mondo interiore: la
memoria, la fantasia, soprattutto la nostra intenzionalità. Per anima s'intende qui il
centro operativo della nostra persona, da cui nasce tutta la nostra attività spirituale,
le aspirazioni, le decisioni intime, i desideri profondi. A questo livello l'amore è
sostenuto dal dono soprannaturale della Sapienza che ci apre alla contemplazione;
diventa amore contemplativo che muove l'anima e la accompagna in tutte le sue
operazioni, anche nei momenti più impensati della vita. Ma solo dopo lungo tempo la
nostra anima arriva a godere di questa luce e ad assaporare questo amore;
normalmente è combattuta fra l'amore di Dio e il desiderio delle creature, le quali
continuano a esercitare la loro attrattiva sulla fantasia, sui ricordi, sui nostri moti
interiori.
Ma può anche verificarsi una situazione di pesantezza e di smarrimento che
avvolge l'anima come in una nebbia. E' allora il momento di ricorrere alla nostra
intelligenza sostenuta e illuminata dalla fede: cioè, amare con "tutta la mente". La
mente è come la punta dell'anima con la quale essa può emergere dall'incertezza e
dall'esitazione. Amare Dio con l'intelligenza significa stimarlo per quello che egli
è: il Bene Assoluto, Signore e Creatore di ogni cosa, e aderire a lui in forza della
sua parola. L'amore è allora sostenuto dal dono soprannaturale dell'Intelletto e
alimenta l'orazione di fede. In questa situazione è necessario ripetere frequentemente
atti espliciti di fede per sostenere il nostro amore di fedeltà; occorre ripetere adagio,
quasi facendole echeggiare nella nostra anima, le parole dell'apostolo Pietro:
"Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna" 154 e io ho creduto alla
tua parola e al tuo amore.
84 - Il Comandamento nuovo
85 - Amore e misericordia.
L'amore cristiano partecipa così alle caratteristiche dell'amore che Dio nutre
verso gli uomini. In Dio l'amore è innanzitutto misericordia. "Siate misericordiosi
come è misericordioso il Padre vostro". 156 E' misericordia la capacità che l'amore ha
di aprirsi al dolore e alle necessità del prossimo, al suo bisogno e alla sua povertà
corporale, ma soprattutto alla miseria morale e spirituale in cui esso può trovarsi. E'
una disponibilità che spinge ad intervenire con gesti concreti di aiuto e di dedizione,
quali sono le "opere di misericordia".
La più grande lezione e l'esempio più commovente di misericordia è Gesù
stesso. E' lui il buon Samaritano che "misericordia motus", spinto dall'amore
misericordioso, si curva sull'uomo che si trova in condizioni di miseria perché
lontano da Dio e mortalmente ferito dal peccato, lo raccoglie, gli fascia le ferite
"versandovi l'olio e il vino" della sua passione e del suo sangue redentore, lo affida
alla Chiesa -"lo portò a una locanda" - alla quale consegna i due denari (il Vangelo e
i Sacramenti), con l'incarico di prendersi cura di lui.
Ma, anche fuori di parabola, Gesù sentì compassione della folla che da tre
giorni lo seguiva e "si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore,
e si mise a insegnare loro molte cose", 157 dopo aver guarito molti malati e
provvedendo poi con la moltiplicazione dei pani alla loro necessità materiale. In
questo comportamento di Gesù, ci vengono indicate le opere di misericordia, quelle
spirituali e quelle corporali. Gesù si commuove alla vista della fame e del dolore, ma
soprattutto si commuove alla vista dell'ignoranza. (Escrivà) E non c'è ignoranza
peggiore di quella di chi ignora la salvezza che viene da Dio.
La verità più consolante che Gesù ci ha rivelato è che il Padre è "ricco di
misericordia verso quanti lo invocano" 158 ; perciò il nostro amore verso il prossimo
trova la sua più alta espressione nella partecipazione alla misericordia di Dio il quale
"vuole che tutti gli uomini siano salvati" 159 . Ora, un amore fraterno che sia
impregnato di misericordia e cerchi la salvezza dei fratelli, esige sacrificio,
dimenticanza di sé stessi e donazione. La strada della misericordia percorsa da Gesù
è quella della croce, espressione suprema del dono di sé; e proprio sulla croce Gesù
156
Lc. 6,36
157
Mc. 6,34
158
Sal. 86,5
159
1 Tim. 2,4
79
ha compiuto il gesto di misericordia più commovente quando, dopo aver chiesto al
Padre di perdonare i suoi crocifissori, ha Lui stesso donato la salvezza al ladrone
pentito: "In verità ti dico, oggi sarai con me nel Paradiso". 160
86 - Amore e perdono.
87 - Amore e servizio.
Ma il comandamento nuovo è tale non solo per il contenuto nuovo che Gesù vi
ha portato ma anche per le motivazioni e per il modo di viverlo. Nel mondo l'amore
al prossimo ha di solito motivazioni puramente umane. Si ama per simpatia fondata
su un'attrattiva esteriore della persona, o su una comunanza di gusti, di interessi, di
opinioni, o anche per ammirazione verso le doti e le caratteristiche naturali della
persona. Frequentemente si "ama" per interesse; interesse economico, interesse
politico o anche semplicemente per interesse affettivo. In modo più generico si ama
per "solidarietà": apparteniamo alla stessa stirpe, alla stessa comunità umana, siamo
164
Gv. 13,13
165
Mt. 20,28
166
Mc. 10,42
81
legati ai nostri simili con vincoli di parentela, di istituzioni, di popolo, di cultura. E'
una solidarietà che può portare alla filantropia, all'umanitarismo, alla condivisione,
non ancora all'amore. Infine, più raramente, si arriva ad amare per riconoscenza: se
siamo stati oggetto di attenzione, di aiuto, di gratificazione.
Invece l'amore cristiano raggiunge la persona in sé stessa: il cristiano ama
"per amore", un amore che nasce ed è sostenuto da motivazioni soprannaturali.
La prima di esse è fondamentale: ogni uomo è "immagine e somiglianza di Dio".
Ogni essere umano, per quanto abbietto e vile, porta in sé il sigillo di Dio, e amare
l'uomo è amare in lui il Creatore di tutti. Anche l'amore per i genitori, già
ampiamente giustificato sul piano umano, è per il cristiano un amore verso coloro
che sono stati collaboratori di Dio nel dargli la vita; la paternità umana è infatti
partecipazione alla paternità di Dio.
C'è poi l'amore verso i propri fratelli nella fede; esso è motivato dal fatto che
ogni cristiano è immagine di Cristo. E' un’immagine reale, vera, anche se
soprannaturale e mistica; realizzata in noi dai sacramenti. E' infatti nel Battesimo
che diventiamo fratelli di Cristo, partecipi della sua filiazione divina. Nella Cresima,
poi, veniamo configurati a Cristo come suoi testimoni, nell'Eucarestia siamo fatti
partecipi dell'unico Pane e dell'unico Calice, uniti allo stesso sacrificio di Gesù che
ci fa adoratori del Padre; nel matrimonio gli sposi vengono configurati a Cristo-
Sposo, che nella Incarnazione e nella morte sulla croce ha celebrato il suo amore
sponsale verso l'umanità e verso la sua Chiesa; perciò ogni sposo e ogni sposa
cristiana dovrebbero vedere nel coniuge Cristo stesso che santifica il loro amore
coniugale.
Infine, con l'Ordine Sacro, il Sacerdozio di Cristo si comunica al sacerdote che
diventa "Ipse Christus - lo stesso Cristo"; e quando esercita il suo ufficio
ministeriale, soprattutto nel confessionale e sull'altare, egli agisce nella persona
stessa di Gesù. Ogni cristiano quindi è nostro fratello nella fede, ma soprattutto
membro di Cristo, del suo Corpo Mistico che è la Chiesa, a Lui configurato e in Lui
radicato, da essere un altro Cristo, alter Christus. Questi legami che abbiamo con
Cristo e che fondano i motivi soprannaturali dell'amore fraterno ci danno anche la
misura della carità a cui dobbiamo ispirarci noi, discepoli di Gesù. Proprio ai suoi
apostoli Gesù ricordava: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli
altri come io vi ho amati". 167
L'amore di Gesù per noi diventa dunque la nuova misura dell'amore
fraterno. Del resto, amare il prossimo come sé stessi può essere spesso un criterio
inattendibile perché noi per primi non sappiamo amare in modo giusto noi stessi.
Spesso non riusciamo a discernere il nostro vero bene e non cerchiamo la nostra vera
felicità. Gesù ci ha amati e ha dato sé stesso per noi, per la nostra salvezza. Egli ha
guarito molti malati ma non è venuto per guarire le malattie, ha sfamato le folle
moltiplicando il pane ma non è venuto per risolvere i nostri problemi economici, ha
dominato le forze della natura ma non è venuto per offrirci soluzioni ai problemi
dell'agricoltura o dell'ecologia, così come ha insegnato le vie della giustizia e della
pace ma non è venuto per risolvere con formule politiche i rapporti sociali, giuridici
o istituzionali dei popoli. "Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo"
e ha dato la sua vita sulla croce.
Se dunque dobbiamo vivere il comandamento nuovo che ci chiede di amarci
con l'amore stesso di Cristo, saremo aperti generosamente alle necessità, alle
sofferenze, alle attese dei nostri fratelli e ci dedicheremo con impegno e
responsabilità alla soluzione dei problemi sociali, economici e politici per dare a
questo mondo un volto sempre più umano e sempre più conforme alla nostra dignità
di figli di Dio. Ma in tutto questo e al di sopra di tutto questo cercheremo per noi e
per i nostri fratelli la Salvezza, cioè la Vita Eterna. Non dimentichiamo che, se non
arriviamo in cielo, abbiamo miseramente fallito la nostra vita.
167
Gv. 15,12
82
89 - Il “quadrilatero” dell’amore fraterno.
In varie occasioni, il Beato Escrivà suggeriva che per vivere l'amore fraterno i
discepoli di Cristo devono sforzarsi di convivere, comprendere, discolpare e
sorridere. Convivere non significa vivere gli uni accanto agli altri sopportandoci a
vicenda ma restando intimamente estranei; la convivenza cristiana va molto più a
fondo della pura convivenza umana che si limita al rispetto dei diritti altrui. Per noi
cristiani, convivere vuol dire ospitare il nostro fratello dentro di noi, aprirgli il nostro
cuore, i nostri sentimenti; è fargli posto nella nostra vita. Ci è forse capitato qualche
volta di vedere in sequenze televisive le vie delle grandi metropoli: una marea di
persone che camminano in tutte le direzioni ma in perfetta solitudine; scivolano l'una
accanto all'altra come mondi chiusi, estranei, indifferenti. Per il cristiano, convivere
è invece condividere la vita, e non restare indifferente al dolore, alla fatica, alle
sofferenze degli altri, secondo le parole di S. Paolo: "Rallegratevi con quelli che
sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto, abbiate i medesimi
sentimenti gli uni verso gli altri". 168
Ma non basta ospitare il fratello dentro di noi, occorre anche sforzarci di
entrare dentro di lui e capirlo. E' necessario capire per aiutare. Per capire una
persona bisogna conoscerla. E' quanto accade a una madre: essa conosce il figlio, la
sua storia, le sue più intime reazioni come nessun altro; nessuno perciò capisce e
comprende come capisce una madre. La comprensione materna ha però un limite,
perché una madre è troppo coinvolta in prima persona con la vita del figlio e perciò
la sua comprensione può diventare debolezza o anche complicità. Noi dobbiamo
essere profondamente umili per conoscere e per capire, e dobbiamo essere
sufficientemente liberi per non essere complici. Anche qui, solo la vera libertà rende
possibile il vero amore.
Per conoscere poi una persona in profondità occorre saper ascoltare e saper
dimenticarci di noi stessi. Siamo infatti portati ad ascoltare pochissimo gli altri,
siamo invece portati a giudicarli. Perciò: conoscere per comprendere, comprendere
per discolpare. Per discolpare una persona occorre innanzitutto che ci rifiutiamo di
giudicarla. E' un comando esplicito del Signore: "Non giudicate", e se dobbiamo
farlo per ufficio, giudichiamo l'operato ma non le intenzioni, ricordando che "col
giudizio con cui giudichiamo, saremo giudicati, e con la misura con la quale
misuriamo, saremo misurati". 169
Nulla mortifica, inibisce l'iniziativa e condiziona la nostra sicurezza quanto il
saperci continuamente giudicati dagli altri. Solo il giudizio di Dio è stimolante e
liberante, perché solo Dio conosce profondamente il nostro cuore e solo lui sa
distinguere il male dalla persona che lo compie; e mentre respinge il male con
assoluta giustizia, è paziente, benigno e misericordioso con colui che lo compie.
Perciò, discolpare significa anche non condannare. E' ancora Gesù a ricordarcelo:
"Non condannate e non sarete condannati, perdonate e vi sarà perdonato". 170 Tutti
noi abbiamo in cuor nostro un tribunale permanente, davanti al quale facciamo sfilare
le persone sulle quali lasciamo cadere giudizi e condanne, spesso impietosi, che non
ammettono né dubbi, né attenuanti. Dobbiamo demolire dentro di noi ogni tribunale
negativo, e se dobbiamo decidere interventi o prendere misure di giustizia verso i
nostri fratelli, non sarà mai giustizia vendicativa o esclusivamente punitiva, lascerà
aperta la strada alla speranza, al desiderio di conversione, alla possibilità di
riparazione.
168
Rom. 13,15
169
Mt. 7,1
170
Lc, 6,37
83
90 - L’amore perfetto sa sorridere.
Questo amore che non giudica, che tanto meno condanna, che anzi dice stima e
fiducia nel proprio fratello, trova la sua espressione più preziosa nella "correzione
fraterna". Essa realizza quel detto della Scrittura: Frater qui adiuvatur a fratre,
quasi civitas firma. Il fratello aiutato dal fratello è come una città fortificata. 171
Vivere così il "Comandamento nuovo" del Signore, non è facile, richiede
l'esercizio di tante virtù "minori" che sono come il corteo della carità. S. Paolo le
ricorda in varie lettere, soprattutto nella lettera ai Corinti, in quello che è chiamato
l'Inno alla Carità. Noi potremmo riassumerle in una parola che ci ricorda un gesto
tanto semplice quanto dimenticato: sorridere. La nostra epoca è un'epoca scettica,
arida, dura, violenta e conosce più il ghigno, lo sberleffo, la risata, non il sorriso.
Sorridere è un atto squisitamente umano; solo l'uomo è capace di sorridere. Il sorriso
è come il cielo della nostra anima quando è azzurro, pulito, luminoso. Sorridere a una
persona è come offrirle un mazzo di fiori, splendidi, profumati; è come dirle: sono
felice che tu esista, e che tu sia qui, davanti a me. Essere felici che una persona
esista è come partecipare all'atto creativo di Dio, all'Amore che le ha dato
l'essere, l'esistenza, la vita.
Il sorriso è gratitudine, è riconoscenza a Dio e al prossimo. Sorridere è avere il
cuore semplice, libero da invidie, da gelosie, da tristezze, da egoismi; è magnanimità
della fantasia, che immagina quel fratello come un piccolo grande universo dove luci
e ombre si compongono in profondità inesauribili che nascondono meraviglie divine;
il sorriso è stupore dell'anima davanti a un mistero dove libertà e grazia vanno
scrivendo un poema inedito e recondito, mai uguale, che sarà letto nell'eternità. Il
sorriso ha dunque qualcosa della contemplazione; è amore contemplativo che gioisce
del fratello, che vede in lui un dono offerto da Dio. Il sorriso è la versione terrena
della gioia dei Santi, è un lembo di Cielo che anticipa la beatitudine. Il sorriso è
Donna; la Donna umile e stupenda, dolcissima e verginale, che è apparsa come
Sorriso di Dio su ogni essere creato: Maria.
171
Prov. 18,19
84
IL TEMPO E L'UOMO
Ireneo di Lione, genio del pensiero cristiano, l'autore più rappresentativo dei
primi secoli della Chiesa, riassume tutto il mistero dell'uomo in alcune espressioni
che sono tra le più profonde che mai siano state scritte: "Gloria di Dio è l'uomo
vivente; vita dell'uomo è la visione di Dio "; e ancora: "Dio, e tutte le opere di Dio
sono gloria dell'uomo; e l'uomo è la sede in cui si raccoglie tutta la sapienza e la
potenza di Dio". 172 Dunque: l'uomo vivente.
Nel Salmo XVIII leggiamo che "I cieli narrano la gloria di Dio e il
firmamento annunzia l'opera delle sue mani". 173 Tutti infatti restiamo come
abbagliati di fronte allo splendore e all'immensità del creato. Non sempre, invece, è
così davanti all'uomo, soprattutto quando egli si presenta nella sua precarietà, nella
sua povertà e miseria, nella sua fatiscenza fisica e morale. Ci sono situazioni umane
nelle quali tutti i motivi di fascino e di stupore, tutti i segni di grandezza e di
bellezza che ricordino un capolavoro sono scomparsi. Anche l'autore del salmo VIII
esclama: "Che cosa è mai l'uomo perché te ne ricordi?". Tuttavia lo stesso autore
subito aggiunge: "Eppure l'hai fatto poco meno degli Angeli, l'hai coronato di gloria
e di onore, l'hai costituito sopra l'opera delle tue mani". 174
Nonostante tutto, l'uomo è il capolavoro della creazione, "il luogo - ripetiamo
con S.Ireneo - in cui si raccoglie tutta la sapienza e la potenza di Dio". Infatti, se i
cieli "narrano" la gloria di Dio, l'uomo "è" la gloria di Dio, è vanto della sua eterna
sapienza e della sua infinita potenza. Del resto, a chi mai se non all'uomo i cieli
narrano la gloria di Dio? A chi se non all'uomo il firmamento annuncia l'opera
dell'Onnipotente? L'uomo è il destinatario del creato perciò egli è chiamato a
diventare interlocutore e voce di tutte le cose, interprete dell'universo. Senza l'uomo,
il creato resterebbe muto, o sarebbe come una sinfonia immensa e stupenda ma senza
ascoltatori, e non avrebbe senso.
Anche il tempo, possiamo dire, ha avuto il suo vero inizio con l'uomo. Prima,
e senza l'uomo, esisteva solo il moto, il susseguirsi delle cose, il mutevole rapporto
spaziale tra le parti del tutto; solo lo spirito può percepire e misurare nelle cose un
passato, un presente, e un futuro. Il tempo è una grandezza mediante la quale lo
spirito umano intercetta lo spazio e tutto ciò che nello spazio si muove. Lo spirito
tutto abbraccia e tutto misura. E' dunque l'uomo che dà senso ai millenni, a tutte le
ère del mondo, a tutto ciò che è accaduto, accade, e accadrà.
172
S. Ireneo, Adversus haereses, 3,20
173
Salmo n. 18,1
174
Salmo n. 8,5-6
85
92 - L’uomo chi è?
Da un certo punto di vista, non sono in errore quei filosofi e pensatori che hanno
posto l'uomo al centro di tutte le cose; una visione antropocentrica del mondo ha una
sua giustificazione. Occorre perciò conoscere l'uomo, sapere chi è. C'è chi lo ha
definito un essere di frontiera, una cerniera tra due mondi: il mondo della materia e il
mondo dello spirito; un essere che respira il tempo e l'eternità. L'uomo - disse
Giovanni Paolo II - è "come l'orizzonte del creato, nel quale si configurano il
cielo e la terra; come vincolo del tempo e dell'eternità; come sintesi del
creato". 175
Questa duplice estensione fa dell'uomo la sintesi vivente di tutta la realtà
creata. Ma proprio in questa estensione, in questo esistere proteso tra due universi
sta l'essenza del mistero dell'uomo, la sua natura abissale. Pochi temi hanno tanto
appassionato la mente umana. L'uomo è l'unico essere "composto", o meglio,
"coestensivo". Nella natura troviamo esseri che sono pura materia, pura molteplicità;
nel mondo angelico troviamo gli Angeli che sono puro spirito, pura semplicità.
L'essere dell'uomo è invece una "unità duale". Qui sta la radice del mistero
dell'uomo, ma qui sta anche la linea di conflitto, il confine dove si scontrano le
diverse concezioni dell'uomo nella storia del pensiero. C'è chi nega l'unità dell'essere
umano, cadendo in un dualismo che spezza l'uomo e lacera irrimediabilmente la sua
natura; e c'è chi nega la sua dualità cadendo in una concezione riduttiva dell'uomo
impoverendone la natura o falsandone l'identità. In questi errori si nasconde il
desiderio o il tentativo di semplificare il mistero dell'uomo, di spiegarlo o almeno di
capirlo. Ma il mistero rimane. E rimane proprio qui, nella "coestensione" di materia e
spirito, nell'essere, l'uomo, simultaneamente presente e partecipe a due universi che
appaiono tra loro incompatibili e incommensurabili.
93 - Interpretazioni riduttive
176
Gen. 2,7
177
Gen. 1,27
87
radici nel mondo della natura, radici diciamo pure profonde quanto è lunga la sua
filogenesi naturale, ma nello stesso tempo esso, in ogni sua parte e in ogni momento
del suo sviluppo, trascende la natura.
La convinzione che l'uomo costituisce una "discontinuità" nel mondo della
natura è sempre stata presente nella coscienza umana; è un dato elementare nel senso
comune dell'umanità. Del resto questa discontinuità è solennemente affermata dalla
Bibbia nel passo già citato, un passo fondamentale per qualsiasi antropologia. Nel
primo capitolo della Genesi si dice che Dio creò il cielo e la terra, fece poi
germogliare dalla terra le piante e fece uscire dalle acque gli animali; il libro sacro
presenta cioè una specie di "creazione progressiva" che costituisce il "continuum"
della natura. Ma arrivato all'uomo, Dio in certo qual modo si ferma, parla con sé
stesso, si consiglia quasi dovesse prendere una decisione importante e solenne. "E
Dio disse: facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui
pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame e su tutte le bestie selvatiche e
su tutti i rettili che strisciano sulla terra. E Dio creò l'uomo a sua immagine, a
immagine di Dio li creò, maschio e femmina li creò". 178
Ecco qui affermata una discontinuità nella successione naturale delle creature,
un salto oltre la natura: l'Uomo. Non un prodotto della terra, non uscito dalle
acque, non frutto di pure forze naturali, ma voluto direttamente da Dio, frutto di
un suo intervento creativo. Inoltre la superiorità dell'uomo, qui affermata, su tutti gli
altri esseri creati non è soltanto una superiorità di dominio, ma anche una superiorità
di trascendenza. L'uomo, cioè, che pure appartiene alla natura, e ne è l'espressione
più perfetta, tuttavia emerge dalla natura, la trascende, la supera; si sottrae alle
eventuali leggi dell'evoluzione biologica, quasi la interrompe, o meglio introduce nel
mondo una dimensione nuova, diversa, la dimensione dello spirito che costituisce la
trascendenza naturale dell'essere umano.
LA CORPOREITÀ
179
Mt. 5,37
90
la sacralità della vita umana, la grandezza e il valore trascendente della vita
dell'uomo. Perciò ogni violenza, ogni attentato alla vita umana è un attentato contro
Dio. Se poi la violenza è contro la vita che si sta forgiando nel grembo materno, cioè
nella fase in cui la vita è più debole, la violenza è allora un crimine indegno e vile.
Quell'uomo in miniatura che una donna si porta nel grembo non può essere soffocato
o seviziato impunemente. Non sappiamo in che modo Dio riparerà a questa
ingiustizia degli uomini, ma certo il grido di un'anima che reclama il "suo" corpo che
le è stato negato e strappato violentemente, rimane vivo e implacabile davanti a Dio.
Ma il corpo non è soltanto segno e specchio dell'anima, archivio che ne
conserva la storia, non è soltanto il luogo dove lo spirito vive e si muove nel tempo,
esso è anche richiamo alla bellezza e alle perfezioni divine. Dio, creando l'uomo, ha
voluto che anche nel corpo fosse in certo qual modo sua immagine. "Dio creò l'uomo
a sua immagine: maschio e femmina li creò." Anche per il corpo valgono dunque le
parole di S.Ireneo: "L'uomo è la sede in cui si raccoglie tutta la sapienza e la potenza
di Dio". Il corpo umano è un inno alla bellezza, all'armonia, alla vita; è un inno
all'amore. Chi non conosce i capolavori che l'arte, la poesia, la musica hanno creato
per cantare le perfezioni del corpo umano?
Tutto questo, Dio l'aveva già realizzato nel suo progetto originario. Infatti
nell'Eden non c'era bisogno di nascondere il proprio corpo; tutto era armonia,
bellezza, dono luminoso di vita. "Adamo e sua moglie erano tutti e due nudi e non ne
provavano vergogna". 180 Nell'Eden la nudità del corpo era segno dell'integrità
morale e spirituale dell'uomo, del suo rapporto di totale conformità al disegno di Dio.
Fuori dell'Eden quella nudità è diventata il segno della miseria dell'uomo. Il peccato
è passato come un ciclone sull'essere umano, ha spogliato l'anima ribelle al suo Dio
di tutti i doni dei quali era stata adornata, e ha spogliato il corpo ribelle alla sua
anima della sua integrità e docilità. Con il peccato, nell'anima dell'uomo è scesa la
notte e nel corpo è calata la fatica, il dolore, la morte. Di qui la necessità del pudore;
esso è un'autodifesa della propria dignità ferita e oltraggiata, dignità che l'uomo sente
il bisogno di ricuperare e di proteggere; e insieme esso esprime la pietà divina, rivela
la misericordia di Dio contenuta in quel gesto così umano e così divino narrato dalla
Genesi: "E il Signore Dio fece all'uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì". 181
Vestire il corpo appartiene in certo qual modo al mistero della redenzione, fa
riferimento al disegno di Dio di restaurare la dignità dell'uomo. Il Figlio di Dio si è
rivestito del nostro corpo mortale e lo ha fatto diventare il luogo della nostra
salvezza.
Infine, il corpo è chiamato a servire quell'attività dello spirito che trova nel
sensibile la sua più intensa risonanza: l'amore. Si ama con l'anima, ma essa comunica
al corpo le vibrazioni dell'amore, anzi ha bisogno del corpo per esprimersi e donarsi
nell'amore. Per questo Dio ha creato l'uomo maschio e femmina, uomo e donna. In
mille modi il corpo si presta per esprimere l'amore: la fiamma viva di uno sguardo
innamorato, la carezza tenera e delicata di una mano, il sorriso luminoso di due
labbra innocenti, un bacio affettuoso, un canto, la melodia di una voce appassionata,
la intensa stretta di un abbraccio forte, e tanti altri modi, anche sobri e semplici, che
possono recare ugualmente un intenso messaggio d'amore.
Ma non c'è dubbio che l'espressione dell'amore che ha più bisogno del corpo è
l'amore coniugale, anzi esso si esprime proprio nell'unità di "una sola carne" e
realizza così la forma umanamente più intima ed esaltante del dono; dono per
eccellenza perché è la somma di due amori che celebrano la vita. Ma è anche vero
che l'amore coniugale è l'amore più esposto alle ferite della carne, per cui "l'uomo
carnale" può smarrirsi nell'egoismo degli istinti. Nell'amore coniugale infatti si dona
il corpo ma anche lo si riceve; e quando il ricevere prevale sul donare si imbocca la
strada dell'egoismo e l'amore passa di crisi in crisi fino a spegnersi nei sensi. Il corpo
allora non è più espressione e luogo dell'amore, ma strumento e oggetto di piacere.
Quel corpo non è più il "segno" di una persona che si ama, ma il pretesto per un
momento di passione che appaga solo i sensi.
Mantenere l'amore coniugale all'altezza della sua dignità non è facile in una
cultura come la nostra dove l'esaltazione pagana del sesso ha brutalizzato il rapporto
uomo-donna, ma il cristiano può contare sulla forza di un Sacramento che ha
messo Cristo-Sposo nell'amore umano, quell'amore nobile e generoso che, pur
dovendo passare attraverso il sacrificio e il dolore, sa approdare alla gioia della
fedeltà, e in Cristo diventa fonte di Grazia e di santità. Il corpo di due coniugi
cristiani e l'amore coniugale che li unisce richiamano dunque il mistero di Cristo e
della sua umanità nei suoi due momenti sponsali: l'Incarnazione e il Sacrificio della
Croce.
185
1 Cor. 15,53-55
186
Lc. 1,28...
93
Così, un Corpo Verginale di donna è il luogo dove il Figlio di Dio ha
celebrato le nozze con l'umanità; il grembo intatto di Maria è diventato
"architriclinium totius Trinitatis", la stanza nuziale della Santissima Trinità. Così,
l’Incarnazione, come mistero sponsale del «Figlio del Re», è intimamente legata alla
verginità di Maria. Attraverso di lei, l'eternità è entrata nel tempo, lo ha percorso da
cima a fondo abbracciandolo interamente, e ha dato a tutta la storia umana una
dimensione divina.
Analogamente, il Sacrificio della Croce è un inno alla "virilità", alla sua forza
soprannaturale per cui ha sconfitto il peccato e la morte. Quel Corpo immolato e quel
Sangue versato è stato il prezzo del nostro riscatto e della nostra pace. "Gesù disse:
Tutto è compiuto e, chinato il capo, spirò... vennero dunque i soldati e vedendo che
era già morto non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il costato
con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua... questo avvenne perché si adempisse
la Scrittura: non gli sarà spezzato nessun osso. E...volgeranno lo sguardo a Colui
che hanno trafitto". 187
Un Corpo integro e verginale di Uomo appeso alla croce è stato il luogo
dove il Figlio di Dio ha celebrato le nozze con la sua Chiesa. La contemplazione
di quel Corpo che, nonostante la violenza brutale ha conservato un' immensa dignità
e un fascino sovrumano, ha dato origine a una delle sequenze più commoventi nella
Liturgia della Chiesa:
Così, il corpo umano, riportato ad una perfezione ancora più alta di quanto non
fosse il corpo di Adamo nella sua integrità originale - Gesù è il nuovo Adamo, e
Maria la nuova Eva -, è entrato in un più grande disegno di Dio; la femminilità e la
virilità nella loro collaborazione verginale al mistero della salvezza sono diventate
l'espressione più sublime dell'Amore sponsale.
Quando l'anima si apre alla preghiera e sale verso Dio, anche il corpo ne viene
coinvolto. A volte esso viene indicato come un peso, una specie di zavorra che rende
faticoso e difficile il decollo dell'anima. In questo senso il corpo ha bisogno di
"alleggerirsi" da abitudini e inclinazioni che appesantiscono il suo ruolo e la sua
possibilità di partner dello spirito. E' il lavoro svolto dalla mortificazione. Questa
parola dal suono stridente e dal sapore amaro è stata talmente caricata di senso
negativo che ormai è irreperibile nel vocabolario della società opulenta. Si
reclamizza, sì, la leggerezza del corpo, ma è una leggerezza puramente fisica, per
motivi di futile vanità, ispirata non al dominio del corpo ma al culto del corpo.
La preghiera esige, invece, una leggerezza etica del corpo che si esprime come
duttilità e prontezza agli inviti dell'anima. Un fisico impigrito, sonnolento,
crapulone, un corpo sistematicamente "accontentato" nelle sue richieste non servirà
molto alle spinte di un'anima orante. "Se non ti mortifichi non sarai mai anima
d'orazione". 190
La mortificazione ha dunque un versante negativo, quello di negare al corpo
tanti accontentamenti che ne farebbero un corpo "viziato", riottoso e capriccioso: "Al
corpo bisogna dare un po' meno del giusto. Altrimenti tradisce". 191 Ma la
mortificazione ha anche e soprattutto un versante positivo, più importante e
utile alla preghiera: quello di chiedere al corpo, esigere la sua collaborazione
educandolo al sacrificio, al dono di sé. I frutti di questa mortificazione saranno:
laboriosità e intensità nel lavoro, fortezza nella fatica, pazienza nella stanchezza,
disciplina dei moti istintivi e degli impulsi, affinamento della sensibilità, del tratto e
del comportamento, cadenza nei ritmi (orario), freschezza nelle abitudini, e tutta una
serie di esercizi che rendono il corpo disponibile all'anima. Questo lavoro compete
proprio all'anima che va così acquistando un sempre maggior dominio sul proprio
189
Rom. 12,1
190
Cammino n. 172
191
Cammino n. 196
95
corpo. La mortificazione diventa così "l'orazione dei sensi".
197
Fil. 4,8
99
Il fine soprannaturale al quale l'uomo è chiamato non esclude la natura ma la
suppone e la perfeziona. Così, la Rivelazione non elimina la ragione, la fede non
umilia l'intelligenza, la legge di Dio non impedisce la libertà, la grazia non vanifica
l'impegno, la storia della Salvezza non ignora la storia umana. L'Incarnazione
valorizza pienamente tutto il positivo della natura umana: Dio che si fa uomo ci dice
quanto l'uomo sia "capace" di Dio. Davvero, l'uomo - anima e corpo - è non solo
la sintesi del creato ma anche il luogo dove natura e grazia si sposano. La natura con
i suoi valori: la ragione, la cultura, la libertà, la scienza, la storia, è la base per il
soprannaturale, il terreno sul quale interviene l'opera divinizzante della grazia.
Ripetendo ancora una volta le parole di S. Ireneo, davvero "l'uomo è la sede in cui si
raccoglie tutta la sapienza e la potenza di Dio."
Perciò la grande sventura dell'uomo è perdere Dio. Senza Dio l'uomo si ritrova
smarrito, non riconosce più sé stesso né il suo destino: la sua unicità di persona
diventa un'abisso senza nome; la sua solitudine, disperazione; la sua luminosità,
tenebre fitte; la sua spinta espansiva, alienazione. In una parola, la vera morte
dell'uomo è il peccato. Ed è per causa del peccato che l'uomo non sa più riconoscere
la sua grandezza e l'immensa preziosità della sua persona.
Il valore-uomo ha perduto ogni peso nel listino dei prezzi; viene barattato per
pochi soldi, spesso per un piatto di lenticchie, quando non viene valutato un nulla di
nulla. E così lo si uccide come se fosse un insetto, lo si umilia, lo si giudica e lo si
condanna, gli si usa violenza e brutali aggressioni, disprezzo e indifferenza e ogni
sorta di schiavitù e di oppressione; non si fa più nessun calcolo né della sua vita né
della sua morte. Agli occhi degli uomini l'uomo vale ben poco; è soltanto agli occhi
di Dio che l'uomo vale più dell'universo. Solo Dio conosce il valore dell'uomo; solo
Dio lo ama, lo rispetta, lo custodisce, lo difende da sé stesso; non lo rifiuta, non lo
abbandona, non lo giudica per condannarlo, non lo fa schiavo, né gli toglie la libertà
anche quando l’uomo la usa contro di Lui, non si arrende davanti alla sua ribellione o
al suo rifiuto; ha saputo invece inventare per la sua creatura le più grandi pazzie che
solo un Amore infinito può inventare. Ed ecco, un giorno, nell'abisso che il peccato
ha scavato dentro l'uomo, scendere il Figlio di Dio: "E il Verbo si fece
carne...spogliò sé stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli
uomini; apparso in forma umana, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla
morte e alla morte di croce". 200
Questo è il prezzo di ogni uomo, questo il suo valore. Ogni persona vale
tutto il sangue di Cristo, tutta la sua vita, tutto il suo sacrificio. Chi calpesta
l'uomo, calpesta Gesù Cristo. E' Lui, l'Uomo! E' Lui ormai la misura della nostra
grandezza, della nostra dignità, del nostro valore. "Renditi conto, o cristiano, della
tua dignità!" esclamava il grande Papa Leone Magno davanti al Figlio di Dio fatto
uomo! E' una dignità la cui grandezza rimane per ora nascosta in un involucro di
povertà e di debolezza, ma è destinata ad esplodere un giorno, quando la potenza di
Dio ci libererà dal nostro involucro di morte, e la gloria di Cristo si rivelerà in noi.
Nel frattempo, Dio ha affidato alla sua Chiesa il compito di proclamare
davanti al mondo la grande dignità dell'uomo, il valore assoluto, non commerciabile,
della persona umana. Oggi, la Chiesa è l'unica voce nel mondo a difendere la dignità
dell'uomo e la grandezza del suo destino. Un nuovo "umanesimo cristiano" non può
che ripartire dalla Persona mettendola al disopra e prima di ogni altro valore: prima
della scienza, prima della politica, prima dell'economia e di qualsiasi progresso
materiale della società.
Dalle ceneri dell'umanesimo iconoclasta degli ultimi secoli che ha distrutto
l'uomo e i suoi valori, occorre far rinascere una nuova civiltà dell'uomo che metta
al centro del suo umanesimo la Persona umana come "Icona di Dio", è l'Icona
che riflette l'immagine del suo creatore, l'icona dell'uomo redento da Cristo e
chiamato alla comunione eterna con Dio. Solo così l'uomo riacquista la sua giusta
posizione di fronte a sé stesso e di fronte a tutte le cose create, e si realizza in lui
quello che fu, fin da principio, il sogno di Dio.
200
Fil, 2,7-8
102
Ognuno di noi è chiamato a diventare ciò che Dio vuole. O realizziamo in noi
il suo disegno di amore o abbiamo miseramente fallito tutta la nostra esistenza.
103
IL TEMPO
E L'INTELLIGENZA DELL'UOMO
INTELLETTO E CONOSCENZA
"In principio Dio creò il cielo e la terra". Ma tutte le cose dell'universo erano
buie, senza luce. E senza luce era come se non esistessero. Perciò "Dio disse: Sia la
luce!" e la luce fu... e fu sera e mattina, primo giorno". 201 La luce divenne, così, la
prima qualità dell'essere. In un certo senso, l'essere è luminoso, emana una luce che
lo rivela e lo rende intelligibile: è una luce che coincide con la verità: la verità delle
cose. "Dio infatti è luce e in Lui non ci sono tenebre". 202 Dio è soltanto luce perché
è la pienezza dell'Essere. Perciò egli è la Verità, la pienezza della Verità. Quando
l'apostolo Giovanni scrive che dobbiamo "camminare nella luce" vuol dirci che
dobbiamo camminare nella verità di Dio. Camminare nella Verità è la più esaltante
avventura dell'intelletto umano, l'altissima vicenda che l'uomo è chiamato a vivere
nella sua esistenza terrena; è il suo stupendo viaggio nel tempo.
Dio creò il cielo e la terra, l'universo visibile e quello invisibile, gli esseri
spirituali e gli esseri corporei, e pose l'uomo che Egli aveva creato a sua immagine e
somiglianza davanti a tutte le creature perché esercitasse su di loro il suo dominio."Il
Signore Dio condusse (gli esseri creati) all'uomo per vedere come li avrebbe
chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi,
quello doveva essere il suo nome". 203 "Chiamare per nome" è, nell'uomo, un atto
trascendente dello spirito, è l'atto conoscitivo, cioè l'atto dell'intelletto che "intus-
legit", penetra dentro le cose, legge la loro identità profonda, si appropria quasi del
loro essere. Diversamente, in Dio, il "chiamare per nome" indica l'atto creativo
dell'intelletto divino. Dio, nell'atto di conoscere, comunica l'essere alle cose, le
"chiama" fuori dal loro nulla; è perciò causa della loro esistenza: "Egli conta il
numero delle stelle, e chiama ciascuna per nome". 204
201
Gen. 1,1
202
1 Gv. 1,5
203
Gen. 2,19
204
Salmo 147, 4
104
113 - La Luce e l’Intelletto
Dicevamo che l'essere delle cose create emette una luce, una luce che è la loro
identità, la loro verità, la loro intelligibilità. Ma questa luce promana dalle cose
quando esse sono colpite da un'altra luce, che le fa riverberare interiormente
facendole vibrare in risonanze di varia intensità, come un gigantesco arcobaleno: è la
luce dell'intelletto umano. Senza questa luce, con la quale l'uomo illumina tutto
l'universo, il creato resterebbe opaco e spento. "La terra era informe e deserta, e le
tenebre coprivano l'abisso". 205 E' l'intelletto umano che legge il tempo e ne possiede
la misura; nelle cose il tempo è solo moto. Possiamo dire che il tempo, come misura,
è cominciato con l'uomo, con la coscienza umana.
L'intelletto è la prerogativa più alta dell'essere umano, ed è costitutivo
della persona. Si è soliti chiamarlo, con una immagine geometrica, la punta
dell'anima; è come un vertice che penetra nella luce di Dio e permette all'uomo di
dominare da quella altezza tutte le cose: gli permette di misurare la loro estensione,
la loro vastità, la loro profondità, in una parola le loro dimensioni metafisiche, cioè
la loro partecipazione all'Essere Divino.
Questa grande dignità dell'intelletto umano, quale partecipazione all'intelletto
divino, merita qualche riflessione che ci aiuti a conservare integro e pulito questo
dono di Dio, perché il degrado dell'uomo è in gran parte causato dal degrado della
sua intelligenza. E poiché a determinare la dignità dell'intelletto è la verità come suo
oggetto proprio, la prima riflessione che ci si propone è intorno alla verità
dell'intelletto stesso: qual è il valore e la natura dell'intelletto umano? Quale il
meccanismo della sua attività, del suo conoscere?
Non c'è dubbio che le teorie sulla conoscenza hanno avuto e hanno tuttora un
peso determinante nella storia del pensiero ed esercitano il loro influsso su tutta
l'esistenza umana; è perciò indispensabile un richiamo sia pure elementare e
descrittivo del nostro intelletto e della sua verità.
LA CONOSCENZA E I SENSI
107
affettiva.
Ma l'espressione più intima di comunione interpersonale che coinvolge il
senso del tatto è certamente l'intimità coniugale. Lì la conoscenza sensibile è
massima; l'uomo e la donna si "conoscono" nel dono della propria intimità che
coinvolge tutto il corpo, e si realizza, possiamo dire alla lettera, l'espressione biblica:
"e saranno, i due, una sola carne". 206
Tralasciando altri segni che sono espressione tattile della nostra interiorità,
come la carezza, il bacio, l'abbraccio, che esprimono l'affetto fraterno, l'amicizia, la
partecipazione al dolore e alla gioia degli altri, ci limitiamo a richiamare
l'importanza che può avere questo senso riguardo alla vita interiore.
Proprio per essere il senso più corporeo, che coinvolge la nostra intimità
personale, il tatto è un senso estremamente delicato, e va perciò custodito con finezza
e con delicata prudenza. D'altra parte, per la sensazione intensa di benessere e di
piacere fisico che esso fornisce, il tatto diventa un senso pieno di insidie per la vita
dello spirito. Può infatti trasformare il dono della propria intimità come espressione
d'amore, in ricerca egoistica del proprio piacere e arrivare all'ignobile
strumentalizzazione della persona altrui per interessi edonistici.
Naturalmente la custodia del tatto ha bisogno del dominio dei moti interiori
dell'animo e poggia sulla rettitudine delle intenzioni e del cuore soprattutto là dove il
servizio alla vita e alla persona esige l'integrità degli affetti e dei sentimenti. E' un
lavoro di ascetica delicato e paziente ma indispensabile per la vita dello spirito.
Infine, è propria del tatto la percezione del caldo e del freddo, percezione che
portata sul piano spirituale ci richiama la fisionomia che può avere l'ambiente umano
che ci circonda. La stima, la comprensione, l'affetto di chi vive intorno a noi ci
danno quasi la sensazione tattile del calore di cui abbiamo bisogno. Non si può
vivere senza calore; c'è una temperatura limite, come per la nostra pelle così per la
nostra persona, e dobbiamo ricordarci che la freddezza e l'indifferenza è una delle
sensazioni più crudeli a cui possiamo sottoporre un essere umano.
Il bacio fraterno che esprime il perdono, la carezza dolce su un corpo malato e
mille altri gesti di tenerezza su membra umiliate o trafitte dal dolore sono segni
preziosi che rompono la durezza di un mondo gelido e disumano. L'abbraccio
materno con cui Caterina da Siena accompagna il condannato a morte fino al patibolo
commovendolo fino alle lagrime, le braccia verginali e materne di madre Teresa che
raccoglie i moribondi sui marciapiedi di Calcutta perché possano morire avvolti da
un calore che non hanno mai conosciuto, e tante altre espressioni dell'eroismo
cristiano, riscaldano l'umanità e innalzano la temperatura del cuore umano molto di
più di tutte le scoperte del sapere scientifico. Il tatto può servire l'amore o può
servire l'egoismo; dipende dal cuore, se l'abbiamo puro, nobile, innamorato.
117 - L’olfatto
206
Gen. 2,24
108
cristiano disonesto infetta l'aria, corrompe l'ambiente, rende ingodibile la convivenza
umana. Il profumo delle virtù fa invece pensare alla bellezza dell'anima e dà fascino
alla vita cristiana.
Il profumo stimola anche l'attrattiva sessuale. Può diventare perciò un'arma,
soprattutto femminile, per sedurre e adescare. Occorre perciò andare premuniti per
non lasciarsi ingannare. Ma anche può servire per facilitare l'approccio affettivo e
l'amore nuziale. Comunque esprime sempre una presenza amata. La libbra di nardo
purissimo, di gran pregio, che Maria ha versato sui piedi di Gesù è servita ad
esprimere il profumo dell'amore che può attirare le anime a Cristo. Infatti la
seduzione esercitata dal profumo suggerisce l'idea del fascino che la vita del
cristiano e la figura stessa di Cristo possono esercitare su tante anime, soprattutto di
giovani, per attirarle alla sequela e ad una dedizione incondizionata al Signore. Nel
Cantico dei Cantici si descrive l'attrattiva che esercita il profumo della persona
amata: "Post te curremus in odorem unguentorum tuorum," - ti seguiamo correndo
dietro la scia del tuo profumo. 207
118 - Il gusto
119 - L’udito.
Tra i sensi, i più nobili, i più spirituali appaiono senza dubbio l'udito e la
vista. Essi hanno un'importanza enorme nel rapporto interpersonale, perché è
soprattutto attraverso loro che possiamo comunicare gli uni con gli altri. Hanno
infatti la capacità di ricevere dagli altri e di elaborare per gli altri i segni che sono
specificamente destinati alla comunicazione: basta pensare al suono che diventa
parola e alla parola che diventa suono. Senza questi segni ognuno di noi resterebbe
un atomo isolato, chiuso, incapace di una vera crescita come persona. Sappiamo
infatti come la mancanza dell'udito e della vista possa influire sulla personalità stessa
e condizionare o accentuare certi lati del nostro carattere che incidono sul rapporto
interpersonale. Proprio quando essi vengono meno ci rendiamo conto di quanto sono
doni preziosi di cui ringraziare grandemente Dio con l'impegno di usarli per il bene.
L'udito, lo sappiamo, è il senso che avverte i suoni. Enorme è la varietà di
suoni che arriva a noi dal mondo che ci circonda, ma tra tutti c'è un suono
unico, prezioso, immenso nelle sue espressioni: la voce umana. Non c'è in tutto il
creato un suono più melodioso, più amato, più desiderato, più espressivo. La voce è
la persona, e proprio dalla voce la riconosciamo perché ogni persona ha una "sua"
voce. In quella voce ci sono i suoi sentimenti, il suo atteggiamento interiore, i suoi
stati d'animo, le sue passioni: gioia, dolore, tristezza, amore, felicità, rabbia,
tenerezza, c'è il calore o la freddezza del suo cuore. Parliamo della voce, non ancora
della parola; la parola esprime il pensiero, la voce esprime l'animo.
Udire la voce della persona amata è motivo di gioia profonda e di
commozione. "Appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi - esclamò
Elisabetta davanti alla Madonna - il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo". 209
E' la stessa gioia che fece trasalire Maddalena quando udì la voce inconfondibile del
Maestro che la chiamava per nome: "Maria!".
Quando poi il nostro animo è assalito da sentimenti più intensi, la nostra voce
si fa canto, melodia. La musica infatti dilata le possibilità della voce, la espande in
dimensioni di profondità e di intensità che accendono bagliori nuovi, irrepetibili,
nella nostra anima. Il canto è due volte preghiera.
L'udito e la parola - la voce - sono intimamente collegati: quando manca
l'udito manca anche la parola; ambedue sono un dono prezioso. Tra i prodigi
compiuti da Gesù, uno dei più applauditi dall'entusiasmo della folla fu la guarigione
del sordomuto: "Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e parlare i muti". 210 e la
Chiesa, dopo il rito del Battesimo, ripetendo il gesto di Gesù, ci fa l'augurio "di
ascoltare presto la Parola (di Dio) e di professare la nostra fede".
Ascoltare la Parola: è l'uso più nobile e più importante che possiamo fare
dell'udito. Però: ascoltare per capire. "Chi ha orecchi, intenda!" ripeteva
frequentemente il Signore. C'è un ascolto interiore senza il quale l'udire non
serve. Ascoltare la parola e accoglierla nel cuore è indispensabile per saper
discernere le voci. Ci sono voci amiche per le quali dobbiamo avere orecchi aperti: la
voce del Sacerdote nella confessione, la voce della Chiesa nel suo insegnamento, la
voce di un amico che ci invita ad avvicinarci a Dio; come pure dobbiamo avere
orecchi aperti alla voce del dolore, alla voce dell'innocenza, alla voce della povertà o
dell'indigenza..; ci sono poi voci nemiche alle quali dobbiamo chiudere gli orecchi:
sono le voci del mondo con le sue lusinghe e le sue menzogne, le voci che parlano
contro Dio e contro la fede, le voci dell'odio, della ribellione, della violenza; le voci
che urlano canzoni indegne, che inquinano l'amore o che parlano contro il prossimo;
209
Lc. 1,44
210
Mc. 7,37
110
le voci che invitano all'infedeltà, al dubbio, alla viltà. "Volta le spalle all'infame che
ti sussurra all'orecchio: "Perché complicarti la vita?". 211 . Per tutte queste voci non
abbiamo orecchi e non vogliamo ascoltare.
Ma la voce più amica, la voce che parla al cuore con forza e dolcezza, è la
voce di Dio. E' una voce senza suono, senza rumore di parole, ma irresistibile; è una
forza divina. E' la presenza viva di Qualcuno che ti chiama, dal quale non puoi
fuggire perché ti insegue sempre e ti raggiunge dovunque, perché non ti abbandona
mai, perché è dentro di te. E non avrai pace finché non gli avrai detto "Si". "Se
ascolti, oggi, la sua voce, non indurire il tuo cuore". 212
Ascoltare la Parola per professare la Fede. Vivere la Fede perché risuoni nel
mondo la Parola. E' il compito affidato agli Apostoli, ed è anche il compito di ogni
cristiano: "Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro
parola". 213 Un cristiano che non parla è una voce spenta nella Chiesa, un muto che ha
bisogno di sentirsi dire dal Signore "Effetà" - Apriti! E se siamo balbuzienti perché
timidi, insicuri, impreparati, dobbiamo almeno far parlare la nostra vita; perché la
fede non può tacere, non può rimanere soffocata. Il comando di Gesù è chiaro:
"Quello che avete ascoltato all'orecchio, predicatelo sui tetti". 214
120 - La vista
216
Mt. 5,29
217
Preghiera Eucaristica III
112
121 - La sensibilità interiore.
Accanto ai sensi esterni e alla loro attività che fornisce notizie e innumerevoli
dati conoscitivi sul mondo esterno, abbiamo accennato all'esistenza di una sensibilità
interiore dove si accumula un'enorme quantità di dati e di esperienze che vanno dalla
percezione particolare e globale della nostra corporeità, alla percezione degli stimoli
istintuali ed emotivi, fino alla percezione degli stati o modi di essere dell'io sotto
forma di sentimenti, di stati d'animo e di affezioni psichiche superiori. E' un mondo
estremamente complesso, difficile da definire e nel quale sensi, fantasia e memoria
hanno ciascuno un ruolo di fondamentale importanza; è il mondo che intelletto e
volontà hanno a disposizione per elaborare la loro attività conoscitiva. La strada
della conoscenza, che parte dal mondo esterno attraverso i sensi, passa
necessariamente attraverso questo mondo interiore che filosofi e psicologi hanno
analizzato e studiato sempre più profondamente.
Del resto, è facile comprendere quale importanza assumono la ricchezza, la
vastità e l'intensità dei dati sensibili e delle corrispondenti sensazioni, quale
substrato necessario all'attività dell'intelletto. Una natura corporea ricca di
sensibilità, cioè capace di cogliere gli infiniti particolari presenti nell'aspetto
esteriore del mondo, dotata di una fantasia fertile, duttile e vivace, che sappia
elaborare la più ampia varietà di fantasmi, fortemente emotiva in grado di far vibrare
intensamente tutta la gamma di sentimenti, sostenuta da una memoria ferrea che
coglie prontamente e trattiene tenacemente il ricordo delle sensazioni e delle
immagini, una natura siffatta è un con-principio ideale per una attività intellettuale
ampia e feconda. Essa va curata, dominata e affinata come si conviene ai doni di Dio,
dei quali dobbiamo rendere conto sapendo che non dobbiamo sprecarli inutilmente o
malamente.
Quanto alla fantasia, essa merita un discorso a parte. Qui basti ricordare la sua
caratteristica specifica: la creatività. Collocata tra i sensi e l'intelletto e a loro
collegata, la fantasia si muove con straordinaria libertà dialogando a tutto campo con
ciascuna delle nostre facoltà. Cosa sarebbe il mondo dell'arte - si pensi alla musica,
alla poesia, alle arti figurative - senza la fantasia e l'immaginazione? Tutta l'attività
estetica, il mondo dell'immaginario, del fantastico, del meraviglioso, il mondo dei
sogni sparirebbe nel buio dell'immobilità e dell'afonia. Quando poi l'attività della
fantasia si coniuga con l'emotività, le risorse del nostro mondo sensibile possono
diventare enormi, esplosive, e possono offrire all'intelletto un mondo senza confini,
sempre in espansione, mai esaurito nella sua profondità. I Santi, come i poeti, hanno
avuto grandi intuizioni e viva immaginazione.
113
luogo immediato nel quale si muovono le nostre facoltà spirituali, le quali però
hanno su di esso un dominio limitato e relativo. Si dice infatti che noi possiamo
esercitare un controllo soltanto "politico" sul nostro mondo interiore. Ciò significa
innanzitutto che noi non possiamo impedire il sorgere dei moti della sensibilità.
Posso "sentire" antipatia o simpatia senza volerlo, posso "sentire" invidia, avversione
o attrattiva per una persona senza volerlo, così come, senza volerlo, posso "sentirmi"
arido, svogliato, irritato, gioioso o depresso, felice o scontento, e ancora senza
volerlo, posso provare entusiasmo, malanimo, piacere, affetto (innamorarmi) ecc.
Tutti questi moti della sensibilità, in sé stessi, non hanno ancora un significato
morale, non sono passibili di responsabilità - si dice infatti "sentire non è
acconsentire" - e perciò non sono ancora né virtù né peccato. Abbiamo detto "in sé
stessi", perché la responsabilità può esserci nella loro causa, quando cioè abbiamo
provocato o lasciato che vengano provocati questi moti. Oggi, ad esempio, il mondo
della nostra sensibilità è, come non mai, sotto un pesante influsso dei mezzi di
comunicazione sociale, sui quali siamo chiamati ad esercitare un controllo sia di
filtraggio che di critica.
Conosciamo bene il potere e la forza che, attraverso tecniche sempre più
sofisticate, questi mezzi esercitano sui sensi, sulla fantasia e sulle emozioni di
innumerevoli folle di spettatori, così da diventare la fonte più importante e insieme
più efficace di messaggi e di stimoli. Da ciò la tremenda responsabilità connessa
all'uso dei mezzi di comunicazione sociale: dal linguaggio, agli scritti, agli
audiovisivi. Quando si dimentica che sono mezzi, e che dovrebbero servire la verità,
la crescita civile e morale della società, e invece si usano come fine a sé stessi, o
peggio, come strumenti a servizio della menzogna, degli interessi ideologici o di
parte, del guadagno ad ogni costo, e tutto in nome di un presunto "diritto di
informazione", allora i mezzi di comunicazione diventano uno dei peggiori nemici
dell'intelligenza, una delle maggiori cause del degrado intellettuale e culturale della
società. Quanti delitti contro la giustizia, l'onore, la verità, commessi da giornali,
riviste, servizi televisi, e dagli altri mezzi di comunicazione, delitti rimasti impuniti,
vergognosamente protetti da coperture politiche o da omertà professionale, e
ipocritamente giustificati come servizio alla società! Di fronte ad essi dobbiamo
esercitare la libertà di non usarli o di filtrare i loro messaggi non solo per proteggere
la nostra serenità interiore ma anche per non cadere nel pericolo di colpevoli
complicità.
Altrettanto importante, per guadagnare spazio alla coscienza, è sviluppare di
fronte al mondo della sensibilità l'intervento critico della nostra ragione; occorre
razionalizzare i nostri stati psichici per non restarne condizionati o peggio per non
rimanere vittime della loro oscura irrazionalità con le conseguenze di confusione, di
inquietudine, di ansia o di paura che ne derivano e che sono spesso strada alla
nevrosi. Dobbiamo mantenere il più possibile luminoso il nostro mondo interiore
con una sana intelligenza coadiuvata dalla luce soprannaturale della fede.
Non si tratta dunque di sopprimere la sensibilità, di spegnere i moti interiori e
le passioni, come vorrebbero certe dottrine mistiche delle religioni orientali; le nostre
energie psichiche, soprattutto le passioni, sono forze importanti per la nostra vita,
sono una vera ricchezza per la nostra personalità. I grandi uomini, anche i santi,
ebbero grandi passioni. Anzi possiamo dire che gran parte del nostro impegno
morale sta nel dominare le passioni e trasformarle in virtù. E' il cammino
dell'ascetica cristiana.
114
mondo dei sentimenti e degli affetti nel rapporto con gli altri. A volte la finezza
d'animo è frutto di doti naturali, legate al carattere oppure ad un senso spontaneo di
altruismo, ma non c'è dubbio che la finezza dell'animo è tanto più autentica quanto
più nasce dalla purificazione dei sentimenti da ogni forma di egoismo. La
preoccupazione di sé stessi impedisce l'attenzione verso gli altri e indurisce la
sensibilità.
C'è poi una virtù che più di ogni altra affina i moti dell'anima, la virtù
della mansuetudine. La mansuetudine infatti, da una parte purifica i nostri
sentimenti da ogni aggressività e da ogni asprezza, e dall'altra ci rende capaci di
avvertire i messaggi che ci giungono dal mondo interiore degli altri e di cogliere il
loro linguaggio personale. Spesso si tratta di segni di piccola entità: il tono della
voce, i gesti, l'espressione del volto e tutte le forme del linguaggio sonoro-visivo di
una persona il cui significato e la cui profondità sono percepibili solo là dove c'è
finezza di attenzione.
Sta di fatto che una delle accuse che nessuno vorrebbe sentirsi dire è quella di
essere una persona insensibile, chiusa alle vicende altrui, incapace di avvertire le
situazioni delle persone e di partecipare alle loro sofferenze, alle loro difficoltà e alle
loro gioie. Mancare di sensibilità, avere un animo arido o duro è sinonimo di
disumano. Se pensiamo all'ampiezza della nostra vita di relazione, la famiglia, gli
ambienti di lavoro, le attività pubbliche e sociali, le amicizie ecc., ci rendiamo conto
di quale importanza abbia la sensibilità d'animo per la nostra capacità di dialogo e di
convivenza. Prendiamo l'ambiente della famiglia: la sensibilità d'animo ci renderà
capaci di tanti gesti di servizio, di attenzione a tante piccole cose che hanno il segno
della gratuità e che rendono gradevole la vita agli altri: il sorriso amabile, il
comportamento allegro e ottimista, dettagli di pazienza, di ordine, di delicatezza.
Anche nella convivenza coniugale i coniugi cristiani, mentre non devono
temere di dirsi con gesti di tenerezza e con espressioni di affettuosa intimità che si
vogliono bene, devono anche affinare la loro sensibilità, devono curare quella nobiltà
d'animo e finezza di sentimenti che impediscono al loro amore di degenerare in
volgarità, dove non hanno più senso né il valore della persona, né la gratuità del
dono.
115
Chiesa la sua espressione più importante.
La Liturgia, infatti, si serve di riti fortemente simbolici; essi attraverso lo
splendore del loro linguaggio sensibile parlano all'intelligenza e con l'efficacia
della loro azione soprannaturale operano nell'anima. Non c'è dubbio che nella
Liturgia della Chiesa, soprattutto nella liturgia sacramentale, il linguaggio simbolico
raggiunge l'apice dello splendore e della completezza. Basterebbe scorrere la
terminologia usata nei testi liturgici per rendersi conto della ricchezza e varietà di
significati simbolici che essa contiene.
Ma soprattutto è nella struttura del rito sacramentale che il linguaggio dei
segni assume un ruolo fondamentale. Infatti, già come segno "sensibile" il rito
sacramentale si presenta costituito da materia, forma e ministro. La "materia" del
Sacramento sono le cose materiali che si usano nel rito; esse sono significative degli
effetti spirituali operati dal Sacramento. Così, il pane e il vino sono "materia"
dell'Eucaristia e sono significativi del Corpo e del Sangue di Cristo; in quei segni
sacramentali egli si renderà presente realmente e sostanzialmente. Così l'acqua
battesimale, che è segno della purificazione dal peccato e della nascita alla vita
divina, costituisce la materia del Sacramento del Battesimo, e proprio mediante
l'acqua il Battesimo produce realmente i suoi effetti spirituali. E la stessa cosa si
potrebbe dire degli altri Sacramenti.
Ma è necessario che la materia diventi sacramento per produrre realmente
quello che significa; per questo occorre l'intervento di Cristo. Per opera dello Spirito
Santo e a mezzo del ministro, Cristo dà forza soprannaturale alle parole che il
ministro pronuncia. Sono le parole che chiamiamo "forma" del Sacramento perché
trasformano la materia, che prima era solo segno significante, in segno efficace della
Grazia. I Sacramenti sono dunque interventi di Dio nella nostra anima, sono
azioni di Cristo che, attraverso il rito sensibile, ci comunica la salvezza. Essi
sono stati affidati da Cristo alla sua Chiesa, e perciò soltanto lei può intervenire sul
rito, sia per conservare la significanza originaria dei gesti e dei segni, sia per
impedire che esso fossilizzi nella sua struttura e diventi illeggibile nel mutevole
linguaggio simbolico dei vari popoli e delle varie culture.
Dunque: cose materiali, gesti, parole pronunciate dal ministro, costituiscono
l'aspetto fortemente sensibile della liturgia, la quale, attraverso il rito, ha lo scopo di
muovere l'intelligenza alla fede e di disporre l'anima a ricevere la grazia. In nessun
altro campo della vita umana, la conoscenza sensibile è chiamata ad un ruolo
così alto e importante come questo che riguarda il culto di Dio e la salvezza
dell'uomo. Tutto questo giustifica l'atteggiamento della Chiesa che è sempre stato di
grande rispetto e di gelosa attenzione verso i segni e i riti della Liturgia. Essa, con
grande sensibilità, finezza umana e soprannaturale, ha sempre coniugato la solennità
e la preziosità di quanto concerne la liturgia con la semplicità e il rigore, senza mai
cedere alla sciatteria, al cattivo gusto o alla volgarità. Esiste un linguaggio liturgico
che va rispettato e non può essere aggiornato col “politichese” o con il gergo
giornalistico; così come esiste un canto liturgico ben definito come genere musicale e
che non può essere mutuato dai cantautori o scambiato con i repertori da discoteca.
Esiste infine una suppellettile liturgica e un abbigliamento liturgico la cui semplicità
e linearità non deve impedire la solennità e la preziosità decorativa.
218
Lc. 10,23
117
materiale per non vederci anche un significato corporeo e sensibile. Circola un detto
popolare che "Anche l'occhio vuole la sua parte". E' perciò lecito e anche coerente
pensare ad una felicità propria dei sensi quando essi percepiscono l'aspetto sensibile
delle persone e delle cose amate, le loro qualità fisiche ed estetiche. Pensiamo alla
gioia fisica di chi, vittima di un sequestro, dopo mesi di prigionia nel buio di una
cella esce alla luce; non solo i suoi occhi, ma anche la sua pelle, i suoi muscoli, tutto
il suo corpo vibra come se esultasse immergendosi nella luce, nella brezza, nel sole.
E' una gioia fisica che sarebbe più giusto chiamare "piacere", perché è uno stato di
benessere sensibile, diffuso, che, in certo modo, possiamo definire, gioia. Quante
volte è stato detto che il volto della persona amata è delizia dei nostri occhi, così
come la carezza, l'abbraccio, il profumo della persona che si ama, dà un senso di
appagamento sensibile, come se un fremito di gioia percorresse il nostro corpo. Del
resto, tutti conosciamo le struggenti invocazioni dei salmi: vultum tuum, Domine! Il
tuo volto, o Signore, io cerco , il tuo volto!
Non c'è dubbio che nella vita eterna anche i sensi parteciperanno alla
felicità dell'anima. Una luce e una bellezza nuove inonderanno l'universo, il volto
divenuto splendido delle persone amate e le loro sembianze trasfigurate dalla gloria
contribuiranno alla nostra felicità sostanziale, quella cioè data dalla contemplazione
del volto di Dio e dall'essere immersi nella luce della sua vita divina. Conosceremo
la vera "estasi dei sensi" i quali saranno capaci di percepire la nuove qualità dei corpi
glorificati. I colori, le melodie, le forme dell'universo glorificato si dispiegheranno ai
nostri sensi in un’esaltante sinfonia di felicità. Cesseranno, si, i piaceri sensibili
legati alla nostra condizione terrena: quelli della sessualità, essendo essa finalizzata
alla riproduzione per la conservazione della specie, e quelli della tavola, essendo il
cibo legato alla nutrizione secondo il ciclo biologico del nostro organismo. "Alla
risurrezione, .- disse Gesù - non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli
nel cielo". 219 Ci saranno invece sensazioni nuove, sublimi, indescrivibili, proprie di
una sensibilità trasfigurata, che non conosce più la precarietà, i condizionamenti, le
innumerevoli limitatezze della attuale condizione terrena. San Paolo ci ricorda:
"quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d'uomo,
queste Dio ha preparato per coloro che lo amano". 220
SENSI E INTELLETTO
219
Mt. 22,30
220
1 Cor. 2,9
118
materiale entrano in noi e trasformate nelle rispettive immagini, vengono offerte
all'intelletto. Esso le "legge" in profondità, (intus-legit) e raggiunge ciò che di
universale ed essenziale esse contengono.
Dire che la nostra conoscenza è sensitivo-intellettiva significa dunque
affermare che c'è continuità fra la conoscenza sensibile e la conoscenza intellettuale
ma non identità. La conoscenza sensibile è una conoscenza materiale, quella
intellettuale è una conoscenza immateriale. E', questa, una conseguenza e perciò
anche una prova che l'anima dell'uomo è una sostanza non materiale di natura
intellettuale. Perciò dicevamo che l'intelletto umano è una "scintilla" divina, una luce
interiore che rende l'essere umano autotrasparente. Al contrario, la conoscenza dei
sensi è, per sua natura, limitata e superficiale, e la nostra stessa sensibilità interiore,
cioè il mondo dei sentimenti e degli stati d'animo, rappresenta la zona periferica
della nostra persona.
Queste caratteristiche possono nascondere qualche insidia per la nostra vita
interiore. Se, ad esempio, la conoscenza sensibile non si apre alla intenzionalità
oppure se la nostra sensibilità si chiude e si ripiega su sé stessa, allora il livello della
nostra vita spirituale va progressivamente abbassandosi, fino ad immiserirsi in una
vita "animale". Chi poi possiede una sensibilità esuberante, una istintività prepotente,
ha bisogno più degli altri di esercitare l'intelligenza, di curarla e di fortificarla. Il
prevalere degli istinti e dell'emotività si verifica più facilmente là dove l'intelligenza
è povera, o si è fatta debole. Spetta certamente alla volontà dominare la sensibilità e
le forze istintuali, ma la volontà è la facoltà operativa propria dell'intelligenza (i
filosofi la chiamano "appetito razionale"); per cui non esistono volontà "deboli" o
"forti", ma volontà debolmente o fortemente illuminate e orientate dalla "forza"
spirituale dell'intelletto.
Nel mondo animale gli istinti e gli appetiti naturali sono fondamentalmente
ordinati in sé stessi e autoregolati. La natura animale, infatti, ha le sue leggi con sé e
l'animale ne è condizionato, le segue deterministicamente e ciecamente. Nell'uomo,
invece, il complesso mondo dove agiscono i sensi e gli istinti, è un mondo acefalo,
non ha in sé stesso le leggi per autoregolarsi e comporsi nell'ordine suo proprio. La
sensibilità infatti e le forze che da essa dipendono, vengono ordinate dall'intelletto,
hanno nella ragione il loro principio ordinatore. Perciò in noi il mondo della
sensibilità con le sue spinte è quello che maggiormente risente del disordine
introdotto nel mondo dal peccato.
Inoltre se pensiamo che non tutte le sensazioni, non tutti i moti della istintività
e nemmeno tutte le esperienze emotive arrivano al livello della coscienza e perciò
sfuggono al controllo diretto delle nostre facoltà spirituali - intelletto e volontà -, ci
rendiamo conto a quale spessore può arrivare il nostro subcosciente dove vanno
accumulandosi le cose più disparate, spesso conflittuali, dai contorni sempre
inafferrabili ed oscuri. Si va formando così, una specie di "cantina" dell'anima,
abitata, come tutte le cantine, dagli esseri più strani: spettri, fantasmi, ragni, topi,
pipistrelli... E quando questi abitatori della nostra cantina interiore si muovono,
litigano o si scatenano, il loro rumore può arrivare a disturbare tremendamente i
piani superiori della nostra personalità dove già può essere problematico e faticoso il
dialogo tra le facoltà spirituali e i vari contenuti della coscienza.
Nei casi patologici, che qui non ci riguardano, è indispensabile il lavoro del
medico-psicologo. Ma anche nella condizione normale è necessario un paziente e
deciso lavoro spirituale affinché tutto il nostro mondo sensitivo-emotivo sia
illuminato da una retta intelligenza e dominato da una sana volontà. Non è quindi
lecito abbandonare a sé stessi i sensi e gli istinti perché sarebbe condannarli al
119
disordine e al caos. Razionalizzare il nostro mondo sensitivo-emotivo - lo abbiamo
già ricordato - non signfica spegnerlo, neutralizzarlo o peggio sopprimerlo come
avviene in certe filosofie pagane, come lo stoicismo, o in certe correnti ascetico-
mistiche delle religioni orientali. Le "passioni", dicevamo, sono una forza della
nostra natura e costituiscono una ricchezza della nostra personalità. S.Giovanni,
S.Paolo, S.Agostino, Francesco D'Assisi, Teresa D'Avila, Ignazio di Loyola, Caterina
da Siena e tanti altri sono state anime grandi anche perché sostenute e pervase da
grandi passioni. Le forze vanno dominate, incanalate e orientate, non soppresse.
Pensiamo alla regina di tutte le passioni: l'amore. Intendiamo qui l'aspetto
sensibile ed emotivo dell'amore; l'amore infatti è una virtù dello spirito: si ama con
l'anima, ma essa coinvolge profondamente e a volte tempestosamente il mondo della
sensibilità, fa cioè risuonare più o meno intensamente il cuore. "Ora, il nostro cuore
è nato per amare, e quando non gli viene dato un affetto puro, limpido e nobile, si
vendica e si riempie di miseria. (...) E' una pena non avere cuore. Sono infelici
quelli che non hanno mai appreso ad amare con tenerezza. Noi cristiani siamo
innamorati dell'Amore: il Signore non ci vuole freddi, rigidi, come materia
insensibile. Ci vuole impregnati del suo affetto". 221
Quando l'intelletto è debole perché povero o perché non coltivato, gli viene a
mancare la forza di seguire la sua natura trascendente e finisce inevitabilmente
prigioniero dei sensi e degli stati d'animo o addirittura viene imbrigliato dagli istinti
bruti; e la sua condizione diventa miserevole.
Narra il Beato Josemaria Escrivà di aver visto un giorno "un'aquila chiusa in
una gabbia di ferro. Era sporca e spennacchiata; aveva tra gli artigli un pezzo di
carne putrida... Sentii pena per quell'animale solitario e prigioniero che pure era nato
per volare in alto e guardare faccia a faccia il sole". 222 Egli applica questa immagine
alla nostra anima quando resta prigioniera della mediocrità, quando restringe i suoi
orizzonti a prospettive puramente terrene, banali, mondane. Ma potremmo anche
pensare alla condizione della nostra intelligenza quando rimane prigioniera dei sensi,
ingabbiata dagli istinti, insabbiata nella sensibilità.
L'intelligenza in queste condizioni è "un'aquila spennacchiata" incapace di
formulare il minimo slancio verso le vette del pensiero e verso le altezze dello
spirito; si ciba di carni putride: errori, menzogne, ideologie mondane che proliferano
i germi della violenza e della rivoluzione; si riduce torpida, con le pupille inferme e
velate, incapaci di fissare il sole della verità, di penetrare la luce della
contemplazione. E' questa, purtroppo, la condizione intellettuale di tanta gente del
nostro tempo, di tanti "intellettuali" che hanno perduto la vera libertà di pensiero,
irretiti dentro una visione puramente materialistica della vita, o condizionati dalla
mentalità edonistica e consumistica.
I sensi sono buoni testimoni della realtà delle cose, ma non della loro
verità. E quando l'intelligenza si lascia condizionare dalla sensibilità e domanda ad
essa il giudizio di verità, abdica alla sua funzione e apre la strada al soggettivismo
più banale. Tanti slogans che corrono nel linguaggio della cultura attuale,
(esaltante!.. sensazionale! ...eccitante!...ecc.) sono espressioni di questo
atteggiamento. E' importante - si dice - non che una cosa sia vera, ma che sia
"sentita". Spesso si usano i due termini: "vera" e "sentita" come sinonimi; una cosa
è vera quando è sentita. Ha qui la sua radice il fanatismo collettivo, (vedi i concerti
rock), ed è questo il criterio di tanti falsi giudizi di valore che dominano la mentalità
corrente.
221
Beato J. Escrivà, Amici di Dio, n. 183
222
Beato J. Escrivà, E' Gesù che passa, n. 11
120
130 - Sensibilità e giudizio morale.
Abbiamo visto che l'intelletto è come il sigillo di Dio nell'uomo. E' una luce
interiore con cui l'uomo illumina le cose e le può cogliere nel loro essere e nella loro
natura profonda, nella loro identità. Abbiamo anche visto che l'essere delle cose si
identifica con la loro verità e perciò la verità è l'oggetto proprio dell'intelletto
umano. Di conseguenza l'incontro reale della nostra intelligenza con la verità delle
cose rende partecipe della verità stessa il nostro intelletto. C'è dunque una verità
nelle cose e una verità nell'intelletto. Quest'ultima è per noi fondamentale perché
riguarda la validità dell'itinerario conoscitivo della nostra intelligenza. La verità
delle cose non dipende da noi, dipende invece da noi la verità dell'intelletto.
L'adesione dell'intelletto alla verità delle cose è un atto di assoluta importanza; da
esso dipende non solo la validità del nostro pensiero ma anche il senso che assumerà
la nostra vita e tutto il nostro comportamento su questa terra. Non è la stessa cosa
che la nostra esistenza scorra nella verità oppure nell'errore, nella luce o nella
menzogna.
Aderire intellettualmente alla verità delle cose non solo rende vera la
nostra conoscenza ma permette l'itinerario della nostra mente verso Dio. E'
percorrendo la strada degli esseri finiti che essa giunge all'Essere-senza limiti, a
Colui che è, senza principio e senza fine, Eterno, Onnipotente, Assoluto. Non solo,
122
ma diventa anche possibile incontrare Dio in Colui che l'ha rivelato nel tempo e nella
storia, il Signore Gesù. Egli ha potuto affermare: "Io sono la luce del mondo, chi
segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita". 224
Queste parole di Cristo sono la conferma che la verità dell'intelletto dipende
da noi. Aderire alla Verità non è un atto puramente conoscitivo, solamente
intellettuale; esso coinvolge tutta la nostra persona, è perciò un atto morale. Si parla
infatti di "culto della Verità". Il culto implica l'offerta della nostra libertà a ciò che le
è superiore, in definitiva è l'omaggio della nostra persona a Colui che è la Verità, la
Verità somma e assoluta. Dicevamo, infatti, che Dio è la pienezza della verità
perché è la pienezza dell'essere. Perciò conoscere Dio e servirlo è per l'uomo il
massimo dell'onore e della grandezza, ed è anche decisivo per il suo destino e per la
sua felicità.
IL "TRIPLICE" INTELLETTO
A) INTELLETTO SPECULATIVO
Non c'è dubbio che oggi, nella nostra cultura occidentale, la grande malata è
l'intelligenza. In tutte le epoche storiche, anche per le civiltà come per l'individuo
umano, l'oscurarsi dell'intelligenza è sintomo di vecchiaia. Ormai da più parti si
sta invocando e pensando a una nuova civiltà per il terzo millennio: dovrà essere la
"Civiltà della Verità". E' ormai il momento di chiudere la nostra epoca, l'epoca triste
della vecchia Europa: l'Europa delle ideologie, delle verità impazzite, del pensiero
debole; l'Europa delle menzogne. Nel pensiero dell'apostolo S.Giovanni, l'apostolo
della verità e dell'amore, ciò che si contrappone alla verità non è l'errore ma la
menzogna. Perciò, una rinascita della cultura occidentale non può cominciare che
dalla rinascita dell'intelligenza: occorre ricuperarla a sé stessa e alla verità, occorre
liberarla dalla sua condizione penosa e triste di "aquila spennacchiata", prigioniera
tra le sbarre della falsità e della menzogna, e restituirla al suo ruolo primario nella
vita della persona e della società.
La diagnosi clinica di questa illustre malata richiede una anamnesi di secoli
che peraltro vari specialisti hanno già fatto con ampiezza di ricerche e con rigore di
competenza. Noi fermiamo l'attenzione su noi stessi, allo scopo di individuare
eventuali contagi del male e adottare opportune terapie, perché conservare sana la
nostra mente vale più di ogni altro bene materiale o corporale.
Per facilitare la nostra riflessione possiamo distinguere tre aspetti
dell'intelletto umano secondo la triplice attività che esso svolge, attività che
possiamo collegare, sul piano soprannaturale, alle tre virtù teologali. Parleremo,
dunque, di un intelletto ascendente per la sua attività speculativa (intelletto
speculativo): la sua forza è la virtù della fede; di un intelletto discendente per la sua
attività pratica (intelletto pratico): la sua forza è la virtù della speranza; di un
intelletto "immobile" per la sua attività contemplativa (intelletto contemplativo): la
sua forza è l'Amore.
a) Intelletto speculativo. E' l'intelletto che svolge la sua attività in ordine
soprattutto alla conoscenza teorica. Nascono da questa attività: le scienze, la filosofia
224
Gv. 8,12
123
speculativa e la teologia. E' l'attività primaria dell'intelletto, che in questo caso
abbiamo chiamato intelletto ascendente. Dicevamo che l'oggetto di questa
conoscenza speculativa è la verità, e la verità non ha limiti perché anche l'essere più
semplice, il più limitato nella sostanza partecipa all'infinità dell'Essere, a Dio. Perciò
l'intelletto speculativo può penetrare sempre più profondamente nella natura delle
cose e salendo la scala degli esseri arriva a perdersi nel mistero di Dio, nell'infinita
grandezza della Verità.
Ecco perché la caratteristica fondamentale dell'intelletto speculativo è
l'insaziabilità. Un desiderio insaziabile di conoscere, una sete mai spenta di indagare
spinge l'intelletto umano a sempre più luminose conquiste. L'insaziabilità
speculativa, insieme al desiderio di felicità, è una delle inquietudini più nobili
dell'animo umano, una insonnia invincibile dello spirito; è perciò una prova di tipo
esistenziale ma validissima dell'esistenza di Dio e della spiritualità dell'anima.
Questa nostalgia di sapere, questo bisogno di verità, l'uomo se lo porta dentro
da sempre e se lo trascina dietro per tutta la vita. Ecco perché la carenza colpevole di
intelligenza, intesa come rifiuto di usare l'intelletto, è uno dei mali più tristi e
purtroppo più diffusi del nostro tempo. Troppa gente non usa affatto l'intelligenza
perché condizionata quasi totalmente dal consumismo conformista e dall'edonismo
imperante che trovano i loro adepti più sprovveduti e incolpevoli nelle masse
giovanili, mentre contano i loro adepti più tristi in larghi strati di adulti. Il vuoto
interiore e la carenza di senso esistenziale sono prima di tutto un fallimento
dell'intelligenza che, rinunciando alla nobile avventura della verità, ha portato, come
conseguenza, ad una pusillanimità morale di fronte alla vita.
124
folle che non avevano né maestri, né pastori, e "si mise a insegnare loro molte
cose". 225
Questo insegnamento Gesù lo ha consegnato come un prezioso deposito alla
sua Chiesa per mezzo degli Apostoli; ad essi diede il preciso comando: "Andate e
ammaestrate tutte le nazioni... insegnando loro...". 226 La Chiesa ha dunque in
custodia il "deposito della Fede" con la missione di annunciarlo e di insegnarlo.
Annunciarlo significa proclamarlo con la forza dello Spirito, insegnarlo significa
proporlo come dottrina. Insegnare, infatti, vuol dire esporre una dottrina in modo
ordinato, sistematico e completo. La Chiesa fa questo incessantemente con il suo
Magistero, il quale può anche avvalersi della scienza teologica e della riflessione di
autori ecclesiastici e dei Santi. Lo fa normalmente attraverso la catechesi,
elaborando anche importanti strumenti dottrinali come i catechismi.
L'ignoranza delle verità della fede è dunque inescusabile; lo è soprattutto nelle
persone di cultura, tra le quali è spesso maggiormente diffusa l'ignoranza religiosa,
frequentemente accompagnata dalla presunzione, dalla deformazione dottrinale e
dall'orgoglio intellettuale.
Nella massa della gente, invece, il non uso dell'intelligenza si esprime più
frequentemente nella superficialità intellettuale. Molti cristiani sono rimasti con la
conoscenza elementare, incompleta, quasi favolistica, ricevuta da bambini e mai
approfondita e assimilata. L'unico aggiornamento l'hanno fatto sui giornali, o
peggio, sui rotocalchi, o attraverso dibattiti televisivi. Una formazione superficiale
intorno alla dottrina della fede porta a vivere una vita cristiana mediocre, facile al
compromesso, condizionata da rispetti umani, e soprattutto povera di amore. Infatti
si ama poco ciò che si conosce poco. E quando si ama poco, si stima poco ciò che si
possiede, e perciò viene a mancare il desiderio efficace di trasmettere ad altri ciò che
crediamo. Il cristiano mediocre, dalla fede superficiale, non sarà mai un apostolo,
anzi, non saprà «rendere ragione della speranza che è in lui" e difendere la dottrina
di Cristo dagli attacchi che vengono oggi da tanti ambienti e con tutti i mezzi.
Un ostacolo all'esercizio dell'intelligenza nell'approfondimento della dottrina
viene dalla pigrizia mentale e dall'inerzia intellettuale. La conoscenza esige studio, e
lo studio è un lavoro, un lavoro intellettuale che impegna tutta la persona quando
essa ama, cerca e affronta la gioiosa e gustosa fatica della verità.
Dovrebbe perciò diventare quell'atteggiamento interiore abituale che San
Tommaso chiama: studiositas . Un’intelligenza pigra che rifugge dallo sforzo e
ripiega nella superficialità del conoscere è portata invece a sostituire la studiositas
con la curiositas. E' una curiosità negativa che farfalleggia sulle cose, scivola sui
problemi, "pizzica" appena i contenuti anche fondamentali della dottrina, vaga
disordinatamente tra i libri e le varie discipline senza prenderne sul serio nessuna.
Un’intelligenza siffatta sarà un'intelligenza debole, timida, incerta, che rifugge dallo
"scontro frontale", dalla santa intransigenza della verità per timore di essere
giudicata intollerante, massimalista, oppure retrogada.
L’intelligenza si fortifica se viene esercitata al pensiero, alla riflessione,
all'applicazione tenace, perseverante, condotta con ordine e con metodo.
225
Mc. 6,34
226
Mt. 28,19
125
E' dunque di fondamentale importanza che l'intelligenza impegnata nello
studio venga nutrita con la "sana dottrina". Tra le più forti raccomandazioni che San
Paolo rivolge ripetutamente al discepolo Timoteo (e le ripete, poi, al discepolo Tito)
c'è quella di rimanere saldo in ciò che ha imparato, e aggiunge: "Ti scongiuro davanti
a Dio e a Gesù Cristo... : annuncia la parola... esorta con ogni magnanimità e
dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma per
prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie
voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per rivolgersi alle favole". 227
Una dottrina è sana innanzitutto quando è secondo la retta ragione e la retta
coscienza, quella rettitudine del cuore che, in definitiva, è consonanza con i
Comandamenti di Dio, da Lui inscritti nella stessa natura dell'uomo. E tuttavia questa
rettitudine è spesso assente nelle dottrine degli uomini, come ad esempio, nel
laicismo agnostico così imperante nella cultura attuale. Esso esclude ogni riferimento
a Dio e ai valori trascendenti dell'uomo nelle leggi che vengono emanate, nella
giustizia che viene amministrata, nelle concezioni della vita che vengono proposte
attraverso i mass-media dalla letteratura, dalla politica, dalle scienze umane.
In secondo luogo è sana dottrina l'insegnamento di Cristo come ci viene
trasmesso e proposto dal Magistero della Chiesa. E' un insegnamento che risana,
rettifica ed eleva anche il sapere umano che non ha nulla da temere dalla luce della
fede e dalla scienza di Dio. Il magistero della Chiesa non frena gli slanci né inibisce
la libertà dell'intelligenza; la sorregge invece e l'aiuta perché non finisca nelle secche
stagnanti di un tradizionalismo mortificante e non urti contro gli scogli delle eresie e
dei progressismi negativi. E' un servizio all'intelligenza non solo dei fedeli, ma
anche dei teologi e di tutti gli uomini che cercano sinceramente la verità.
Un’intelligenza così formata acquista una dote estremamente importante: il
discernimento. Si tratta di una capacità critica di fronte a ciò che si ascolta e a ciò
che si legge, così da saper discernere la sana dottrina dalle "favole" del mondo. Si
tratta anche di una capacità di scelta che, con l'aiuto di persone prudenti ed esperte,
sappia scegliere testi, libri e vari strumenti di cultura che contengano la sana dottrina
e non tradiscano la verità. Oggi si stampa una quantità enorme di libri, ma una gran
parte di essi sono inutili e spesso sono stupidità riciclata; altri, tra i quali molti che
vengono reclamizzati dalla critica ufficiale, sono autentica porcheria che infanga
l'intelligenza, la umilia e la corrompe; altri sono fatiche che non valgono quello che
costano; altri sono veri amici che dilettano l'intelligenza, fanno bene al cuore e sono
di consolazione all'anima; infine, ma sono pochi, ci sono i grandi maestri che aprono
le grandi strade del pensiero e sono fari luminosi per l'intelligenza e per la coscienza
degli uomini.
La necessità di acquisire la sana dottrina va unita, in noi cristiani, al
dovere grave che abbiamo di diffondere la sana dottrina. "Voi siete la luce del
mondo - ammonisce Gesù - voi siete il sale della terra". Ed è una grave
responsabilità non dare luce ai nostri amici, colleghi, alle persone che incontriamo
nella vita, perché ci manca l'olio della sana dottrina. Sarebbe, perciò, triste e
dolorosa infedeltà la nostra se lasciassimo che il sale della buona dottrina si
corrompesse per le nostre complicità con le dottrine del mondo.
Un terzo pericolo per l'intelligenza è quello di "intasarla" con l'eccesso di
erudizione. Non si può confondere la dottrina con l'erudizione. Nell'epoca dei
dizionari, delle enciclopedie, delle innumerevoli pubblicazioni a fascicoli settiminali,
e soprattutto nell'epoca del "usa e getta" giornalistico e televisivo, la quantità di
nozioni, di notizie, di immagini che viene versata ogni giorno nella nostra mente è
tale che non ci resta più spazio per "pensare", né spazio né tempo perché l'ansia di
smaltire quello che abbiamo visto e udito ci ruba in evasioni da relax il poco tempo
che sopravanza al vivere quotidiano. Anche l'intelligenza ha bisogno di una dieta
appropriata che le assicuri il vero nutrimento e la vera sostanza. Spesso ci
227
2 Timoteo, 4,3-4
126
comportiamo con la nostra intelligenza come ragazzini che si impinguano di
pasticcini e perdono il fragrante sapore del pane.
L'intelletto ha bisogno di "pensare", di poter andare in profondità nelle
cose, di penetrare la ricchezza della verità che non è mai esaurita fino in fondo;
ha bisogno soprattutto di contemplazione, di "perdere tempo" a guardare ciò che non
passa, ciò che non invecchia, ciò che vale oggi, domani e sempre; ciò che è eterno.
"Non multa, sed multum", dicevano gli antichi: "Non la quantità, ma la qualità",
diremo noi oggi. L'erudizione non è dottrina. L'intelletto intasato si paralizza, e
quando l'intelletto non pensa, impazzisce.
Infine, un altro modo di non usare l'intelligenza è quello di applicarla alle cose
frivole, a ciò che è effimero, futile e vano. Se questo è un atteggiamento fisiologico
nell'età dell'adolescenza, diventa una vera malattia nei giovani e negli adulti; una
malattia che porta il nome di stupidità, che ha in certi salotti-bene il suo reparto
dozzinanti, e ha nelle discoteche i suoi templi più affollati.
130
A questo punto, la terapia per guarire l'intelligenza dell'uomo moderno e
recuperarla a sé stessa consiste nell'umiltà; l'umiltà intellettuale non solo guarisce
l'intelligenza restituendole il suo ruolo naturale di facoltà conoscitiva e non creativa
della realtà, ma anche rende possibile la vera scienza. Una intelligenza umile
rispetta la realtà; il che significa innanzitutto accettare che la realtà esista, abbia
una sua consistenza e una sua identità, che non dipendono dal mio pensiero, non sono
il frutto della mia attività intellettuale; e in secondo luogo significa accettare che la
realtà contenga un mistero, un messaggio che disvela le profondità dell'essere; perciò
non va manipolata, strumentalizzata, deviata.
Del resto, quando uno scienziato si mette davanti al mistero della natura con
umiltà, cioè con intelligenza sana e con animo retto, è immediatamente convinto di
trovarsi di fronte a una realtà che lo trascende, a fenomeni e a leggi che non
dipendono da lui e nello stesso tempo non sono in grado di dare ragione di sé stessi.
Diventa perciò quasi connaturale in lui un atteggiamento di rispetto che gli consente
una conoscenza della realtà più profonda e veritiera, e alla fine non può non
interrogarsi sull'origine e sul destino delle cose, e perciò su Dio. Se la scienza è vera
scienza non impedisce la fede ma la facilita perché l'una e l'altra vengono da Dio e
conducono a Dio. Alla luce di queste constatazioni, l'ideologia scientista appare un
falso in atto pubblico: "hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con
l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile", e diventa un atto di violenza:
"soffocano la verità nell'ingiustizia" - perciò la superbia acceca l'intelligenza:
"hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa". 228
Questo discorso sull'umiltà intellettuale è indispensabile come terapia per
guarire l'intelligenza anche dall'altro postulato scientista: la scienza come principio
etico. Infatti per liberare la Scienza dal soggettivismo anarchico della Ragione, e
recuperare l'intelligenza al rispetto del bene morale e delle sue esigenze è ancora
necessaria l'umiltà come verità, la verità del nostro essere creature. Su questo tema
della verità come fondamento del criterio morale e quindi come riferimento per la
nostra coscienza, Giovanni Paolo II ci ha fatto dono di una fondamentale Enciclica,
la "Veritatis splendor". Fuori della Verità non c'è né libertà, né vera conoscenza
del bene e del male. Ora la Verità è incommensurabilmente più ampia del sapere
scientifico, e il bene morale è incomparabilmente più importante del progresso
scientifico. L'umiltà intellettuale porta lo scienziato, divenuto consapevole di essere
creatura, a servire la Verità e a promuovere il bene morale dell'uomo.
Del resto, pensiamo alle caratteristiche fondamentali con cui tutta la realtà si
presenta alla conoscenza scientifica: la misurabilità (la sua finitezza) e la relatività.
Nulla in natura è illimitato e assoluto; una legge fondamentale della natura è proprio
la Relatività generale. Anche l'intelligenza dell'uomo soggiace alle stesse
caratteristiche di limitatezza e di relatività; sono queste le coordinate che troviamo in
ogni essere creato in quanto tale. La verità è vincolante per la nostra intelligenza e
il bene è vincolante per la nostra libertà, per la nostra coscienza. Scoprire e
accettare la propria creaturalità è perciò un atto di saggezza, è collocarci nella realtà,
al nostro posto.
Del resto accettare la nostra realtà di creature non è umiliante, anzi è liberante,
soprattutto libera dall'angoscia esistenziale; infatti, se non siamo creature, chi siamo?
Riscoprirci creature è riscoprire le nostre radici, le nostre origini e il nostro destino;
origini non semplicemente temporali e destino che non è un destino qualunque.
Inoltre è riscoprire il senso profondo di quel viaggio infinitamente esaltante che
abbiamo già ricordato più volte e che costituisce il tema fondamentale di tutto il
nostro discorso sul tempo: l'itinerarium mentis in Deum, il viaggio che, iniziato in
Dio, a Dio ritorna attraverso le strade del tempo: le strade della fede, della speranza,
dell'amore, le strade della santità. Se il sapere scientifico accettasse il riferimento ai
valori morali non solo risanerebbe l'intelligenza ma si risparmierebbe le amare
228
Rom. 1,18-23
131
conseguenze di una Ragione tirannica che non vuole rendere conto a nessun altro che
a sé stessa.
Mai la nostra intelligenza ha avuto tanto bisogno di libertà, perché mai è
stata tanto povera di Verità. Le conquiste delle scienze umane - la politica,
l'economia, la sociologia, la medicina... ecc. - quando sono vere, sono sempre verità
parziali, che rispondono ai bisogni contingenti, quelli legati al tempo, ai problemi del
nostro vivere terreno, del nostro essere-nel-tempo.
Ma la nostra intelligenza ha bisogno della verità trascendente, della Verità
Totale, della risposta risolutiva e definitiva al bisogno insaziabile di significato che
la tormenta. Ha bisogno, insomma, di non vagare continuamente tra "verità" che
sono a loro volta interrogativi, rimandi, isole inospitali di un arcipelago fatto di
attracchi provvisori, per qualche soggiorno temporaneo; ha bisogno di ciò che è
definitivo, esaustivo, totale. Ha bisogno di Eternità.
229
Giovanni Paolo II, Discorso nell'Università di Vilnius, 29.11.92
133
speculativo, di quest'aquila chiamata alle altezze della verità, sono le ali della Fede.
Di essa abbiamo già parlato, qui vogliamo ricordare ancora una volta, il profondo
legame tra scienza e fede, tra l'intelletto speculativo e la teologia; credo ut
intelligam... rationabile obsequium vestrum: cioè, la fede aiuta e potenzia l'intelletto,
e l'intelletto si fa umile servitore della fede attraverso la riflessione teologica. Non a
caso l'evangelista Giovanni, che più potentemente e solennemente ha proclamato la
Verità e l'Amore, ha come simbolo l'aquila. La Verità e l'Amore sono le ali della
libertà che possono spingere l'aquila del nostro intelletto verso il Sole di Dio, alle
altezze inebrianti della contemplazione.
B) INTELLETTO PRATICO
230
Lc. 18,41
231
1 Cor. 3,9
135
146 - Intelletto pratico e “attivismo”.
L'intelletto pratico non deve essere proteso a realizzare solo le grandi linee del
progetto divino. Una costruzione non è fatta soltanto delle strutture portanti, dei
muri; ha tutto un arredo, una serie di cose, anche piccole e semplici, che rendono la
costruzione abitabile e fruibile, anzi ospitale e gradevole. Il nostro impegno
ascetico, dunque, sarà spesso su cose piccole e umili, ma servirà a corredare
l'edificio della nostra anima di tante piccole virtù che rendono gradevole a Dio la sua
dimora in noi. I grandi santi lo sono stati soprattutto nell'eroismo delle piccole virtù
della vita quotidiana. La concretezza dei propositi è una caratteristica proprio
dell'intelletto pratico.
C'è infine una forma di intelletto pratico che possiamo chiamare patologica e
nasce da una ossessiva ambizione personale di cercare la propria realizzazione in un
lavoro senza soste, in un'attività senza respiro, in imprese sempre più impegnative e
assorbenti. E' la malattia dell'attivismo; una specie di morbo di Parkinson che prende
l'intelligenza e la pervade di una febbre attivistica senza spazio e senza alternative,
ingoiata dal vortice dell'azione, sempre più incapace di uscirne e di fermarsi.
Ecco allora l'homo faber, l'uomo-produzione, l'uomo-manager, l'uomo-
macchina, l'uomo tutta tensione, tutto crampi e volontà di realizzazione, che spesso
diventa volontà di potenza, volontà di autoaffermazione, aggressività e sfoggio di sé.
Il lavoro ossessivo e insonne è per l'intelletto pratico ciò che l'orgoglio scientifico è
per l'intelletto speculativo: una droga, un’alienazione dell'intelligenza stessa che
finisce col non "pensare" più. Si ha così un attivismo senz'anima, un lavoro senza
pensiero; è un lavorare che non è più "collaborazione con Dio", senza più spazio
per la preghiera, per la famiglia, per l'amicizia, per la propria crescita interiore.
Così l'azione e la realizzazione delle proprie imprese diventano il monumento
funebre alla vita interiore, alla vita dello spirito e alla vera gioia dell'anima.
A questo parossismo attivistico professionale corrisponde, su un piano più
domestico l'agitazione femminile. L'intelletto pratico così preponderante nella donna
può degenerare in una nevrosi per arrivare a tutto. La donna sempre inseguita dalle
cose, assillata dai propri "doveri", costantemente perseguitata da complessi di colpa
per le proprie presunte inadempienze, inquieta per le molte cose da fare in mezzo alle
quali si dibatte come un naufrago in cerca di salvezza..., è una delle forme spesso
inconsapevoli di attivismo narcisistico che può diventare alibi alla vera attività,
quella che ha le dimensioni della vita interiore, della libertà e dell'amore. Il
rimprovero del Signore rivolto a Marta che si agitava perché tutta presa nei "molti
servizi" è un richiamo per quanti hanno fatto della prassi il loro unico sistema di vita,
il luogo di espressione della loro intelligenza, dimenticando quell'unicum
necessarium "che non ci sarà mai tolto", perché fa parte non del tempo ma
dell'eternità; l'unum necessarium l'aveva scelto Maria, la quale pendeva dalle labbra
del Signore.
Ma l'espressione più importante dell'intelletto pratico è la coscienza
morale. Essa si esprime nel giudizio pratico della ragione sul bene e sul male, o
meglio il giudizio sul nostro comportamento e sul nostro agire in riferimento al bene
e al male. Se il ruolo dell'intelletto speculativo è conoscere la verità, compito
dell'intelletto pratico è "fare" la verità. Fare non nel senso che sia l'intelletto a
creare la verità, ma nel senso che è lui, l’intelletto, a indicarci come tradurla nella
vita pratica, come conformare cioè il proprio agire alla verità che emana dall'ordine
creato e soprattutto alla verità che ci è stata data in dono nella Rivelazione di Dio.
La coscienza è il ruolo fondamentale dell'intelletto pratico, la sua funzione più
importante; da essa dipende tutto il valore morale della persona, come vedremo
parlando della maturità dell'uomo adulto.
136
C) INTELLETTO CONTEMPLATIVO
138
149 - Le vie alla contemplazione.
139
IL TEMPO NEL TEMPO:
PASSATO, PRESENTE, FUTURO.
Dicevamo che è lo spirito umano la vera misura del tempo; in certo qual modo
il tempo è cominciato con l'uomo. Ciò significa che esiste un tempo nel tempo: il
tempo dell'uomo nel tempo delle cose, o meglio il tempo delle cose nel tempo
dell'uomo. Se chiudo gli occhi e guardo nel mio intimo vedo scorrere il tempo dentro
di me; io stesso posso rapidamente andare e venire dal passato al futuro; anzi, senza
lasciare il passato e senza aspettare il futuro, avverto che tutto è "presente" dentro di
me. Mi vedo "contemporaneo" a tutto ciò che è stato e a tutto ciò che sarà. I cicli
cosmici, le ère geologiche, i millenni della storia umana e tutto il divenire
dell'umanità sono dentro il mio pensiero che tutto abbraccia. Tutto ha una durata,
ma è lo spirito che la misura. Il moto è nelle cose, il tempo è nell'uomo.
Ma anche nell'uomo il tempo non è senza moto. Il nostro io è una realtà
distesa nel tempo, e la durata del tempo viene percepita nel nostro vissuto. Tuttavia
la durata del tempo e la durata del vissuto non hanno la stessa misura, non sempre
coincidono. Il tempo del nostro vissuto non è dato dal numero degli anni ma dal
numero delle nostre "decisioni".
Esistono decisioni di fondo, quelle determinanti, che decidono il senso del
nostro cammino, l'orientamento del nostro essere interiore. Ed esistono decisioni
"operative", quelle che danno consistenza al nostro vissuto quotidiano, e si attuano
nel concreto della nostra vita. Santa Teresa le chiamava "determinacioncillas",
piccole decisioni che tendono ad attuare con pienezza e senza ritardi la nostra vita
secondo il disegno di Dio.
Perciò, possono esserci vite lunghe, che durano molti anni, ma che realizzano
un vissuto corto; vite mai arrivate a compimento, rimaste nel tempo come un
progetto incompiuto. Possono esserci invece vite brevi, di pochi anni, ma dal vissuto
intenso, ricco, profondo che ha dato ampiezza di durata e di contenuto al breve corso
degli anni. Hanno realizzato il detto dell'antica Sapienza: "Consummatus in brevi,
explevit tempora multa": è vissuto per pochi anni, ma ha riempito molto tempo. 232
Inoltre il tempo del nostro vissuto interiore e il tempo delle cose non hanno lo
stesso ritmo. Il moto nelle cose è sempre uguale; possiamo calcolarlo e misurarlo con
232
Sap. 4,13
140
unità di misura precise e sempre uguali. Il nostro tempo interiore segue il ritmo della
libertà e della grazia. Il suo moto è imprevedibile e non sai le sue scadenze: "il vento
soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di
chiunque è nato dallo Spirito". 233 Perciò S.Agostino diceva di temere il Signore che
passa, perché non sai quando passa, e lasciarlo passare senza seguirlo è rischiare, a
volte il proprio destino, a volte la santità, sempre è rischiare di "perdere il tempo",
perdere un'occasione per amare. Libertà e grazia: misurano la vera densità del nostro
vissuto.
Il nostro tempo interiore corre su due semirette: il passato e il futuro, che si
uniscono in un punto comune: l'istante presente. Sono, - il passato, il presente, il
futuro, - le tre dimensioni del nostro io e del nostro tempo interiore.
233
Gv. 3,8
141
libertà di fronte ai propri ricordi.
La memoria è una facoltà "passiva", incapace di presiedere alla propria
attività; è infatti mossa e governata dalla volontà. La volontà agisce nel presente ed
è per lei che il passato della nostra memoria diventa attuale. Ora può accadere che
questa presenza del passato pesi negativamente sul nostro presente. E' necessario
perciò che la memoria non diventi un peso morto e mortificante, ma rimanga
saldamente ancorata all'intelligenza e governata dalla volontà perché sia stimolo alla
nostra vitalità interiore. Le radici devono alimentare l'albero, non mortificarlo.
142
nostalgie. La memoria è vita, conserva cose che appartengono alla nostra vita, e
richiamarle secondo un ordine, secondo un criterio di storia è "leggere la nostra
vita", è scoprirne il senso, la traiettoria; è rivisitare i luoghi della nostra libertà dove
è passato il Signore con la sua grazia e con la sua misericordia. In questo senso la
memoria è un luogo privilegiato per l'intelletto contemplativo. S. Luca ci narra
ripetutamente che la Madonna "conservava tutte queste cose meditandole nel suo
cuore". 234
Quando la nostra memoria conserva il ricordo di quello che il Signore ha fatto
per noi, essa diventa uno scrigno prezioso dal quale è possibile far uscire lentamente
il lungo filo dei ricordi; su quel filo dorato, come su una strada che attraversa le
stagioni e i paesaggi della nostra vita, possiamo contemplare con intelletto
d'amore le orme lasciate da Dio nella nostra anima, le ore di grazia lasciate cadere
sulla nostra vicenda di creature, l'ombra silenziosa di un Padre che stava accanto ai
nostri passi quando ci sembravano pesanti, smarriti e senza speranza.
Tutto questo non può che riempirci di commozione e di intima gioia, e
soprattutto di gratitudine. A volte ci viene da pensare che la nostra vita passata
assomigli, come si dice, ad un romanzo, e agli occhi della psicologia e della
valutazione umana delle cose può essere così; ma, per noi cristiani, la nostra vita
passata è una "storia sacra", un intreccio originale e unico, tessuto dalle dita di Dio
che tante volte ha giocato con la nostra libertà. Quanto più la fede illumina la nostra
memoria, tanto più i ricordi raccontano la storia profonda della nostra esistenza, la
storia scritta da Dio, che ci verrà pienamente rivelata nel cielo.
234
Lc. 2,19
143
anima; non è possibile vivere in pace con sé stessi e con la propria vita.
Ma se ci sono cose che non dobbiamo ricordare, ci sono anche cose che non
dobbiamo dimenticare. Dobbiamo selezionare e filtrare i nostri ricordi, ma anche
abbiamo il dovere di fissare nella memoria ciò che non dovrebbe mai mancare nei
nostri pensieri. C'è un rimprovero che i Profeti nell'Antico Testamento rivolgevano
frequentemente al Popolo eletto: la dimenticanza di Dio. Geremia la stigmatizza con
un paragone carico di ironia e insieme pieno di dolore: una donna non riesce a
dimenticarsi dei suoi ninnoli, degli ornamenti futili della sua vanità, Israele invece
arriva a dimenticarsi per anni del suo Dio. "Si dimentica forse una vergine dei suoi
ornamenti, una sposa della sua cintura? Eppure il mio popolo mi ha dimenticato per
giorni innumerevoli". 235
La dimenticanza di Dio è alla base di una visione materialistica della vita
e di una condotta totalmente secolarizzata. Ha perciò il sapore di una apostasia, di
un tradimento; è abbandonare Dio per seguire altri idoli che ci siamo fabbricati noi.
L'uomo infatti non può stare senza Dio, e quando si dimentica del suo creatore
rincorre divinità fittizie che sono un sosia grottesco del suo "io". E dimenticarsi di
Dio vuol dire dimenticare i suoi comandamenti, i suoi doni, le sue misericordie, le
meraviglie compiute per noi dal suo amore.
Quando la nostra memoria è priva di questi riferimenti, il nostro modo di stare
nel presente è disorientato e insicuro. Diventiamo un albero sradicato in preda alle
acque torrenziali degli avvenimenti, una barca alla deriva in balìa di venti che
soffiano da ogni parte. Perciò il Signore con insistenza raccomanda al popolo di
Israele di non dimenticare: "Guardati dal dimenticare il Signore che ti ha fatto uscire
dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù. 236 ...guardati e guardati bene dal
dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto: non ti sfuggano dal cuore, per tutto
il tempo della tua vita. Le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli". 237
La memoria personale dovrà così diventare una memoria collettiva, "la
memoria storica" di tutto un popolo. E perché non cadessero in dimenticanza i suoi
precetti, la sua Alleanza e i prodigi da Lui compiuti per liberare Israele, Dio, per
bocca di Mosè, dirà a tutto il popolo: "Questi precetti che oggi ti do, ti siano fissi nel
cuore (la memoria) ... te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un
pendaglio tra gli occhi, e li scriverai sugli stipiti delle tue case e delle tue porte". 238
Farà, poi, costruire un'arca per conservarvi il "memoriale" dell'Alleanza, cioè le
Tavole della Legge, la Manna, la Verga di Aronne; infine darà ordine di ripetere ogni
anno la Cena pasquale, e "così per tutto il tempo della tua vita tu ti ricorderai il
giorno in cui sei uscito dal paese d'Egitto". E quando Israele si allontanerà da Dio
dimenticando i suoi precetti e la sua Alleanza, Dio stesso gli manderà i suoi profeti e
permetterà dure esperienze per richiamarlo alla fedeltà, e indurlo a non dimenticare.
Anche nei Salmi troviamo continui richiami a non dimenticare. Il più noto è il
Salmo 136, il canto dell'esilio: "Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al
ricordo di Sion (...) come cantare i canti del Signore in terra straniera? Se ti
dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato
se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia
gioia". 239
235
Ger. 2,32
236
Deut. 6,12
237
Deut. 4,9
238
Deut. 6,6-8
239
Salmo n. 136,1-4
144
156 - Il “Memoriale” di Cristo.
240
1 Cor. 11,24-25
241
1 Cor. 11,26
145
IL PRESENTE: TEMPO DELLA VOLONTA’
Tuttavia la nostra volontà non ha più la forza per assolvere il suo compito.
Ogni giorno facciamo l'esperienza della sua debolezza: incertezza nelle decisioni,
fragilità nei propositi, incostanza nello sforzo, indecisione nell'agire per cui
vogliamo e non vogliamo nello stesso tempo. Abbiamo detto che la grande malata dei
nostri giorni è l'intelligenza, ma le conseguenze sulla volontà sono mortali. In molti
la volontà è come morta, paralizzata; alcuni si lasciano portare dagli avvenimenti
incapaci di decisioni e di scelte; altri hanno una volontà sclerotica, indurita da
vecchie abitudini, pesantemente condizionata dall'ambiente, dalla moda o dalla
mentalità dominante; altri ancora hanno lasciato che le passioni sostituiscano la
volontà, per cui agiscono sotto la spinta dell'avidità, del rancore, della vanità, della
sensualità, dell'odio.
Alla luce di questa situazione umana, molti hanno concluso che l'uomo non è
affatto libero e che la nostra volontà è irrimediabilmente corrotta, incapace di operare
il bene, perché anche nel bene l'uomo cerca il proprio interesse o la propria
gratificazione. In realtà questa condizione, che a volte appare tragica, significa due
cose: che il peccato è stato una vera catastrofe per il genere umano, e che riprendere
il controllo sul nostro io e il dominio sulle passioni da parte della volontà risulta di
fatto impossibile senza la Grazia. Questa convinzione, fondata del resto
sull'esperienza, dovrebbe liberarci da ogni tentazione di volontarismo, di contare cioè
esclusivamente sui nostri sforzi, di credere ad un titanico "volli, sempre volli,
fortissimamente volli".
Gesù ci ha meritato la grazia santificante che divinizza la nostra anima, ma ci
ha ottenuto anche la "grazia sanante", la grazia che risana le nostre facoltà
soprattutto la volontà, fortificandola perché riprenda il dominio sulle passioni, e
accompagnandola (grazia cooperante) nel suo impegno di esercitare le virtù teologali
e di acquisire le virtù cardinali. Del resto, Gesù ce l'ha detto apertamente: "Senza di
me, non potete far nulla". Non qualche cosa, non un po' di bene: nulla. E questo non
243
Lc. 22,42
244
Col. 1,24
147
deve risultare umiliante per noi, quasi una dichiarazione di resa totale, di sconfitta; è
l'umiltà della creatura che sa di essere stata salvata da Dio con una salvezza che
viene tutta e solamente da lui.
Abbiamo già detto che Dio ci comunica la sua grazia attraverso i sacramenti,
che tuttavia suppongono sempre e comunque la nostra preghiera, una preghiera
umile, perseverante, fiduciosa. Questo è tanto vero che un santo ha potuto dire:chi
non prega non si salva.
La seconda cosa che emerge dalla nostra condizione umana debilitata è che la
volontà ha bisogno di essere "educata". E' indispensabile una terapia della volontà,
rimasta indebolita dal peccato, così come è necessaria una terapia dell'intelligenza.
Come ogni altra facoltà anche la volontà va allenata, va esercitata negli atti buoni,
così da essere efficacemente fortificata nel bene. Questa verità deve premunirci
contro ogni naturalismo ottimistico, che considera l'uomo naturalmente e
integralmente buono; ignora cioè il disordine delle passioni, l'oscuramento della
coscienza, l'inclinazione all'egoismo. Un naturalismo siffatto ha conseguenze
deleterie nel campo della pedagogia. Impedire al bambino, al ragazzo, agli alunni di
fare quello che vogliono è, secondo la pedagogia naturalistica, non solo un abuso di
potere ma anche una mortificazione della loro personalità, una violenza alla loro
natura. E' così che l'uomo diventa cattivo: lo fa tale la società.
Ora tra il pessimismo negativo o rassegnato che ignora il dono della Grazia, e
l'ottimismo trionfante, naturalistico, che ignora il disordine del peccato e delle
passioni, ecco l'uomo storico, reale, vero, l'uomo secondo la Rivelazione:
creatura di Dio, forgiato a sua immagine e somiglianza, ferito e corrotto dal
peccato ma anche redento da Cristo e chiamato, nella Chiesa, alla comunione
con Dio e alla Vita Eterna.
L'uomo, dunque, pur avendo perduto la sua integrità originale e i doni che
avevano perfezionato la sua natura, non ha perduto la sua capacità di intendere e di
volere responsabilmente. Questa capacità, pur indebolita e condizionata, a volte
pesantemente, dalle pulsioni interne (le passioni) o da pressioni esterne (l'ambiente
mondano), non viene soppressa o annullata, salvo nei casi patologici; essa, invece,
con l'esercizio paziente e perseverante delle virtù può ricomporre l'ordine interiore
dell'uomo nella sua identità e dignità di figlio di Dio fino all'eroismo della santità.
Sant'Agostino ricorda tutto questo con un'espressione estremamente vigorosa: "Colui
che ha creato te senza di te, non salverà te senza di te". C'è, qui, tutto il mistero della
Grazia e tutto il mistero della nostra responsabilità personale.
148
Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né
avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai
separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore". 245
Una volontà forte è una volontà lungamente esercitata e intensamente
innamorata. Ogni "si" detto a Dio per amore fortifica la volontà, la rende sempre più
ferma nell'adesione alla volontà divina e sempre più efficace nel dominio sulle altre
facoltà; esse verranno orientate sempre più fortemente verso il nostro fine ultimo e
sottomesse alla legge dell'amore.
Perciò una volontà forte e innamorata si vede nel comportamento quotidiano,
in ogni istante e in ogni circostanza; essa vince il timore e la paura, non si preoccupa
del giudizio altrui né teme il ridicolo, non subisce i condizionamenti dell'ambiente o
della mentalità dominante, non fugge davanti al sacrificio o alla fatica per lo sforzo,
è perseverante nel lavoro incominciato e lo porta a termine fino al dettaglio, è
paziente nelle avversità e sopporta con garbo le contrarietà della vita, domina il
desiderio di vendetta e sa spingere il nostro animo al perdono, non si lascia trascinare
dallo zelo amaro che aggredisce le persone ma anche sa soffrire per difendere la
verità, aborrisce la vigliaccheria e il rispetto umano e respinge l'anonimato che è un
rifiuto alla propria responsabilità, è infine perseverante nella testimonianza fino al
sacrificio di sé; il martirio è la sua espressione suprema.
L'elenco potrebbe allungarsi ma non arriverebbe ad esaurire tutte le possibili
applicazioni di questa virtù perché la fortezza abbraccia tutto il campo dell'agire
umano. Importante, invece, è convincersi che il campo privilegiato in cui
possiamo fortificare la volontà è quello delle piccole cose, nelle circostanze
ordinarie della vita quotidiana. Scrive il Beato Josemaria Escrivà: "Volontà. E' una
caratteristica molto importante. Non disprezzare le piccole cose, perché nel continuo
esercizio di negare e di negarti in esse - che non sono mai futili, né di poco conto -
fortificherai, darai virilità, con la grazia di Dio, alla tua volontà, per essere molto
padrone di te stesso, innanzitutto. E poi, guida, capo, leader!..., per impegnare,
spingere, trascinare, col tuo esempio e con la tua parola e con la tua scienza e con la
tua autorità". 246
La fortezza della volontà si vede nel momento in cui essa agisce, cioè nel
presente, in quello che stiamo facendo adesso e non in quello che faremo domani.
Questo ci aiuta a capire l'importanza del tempo presente e la necessità di agire con
volontarietà attuale. "Vuoi essere santo? Compi il piccolo dovere di ogni momento:
fa quello che devi e sta in quello che fai". 250
Il tempo presente è l'unico tempo che abbiamo a disposizione: il passato è
passato e appartiene alla misericordia di Dio; il futuro, se verrà, è ancora nelle mani
di Dio. Nelle nostre mani abbiamo solo il presente, e compiere il dovere di ogni
momento, - fare quello che devo - è l'unico modo di vivere veramente il tempo. San
Paolo esortava i cristiani di Efeso a comportarsi da "uomini saggi, profittando del
tempo presente". 251 Stare al presente è stare nella realtà, ed è segno di saggezza saper
riconoscere e utilizzare pienamente tutte le possibilità umane e divine che la realtà
nasconde. C'è infatti "qualcosa di divino nascosto in ogni circostanza che tocca a noi
scoprire". 252
Il segreto sta nell'aver presenza di Dio e nel cercare il senso soprannaturale di
ogni cosa. La presenza di Dio ci aiuta a portare davanti al Signore le cose che
abbiamo tra le mani, cioè ad offrire a Lui il lavoro che stiamo facendo, mettendo
247
Gv. 15,5
248
S. Agostino, De civitate Dei
249
S. Agostino. Commento alla Lettera di S.Giovanni. Tratt.2,10
250
Cammino n. 815
251
Ef. 5,16
252
Beato J. Escrivà, Amare il mondo appassionatamente.
150
quella rettitudine e diligenza che rendono gradita a Dio la nostra offerta. Così la
saggezza diventa un realismo sereno e operoso che sa vivere l'"hodie, nunc" - oggi,
adesso - con pienezza di impegno e di fedeltà. "Dopo... domani..." sono gli avverbi
dei pigri, alibi meschini di chi inganna sé stesso per non compiere il dovere del
momento.
Eppure c'è sempre in tutti noi la tentazione di scappare dal tempo presente. Il
più delle volte si tratta di fughe in avanti: facciamo le cose ma con l'assillo di ciò che
ci attende dopo e già pensiamo a quello che faremo, come lo faremo, con chi lo
faremo; ci carichiamo di timori per quello che accadrà (che spesso non accadrà), e ci
lasciamo prendere dall'ansia e dalla preoccupazione per l'incertezza di come
andranno le cose e per il peso, spesso immaginario, che esse comportano. E' una fuga
in avanti che crea malessere e mette a nudo la nostra poca fede, la carenza di fiducia
e di filiazione divina che impoverisce la nostra vita cristiana. Siamo tutti esposti a
questa tentazione, tanto che Gesù stesso, dopo aver ribadito con termini commoventi
la paterna provvidenza di Dio, conclude: "Non affannatevi dunque per il domani,
perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena". 253
Ci sono poi fughe in avanti provocate non dalla preoccupazione di ciò che si
teme ma dall'attesa di ciò che si desidera: mossi dall'impazienza, anticipiamo nel
desiderio ciò che ci attira e che piace. Rischiamo così di essere completamente
assenti da ciò che facciamo e facilmente delusi da ciò che aspettiamo.
Ci sono infine le fughe nei sogni e nelle fantasie impossibili, non ispirate dalla
magnanimità o da nobili ambizioni, perché sono futili romanzi per la nostra vanità,
sterili progetti del nostro io megalomane, ipotesi irreali per quella che il Beato
Escrivà chiamava la "mistica del magari". E' l'atteggiamento di chi, insofferente
della propria realtà, sogna situazioni diverse e inattuabili: un lavoro diverso, una
salute diversa, una famiglia diversa, figli diversi ...!
Così si vive di fughe; la nostra volontà rifiuta di stare al presente e di vivere
con pienezza la realtà attuale. Quante ansie, paure e inquietudini potremmo evitare se
avessimo la saggezza di vivere con fedeltà il tempo presente e di compiere con
gioiosa dedizione il dovere del momento. "Comportati bene, "adesso", senza
ricordarti di "ieri" che è già passato, e senza preoccuparti di "domani", che non sai se
per te arriverà". 254
Per questo dobbiamo non solo "fare quello che dobbiamo", ma anche "stare in
quello che facciamo". Vale a dire che dobbiamo metterci con volontarietà attuale nel
lavoro che stiamo facendo. In altre parole, dobbiamo fare le cose perché "vogliamo"
farle. Troppo spesso ci lasciamo trascinare dagli avvenimenti o dalle circostanze;
abbiamo l'atteggiamento di chi subisce la vita, non di chi la vive, anche se sono
situazioni che non dipendono da noi, che non abbiamo noi disposto o previsto.
Facciamo le cose perché ci tocca farle, perché rientrano in un orario, in un
programma stabilito da altri, perché ci troviamo inseriti in un contesto famigliare o
sociale che prevede determinate prestazioni e servizi ai quali non è possibile sottrarci
senza compromettere una ordinata convivenza tra le persone.
Sembra un paradosso, ma non sempre dove c'è libertà c'è anche volontarietà,
come vorrebbe un ben noto luogo comune: io faccio quello che "voglio". Troppe
volte, invece, ci lasciamo condurre non dalla volontà ma dal capriccio, dallo stato
d'animo, dalla malavoglia e dalla pigrizia, troppe volte sul nostro agire hanno peso la
moda, la mentalità dominante, i modelli della pubblicità e, ancor più, troppo spesso
sprofondiamo nel sonno dell'abitudine.
253
Mt. 6,34
254
Cammino n. 253
151
Agire con volontarietà attuale è garantire al nostro operato la forza
dell'amore. Il piacere, infatti, può renderci egoisti; il successo, superbi; la bellezza,
vanitosi; le ricchezze, prepotenti; solo il sacrificio può educare la volontà e renderla
capace di amare.
Non possiamo dire che le generazioni della nostra epoca abbiano una volontà
allenata, fortemente motivata. Se pensiamo alla titubanza nelle decisioni, alla paura
dello sforzo o dell'impegno soprattutto se deve durare nel tempo o magari per tutta la
vita, se pensiamo a tanta instabilità emotiva, alla fragilità psicologica, alla scarsa
fermezza d'animo che caratterizzano le generazioni del nostro tempo, ci rendiamo
conto del perché sia così difficile oggi trovare lealtà, fedeltà, coerenza; e anche
perché la fede sia diventata così incerta, così traballante.
Noi cristiani siamo chiamati ad essere nel mondo la forza di Dio, perché la
potenza dello Spirito ci ha liberati dalla schiavitù del peccato e ci ha resi capaci di
amare con l'amore di Cristo. Dobbiamo comunicare fortezza intorno a noi e nel
mondo; dobbiamo trasmettere certezze, diffondere sicurezza e fiducia. Ma
dobbiamo anche ricordarci che "il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne
impadroniscono". 255 Perciò dobbiamo essere forti nella fede - fortes in fide - fiduciosi
nella speranza, "saldi e irremovibili nella fatica", 256 perseveranti nella preghiera,
virili nel comportamento - viriliter agite - capaci di un amore più forte della morte -
fortis ut mors dilectio-.
Tutto questo, Dio lo ha fatto risplendere in Colei che, pur essendo la più dolce,
la più tenera, la più amabile delle creature, sta in mezzo all'umanità come "Torre di
fortezza" - Turris fortitudinis - e sta davanti al Maligno come "un esercito schierato
a battaglia". La Vergine Maria, schiacciando la testa al serpente, ha riparato la
debolezza di Eva e ha cancellato la sua sconfitta; il suo "fiat" deve insegnarci a stare
nella volontà di Dio con la dedizione, la fedeltà e l'amore di un "si" che diventa
vittoria di Dio, un canto di gioia e di pace.
La fantasia è la facoltà dei poeti e dei profeti. E' l'occhio puntato sul futuro.
La sua attività preferita è progettare, "sognare", comporre la realtà del domani. Ma la
fantasia è una facoltà senza confini e può spaziare anche sul passato e sul presente;
può elaborare, ridisegnare, trascolorare tutto ciò che è stato e che è, tutto ciò che
scorre nel tempo.
Nel tragitto conoscitivo, la fantasia sta tra i sensi e l'intelletto, e partecipa
di tutti e due. Come senso interno veste di fantasmi i dati della sensibilità; come
strumento intellettuale spazia nel mondo delle idee con la libertà dello spirito. La
fantasia è come la tavolozza dell'intelligenza. In questo senso la fantasia umana è
diversa da quella degli animali, avendo una attività "poietica", cioè creativa e non
soltanto riproduttiva delle immagini. La fantasia si sposa felicemente con l'emotività
e con l'intuizione; rende perciò la nostra mente mobile, versatile, rapida,
imprevedibile: la fantasia è donna. Per questo, forse, se n'è talvolta parlato male,
come di un ostacolo alla razionalità. E tuttavia, pur dipendendo dai sensi e
255
Mt. 11,12
256
1 Cor. 15,51
152
dall'affettività, la fantasia li supera e va oltre; è con la fantasia che la nostra mente
progetta, forgia e costruisce il futuro.
Se nella perfezione delle sue leggi, la natura ci rivela l'infinita sapienza di
Dio, nella ricchezza, varietà e bellezza dei suoi elementi essa ci rivela l'inarrivabile
"fantasia" di Dio. Senza fantasia non c'è arte, non c'è poesia, non c'è genio. Non c'è
nemmeno gran parte della scienza che proprio dalla fantasia si avvale per formulare
le sue ipotesi. Molte delle scoperte scientifiche più importanti sono nate da lampi
intuitivi della fantasia.
A creare una cattiva fama intorno alla fantasia sono stati alcuni filosofi e
alcuni teorici della mistica. I Platonici e tutti coloro che hanno una concezione
negativa della materia e del mondo, vedono la fantasia come un castigo dell'anima, la
quale si troverebbe a dover lottare contro una forma di conoscenza non realistica, in
perenne contrasto col realismo della ragione. Anche molti intellettuali e politici
diffidano della fantasia, ma non sanno che i peggiori politici si trovano proprio tra
coloro che non hanno fantasia.
Alcuni teorici della mistica mettono in guardia dalla fantasia da quando santa
Teresa D'Avila la chiamò "la pazza di casa", e la colpevolizzano per tante difficoltà,
distrazioni, difetti che affliggono la vita spirituale.
Non c'è dubbio che il peccato, che ha ferito mortalmente la nostra natura e
tutte le sue facoltà, non ha risparmiato nemmeno la fantasia. Anch'essa è diventata
"disordinata"; le sue malattie possiamo riassumerle nell'anarchia, nel compiacimento
onirico, nelle utopie.
Una fantasia anarchica è appunto una fantasia senza leggi, senza disciplina,
una fantasia senza riferimenti, lasciata in balìa di sé stessa. I riferimenti che
tengono la fantasia al servizio dell'intelligenza sono i valori: la verità, la giustizia,
la bellezza, l'amore, la dignità; in definitiva, Dio, l'uomo, la natura. La fantasia non è
l'intelletto ma è al servizio dell'intelletto, perciò non pensa i valori ma li rappresenta,
dà "corpo" ai valori, li colloca nello spazio e nel tempo. Li toglie dal regno astratto
della teoria e li porta nella concretezza della vita; crea modelli di giustizia, di
bellezza, di amore..., incarna i valori in esempi vissuti ai quali può conferire forza ed
efficacia. Dipende dalla fantasia che i valori abbiano un loro fascino, una loro
suggestione, un'attrattiva più o meno efficace su di noi, e perciò esercitino un peso
sulla nostra emotività e anche sulla nostra coscienza morale: è un ruolo di notevole
importanza. Importante perciò è la disciplina della fantasia, che sia cioè rettamente
orientata. Non possiamo lasciare che diventi "la pazza di casa".
153
è re e dominatore assoluto.
Una fantasia manipolata dalla vanità diventa stupida e sterile. Quando il nostro
io dimentica di essere un pupazzo ridicolo e si gonfia di vanità, diventa mastodontico
e ingombrante fino a occupare tutto il nostro mondo interiore e a chiudere così ogni
altro orizzonte al nostro spirito. Una fantasia che non abbia davanti a sé orizzonti
aperti è morta.
Dobbiamo invece liberare la nostra fantasia, svegliarla perché sogni in grande,
aprirla agli orizzonti sconfinati di tutto ciò che è vero, bello, amabile, santo. I santi
sono stati tutti dei grandi sognatori; i loro sogni erano sulla misura della
potenza di Dio e della sua grazia. Perciò furono spesso giudicati come pazzi e
temerari; la loro fantasia obbediva invece all'audacia del cuore e alla magnanimità
della mente: un cuore capace di amare e una mente capace di pensare cose grandi per
la gloria di Dio.
Tuttavia la vanità e il compiacimento ludico sono per la fantasia un pericolo
meno grave dell'aridità e della sonnolenza dello spirito. Guai a togliere alla fantasia
la libertà di sognare! Il mondo invecchierebbe improvvisamente, sparirebbero i
poeti e i bambini e la santità diventerebbe estremamente noiosa.
Il mondo ha certamente bisogno di scienziati e di filosofi, ma non basta. Lo
scienziato descrive i fenomeni della natura, ne studia le leggi e le misura: egli si
interessa della "grammatica" delle cose; il filosofo penetra le ragioni profonde, i
rapporti logici e metafisici tra gli esseri: egli si occupa della "sintassi" delle cose;
solo il poeta, il mistico, e a suo modo il bambino, sanno leggere il "mistero" delle
cose, il loro canto, il loro splendore, la loro analogia, il profumo di trascendenza che
esse emanano: nel mistico, nel poeta e nel bambino la fantasia ha sciolto le vele, ha
messo le ali, le ali dell'amore e dell'intuizione.
257
Ef. 1,4
154
vedessi in tutto questo Gesù Cristo, la mia immaginazione non avrebbe nulla di
diverso da quella di un onesto pagano. Un cristiano invece, nel progettare il proprio
futuro si chiede: "Come posso immaginare Cristo nella mia vita? Cristo nel mio
lavoro, Cristo nella mia professione, Cristo nel mio matrimonio, nella mia famiglia,
nei miei impegni sociali, Cristo in tutte le mie imprese?" E' questa la fantasia
profetica, che cerca di immaginare la "rivelazione" del disegno di Dio nel tempo
durante la mia vita terrena, perché si compia un giorno, perfettamente, nella vita
eterna. I Santi sono stati anche fervidi profeti; essi hanno saputo inventare, con la
complicità dello Spirito Santo, le forme più varie perché si riveli al mondo il disegno
di Dio, il disegno cioè di rinnovare in Cristo tutte le cose. E' infatti lo Spirito Santo
la vera "fantasia dei Profeti".
258
1 Cor. 2,9
156
IL TEMPO E LA VITA
La vita è il fenomeno più impressionante che esista nella natura. E' anche il
più denso di mistero così da sfuggire ad ogni adeguata definizione. I biologi stessi
possono solo descrivere le manifestazioni che caratterizzano la vita ed esprimerne le
leggi ma che cosa sia la vita in sé stessa nessuno ha saputo dirlo. I progressi
enormi delle tecniche sperimentali hanno portato la biologia sempre più in profondità
nella conoscenza dei fenomeni vitali e più volte si è avuto l'impressione di essere
arrivati ai confini della vita così da poterla afferrare nella sua essenza; ma proprio
quando si pensava di averla a portata di mano e poterne dare una formulazione, sia
pure elementare, essa sfuggiva immancabilmente ad ogni tentativo sgusciando da
qualsiasi maglia concettuale, così da trovarci improvvisamente al punto di partenza.
Ciò ha dato sempre molto fastidio agli ideologi scientisti i quali, accettando
solo ciò che è sperimentabile e quantificabile, non ammettono ci possa essere in
natura qualcosa di irriducibile alle categorie delle scienze positive. L'idea che un
giorno o l'altro l'uomo "creerà" la vita nei suoi laboratori è troppo affascinante per
non suscitare nel cuore di ogni scienziato un'istintiva resistenza all'ipotesi che la vita
sia qualcosa che trascende le possibilità della scienza, o possa venire da "fuori", da
qualcun altro.
In effetti, non è stato ancora possibile documentare la continuità tra la non-
vita e la vita. Molti ricercatori, soprattutto di estrazione positivista, erano convinti, e
alcuni lo sono tuttora, che spingendosi in profondità, a livello ultramicroscopico e
sub-molecolare, si potesse arrivare ai confini della vita, si potesse sorprendere la vita
nel suo sorgere, nel suo apparire, o per lo meno si potesse scoprire il meccanismo, le
possibili leggi che sollevassero almeno un poco il velo su questo affascinante
mistero.
In realtà, quello che hanno potuto osservare è soltanto una certa continuità
puramente materiale tra i due mondi, vivente e non-vivente. Il vivente, cioè, è
costituito della stessa materia che troviamo nel non-vivente: gli stessi atomi, gli
stessi materiali costitutivi, con la sola differenza di una maggiore complessità
molecolare. Ma a questa continuità materiale non corrisponde una continuità di
struttura, di "forma".
157
La struttura di un non-vivente è rigida, esterna ed estrinseca; è molto simile a
un manufatto, venga esso dalla natura (un cristallo, una roccia...) o venga dall'uomo
(un utensile, una macchina...). La struttura di un vivente è invece aperta, dinamica,
sussistente e persistente, che si auto-mantiene e si auto-rinnova nei materiali. Il
vivente è un "turbine metabolico" nel quale l'incessante e totale rinnovamento degli
elementi materiali non incide sulla struttura che, invece, si auto-conserva. Ecco
perché il "meccanicismo" proprio della filosofia cartesiana, il considerare cioè un
vivente alla stregua di una macchina, è l'errore più grossolano al quale possono
andare incontro e la scienza e la filosofia.
L'uomo dunque potrà arrivare anche a sintetizzare chimicamente e
manipolare la "materia" vivente, ma non a fabbricare "un" vivente: un essere
cioè che non solo ha una struttura propria, permanente e individua, ma anche una
struttura attiva, di un’attività di cui esso è il "soggetto". Non dobbiamo confondere
l'organizzazione della materia con la vita. Il vivente è un essere capace di attività
propria ed è il "soggetto" dei propri atti vitali: è capace di selezionare gli elementi
materiali e di assimilarli, cioè farli propri, rendendoli biologicamente compatibili con
quelli già posseduti e rifiutando tutto ciò che non è compatibile; è capace di
adattarsi, di crescere, di presiedere alle proprie sintesi e alle proprie funzioni vitali,
di riprodursi, rigenerarsi ecc. E questo a tutti i livelli, dai macrorganismi ai
microrganismi.
259
Atti, 17,29
158
creati senza colpi di bacchetta.
Ogni "inizio" è protetto dal silenzio di Dio: l'inizio dell'universo, l'inizio della
vita, l'inizio del genere umano e della sua storia, così come l'inizio di ogni uomo.
Ogni uomo è persona, e l'inizio della persona coincide con l'inizio della sua anima.
Ci riferiamo non al quando di questo inizio ma al come. Dio infatti è autore della
vita non solo nel suo inizio, ma anche nel suo divenire; è perciò attualmente e
continuamente presente come creatore nel fenomeno della vita e delle sue leggi.
Perciò Egli crea l'anima umana ogni volta che le leggi della vita fanno
germogliare la prima cellula di un nuovo essere umano. Ciò significa che l'anima
non è una sostanza preesistente che poi viene unita - infusa - da Dio ad una cellula-
uovo fecondata; è il prodotto di un intervento peculiare ma normale di Dio che agisce
all'interno delle leggi stesse della vita; si tratta di un atto creativo che trasforma la
prima cellula dell'organismo umano in una "persona", con il suo principio
esistenziale proprio e personale di natura spirituale. Il "come" tutto questo avvenga è
vero mistero, è silenzio di Dio, la cui onnipotenza non fa rumore anche quando
irrompe nel tempo per far scoppiare quel miracolo impressionante che è la persona
umana. Del resto tutto ciò che Dio compie è insieme straordinario e normale,
miracoloso e "naturale".
Esiste una continuità nelle leggi che in natura presiedono al fenomeno della
vita, ma questa continuità viene trascesa nell'istante in cui ha inizio l'essere umano.
Infatti il fenomeno-vita nella sua globalità si sviluppa in maniera omogenea nelle sue
leggi e nelle sue manifestazioni. Dalle forme di vita più elementari a quelle più
evolute, dallo stadio biologico sub-cellulare a quello pluri-cellulare più differenziato
e complessificato, il mondo degli esseri viventi si presenta omogeneo nei suoi
fenomeni vitali; in altre parole, la natura animata, dal livello protocellulare a quello
vegetale e a quello animale più elevato, si rifà a principi biologici univoci che
appaiono fondamentalmente uguali.
Solo nell'uomo questa omogeneità s'interrompe, e la vita umana presenta
fenomeni e principi che sono irriducibili alle leggi biologiche e rimandano a qualcosa
che trascende la natura materiale. Già abbiamo visto come l'essere umano si
contraddistingue tra tutti gli altri esseri, compresi gli animali, per la ricchezza e
straordinarietà dei fenomeni che non sono riscontrabili in nessun altro luogo
dell'universo: il pensiero, la libertà, l'arte, il linguaggio, il lavoro, la stessa attività
ludica, cioè il gioco... fino all'amore e alla religiosità. E anche se queste attività
hanno qualche riscontro, ad esempio negli animali, si tratta di un riscontro solo
analogico, perché tali attività rimangono, nella loro natura, essenzialmente
trascendenti.
In certi ambienti animalisti si interpretano queste affermazioni non come dati
oggettivi che emergono dalla natura delle cose, ma come un abuso arbitrario
dell'uomo che approfitta della sua presunta superiorità per sottomettere ad ingiusta
schiavitù o ad egoistico sfruttamento gli animali. Maltrattare gli animali, come
degradare la natura, è un gesto che va contro la nostra dignità di esseri fatti "a
immagine e somiglianza di Dio" e chiamati a collaborare con Lui alla sua creazione,
ma questo non giustifica il processo di animalizzazione dell'uomo in atto in vari
ambienti scientisti o in movimenti pseudo-culturali più o meno politicizzati. Perciò
quando parliamo di vita "umana" ne parliamo in senso proprio e peculiare
perché essa, pur avendo le sue radici nelle leggi della natura, ha il suo
"principio" fuori della natura, superiore ad essa e da essa indipendente.
159
173 - “Actus essendi” – L’atto di essere.
160
Si dice talvolta: "Io potrei non esserci e nulla cambierebbe nell'universo". Ma
non è vero. Se io non ci fossi ci sarebbe un "buco" nel tempo, anzi mancherebbe un
filo nell'ordito della vicenda umana. Il "filo" di un essere umano può avere
lunghezze diverse: ci sono esistenze più o meno lunghe e ci sono esistenze che
vengono spezzate appena concepite: sono esistenze "puntiformi"; eppure anche un
punto ha un suo ruolo e un suo significato. In un tessuto, poniamo in un tappeto, ogni
punto non è inutile, ha un suo colore e una sua posizione che concorrono all'insieme
del disegno e della trama.
Ogni vita umana ha valore perché è un valore; lo è in sé stessa e per sé
stessa. Non siamo noi che dobbiamo dare significato alla vita, essa già lo possiede.
A noi spetta scoprirlo, entrarci dentro con la nostra responsabilità. La vita si riceve
ma non dobbiamo subirla; il significato e il valore che essa porta con sé viene
affidato alla nostra libertà e responsabilità di creature intelligenti, "chiamate" da Dio
a gestire, in continuo dialogo con Lui, con il suo disegno e con la sua grazia,
l'esaltante avventura di esistere e di vivere.
La vita, prima ancora di essere una responsabilità, è un dono; se ci
limitiamo a vederla esclusivamente o anche prevalentemente come responsabilità,
come qualcosa che dobbiamo noi inventare, progettare, pensarne il senso e il
significato, essa ci peserà addosso, e le conseguenze potranno essere la paura,
l'angoscia, la frustrazione oppure il protagonismo titanico o l'utopia.
Ma la vita è innanzitutto e soprattutto un dono; è tutta "data", tutta ricevuta.
Quando non sappiamo vederla come un dono non ci resta che subirla come una
fatalità. Succede così quando ci si allontana da Dio, quando lo si rinnega o lo si
emargina. L'uomo nasce per caso, ha scritto Sartre; ed è un modo per dire che la vita
non ha senso, non ha significato perché non ha nessun riferimento, nessuna radice,
nessuna spiegazione; è pura fatalità.
Il senso della vita non lo danno nemmeno le creature; fossero anche le più
preziose o più gratificanti. E' quanto succede, ad esempio, nell'amore possessivo:
quando due sposi stanno insieme perché "hanno bisogno l'uno dell'altro per vivere",
l'uno diventa schiavo dell'altro e se viene a mancare l'uno, l'altro non sa più vivere;
lo stesso avviene quando una ragazza ha bisogno di un ragazzo per vivere o per
sentirsi qualcuno, diventa schiava di quel ragazzo e se le viene a mancare le sembra
che la vita non abbia più scopo; così è perfino per una madre che ha bisogno di un
figlio per vivere... Nessuna creatura può essere il fine della vita; sarebbe un idolo
che genera schiavitù.
Ora, se sapremo raggiungere la nostra persona nella sua profondità, alle sue
radici, cioè a quell'atto di essere unico e personale che sta all'origine del nostro "io",
inevitabilmente ci sentiremo rimandati a "Colui che è", a Dio, fonte dell'essere e
della nostra esistenza; comprenderemo con lucida consapevolezza che la vita è dono
e arriveremo a una delle esperienze più esaltanti dell'intelletto contemplativo: la
percezione dell'essere, e gusteremo anche la gioia più naturale e spontanea: la gioia
di vivere, la felicità di esistere.
Infatti il salto dal nulla all'essere ha qualcosa di infinito, che dà i brividi.
Se ci penso bene, mi riempio di stupore come davanti al mistero. Lo posso intuire
guardando dentro di me: mi fermo, penetro nell'intimo del mio "io", e penso: "Potrei
non esistere..., e invece esisto!". Retrocedo nel mio tempo interiore fino all'orlo
della mia esistenza e mi sporgo a guardare l'abisso del nulla da cui improvvisamente
emergo...; in quel momento un brivido indicibile mi pervade, una forte sensazione di
vertigine che mi spaventa e insieme mi esalta. Il nulla è solo nulla, nient'altro che
nulla, e rimane nulla per sempre; ora, se improvvisamente io esisto, sento che solo
161
una mano onnipotente può averlo fatto. In quel momento percepisco nettamente che i
miei genitori non c'entrano, sono stati soltanto strumenti per una cosa enormemente
più grande di loro. E' lo stesso sentimento che anch'essi hanno provato quando mi
hanno visto per la prima volta, mi hanno contemplato: prima non c'ero, poi, come
d'incanto, ero lì nelle loro mani, vivo, in carne ed ossa, con una intelligenza,
un'anima, una promessa carica di mistero..., e mi hanno visto come un miracolo,
qualcosa di enormemente più grande di ogni loro possibilità; si sono scambiati un
sorriso pieno di stupore e d'incredulità come se si dicessero: non è possibile! Hanno
avvertito di essere stati soltanto strumenti di Qualcuno infinitamente più potente che
ha fatto tutto. Perciò un figlio è sempre una creatura che ci viene "data", è sempre un
dono che ci viene consegnato.
Ma la conseguenza più importante che può venire dalla scoperta del nostro
atto di essere è la possibilità di percepire consapevolmente la nostra identità di
creature. Spingersi fino a quel primo momento della nostra esistenza è quasi fare
l'esperienza diretta dell'esistenza di Dio; certamente è percepire in modo vivo la
nostra creaturalità. E' facile così passare dall'amore verso i genitori all'amore verso
Dio. Comprendiamo che i nostri genitori sono stati il luogo dove Dio ci è venuto
incontro dall'eternità e ci ha "voluto". Ognuno di noi viene dall'amore, sempre,
indipendentemente dall'intenzione dei propri genitori. Perciò non esistono figli
"indesiderati" perché sempre, anche quando i genitori non lo desiderano, un figlio è
comunque desiderato, amato e voluto da Dio.
Penetrare dunque nel nostro intimo e contemplare con stupore il nostro atto di
essere ci dà la possibilità di intravedere l'infinita fecondità del nome che Dio ha dato
a sé stesso: "IO SONO". "L'atto di essere" che Dio ci comunica è partecipazione
al suo nome, a quel "IO SONO" che è fondante di ogni esistenza, soprattutto di
ogni essere fatto a "sua immagine e somiglianza". Il Signore diceva a Santa Caterina
da Siena: "Tu sei colei che non "è", io sono "Colui-che-sono". E se Caterina, come
ognuno di noi, può dire: "Io sono", è perché esiste "Colui che è". Il nostro "Io sono"
è partecipazione al "IO SONO" di Dio.
Il momento iniziale del nostro essere è dunque segnato dall'actus essendi che
Dio stesso ci comunica. Questo atto esistenziale, in noi, ha una caratteristica
fondamentale: è di natura spirituale. Già abbiamo riflettuto sulla spiritualità
dell'anima; qui vogliamo ricordarne una conseguenza: il suo "atto di essere"
incomincia nel tempo ma non finisce col tempo; in altre parole, l'essere umano è
immortale. La convinzione della propria immortalità, di qualcosa di sé che non
finisce col tempo, ha accompagnato l'uomo fin dall'inizio della sua storia. L'uomo
di tutti i tempi, di tutte le culture, di tutte le civiltà ha conosciuto il culto dei morti
come espressione di questo sentimento insito nell'animo umano: non tutto di noi
muore.
Ora, l'immortalità della nostra anima ha il suo fondamento nella
incorruttibilità del suo "atto di essere". Durante la vita terrena l'anima percepisce
sé stessa indirettamente attraverso il corpo e le relazioni che in esso stabilisce con lo
spazio e nel tempo. Scissa dal corpo, l'anima percepisce sé stessa solo attraverso il
suo "atto di essere" e quindi nella sua vincolazione esistenziale con Dio, con l'Essere
infinito, al quale partecipa per una quasi connaturalità. Ciò spiega perché l'anima, in
questa condizione di "nudità" assoluta, avverte l'attrazione di Dio in maniera
prepotente e si lancia verso di lui con moto incontenibile. Sarà un'esperienza
esaltante e indescrivibile per chi passerà alla vita eterna nella fede, mentre si
trasformerà in tragedia e disperazione per un'anima che si trovi lontana da Dio e da
Lui separata.
162
Qui sulla terra, possiamo trovare analogie nell'esperienza mistica di molti
santi. In essi, ma in fondo in ognuno di noi quando ci lasciamo condurre da Dio,
l'esperienza creaturale, cioè il senso vivo della nostra dipendenza esistenziale da
Dio, unita all'esperienza morale, cioè al senso vivo della nostra libera e cosciente
vincolazione alla sua legge divina, si aprono inevitabilmente all'esperienza mistica
nella quale la nostra vincolazione creaturale diventa esperienza globale di tutta la
persona e occupa tutto lo spazio anche psichico del nostro essere: i sentimenti,
l'immaginazione, i pensieri, gli affetti, i desideri... E' come se questi spazi non ci
appartenessero più; sono fatti propri da Dio e da lui abitati.
Alcuni autori spirituali parlano di tre vie della vita spirituale: una ascetica,
una illuminativa e una unitiva. Qualcosa di simile avviene nella nostra esperienza
creaturale. Essa ha bisogno di una ascesi interiore; esige che la nostra anima si liberi
dall'esperienza dell'effimero, di ciò che è apparente, che si liberi dalla superficialità e
diventi un'anima profonda, che raggiunga le cose nella loro profondità, cioè nel loro
rapporto con Dio. Questo allenamento ascetico, che in definitiva è un'ascesa verso la
verità, rende l'anima capace di cogliere "l'essere", e la sua esperienza creaturale
diventa allora simile a una "illuminazione". L'actus essendi è come un lampo della
nostra persona e lo si coglie non per ragionamento ma per intuizione.
Infine, quando questa "illuminazione" si trasforma in contemplazione intima,
quasi un'esperienza immediata ed intensa dell'anima che avverte nel proprio essere
finito la presenza intima dell'Essere infinito, allora l'esperienza creaturale tocca il
vertice delle sue possibilità: è l'esperienza unitiva. L'anima si vede creatura,
solamente creatura e totalmente creatura, unita al suo Creatore; si sente da lui presa e
come soggiogata, talmente a lui unita da non avvertire più una volontà propria, un
pensiero proprio, una vita propria. Tutto lo compie Dio. E nel vedersi creatura, con
una consapevolezza immediata, abissale e luminosa, si riempie di una felicità
indicibile che le toglie ogni interesse verso sé stessa e verso tutto ciò che riguarda la
vita terrena.
L'atto di essere, costitutivo della realtà della nostra persona, non finisce col
tempo; tuttavia, nella fase terrena della vita esso è misurato dal tempo. Esiste cioè
un "ciclo vitale" che scandisce la temporalità della nostra vita. E' una legge; forse la
legge più specifica che caratterizza il fenomeno della vita sulla terra e ne esprime la
dinamicità.
Il ciclo vitale è una necessità perché la vita è come una forza che, per
esprimere sé stessa in tutte le sue potenzialità, ha bisogno del tempo; il tempo viene
così scandito dal ritmo della vita. Il ritmo vitale non ha la stessa durata nei vari
organismi viventi ma in tutti ha le stesse fasi, le stesse stagioni. Nell'uomo le fasi
fondamentali della vita vengono comunemente così sintetizzate: nascita, crescita,
maturità, senescenza, morte.
Tuttavia la vita ha una sua continuità che possiamo chiamare in un certo senso
immortalità. C'è però una differenza essenziale tra la vita nell'uomo e la vita negli
altri esseri viventi: nel regno animale e vegetale la continuità è della vita ma non
dell'individuo; i singoli esseri viventi muoiono definitivamente mentre la vita
163
continua in altri esseri viventi. Nell'uomo invece la continuità è non solo della vita
ma anche del singolo uomo che sopravvive a sé stesso, nel suo spirito. Inoltre la
continuità della vita animale e vegetale è una continuità intra-temporale, si esaurisce
nel tempo; nell'essere umano, invece, la continuità supera il tempo, sconfina
nell'eternità; è dunque una vera immortalità.
Da quanto abbiamo detto, ne segue che il ciclo vitale non ha, nell'uomo, lo
stesso significato che esso ha negli altri esseri viventi. In questi il ciclo vitale ha un
significato strettamente biologico ed è "chiuso", si spegne cioè nel tempo; nell'uomo,
invece, la dimensione immateriale propria dello spirito fa si che il ciclo vitale, pur
soggetto alle leggi biologiche, le supera, dal suo inizio e lungo tutto il suo corso,
conferendogli un significato e un valore trascendenti che perdurano oltre la sua fine.
Dio aveva risparmiato ai nostri progenitori, nell'Eden, questo condizionamento
biologico perfezionando la natura umana col dono dell'impassibilità e
dell'immortalità. L'uomo cioè non avrebbe conosciuto la negatività biologica della
senescenza e della morte ma sarebbe entrato nella vita eterna senza passare attraverso
la decomposizione del suo essere corporeo. Sappiamo che l'uomo, non solo perse
questi doni ma è rimasto profondamente ferito nella sua natura, per cui la percezione
della propria identità spirituale è diventata assai difficile e nebulosa, e la tensione
verso Dio rimane pesantemente ostacolata dal disordine interiore.
Perciò la vita umana nella sua condizione attuale non è come Dio l'aveva
voluta, né come Egli l'aveva effettivamente creata. In tutte le fasi del suo ciclo
vitale, la vita umana presenterà i segni di questa condizione, razionalmente
inspiegabile, di miseria e di grandezza. Ma Dio ha rifiutato tale condizione; Gesù,
Figlio di Dio fatto uomo, l'ha distrutta con la sua morte e risurrezione restituendo
alla vita umana il suo destino di immortalità e di eternità.
Abbiamo visto che la vita umana non è riducibile al suo ciclo biologico. Il
nostro essere "persona" conserva la sua identità e la sua unicità pur
attraversando le fasi del ciclo vitale. Questo significa che la vita umana non solo ha
una sua unità e una sua continuità lungo tutto l'arco del tempo, ma significa anche
che le singole età della vita sono fasi di un'unica esperienza vissuta da un unico
soggetto: vale a dire che l'infanzia e la fanciullezza entrano nell'adolescenza e la
influenzano, e l'adolescenza con tutte le sue interazioni passa attraverso la giovinezza
ed entra nella maturità forgiando quel tipo di personalità che si esprimerà in un
particolare modulo di età adulta e di vecchiaia. In altre parole, la vita umana, pur
segnata da sequenze e da ritmi che definiscono le sue stagioni, è un processo lineare
dove le esperienze vitali e spirituali si accumulano e si integrano; in ogni stagione c'è
la presenza di tutte le altre che l'hanno preceduta.
Ma questa unità psicologica e biografica può avere come filo conduttore
l'esperienza interiore, fondamentale e profonda, di ciò che abbiamo sopra ricordato:
la nostra identità di creature. (cfr. nn. 5, 174, 175). La consapevolezza creaturale,
data dalla percezione del nostro "atto di essere" che è unico e tutto ricevuto e segna
l'inizio della nostra esistenza temporale, fonda anche l’esperienza della nostra
continuità esistenziale nell'unicità dello stesso soggetto. Ricuperare la
consapevolezza della nostra creaturalità è una delle operazioni culturali più
urgenti della nostra epoca. Il pensiero moderno l'ha da tempo rifiutata e la
mentalità corrente, gestita dalle convinzioni oggi dominanti, l'ha completamente
dimenticata. Riscoprire questa verità e vederne tutte le conseguenze nella vita
personale e sociale rappresenta un'autentica "rivoluzione culturale".
Nel cristianesimo tutta l'esperienza religiosa si fonda essenzialmente sul senso
vivo della nostra filiazione divina che ci unisce a Cristo, e che discende da quella
164
verità stupenda e consolante che è la Paternità di Dio. Ma questa esperienza non è
immediata e diretta perché è del tutto soprannaturale ed esige la fede.
L'esperienza creaturale, invece, può essere immediata e diretta perché si tratta
di una realtà costitutiva del nostro essere e senza di essa non è possibile nemmeno
una vera religiosità puramente naturale. Su questa verità possiamo impostare la
descrizione delle stagioni della vita umana e sul filo di questa esperienza
percorreremo tutto il vissuto della nostra esistenza.
La prima fase del ciclo vitale va dal concepimento alla nascita. Sono momenti
che non appartengono alla nostra esperienza cosciente. Rappresentano la fase
notturna che precede il mattino della nostra vita; appartengono al momento buio della
nostra memoria. Abbiamo visto tuttavia che possiamo recuperare questa fase della
nostra vita attraverso l'esperienza dell'atto di essere, l'atto che segna l'inizio della
nostra esistenza. Se io mi spingo oltre il momento iniziale della mia esistenza, mi
incontro con Dio, puro "Atto di essere", dalla cui onnipotenza io emergo come
creatura, creatura che ormai non si staccherà più da lui perché egli la tiene nelle sue
mani, mani grandi di creatore onnipotente e fedele. Dal profondo del mio io sgorgano
allora come un grido le parole del salmo: In manibus tuis, sortes meae - nelle tue
mani, Signore, è tutta la mia esistenza, tutti i momenti della mia vita con tutte le sue
stagioni! 260 - Tu sei la mia Sorgente, la mia Onnipotenza, tu sei per me l'essere e
l'esistere, il mio vivere, il mio tutto! Noi non assaporiamo abbastanza questa
esperienza creaturale, esperienza esaltante e indicibile.
Nell'ateismo questa esperienza creaturale è completamente assente, ed è questa
la causa non ultima del degrado spirituale e intellettuale della nostra cultura
occidentale. Senza questo riferimento esistenziale, la nostra vita è solo storia, è
puro scorrere di un divenire senza l'essere, è una vicenda che affonda e affoga
nel tempo.
E' ancora l'esperienza creaturale che ci fa comprendere il senso della nostra
crescita come persone. Il termine stesso "creatura" - un femminile al futuro passivo -
indica una crescita che in noi non si limita al puro farsi di un essere vivente, ma
implica l'emergere di una persona con lo sviluppo dei primi presupposti della
personalità.
Questa fase della "crescita" si è soliti racchiuderla in tre momenti successivi
che rivestono fondamentale importanza nella nostra vita: l'infanzia, l'adolescenza, la
giovinezza. Nella fanciullezza avviene la scoperta del mondo che ci circonda,
nell'adolescenza avviene la scoperta dell'"io" personale, nella giovinezza la scoperta
dell'"altro" o dell'io relazionale.
La descrizione che ne seguirà non avrà né carattere psicologico né finalità
pedagogiche, e pur contenendo inevitabili riferimenti a questi aspetti che interessano
la crescita dell'uomo, cercheremo soprattutto di riflettere sul come può essere vissuta
l'esperienza creaturale nelle diverse fasi della nostra vita terrena.
260
Sal. 30,16
165
L'infanzia
Ciò che più colpisce nei bambini sono gli occhi; gli occhi di un bambino
sono qualcosa di affascinante. Il bambino "guarda": è tipico dell'età dell'infanzia.
Non è lo sguardo contemplativo dell'uomo interiore, è lo sguardo interrogativo di chi
vuol leggere il mondo che lo circonda, un mondo che si presenta come tutto da
scoprire, tutto da percorrere ma anche tutto da fruire. Perciò tra le caratteristiche del
bambino troviamo la curiosità innocente e il gioco.
L'infanzia è l'età dei perché; il bambino vuol soprattutto conoscere. Ma la sua
conoscenza non è critica, è fiduciosa. Accetta facilmente e con pace le risposte o le
spiegazioni di "chi ne sa di più". Perciò il termine di confronto del bambino è
l'adulto, identificato nei genitori; il padre e la madre sono per lui garanzia di
credibilità perché "sanno" e gli vogliono bene. Di qui la fede "fiduciosa", cioè
motivata dalla fiducia, atteggiamento profondamente razionale fondato sul senso
comune già presente nel bambino.
L'esperienza creaturale del bambino si identifica così con il senso della sua
filiazione. Possiamo dire che tutte le esperienze del bambino si riconducono alla sua
consapevolezza di essere figlio. E' per questo che il bambino non ha problemi
esistenziali. Basta guardare un bambino che dorme, magari in braccio a sua madre: è
un sonno profondo, sereno, totalmente abbandonato. Anche in questo sta il fascino
dell'infanzia. Anche di fronte alla realtà che ci circonda, lo sguardo del bambino è
ben diverso dallo sguardo dell'adulto: un prato fiorito a primavera ha un significato
profondamente diverso se viene guardato da un bambino o dal padrone; lo sguardo
del bambino è "libero", quello del padrone è interessato. Il bambino vede il prato
come un dono da fruire insieme ad altri bambini, il padrone lo vede come un bene da
sfruttare per sé.
E' responsabilità dell'adulto, soprattutto dei genitori, non derubare il bambino
di questi contenuti dell'infanzia. Il corretto e autentico rapporto col padre e con la
madre deve garantire nella misura più ricca possibile quel senso della filiazione che
dovrà accompagnarlo per tutta la vita. Per noi cristiani questo senso di filiazione
quale componente della nostra esperienza creaturale di bambini, diventa un aiuto
estremamente importante per acquisire quella consapevolezza della nostra
filiazione divina che è il fondamento della vita cristiana. Gesù, per descrivere in
modo chiaro ed evidente il rapporto con Dio che devono vivere i suoi discepoli:
"..chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: "In verità vi dico: se non
vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli". 261
262
Beato J. Escrivà, E' Cristo che passa n. 143
263
Idem
167
L'adolescenza
La giovinezza
Questo, della vocazione alla verginità, è oggi un argomento non solo taciuto
ma totalmente incompreso. Parliamo della verginità come vocazione, perché come
virtù, cioè come castità prima e fuori del matrimonio, è non solo incompresa ma
anche derisa e disprezzata, e da più parti è considerata come segno di immaturità e di
anormalità psicologica.
La chiamata alla verginità "per il Regno dei Cieli" è stata inaugurata da Gesù.
E' Lui il "Vergine" per essenza, quasi per costituzione ontologica, una verginità che
lo costituisce "Sposo", sposo della Chiesa e sposo di ogni anima che lo segua da
vicino e totalmente, che segua "l'Agnello dovunque va". 268 Questo significa che nella
verginità cristiana si stabilisce con Cristo un rapporto essenzialmente diverso da
quello che si realizza nel matrimonio. Il Sacramento nuziale è una partecipazione
solo simbolica al mistero sponsale di Cristo e della sua Chiesa, ed è transitoria
perché legata alla condizione terrena; la verginità, invece, è una partecipazione in
certo qual modo diretta e perciò reale con il mistero di Cristo-Sposo e non si
interrompe con il tempo ma rivelerà la sua pienezza nella Vita eterna.
E' vero che una persona sposata può amare Cristo più di una persona vergine, e
può quindi arrivare a una santità più alta, tuttavia l'amore verginale resta sempre un
amore diverso, perché diverso è il rapporto con la persona di Cristo. E' infatti un
rapporto sovraeminente per natura, per significato, per grazia, che qui non possiamo
analizzare e approfondire ma che rimane nella tradizione della Chiesa come un fatto
di radicale importanza. Gesù stesso allude esplicitamente alla vocazione verginale
quando dice "Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso". 269
Questa vocazione alla verginità per il Regno dei Cieli è un dono prezioso che
lo Spirito Santo ha fatto alla Chiesa di Cristo, e la Chiesa, nei venti secoli della sua
storia, ha conosciuto l'immensa fecondità di questo dono che mai potrà venir meno.
Oggi, nella nostra società occidentale sembra che queste vocazioni siano diminuite
fino quasi a scomparire. In realtà "non est abbreviata manus Domini" - non si è
indebolita la mano del Signore" - non sono venute meno le vocazioni, sono venute
meno invece le risposte alla chiamata del Signore. L'ambiente fortemente
secolarizzato e la visione consumistica della vita impediscono a tante ragazze e
ragazzi non solo di rispondere positivamente alla chiamata di Dio ma semplicemente
di avvertire la sua voce, che spesso riesce con fatica a farsi strada tra le mille
seduzioni della mondanità, e arriva al cuore senza la forza necessaria per attirarlo.
Ma nella mentalità edonistica e stoltamente permissiva della società attuale la
verginità risulta assolutamente incomprensibile. Scalzati i valori morali, si lascia il
posto ad assurde convinzioni che servono solo a ignobili speculatori del sesso per
alimentare un turpe mercato ormai non più sommerso ma sfacciatamente esibito.
Così la castità prima del matrimonio viene presentata come un peso e le esperienze
sessuali tra giovani sono considerate inevitabili, anzi, vengono presentate come
normali e psicologicamente utili. Semmai occorre premunirsi contro i rischi. La
verginità non sarebbe più una virtù, ma un sintomo di immaturità o addirittura di
anormalità. Sono gravi errori morali che non hanno nulla in comune con l'amore,
l'amore vero, nobile, autentico dei nostri genitori e offendono violentemente la
dignità dell'uomo e ancor più la grande dignità della donna.
Contrastare questa ondata di sensualità fondata sulla menzogna è compito di
noi cristiani. L'affermazione gioiosa della castità e della verginità come esigenza
268
Ap. 14,4
269
Mt. 9,11
175
della nostra dignità di uomo e donna è stato un aspetto importante della rivoluzione
culturale operata dal cristianesimo nel mondo pagano, e sarà certamente un elemento
essenziale anche per quella rivoluzione culturale che è la nuova evangelizzazione
dell'Europa.
Se il mondo giovanile e la cultura attuale non sapranno ricuperare il valore
della castità e della verginità, cioè il valore positivo della sessualità secondo il
disegno di Dio, difficilmente arriveranno ad una fede vera e autentica. La sensualità
è lo smog dell'anima; intristisce il nostro paesaggio interiore e impedisce
l'azzurro del cuore. Se una ragazza (come pure un ragazzo) non sa difendere e non
ama la propria verginità, non solo non capirà la vocazione a servire Dio con
dedizione totale per il Regno dei cieli, ma rischia di non comprendere nemmeno il
valore della maternità. I due valori si corrispondono intimamente e non a caso la
mentalità secolarizzata disprezza l'uno e l'altro, gettando così la donna in una
profonda crisi di identità. Rifiutare la verginità e temere la maternità è un
tradimento dei valori più nobili della femminilità. Purtroppo la responsabilità di
questa aggressione ricade in parte preponderante sulla visione maschilista e corrotta
di tanti "uomini di cultura" che i padroni dei mass-media hanno sponsorizzato.
L'incontro di Gesù con Erode è estremamente eloquente; ma soprattutto lo è la
figura amabilissima di Colei che, essendo "Vergine e Madre", ha meritato di essere
"figlia del suo Figlio".
L'età adulta
177
prescinda da Dio diventa inevitabilmente un'etica soggettiva e perciò relativa;
relativa alle situazioni, alle circostanze, agli interessi e alle ambizioni personali.
Questo della coscienza è un aspetto fondamentale nella maturità dell'adulto,
tanto da poter dire che il valore di una persona sta nel valore della sua coscienza. Se
pensiamo che la coscienza è il luogo più intimo della nostra persona, là dove, soli
con noi stessi e avendo come unico interlocutore Dio, maturiamo le nostre decisioni,
ci rendiamo conto del perché essa sia la parte più delicata del nostro io personale.
Possiamo dire che tutta la nostra maturità si forgia nell'ambito della coscienza: non
solo la maturità umana (coscienza psicologica) ma anche e soprattutto la maturità
morale e spirituale (coscienza religioso-morale).
Se volessimo indicare le caratteristiche di una coscienza matura potremmo
definirla: sensibile, viva, integra. Una coscienza è sensibile quando sa percepire i
valori e li percepisce come vincolanti. E' come l'occhio dell'anima. Richiede quindi,
pulizia, luminosità, educazione. E' la "luce" di cui parla Gesù: "La luce che è in te".
E bisogna cercare con ogni cura che questa luce non si oscuri o non si spenga, perché
se "la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!". 270 La luce che
illumina la coscienza e la rende sensibile ed affinata è la verità. Ora, mentre la
menzogna accieca e distorce la coscienza, l'ignoranza e l'errore la rendono incerta,
grossolana, confusa. Perciò, mentre dobbiamo difendere la nostra coscienza dalla
menzogna, dobbiamo d'altro canto farle guadagnare uno spazio sempre più ampio e
profondo alla conoscenza e alla verità.
Si capisce allora quale importanza abbia per una maturità della coscienza la
formazione dottrinale; beninteso deve essere formazione e non deformazione.
Occorre cioè la sana dottrina, la dottrina che ci viene dal Magistero della Chiesa,
perché è la Chiesa che, nel suo insegnamento, ci interpreta autenticamente
l'insegnamento di Cristo.
Un cristiano veramente adulto, maturo, non è dunque colui che arbitrariamente
forgia la propria coscienza su criteri personali o su criteri desunti da una mentalità
dominante a modo di maggioranza democratica, (la crisi della coscienza collettiva) e
nemmeno su criteri sanciti da "esperti" in scienze teologiche e morali. Ancora una
volta è alla Chiesa, edificata sul fondamento degli Apostoli, che Gesù ha detto: "Mi è
stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le
nazioni (...) insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato". 271
L'obiettività porta un cristiano adulto a conformare la propria coscienza ai
valori proclamati da Cristo e testimoniati dalla Chiesa.
272
Cammino n. 11
181
quella degli operatori nelle pubbliche relazioni e nei mezzi della comunicazione
sociale: giornali, televisione, ambienti dello spettacolo e della cultura. Enorme è il
bene che questi operatori possono fare e molti lo fanno, ma anche sono molti coloro
che cedono alla tentazione della vigliaccheria: tirano il sasso e nascondono la mano,
danno veri e propri giudizi di condanna e si coprono con l'anonimato del "si dice...
corre voce... sembra che...", fanno rientrare nel "diritto all'informazione" indegne
aggressioni all'intimità altrui, distruggono la buona fama e l'onore delle persone con
l'espediente del sospetto, del dubbio, dell'indagine arbitraria o camuffata per offrire
ipocritamente elementi di giudizio a lettori e telespettatori.
Ma tutti possiamo avere complicità con la vigliaccheria dell'anonimato;
ognuno di noi ha qualche momento di immaturità o si trascina dietro qualche residuo
di timidezza infantile che lo porta a nascondersi, a sparire nel gruppo, a far credere
che le cose sono avvenute fatalmente, per colpa di tutti. L'uomo maturo ha il
coraggio delle proprie azioni, non agisce nell'oscurità, o dietro le quinte, non fa il
mandante di nessuno, non approfitta dell'omertà delle strutture sociali o politiche; è
tanto più maturo quanto più ampio spazio del suo agire egli sa coprire con la sua
responsabilità.
Questo rifiuto dell'anonimato si collega con un terzo aspetto della
responsabilità: l'accettazione leale delle conseguenze delle proprie azioni, anzi di
più: l'accettazione virile e paziente di tutto ciò che, volutamente o no, può essere
accaduto nella vita. Il bene e il male commessi non sono mai senza conseguenze.
Ogni avvenimento incide sulla vita e sulla storia degli altri e nostra. Le nostre azioni
possono essere frutto di scelte e di decisioni ponderate, sagge e prudenti ma anche
possono derivare in certi momenti da impulsività, leggerezza, imprudenza, se non
anche da volontà non buona. Le conseguenze possono essere più o meno gravi, a
volte sono drammatiche; in ogni caso lealtà vuole che ci facciamo carico di tali
conseguenze, che ce ne assumiamo la responsabilità e anche l'onere con l'impegno
della riparazione. L'adulto non può considerarsi un minorenne che fa ricadere sui
genitori o su altri, o sulla società, le conseguenze delle proprie azioni.
La vera maturità non si limita ad una rassegnata sopportazione delle
conseguenze, quasi fossero un'ingiustizia, ma riconoscendole come proprie, cerca
una sincera riparazione secondo giustizia. Il cristiano, poi, sa che la vera riparazione
suppone un reale pentimento del male commesso e del male arrecato, un pentimento
di coscienza, davanti a Dio, e non soltanto davanti alla legge umana come il
pentimento di chi si arrende alle strette della giustizia e collabora con essa in vista di
vantaggi personali. Il pentitismo mondano non ha i caratteri della vera responsabilità.
L'accettazione responsabile delle conseguenze del nostro agire diventa nobile
comportamento quando si tratta di conseguenze dovute non a colpe ma ad errori
involontari, nostri o degli altri. Nella vita tutti siamo soggetti ad errori che possono
portare anche a conseguenze irreparabili fino a condizionare negativamente tutta la
nostra vita. L'accettazione diventa allora espressione di quei "valori di
comportamento" - fortezza, ottimismo, coraggio, serenità...- che conferiscono nobiltà
umana e, nel cristiano, valore soprannaturale a una esistenza penosamente
condizionata e apparentemente inutile. Non dimentichiamo che proprio le
conseguenze negative del peccato - la sofferenza, il dolore, la morte - sono servite al
Signore Gesù per riparare il peccato e redimere l'umanità.
273
Ef. 3,14-19
183
La vecchiaia
Dire che l'anziano deve fermarsi e lasciar andare il tempo non significa
inerzia, passività, ripiegamento sulla propria condizione per rimpiangere un passato
che ha l'aspetto di un sepolcro sul quale deporre i fiori della propria nostalgia; ma
significa far vivere l'uomo interiore che deve "rinnovarsi di giorno in giorno".
L'anziano non deve mai lasciare inoperosi né il corpo né la mente; cambieranno il
ritmo e l'intensità del suo operare e cambieranno anche le prospettive che si propone,
ma non può considerare esauriti i suoi talenti. Curare l'attività fisica, anche col
lavoro manuale, coltivare interessi intellettuali - circoli per anziani, università per la
terza età, viaggi e visite culturali... - le stesse occupazioni casalinghe o familiari, le
prestazioni di volontariato, amicizie e servizi reciproci, e varie altre espressioni di
operosità sono un valido aiuto non solo per mantenere una vitalità efficiente e
longeva, ma anche per superare la tentazione di vivere in modo negativo l'ultima età
della vita.
Un anziano inoperoso, che non ha saputo crearsi interessi o che non sa
cogliere il significato della sua età può facilmente diventare preda del vittimismo
egocentrico. L'anziano si chiude allora in sé stesso e, considerando chiusa la sua vita,
è tentato di aggrapparsi a tutto diventando insaziabile di tutto: di attenzioni, di
275
2 Cor. 4,16
276
Idem
185
affetto, di compagnia. Invece la soluzione del problema, nella vecchiaia come del
resto in tutte le età della vita, sta nel farsi dono, nell'aprirsi agli altri. "Nessuno ha
diritto di dire basta - diceva Giovanni Paolo II a gruppi della terza età - Voi non
dovete fermarvi, né considerarvi esseri in declino. Davanti agli occhi di Dio questo
periodo della vostra esistenza ha un significato di grazia... per questo è necessario
innanzitutto che l'anziano prenda coscienza delle possibilità che ha a sua
disposizione, perché, anche nell'età più avanzata, il suo animo continui ad affinarsi".
E il Papa indicava due mezzi di elevazione che il Signore mette a disposizione
degli anziani: la preghiera e il sacrificio. E concludeva: "Per la particolare
condizione di età in cui vi trovate, a voi non mancano né le occasioni di soffrire
né il tempo di pregare". 277
Nella società industrializzata dei nostri tempi, così efficiente e produttiva,
questi due mezzi non vengono minimamente presi in considerazione e anzi vengono
guardati con sospetto come un pericoloso deterrente all'impegno. Ma c'è il pericolo
che anche l'anziano cada in questo inganno, e vedendosi escluso da una società
giovanilista e impaziente, finisca anche lui per considerarsi emarginato, un escluso
dal grande gioco della vita, o comunque eliminato dalla società. In questo caso la
preghiera e il sacrificio avrebbero anche per lui il significato di un surrogato, di un
compenso consolatorio alla sua inutilità.
202 - La solitudine.
277
Giovanni Paolo II, Udienza 23.3.84
186
totalmente dalle occupazioni materiali, dalle necessità della vita terrena, lasciando
poco spazio alla vita spirituale, con una preghiera intermittente, con uno sforzo
ascetico molto scarso, e perciò viene a mancarci quella familiarità con Dio che ce lo
fa sentire presente e assiduo dentro di noi, quel rapporto abituale con lui che facilita
il dialogo fiducioso e consolante. Sono cose che non si improvvisano; richiedono,
infatti, lungo esercizio e lunga preghiera.
Tuttavia, la caduta di tante apparenze e di tante realtà esteriori, può facilitare
all'anziano un rapido ricupero del rapporto con Dio e del dialogo interiore con Lui,
con l'aiuto della grazia che il Signore dà sempre quando la nostra anima ritrova le vie
dell'umiltà e dell'abbandono fiducioso.
278
Salmo n. 72,26
187
economica, eppure quanto sarebbe povero il mondo senza di essi!
Analogamente anche l'anziano può essere improduttivo - in realtà molti non lo
sono affatto, costituiscono invece una importante forza economica, - ma cosa sarebbe
il mondo - l'umanità - senza gli anziani, e proprio in quanto anziani, per i valori che
essi portano? Non esisterebbe continuità tra le generazioni, continuità "storica",
perché gli anziani sono depositari delle tradizioni e della storia di un popolo. Sono
anche saggezza, esperienza, stabilità, "lungimiranza". Quando un giovane parla, il
vecchio capisce molto di più di quanto il giovane dice; l'esperienza, la saggezza, la
conoscenza del cuore umano, sono per il vecchio come facoltà in più che amplificano
la sua capacità di comprensione e di intuizione.
Ora, noi dobbiamo imparare a vivere tutte le età della nostra vita in
maniera positiva e gioiosa. Naturalmente la gioia che troviamo nell'adolescente e
nell'età giovanile sarà ben diversa dalla gioia dell'anziano; nel giovane la gioia è
"fisica", legata alla vitalità, al prorompere delle forze istintive, ed è una gioia più o
meno incosciente, che ha poco spessore e perciò anche fragile; la gioia dell'anziano,
quando è vera gioia e non semplice contentezza, è "virtuosa", nasce da un
atteggiamento interiore di saggezza, dalla consapevolezza dei valori umani e cristiani
della vita.
Questo fa si che la gioia dell'anziano sia una gioia più pacata, più profonda;
poter riscoprire la vita spogliata dei suoi inganni, delle sue promesse mancate, di
tutte le sue vane illusioni è come riappropriarsi di una ricchezza nascosta, che si
possedeva senza saperlo; in altre parole, è ricuperare sé stessi, i valori che fanno
autentica la nostra vita. E' ritrovare la propria immagine in mezzo a tanti falsi ritratti
di noi stessi che avevamo immaginato o che altri ci avevano dipinto, è la gioia di
veder emergere il senso vero della nostra esistenza. E' vero, gli anni ci tolgono
energie fisiche ma ci danno la sapienza del cuore, affievoliscono gli occhi del corpo,
ma affinano gli occhi dell'anima; ci offrono quella che possiamo chiamare la "gioia
del restauro".
Chiamiamo così la possibilità di riparare gli errori della nostra vita. Riparare
il male commesso è uno dei gesti più nobili e degni di rispetto: possiamo riparare
accettando innanzitutto con lealtà e umiltà le conseguenze spiacevoli o dannose
causate dai nostri comportamenti; possiamo poi riparare rettificando nel nostro cuore
tutto ciò che di sbagliato c'è stato nelle nostre scelte e nelle nostre convinzioni,
possiamo infine riparare, là dove giustizia esige, il danno materiale e morale arrecato
con le nostre azioni. "Se sono stati testimoni delle tue debolezze e delle tue miserie,
che importa che lo siano della tua penitenza?". 279
Proprio con la penitenza, che spesso è legata all'accettazione paziente del peso
degli anni, possiamo compiere l'opera di "restauro" della nostra anima e della nostra
vita. E' uno dei doni che la Chiesa nella sua liturgia chiede al Signore: "spatium
verae poenitentiae, emendationem vitae...", tempo per una vera penitenza, per il
restauro della nostra vita. La consapevolezza di aver rettificato i nostri errori, i nostri
sbagli - anche col sigillo di una buona confessione generale di tutta la vita - e di aver
riparato il male commesso è fonte di pace e di gioia, del "gaudium cum pace".
Non deve accadere che nella vecchiaia spendiamo tempo e denaro per
restaurare il nostro fisico e lasciamo degradare la nostra anima. Man mano che
l'uomo "esteriore" viene meno deve emergere l'uomo "interiore". Dobbiamo
perciò saper invecchiare cristianamente perché il mondo ha bisogno degli anziani. Ha
bisogno della loro saggezza, della loro preghiera, della loro gioia, del loro esempio di
279
Cammino, n. 193
188
generosità, di distacco, di penitenza; esempio di fede, di amore alla vita come dono
di Dio e di speranza e di fiducia nell'uomo.
I vecchi sono come i bambini; ma i bambini quando vedono un vecchio è come
se vedessero un grosso librone pieno di cose: di favole, di racconti, di vicende
misteriose e lontane ma tutte affascinanti, e li accomuna il senso della propria
piccolezza di fronte alla vita. Forse per questo vecchi e bambini si comprendono tra
loro istintivamente. Ma l'infanzia del vecchio ha qualcosa di più: è l'infanzia
impregnata della saggezza dello spirito, è l'infanzia di chi si sente creatura nelle mani
di Colui che è l'eterna giovinezza e che custodisce quella delle sue creature.
La morte
Così, gli uomini del nostro tempo hanno assunto di fronte alla morte gli
atteggiamenti più diversi, ma tutti orientati ad esorcizzare un fatto che incombe come
una condanna, senza appello e senza spiegazioni. Con la morte il discorso sulla vita
potrebbe sembrare finito; in realtà per quanto concerne la vita terrena è così, ma non
è così per il cristiano. Per lui il discorso sulla vita dovrebbe cominciare proprio
con la morte, perché "vita mutatur, non tollitur" - la vita non è tolta ma
trasformata. "Il bello deve ancora venire!" - diceva un anziano cardinale della Chiesa
sul letto di morte. Il "bello" infatti viene dopo la morte.
Per chi muore lontano da Dio, il "bello" avrà un nome terribile, un nome che
suona maledizione e condanna, avrà nome: inferno; una tragedia senza fine, pura
disperazione e odio assoluto, tenebre profonde come l'abisso dove abitano solo "il
pianto e lo stridore di denti". L'inferno è l'unica, vera tragedia dell'uomo; è il
fallimento totale della sua persona e della sua vita.
Ma per chi si "addormenta in Cristo", per chi muore tra le braccia di Dio, tra
le braccia della sua misericordia, il "bello" sarà qualcosa di indescrivibile, non
paragonabile ad alcuna bellezza, ad alcuna gioia, ad alcuna estasi di questo mondo; il
bello sarà il Volto di Dio, di Dio-Padre nella sua maestà e onnipotenza, di Dio-Figlio
nel fascino della sua umanità glorificata, di Dio-Spirito Santo nello splendore della
sua luce inaccessibile, sarà il volto dolcissimo di Maria, nostra madre e regina,
saranno le schiere luminose degli Angeli e degli Arcangeli, gli sciami ardenti dei
Cherubini e Serafini, tutto il firmamento della Chiesa con le costellazioni degli
Apostoli, dei martiri, delle Vergini e di tutti i Santi; e Dio sarà tutto in tutti, e con lui
la pace, la gioia, la felicità finalmente senza ombre, senza stanchezze, senza timori; e
la pienezza del bene sarà l'Amore, solo Amore, per sempre Amore, e il cielo e la terra
con tutto l'universo non avranno che una sola voce, un solo canto che proclamerà
eternamente: "Santo! Santo! Santo! il Dio degli eserciti; a Lui l'onore, la maestà e la
potenza". La sua gloria riempirà ogni creatura. Per sempre!
Che cosa succederà quando tutto questo riempirà la nostra anima? "Che cosa
sarà il Cielo che ci attende, quando tutta la bellezza, tutta la grandezza, tutta la
felicità e l'Amore infiniti di Dio si riverseranno nel povero vaso d'argilla che è la
creatura umana...?". 280 Ebbene, "un grande Amore ti aspetta in Cielo: senza
tradimenti, senza inganni. Tutto l'Amore, tutta la bellezza, tutta la grandezza, tutta la
scienza...! e senza stancare: ti sazierà senza saziarti". 281
207 - L’essere-per-la-morte.
280
Solco, n. 891
281
Forgia, n. 995
190
Ma la maggior parte degli uomini di oggi che vivono immersi nei loro affari e
nelle cose del mondo, al pensiero della morte avvertono un insuperabile disagio e
cercano di nascondere il loro imbarazzo, spesso ridicolo, con frasi fatte, tipicamente
qualunquiste, come: "Così è la vita!..." Altri evitano l'argomento come se, passandolo
sotto silenzio, il problema non avesse bisogno di una risposta. In molte metropoli
secolarizzate del nostro mondo occidentale non si incontrano più cortei funebri e
viene fatto accuratamente sparire ogni segno che richiami la morte; i cimiteri stessi
sono trasformati in giardini o in parchi.
La nostra società violenta ci ha poi abituati alla morte; si uccide con tutta
facilità senza il minimo scrupolo, con la freddezza e insieme con la superficialità di
chi non fa nessun calcolo delle persone, siano innocenti o colpevoli, siano bambini o
vecchi, sia per vendetta o per futili motivi, sempre con cinico disprezzo della morte e
della vita, disprezzo dell'uomo. Avviene ogni giorno, sotto i nostri occhi, tutto
documentato da immagini e descrizioni come se fosse un fatto di normale routine,
che tutt'al più coinvolge per un attimo i sentimenti sui quali torna subito il silenzio.
L'imbarazzo diventa terrore e angoscia di fronte ad alcuni aspetti con cui si presenta
la morte fisica. L'aspetto che ci trova più rassegnati è l'aspetto biologico perché,
dopotutto, la morte biologica può essere considerata un fatto interno alla vita stessa:
la vita ha un suo ciclo e obbedisce alle sue leggi. Prima che gli esistenzialisti
scoprissero "l'essere-per-la-morte", San Tommaso anticipava i biologi osservando
come la vita sulla terra si fa, si prolunga e anche si genera tramite la morte.
Ma l'aspetto della morte fisica che più spaventa è l'aspetto psicologico. C'è
un ciclo anche psicologico nella vita dell'uomo. Il bambino a poco a poco si sveglia
intellettualmente alla conoscenza del mondo, l'adolescente prende progressivamente
coscienza di sé stesso, il giovane si apre ai progetti dell'amore e della professione, e
tutti siamo in fuga sin dall'infanzia verso la maturità, verso la pienezza della nostra
vita, della nostra persona con tutti i suoi progetti..., poi viene il crepuscolo. Il
bambino muore per lasciare il posto all'adolescente, anche l'adolescente muore e
lascia il posto al giovane e il giovane ha fretta di morire perché nasca l'uomo adulto,
maturo, padrone di sé e della vita. Ma l'uomo adulto non vuole morire e si rifiuta al
ciclo psicologico. Infatti i bambini, gli adolescenti, e in parte anche i giovani, non
hanno paura della morte; chi teme la morte è l'adulto.
L'uomo adulto teme il crepuscolo; viene infatti la notte psicologica: la mente
si smarrisce nei concetti e nei ragionamenti, la memoria non afferra più il tempo e
sovrappone i ricordi, gli affetti stessi si riducono alla loro forma elementare, labile e
incerta, infine l'orizzonte della coscienza va progressivamente restringendosi e perde
i suoi contenuti: progetti che un giorno incantavano ora non dicono più niente, idee
che ci abbagliarono e che ora ci lasciano indifferenti, stimoli fortissimi all'azione che
poi sono svigoriti, il ricordo stesso delle persone care si allontana e svanisce...
Vengono alla mente le parole di Gesù: "Viene la notte, quando nessuno può più
operare". 282 E ai farisei, parlando della sua morte, aggiungeva: "Ancora per poco
tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano
le tenebre". 283
La morte psicologica, che ha la sua espressione più tragica nel coma celebrale,
sta diventando sempre più diffusa; i progressi della medicina hanno prolungato la
vita biologica, ma poco o nulla hanno ancora potuto sulla longevità psicologica.
A questo crepuscolo della vita, succede poi la notte definitiva con la morte
anagrafica e biografica: il nostro nome scompare dagli elenchi o rimane sepolto nei
registri degli archivi, e tutte le nostre opere vengono dimenticate. Per pochissimi
persiste una sopravvivenza storica legata al genio: nell'arte, nella scienza, nella
politica, ma della loro persona più nulla. Diversa è la sorte dei santi; la loro
"sopravvivenza" non è solamente storica perché il loro potere di intercessione li
282
Gv. 9,4
283
Gv. 12,35
191
rende ancora vivi ed operanti nella vita della Chiesa e dell'umanità.
Ha perciò decisiva importanza il poter santificare gli ultimi istanti della nostra
vita. Per questo occorre innanzitutto seguire l'avvertimento del Signore: "Vegliate
perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà". 291 Appunto perché non
sappiamo se nel momento della nostra morte avremo la consapevolezza e la lucidità
di coscienza, o anche semplicemente il tempo per affidarci a Dio e alla sua
misericordia, è vera saggezza soprannaturale fare subito l'atto di offerta di noi stessi
e dire al Signore: "Fin d'ora accetto, o Signore, la morte che tu permetterai per me,
quando, come e dove tu vorrai, e la offro a te con le sofferenze che
l'accompagneranno in adorazione alla tua maestà divina e in espiazione dei miei
peccati."
La preghiera - soprattutto frequenti atti di contrizione per i nostri peccati - e la
lotta interiore contro ciò che ci allontana da Dio, è questa la vigilanza che il Signore
ci chiede e che ci farà arrivare alla fine della nostra vita pronti per l'incontro con Lui.
Molti offrono la vita a Dio col testamento; noi dobbiamo offrirla subito, finché
l'abbiamo ancora fra le mani e ne abbiamo consapevolezza, finché possiamo darle
ancora tutto un contenuto di amore e di servizio che al momento della morte sarà
l'unico bagaglio che possiamo portare con noi. Infine, uno dei più grandi doni che il
Signore può darci è quello di santificare le ultime ore della nostra vita con la
presenza della Chiesa accanto a noi: il sacramento dell'Unzione degli infermi e
soprattutto l'Eucarestia, memoriale della morte del Signore ricevuta come viatico per
il nostro passaggio dal tempo all'eternità, è il modo più cristiano di "addormentarci in
Cristo".
Morire tra le braccia di Dio, nostro Creatore e Signore, è anche il modo più
bello e più esaltante di concludere la nostra esperienza di creature. La
consapevolezza della nostra creaturalità, consapevolezza che ci ha accompagnato
lungo tutte le stagioni della vita, trova nel momento supremo la sua espressione più
completa. Saperci creature è sperimentare il nostro legame con Dio, Alfa e Omega,
Principio e Fine della nostra vita, colui che apre e chiude , con bontà e amore, la
nostra vicenda terrena.
Così la nostra esistenza sulla terra si apre con un atto dell'onnipotenza di Dio e
si chiude con un atto della sua misericordia; l'una e l'altra sono Amore. E l'Amore è il
luogo - la culla - dove è chiamata a nascere, a vivere, e a morire ogni creatura
umana. Chi rifiuta di considerarsi creatura pensa di nascere per sbaglio, di vivere per
inerzia e di morire per caso. E' la triste condizione di chi vive lontano da Dio.
Noi invece siamo creature, e perciò veniamo da Dio e a Dio torniamo.
Tuttavia questo nostro viaggio nel tempo è come un lampo: "In pochi palmi hai
misurato i miei giorni, e la mia esistenza davanti a te è un nulla. Solo un soffio è
ogni uomo che vive, come ombra è l'uomo che passa; solo un soffio che si agita...". 292
290
Lc. 23,46
291
Mt. 24,42
292
Salmo n. 38,6-7
194
Come dire che abbiamo poco tempo: tempus breve est! Per quanto lunga possa
essere la vita, il tempo che abbiamo per compiere il bene è sempre poco.
"Ammazzarlo", sprecarlo in occupazioni vane, sciocche, inutili, o consumarlo al
servizio del nostro egoismo, delle nostre ambizioni mondane, della nostra sete di
comodità e di piaceri ignobili è un vero delitto; delitto che ci farà assaggiare, alla
fine della nostra vita, l'amaro sapore della sterilità.
La morte ci insegna a profittare del tempo, a riempirlo di frutti duraturi,
portando a compimento la volontà di Dio. Ci farà capire "quanto poco valgono le
cose della terra, che appena cominciate, sono già finite". 293
La morte ci aiuta così a giudicare gli avvenimenti della vita e la loro
importanza in maniera ben diversa: in quel momento non giudicheremo più con il
metro del tempo ma con il metro dell'eternità. Perciò la meditazione sulla morte ci
aiuta a conservare il nostro cuore libero, staccato dalle cose di questo mondo, in
piena letizia. San Francesco d'Assisi volle morire nudo sulla nuda terra, cantando il
Magnificat.
Ai Santi la morte non toglie nulla ma dona tutto. Per questo molti santi
andavano incontro alla morte con gioia; i martiri cantavano. Le parole del Salmo
"Quale gioia quando mi dissero: "Andremo alla casa del Signore" 294 esprimono lo
stato d'animo di chi ha vissuto la vita come "un'attesa"; è vissuto aspettando
l'abbraccio di Colui che sulla terra è stato appassionatamente amato e fedelmente
servito.
Quando eravamo piccoli, colei che con un bacio, un sorriso e una carezza
veniva a chiuderci gli occhi nel sonno era nostra madre. Non c'è un modo più bello e
più dolce di chiudere gli occhi alla vita terrena che vedere accanto a noi colei che è
"la Madre", madre della Vita, che con un bacio, un sorriso e una carezza ci
accompagna nel nostro "sonno" e nel nostro "risveglio", per stare con lei per sempre.
293
Forgia, n. 995
294
Salmo, n. 121,1
195
L'ETERNITA'
**********
Rimanere nel suo amore: è il tempo; è lasciarci condurre da lui per compiere sulla
terra "ciò che a lui è gradito".
Amarci gli uni gli altri con l'amore di Cristo: è l'unico vero dialogo tra l'eternità e
il tempo, il dialogo che unisce gli uomini a Dio e gli uomini tra di loro.
Perciò, dimorare in Dio, rimanere nel suo amore e amarci gli uni gli altri con
l'amore di Cristo e come Cristo ci ha amati, è tutta la vita cristiana. Qui approdano la
fede e la speranza, qui risiede l'essenza della santità. Qui c'è tutta la grandezza e la
dignità dell'uomo; qui egli realizza tutto il suo destino.
In queste pagine abbiamo cercato i cammini della fede, ci siamo nutriti con il
pane della speranza, abbiamo ascoltato i desideri profondi del cuore; abbiamo anche
percorso le vie dell'uomo, della sua identità profonda, della sua dignità offesa e
redenta; le vie della sua intelligenza, della sua vocazione e del suo destino; abbiamo
cercato con stupore e trepidazione i passi di Dio, silenziosi e commoventi, nella vita
dell'uomo e nella storia del mondo. Abbiamo concluso che tutto questo ha un solo
nome: Amore. "Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio, chi non ama non
ha conosciuto Dio, perché Dio è Amore. Perciò chi non ama rimane nella
morte". 297
Conoscere l'Amore è conoscere Dio, è conoscere l'uomo, è conoscere la vita.
Non c'è luce dove non c'è Amore, non c'è verità dove non c'è Amore, non c'è felicità
dove non c'è Amore.
Vivere sulla terra amando; rimanere nell'Amore qui nel tempo per dimorare
nell'Amore per l'Eternità.
Signore, nelle tue mani sono tutte le cose, nelle tue mani è il tempo e
l'eternità. Hai voluto che tutto fosse amore: il tuo Essere divino, tutte le tue opere,
quanto hai fatto nel tempo e quanto porterai a compimento nell'eternità.
L'Eternità! Quando, Signore? Quando avverrà che nella nostra luce non ci
sarà più ombra, nella nostra gioia non ci sarà più timore, nel nostro desiderio non ci
sarà più attesa? Quando le stelle non avranno più bisogno della notte, né i fiori della
primavera, né il mare delle sue sorgenti?
Quando accadrà che non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno,
perché le cose di prima sono passate? E non avremo più bisogno del sole, né della
luna, perché la tua gloria sarà la nostra luce e l'Agnello la nostra lampada? 298
Quando, Signore, lo Spirito e la Sposa diranno: "Vieni!"? 299
... allora il velo cadrà dalla tua faccia, e anch'io potrò dirti:
296
1^ Gv. 4,10...16
297
1^ Gv. 4,7-8
298
Ap 22,4...
299
Ap. 22,17
198
Piccola sposa
del tuo fuoco
la mia libertà
ieri creata
arde
al tuo Sempre! 300
300
S. Teresa d'Avila, Castello 7M,2
199
INDICE GENERALE
IL TEMPO
1 - Una leggenda
2 - Il mistero del tempo
3 - Tempo ed Eternità
4 - "O cara Eternità!"
Quale fede?
10 - Fede e vita eterna
11 - Fede umana
12 - Una "fede" falsa: le sètte
13 - Dignità e importanza delle Religioni
14 - La fede del cristiano: incontro con Dio in Gesù Cristo
Quale speranza?
42 - Il pane della speranza
43 - La speranza mondana
44 - La speranza teologale
45 - Speranza e santità
46 - Santità per tutti
Quale amore?
61 - Dio è Amore
62 - La benevolenza
63 - L'Amore in Dio: lo Spirito Santo
64 - Ferita d'amore
65 - Culto pagano e amore cristiano
66 - Amore cristiano: "connaturali" con Dio
201
Farsi dono .
67 - L'amore è dono
68 - La vita: una corsa verso il dono
69 - La conoscenza: moto d'amore
70 - Dono di sè: conoscere, amare, servire
Il Comandamento dell’amore.
77 - Amore e libertà
78 - Quale libertà?
79 - Libertà e verità
80 - La libertà dell'amore
81 - Il comandamento dell'amore
82 - Amare con tutta l'anima, con tutta le mente
83 - Amare con tutto il cuore, con tutte le forze
84 - Il "Comandamento nuovo"
85 - Amore e misericordia
86 - Amore e perdono
87 - Amore e servizio
88 - Amare per amore
89 - Il "quadrilatero" dell'amore fraterno
90 - L'amore perfetto sa sorridere
IL TEMPO E L’UOMO
La corporeità.
96 - Trascendenza del corpo
97 - Il corpo: epifania dell'anima
98 - Il corpo: inno alla bellezza
99 - Il "culto" del corpo
100 - Il corpo e il suo destino di gloria
101 - Il corpo nell'amore coniugale
102 - Il corpo nell'amore "sponsale"
103 - La triplice "corporeità" in Cristo
104 - Il corpo "sacrificato"
105 - Il corpo "orante"
202
La dimensione spirituale dell’uomo.
106 - L'anima
107 - Preziosità dell'anima
108 - Fine soprannaturale dell'uomo
109 - La persona umana
110 - Miseria e grandezza della condizione umana
111 - Per una nuova "civiltà dell'uomo"
IL TEMPO
E L’INTELLIGENZA DELL’UOMO
Intelletto e conoscenza
112 - La Luce e la Verità
113 - La Luce e l'intelletto
114 - L'itinerario dell'intelletto
115 - La conoscenza sensibile
La conoscenza e i sensi
116 - I sensi: il tatto.
117 - L'olfatto
118 - Il gusto
119 - L'udito
120 - La vista
121 - La sensibilità interiore
122 - Sensibilità e responsabilità
123 - Finezza d'animo
Sensi e intelletto
127 - Conoscenza sensibile e conoscenza intellettiva
128 - Il sub-cosciente e la vita dello spirito
129 - Sensibilità e libertà
130 - Sensibilità e giudizio morale
131 - Sensibilità e religiosità
132 - Verità delle cose e Verità dell'intelletto
IL «TRIPLICE» INTELLETTO
A) Intelletto speculativo
133 - Che cos’è l’intelletto speculativo
134 - Un nemico della fede: l'ignoranza
135 - "Studiositas" e "curiositas"
136 - La "sana dottrina"
137 - Il tarlo delle ideologie
138 - Un tragico inganno: l'immanentismo
139 - Gli idoli della Ragione
140 - Scienza e morale
203
141 - L'umiltà intellettuale
142 - Un idolo "tirannico": la democrazia
143 - La Ragione tra Verità e Libertà
B) Intelletto pratico
144 - Che cos’è l’Intelletto pratico.
145 - La Torre di Babele
146 - Intelletto pratico e attivismo
C) Intelletto contemplativo
147 Che cos’è l’Intelletto contemplativo
148 - La contemplazione mistica
149 - Le vie alla contemplazione
IL TEMPO E LA VITA
204
La vita in natura e nell’uomo.
170 - Un fenomeno impressionante: la vita
171 - La vita: teofania di Dio Creatore
172 - Una discontinuità biologica: l'uomo
173 - Actus essendi: l'atto di essere
174 - la vita "umana"
175 - Esperienza interiore del proprio "Io"
176 - Atto di essere e immortalità
L’infanzia .
180 - L’età dei perché
181 - "Vita d'infanzia"
L’adolescenza.
182 - L'età critica
183 - "Amici" di Dio
184 - Le "impazienze" dell'adolescenza
185 - L'impazienza del cuore
186 - Educazione all'amore
La giovinezza.
187 - L’età dei progetti
188 - La vera rivoluzione: la santità
189 - Fidanzamento e matrimonio
190 - Verginità per il Regno dei Cieli
L’età adulta.
191 - Quale maturità?
192 - I "sintomi" della maturità
193 - Maturità e coscienza
194 - Coscienza "viva"
195 - Coscienza "integra"
196 - Maturità e libertà
197 - L'adulto ha nome e cognome
198 - Maturità e prudenza
La vecchiaia.
199 - Il «carico» del tempo
200 - Sguardo di eternità
201 - Nessuno deve dire: basta!
202 - La solitudine
203 - Il "Dio inutile"
204 - La gioia del "restauro"
La morte .
205 - La frontiera del tempo
206 - Il "bello" deve ancora venire
205
207 - L'essere-per-la-morte
208 - Il Vincitore della morte
209 - La morte "mistica"
210 - "Tempus breve est"
L’ETERNITA’
206