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Il ministro
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E-book202 pagine2 ore

Il ministro

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Info su questo ebook

Il racconto dei nove turbolenti giorni del ministro della cultura del Montenegro, Valentino Kovačević, durante i quali l’uomo lotta contro l’ondata di eventi politici e sociali che lo sommerge dopo l’accidentale uccisione di un’artista durante una performance.

Un vortice che mette in discussione tutto il mondo che ruota attorno al ministro, che mina la sua carriera e che coinvolge gli aspetti intimi e familiari della sua vita.

"Il ministro" è di fatto un ritratto psichedelico e decadente della società contemporanea, della politica e dell’instabile equilibrio fra uomo e potere.
LinguaItaliano
Data di uscita24 gen 2023
ISBN9791280219916
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    Anteprima del libro

    Il ministro - Stefan Boskovic

    L’autore

    Stefan Bošković (1983). Scrittore e sceneggiatore montenegrino, fin dal suo esordio le sue opere ricevono numerosi premi a livello europeo. I suoi racconti sono tradotti in inglese, tedesco, cinese, russo, sloveno, albanese e macedone.

    Per Il ministro ha ricevuto il Premio dell’Unione Europea per la Letteratura nel 2020 e il Premio dell’Iniziativa Centroeuropea Giovani Scrittori nel 2021.

    La traduttrice

    Elvira Mujčić Nata nel 1980 in Jugo­slavia, è una scrittrice e traduttrice italo-­bosniaca. Ha pubblicato diversi romanzi, in particolare per Elliot Dieci prugne ai fascisti e Consigli per essere un bravo immi­grato. Ha tradotto opere letterarie e film documentari di autori provenienti da Bosnia, Serbia, Croazia, tra cui Slavenka Drakulić, Vladimir Tasić, Faruk Šehić, Semezdin Mehmedinović, Robert Perišić. In collaborazione con la Scuola Holden per il progetto CELA (Connecting Emerging Literary Artists), è mentore per traduttori emergenti.

    estensioni – 34

    Bottega Errante Edizioni

    Via Pradamano 4

    33100 Udine

    www.bottegaerranteedizioni.it

    [email protected]

    Traduzione dal montenegrino: Elvira Mujčić

    Editing: esagramma

    ISBN 979-12-80219-91-6

    Titolo originale: Ministar

    © 2019 Stefan Bošković

    Published by arrangement with NOVA KNJIGA, Crna Gora.

    All rights reserved

    © Dell’edizione italiana Bottega Errante Edizioni s.r.l. 2023

    È vietata la riproduzione totale o parziale del testo senza l’autorizzazione dell’autrice e della casa editrice.

    Stefan Bošković

    Il ministro

    Traduzione di Elvira Mujčić

    Bottega Errante Edizioni

    Ai miei genitori

    Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. […] E per questo essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio.

    Giorgio Agamben

    Primo giorno

    È colpa mia? La domanda mi perseguita da tutta la mattina. Lunatico, leccapiedi, leggero, lascivo, languido, lu, le, la – Landscape di John Cage risuona nel corridoio tra il bagno e la camera da letto. Tutto è a forma di L. La posizione del mio braccio sul quale appoggio il corpo in diagonale. La fetta di limone nel bicchiere di acqua calda, la poltrona e le e-mail. Esattamente centotrentanove e-mail alle quali devo rispondere. Bruno Cortone è il primo e il più importante. Il latrato del labrador anticipa i raggi del sole. Il profumo di lavanda mi fa venire la pelle d’oca sul culo. Piacevole. Mi esercito a scacciare via i pensieri mentre l’acqua calda mi scotta le spalle. È colpa mia? Attraverso il vapore a malapena intravedo il mio naso e una parte delle labbra. Sono neri. Come il sangue che usciva dalla sua bocca. Poi vado a lucidare le scarpe e intravedo il mio riflesso sulla fibbia d’argento. I miei consiglieri mi avevano suggerito di restare a casa o di partire per un congresso in Polonia. Non avevo preso in considerazione nemmeno le raccomandazioni dei miei genitori. Dovevo essere io a decidere. Sono io colui che decide. Sono io il ministro.

    * * *

    Il mattino era umido, luminoso e si stava protraendo più del solito. Mentre controllava la pressione delle gomme, Saša calpestava le gocce sfavillanti, dissolvendo la luce. Me ne stavo tranquillo sul sedile posteriore, con gli occhi chiusi. Saša si è sfregato le mani e ci ha soffiato sopra, poi ha messo in moto, borbottando. Ci stavamo muovendo attraverso la fitta rete di strade del centro storico, seguendo quella che è considerata una sorta di scorciatoia. Ho ingoiato due pastiglie di Valium, ma l’agitazione non accennava a diminuire. Il sobbalzare e le improvvise frenate ridistribuivano la tensione nelle cellule, che poi si andavano a sciogliere nei tessuti e nei capillari. Quando ho aperto gli occhi, l’ansia era svanita, mentre l’intestino traballava vuoto, provocandomi la nausea.

    «Rallenta e cerca di evitare le buche sulla strada».

    Saša era il mio autista esattamente da otto anni. Prima di essere nominato ministro ero decano della facoltà di Arti drammatiche e in quel periodo Saša divenne il mio autista. Man mano che progredivo nella mia carriera, anche Saša avanzava nella sua. Aveva ricevuto una Mercedes verde Classe A e l’amava come fosse sua figlia. Mentre contorceva il viso alla ricerca di una risposta, mi sono lasciato scivolare sul sedile di pelle nella speranza che non iniziasse a parlare. Nello specchietto retrovisore ha notato la mia fronte sudata.

    «Anche io sono agitato» ha detto Saša.

    «Io no» ho risposto.

    «L’aria condizionata non funziona bene da giorni».

    Alzava e abbassava i regolatori del clima per camuffare il disagio. Sapevamo entrambi che l’aria condizionata funzionava. Saša era un uomo leale, educato e abbastanza insicuro. Come tutti gli autisti conosceva l’animo umano. Quando non volevo parlare mi osservava dallo specchietto retrovisore, mi lanciava occhiate frequenti ma non abbastanza lunghe da offendermi. Durante i momenti di silenzio assorbiva tutto ciò che non dicevamo.

    Fuori dall’edificio del Ministero le abitudini della gente comune diventavano le abitudini del ministro. Così dettavano le direttive del premier. C’era molta gente, telefoni e telecamere accese. La sua cappella era la terza della fila. Avrebbero avuto il tempo di riconoscermi e pensare a cosa gridarmi. Lunatico, leccapiedi, leggero, lascivo, lu, le, la. Ho abbandonato le abitudini comuni e mi sono fatto strada verso la terza cappella. Mi hanno riconosciuto e hanno preso ad agitarsi, il fruscio delle ali di centinaia di fantasmi, nei miei polmoni rimbombava la tempesta, le ginocchia tremavano. Con le spalle alzate ho barcollato come Pinocchio in un vestito di Neil Barrett, sconfitto e ingenuo, pronto a gettarmi davanti alla porta, a genuflettermi di fronte alla gentaglia e sussurrare: Sono il re in ginocchio. Pugnalatemi ora con le corna e con gli obiettivi, accalcatevi nella fila per fare un commento e strappatemi la spina dorsale, colpitemi sulle spalle e sulla testa. Non dimenticate di pubblicare il prezzo del vestito che indosso.

    La cappella era silenziosa e fredda. Figure lugubri sulla superficie liscia cambiavano umore e posizione. Quando ho varcato la soglia, i singhiozzi si sono interrotti. C’erano sette donne in fila che si asciugavano le lacrime e mi fissavano. Mi sono fermato davanti alla bara aperta e l’ho guardata. Il suo viso era ruvido, la pelle grigia, un po’ di sangue sulle labbra morte. Ho osservato quel pezzo di carne che non era percorso da alcun impulso, nulla che ricordasse gli occhi irrequieti, la flessibilità delle braccia e i suoni che un tempo produceva quell’immenso meccanismo umano. Il mio respiro era pesante e rumoroso, mentre dietro di me si stava creando una folla. Non ho avuto il coraggio di fare nemmeno un passo fino a quando non hanno iniziato a scorrere le lacrime sul mio viso così triste. Ho tirato fuori un fazzoletto, con eleganza ho asciugato le guance, ho fatto un inchino profondo e mi sono diretto verso le streghe. Le donne alle quali stavo facendo le condoglianze stavano congelando. Credevo che le lacrime le avrebbero sorprese. E così è stato. Alla fine della fila mi attendeva sua madre, una donna alta. Una creatura dignitosa e bella di una sessantina di anni. Mi sono fermato e per la prima volta ho alzato la testa. Ci siamo guardati: riuscivamo a scorgere i fili gialli dell’iride nei nostri occhi. A voce bassa e chiara ho detto che mi dispiaceva molto. Mi ha abbracciato per un attimo e, prima che si rendesse conto di quella sua reazione avventata, ero già fuori, in mezzo agli uomini. La stretta di mano era la moneta di scambio. Mi sono impegnato a distribuire strette di mano possenti. Gli uomini amano la forza degli altri uomini. Persino mentre ricevono le condoglianze dall’uomo che ha contribuito alla morte della loro figlia. Sorella. Nipote.

    * * *

    In macchina faceva caldo, i miei pensieri erano ostaggio degli odori che mi ero portato appresso dalla cappella. L’aria condizionata non era riuscita a grattarli via dalla pelle, quindi ho abbassato il finestrino e lasciato che il vento ci si fiondasse con forza. Per la terza volta ho riletto con attenzione i messaggi di Bruno Cortone su WhatsApp. Aveva saputo dell’incidente ed esprimeva preoccupazione per il mio mandato. A raffica mi poneva tutte le domande possibili riguardo alla nostra collaborazione, che portavamo avanti in segreto. Non avevo una risposta. Dovevo riflettere sulla situazione e sulle circostanze, ma chi poteva conoscere il corso delle eventuali conseguenze, sempre che ce ne fossero state? Soltanto il premier, che però non potevo raggiungere senza che prima mi chiamasse lui. Non mi restava che aspettare – e mentre aspettavo guardavo i giovani alberi che ci stavamo lasciando alle spalle. Saša mi stava portando verso Cettigne, la città che i presuntuosi abitanti chiamavano la valle degli dèi; era sì verde e profumata, ma incastonata tra le rocce. Gli abitanti di Cettigne soffrivano di un’inspiegabile mania di grandezza e a un certo punto erano finiti per identificarsi con le divinità. Amavo Cettigne per il profumo intenso dei tigli e le sue ombre profonde, ma la primavera vi arrivava tardi, per questo avevo proposto svariate volte di trasferire nella capitale il Ministero della Cultura. Cettigne era troppo isolata, con tante piogge e troppe chiacchiere sul niente. L’edificio del Ministero si protendeva alla fine della strada. Una residenza nobiliare, spaziosa e silenziosa. Appena ci mettevo piede, mi veniva da pensare di appartenere a un regno, non a quello montenegrino, ma a uno molto più grande, indiscutibilmente più antico, forse addirittura di ordine celestiale. A quel punto di solito ricevevo un messaggio da mio padre e ripiombavo a terra, tra i rovi. Mi telefonava ogni giorno alle undici precise, un rituale quotidiano. Le prime frasi riguardavano mia madre e la sua salute, poi mi chiedeva come stavo, come stavano i miei polmoni e se bevevo gli infusi che mi aveva mandato. In maniera disinteressata faceva una serie di brevi domande su alcune persone del partito, nonostante l’avessi ammonito svariate volte di non parlare di queste cose al telefono. Offeso, concludeva con una lieve osservazione su un articolo di giornale che mi riguardava e che lui aveva trovato per caso e scorso velocemente. A quel punto di solito mettevo giù con la scusa che era appena entrato qualcuno nel gabinetto. Intorno ai dodici anni avevo interrotto le dimostrazioni d’affetto nei confronti dei miei genitori. Intorno ai trenta avevo smesso di amarli. Ora ne avevo quarantadue. La mia vita era strutturata con cura e tutto filava come doveva… tranne quella morte. Il senso di colpa mi ossessionava, anche se la situazione era ovviamente chiara e risolta. A dir la verità, la cosa che più mi corrodeva era il sospetto che la sua morte potesse influire sul mio mandato da ministro. Esistevano altre due persone preoccupate della possibilità di una mia sostituzione: Bruno Cortone e Ranko Prediš.

    #memorie #scrittore #letteratura

    Sono Valentino Kovačević, il ministro della Cultura del Montenegro. Da due anni e sei mesi sto svolgendo con successo la mia funzione ministeriale. Il mio rapporto con la cultura è di tutto rispetto, considerato che la mia professione appartiene al mondo dell’arte, a differenza di alcuni miei predecessori. Mi sono laureato in Drammaturgia e ho un dottorato in Letteratura comparata. Una laurea che immediatamente viene associata a una vita di stenti, no? La mia vita invece non è all’insegna della miseria. La drammaturgia applicata mi ha assicurato molto più di una vita comoda, ossia una posizione e l’autorevolezza. Ma ho sempre sognato di diventare uno scrittore. Uno scrittore tagliente, senza tempo e radicale come Witold Gombrowicz, Danilo Kiš e Bruno Schulz… La consapevolezza che non sarei riuscito a diventare nemmeno uno scribacchino di secondo ordine mi ha paralizzato e ridotto a prendere appunti, buttare giù bozze e schizzi impressi nella mia carne e nel mio sangue. La carriera politica mi ha raggiunto sulle ali di un condor, mentre certi conoscenti uscivano dalle nuvole, sorridenti. Si mostravano premurosi, mi leccavano le piume e suggerivano: «Scrivi un libro di memorie!».

    Ben presto ho realizzato che la mia natura piace alla gente, soprattutto quando non parlo, e io di solito sono uno che tace. Dal premier ho imparato ad ascoltare, anche se non di rado mi scollego e volo via col pensiero, perché le persone che incontro per lo più si arrabattano con una retorica vuota, frasi trite e ciance inutili, che alla fine fanno convogliare in un progetto, e bussano alla mia porta di ministro. A volte acconsento a stanziare i fondi, altre volte no. Le mie memorie le pubblicherò il giorno in cui lascerò la poltrona di ministro, sarà un modo per salvarmi dall’oblio. Per ora le tengo nascoste. Sono nel pieno della scoperta dei social network e del linguaggio cyber: dire che l’introduzione alle mie memorie tramite hashtag mi piace, è dire poco.

    Lo squillo del telefono mi ha strappato ai miei pensieri. Era Dragutin, l’ex ministro della Cultura.

    «Pronto?».

    «Com’è andata al funerale?».

    «Bene».

    «Ci sono state reazioni?».

    «No. Non so cosa sia successo dopo che me ne sono andato».

    «Sono qua insieme al premier».

    «Digli che è andata bene».

    «Come stai tu?».

    «Digli che è andata bene».

    «Glielo dirò quando metto giù. Ho chiesto come stai tu».

    «Non saprei… immagino bene».

    «Questo fine settimana giochiamo. Sei dei nostri?».

    «Certo. Ho bisogno di correre, sai… più per la psiche».

    «Fatti sentire più tardi. Ho prenotato un tavolo allo Juta per stasera».

    «Va bene. Ci sentiamo».

    Mantenevo i contatti con i due ex ministri della Cultura. Uno proveniva dall’Accademia delle Belle Arti e l’altro dal Conservatorio. Entrambi si facevano di cocaina. Mi detestavano, perché dopo l’incarico ministeriale non avevano continuato a cavalcare nella direzione sognata, non erano stati promossi a funzioni più alte. Se almeno fossero diventati dei boriosi ambasciatori, mandati da qualche parte alla fine del mondo con le loro famiglie, la vanità sarebbe stata soddisfatta. Invece no, anziché andare avanti, erano stati lanciati indietro nelle oscure tane artistiche, mentre a me non rimaneva che spingere il binocolo nei loro piccoli deretani per scoprire quanto fossero marci.

    Nel gabinetto faceva caldo. L’intera squadra si era quietata,

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