Scusate il ritardo
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Qualche ricordo è piacevole, altri fanno ancora un po’ male; qualche sogno, pur sopito, persiste anche nella maturità, e tutto questo costituisce la trama di quel tessuto ricco che è la vita, sulla quale intrecciamo l’ordito dei giorni.
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Anteprima del libro
Scusate il ritardo - Paolo Vezzosi
PREFAZIONE
Una serie di ricordi che si susseguono, recuperando emozioni, sensazioni, immagini, in una dimensione che il tempo non ha cancellato, anzi ne ha definito i contorni e le suggestioni.
Un viaggio à rebours, che ripercorre ricordi di infanzia, di adolescenza, di gioventù: fatti, eventi, personaggi, visti con gli occhi del ragazzo che cresce per diventare uomo.
Gino, il maestro unico delle elementari, il circo con la sua magia, il viaggio itinerante attraverso l’Europa con i genitori per raggiungere Budapest, l’escursione con il padre in vetta sulle Apuane, le avventure proibite come il bagno a mezzanotte durante il soggiorno estivo in Versilia, le vacanze in campagna a Massa e Cozzile, con i cugini. Fin qui racconti del periodo dell’adolescenza, pervasi dalla curiosità giovanile di chi vive le prime esperienze di vita e insieme soffusi da una sorta di tenera nostalgia.
Poi si passa ai fatti della gioventù ed ecco la partenza per la naja, il primo vero distacco dal guscio degli affetti familiari e la fuga, quando studente di medicina, decise di lasciare tutto e andare col treno a Reggio Calabria per inseguire il primo amore. Un amore che poi, come spesso succede in questi casi, si spegne pian piano lasciando l’amaro in bocca della delusione e della sconfitta. Questa fuga ebbe anche come conseguenza quella di trascurare lo studio, con inevitabili insuccessi agli esami che lo costrinsero a scegliere una facoltà meno impegnativa. Erano caduti tutti i sogni, aveva perduto l’amore e insieme la facoltà che amava e su cui il padre, anche lui medico, puntava molto. Avvertì il senso angosciante della sconfitta: era svanita la sua idea di futuro, insieme alla gioventù che era volata via, in un lampo, tutto insieme. Tuttavia, le sconfitte aiutano a crescere, fanno prendere coscienza della realtà, aiutano a fare quelle scelte che nel bene o nel male caratterizzano profondamente la nostra vita. Era finalmente diventato grande.
E allora questo percorso che attraversa i racconti finisce, perché inizia una nuova fase. E insieme alla fine di questa fase terminano i racconti, in questo excursus cronologico ed esistenziale che va dall’infanzia alla giovinezza.
I motivi predominanti della narrazione sono la rimembranza e il crollo dei sogni e delle illusioni, che rende il ricordo più amaro e sofferto. Motivi che rendono questo testo il paradigma della vita, la dimensione personale ed insieme universale che riveste la nostra esistenza, la consapevolezza che il tempo va avanti, che la vita continua, ma non più nello stesso modo, o come avremmo voluto che andasse.
Dopo ci sarà un’altra vita: quella vera, quella del lavoro, della famiglia, dei figli, dove la quotidianità non consente di
continuare a sognare. Comincia un’altra storia, apparentemente più arida della precedente. Ma i sogni e i ricordi giovanili non svaniscono, restano sopiti nella sfera più profonda, fanno parte di noi, pronti ad essere rivissuti, per dare un senso compiuto alla nostra esistenza.
Prof. Franco Donatini, Università degli Studi di Pisa
IL MAESTRO GINO
«Chi è privo di un mito è un uomo che non ha radici»
(Carl Gustav Jung)
Il maestro Gino è stato il maestro unico delle mie scuole elementari Landini Marchiani di Fucecchio, paese del Valdarno Inferiore nel quale sono nato e vissuto per ventisette anni, prima di trasferirmi in Versilia. Uomo un po’ paffutello, dalla pancia prominente, bonario ma poco incline allo scherzo. Quando in classe gli facevamo perdere la sua infinita pazienza, si limitava a sentenziare: «Le teste di legno fan sempre del chiasso». Bastavano queste lapidarie parole per ottenere l’obbedienza della classe. Ma raramente arrivava a tanto, poiché la sua aria severa ci incuteva un po’ di timore. Per tanti di noi era un buon padre di famiglia, forse un po’ paternalista, certamente non molto dotato di ironia, ma di sicuro non era il classico padre-padrone. Per me poi è stato un mito: posso dire senza ombra di dubbio che mi ha fatto da secondo padre, essendo il mio sempre impegnato nell’attività estenuante di medico di famiglia nel paese, lavoro che assorbiva tutte le sue giornate.
Il maestro Gino abitava proprio dietro casa mia, in una grande casa popolare, insieme ad altri maestri e famiglie appartenenti al ceto impiegatizio e popolare. Per questo motivo, finite le lezioni, mi riaccompagnava lui stesso al cancello della mia abitazione, distante dalla sua poche decine di metri. Durante la ricreazione ci portava nel giardino della scuola a giocare a «bandierina», gioco nel quale ero imprendibile, essendo molto magro e veloce.
Terminate le scuole elementari, ricordo che negli anni successivi passavo spesso a trovarlo a scuola, mi faceva entrare in classe nell’ultima mezz’ora. Stavo in piedi, vicino alla cattedra, assaporando i bei tempi passati trascorsi insieme. Mi faceva piacere ricordare quegli anni spensierati: frequentando le scuole medie infatti avevo perso quell’atmosfera familiare, rassicurante, che riempiva le mie giornate durante l’infanzia.
I compagni con i quali avevo familiarizzato di più erano il mio vicino di banco Sandro detto «Paletta» e la mia vicina di casa Laura, con la quale giocavo tutti i pomeriggi a casa mia. Giocavamo al Dottore, lei era la mia unica paziente (molto paziente). Non siate maliziosi, per me era già mia moglie: dicevo a tutti che avrei fatto il muratore e che lei sarebbe stata la mia «manovala». Infatti molti pomeriggi andavo ad «aiutare» i muratori che stavano costruendo una grande casa popolare nel terreno confinante con la mia palazzina, nel cosiddetto «campo di Vasco». Quest’ultimo era il costruttore della casa popolare, cugino di mio padre. Mi sentivo grande, proprio uno di loro, quando posavo il mattone uno sopra l’altro dopo avervi spalmato la malta e averla distesa con la cazzuola. Si faceva merenda insieme, pane e prosciutto, una bottiglietta d’acqua e poi me ne tornavo a casa soddisfatto. Ora potevo fare i miei compiti per l’indomani, con Laura. In realtà ero timido, la timidezza è stata fedele compagna della mia esistenza; per tanti anni ho pensato che fosse una cattiva compagna, oggi non ne sono più così convinto. Di una cosa sono certo, che mi piaceva quella morettina del primo banco, la Billi, ma penso che lei non si sia mai accorta di me (a nascondere i miei sentimenti ero bravissimo). Ricordo molto bene Roberto, l’allegro, robusto pacioccone,