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Fiabe da sogno
Fiabe da sogno
Fiabe da sogno
E-book577 pagine7 ore

Fiabe da sogno

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Info su questo ebook

La delicatezza, la profondità e il messaggio educativo di una fiaba sono le forme più pure di narrazione capaci di creare un ponte tra gli adulti e i bambini. Tutti, in fondo, abbiamo desiderato da piccoli di avere qualcuno che ci leggesse, con la meraviglia negli occhi, storie capaci di accompagnarci verso i più intensi dei sogni.
LinguaItaliano
Data di uscita11 feb 2024
ISBN9791223006450
Fiabe da sogno

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    Anteprima del libro

    Fiabe da sogno - AA.VV.

    AA.VV.

    Fiabe da sogno

    AA.VV.

    Fiabe da sogno

    © Rudis Edizioni

    All rights reserved

    Editor-in-chief: Daniele Dell’Orco

    1A edizione – dicembre 2023

    www.rudisedizioni.com

    [email protected]

    la fanciulla dalle scarpine di cristallo

    di Erminia Acampora

    C’era una volta in un paese lontano lontano un giovane re molto amato dal popolo. Era però indicibilmente infelice e non sapeva perché. Per lenire il suo tormento cercava di distrarsi allevando uno splendido falcone. Si divertiva a lanciarlo in volo e a contemplare le sue traiettorie armoniose ad ali spiegate, per poi richiamarlo con un fischio e vederlo planare con dolcezza sul suo braccio. Lo premiava sempre con un pezzo di carne e l’animale piano piano imparò ad assecondarne sempre di più i desideri. Nel giro di alcuni mesi i due erano diventati inseparabili e l’animale trascorreva tutto il tempo appollaiato sulla sua spalla. Tuttavia neppure quel legame riuscì a guarire il povero re, benché trovasse un qualche conforto nel confidare le sue pene all’animale. Ogni volta che nel segreto della sua camera il giovane si rivolgeva al falcone e gli parlava, questi lo fissava intensamente con il suo sguardo penetrante e sembrava comprenderne le parole accorate.

    Come sei fortunato, mio bel falcone! esclamava il re e il volatile piegava un pochino il capino e lo fissava con aria interrogativa, quasi a voler conoscere il motivo della sua fortuna.

    Ed egli, benché convinto che si trattasse pur sempre di un animale, gli apriva il suo cuore come avrebbe fatto con l’amico più fidato.

    Tu non conosci i tormenti dell’anima e, una volta saziato il bisogno della fame e della sete, vivi felice. Ignori le responsabilità di un regno e la solitudine che accompagna la vita di un sovrano. Non sai che il domani ha in serbo per te difficoltà e problemi sempre nuovi e alla fine del giorno ti addormenti sereno e appagato. Vivi il presente e questo ti basta. Beato te! Come vorrei essere anch’io un uccello e assaporare la libertà che voi volatili gustate ogni giorno ed essere spensierato come voi dall’alba al tramonto! mormorava l’infelice, mentre accarezzava piano la piccola testa dell’adorato falcone.

    L’uccello lo guardava col suo sguardo penetrante ed emetteva un suono gutturale ogniqualvolta il padrone esprimeva un pensiero.

    Ciò dava al re l’illusione che l’animale comprendesse le sue parole e almeno per un breve tempo la sua anima lacerata ne traeva giovamento.

    Un giorno, era una splendida giornata di primavera, il giovane scese nel parco del castello per una passeggiata mattutina, prima di immergersi nelle faticose incombenze del suo ufficio. Il falcone, come al solito, se ne stava appollaiato sulla spalla destra e attendeva tranquillo il momento in cui il padrone lo avrebbe lanciato verso il cielo per la consueta volatina di primo mattino.

    Il paesaggio era stupendo. Il prato era disseminato di minuscoli fiorellini variopinti e gli alberi erano coperti di gemme dal colore di un verde tenero. Il ruscello che lo attraversava mormorava lieto con le sue acque cristalline e gli uccellini dagli alberi lo inondavano con i loro lieti gorgheggi.

    Per un attimo il re si sentì inebriare da una sensazione di felicità. Ma fu solo un attimo, perché subito ritornò la solita malinconia e lui divenne nuovamente triste.

    Dopo aver percorso alcune decine di metri, il giovane si ritrovò in uno spazio libero da alberi. Stese il braccio destro e il falcone dalla spalla vi si spostò sopra. Quindi, con una spinta verso l’alto lo fece volare via. Lo vide volteggiare maestoso nel cielo terso e poi, cosa strana, dirigersi verso nord con decisione. Fischiò più volte per richiamarlo, ma il falcone continuò imperterrito il suo volo. Lo vide farsi sempre più piccolo nel cielo, fino a diventare un puntino scuro e poi scomparire. Attese un bel pezzo, poi se ne ritornò mesto al castello. Aveva perso il suo bel falcone.

    Non valsero le parole dei consiglieri che cercavano di rassicurarlo sul ritorno dell’animale. Aveva solo seguito il richiamo della natura che si faceva pressante in quel momento dell’anno. Non doveva preoccuparsi. Di lì a qualche giorno sarebbe tornato.

    Passarono però giorni e settimane, ma del falcone non c’era traccia.

    Il re dalla sua stanza ogni mattino fissava con ansia l’orizzonte nella speranza di un improbabile ritorno. Il cuore gli diceva che lo aveva perduto per sempre.

    Lo stillicidio di quella vana attesa a poco a poco lo fece ammalare e nel giro di poche settimane non fu più in grado di sollevarsi dal letto. Il suo sguardo divenne spento e a poco a poco ammutolì del tutto. I medici del castello non sapevano più che fare e furono inviati messaggeri al di là del regno alla ricerca di qualche luminare che potesse guarirlo. Ne vennero a consulto a decine, ma senza alcun risultato. Il re continuava a peggiorare e addirittura incominciò ad alternare momenti di lucidità a momenti di delirio e col tempo questi ultimi diventarono sempre più lunghi.

    Affondava il corpo inerte su molteplici guanciali disposti in modo tale da sostenerne la figura. Gli occhi erano rivolti ostinatamente verso la finestra, ma ormai i medici affermavano che non era più cosciente e lo sguardo si perdeva inesorabilmente nel vuoto.

    Ormai si attendeva soltanto l’inevitabile, allorché avvenne un prodigio.

    Una mattina il suo sguardo ebbe un guizzo improvviso. I presenti volsero gli occhi verso il davanzale.

    Il falcone era ritornato.

    Aprirono immediatamente la finestra. Il falcone entrò e volteggiò per qualche istante sul letto. Poi lasciò cadere qualcosa tra le braccia inerti del re e si appollaiò tranquillo sulla spalliera del letto.

    Quell’improvvisa emozione fu come una scossa benefica per il sovrano.

    Le forze vitali ripresero possesso del suo corpo e un tenue colorito si diffuse sul volto emaciato. Abbassò gli occhi sul grembo e le sue mani tremanti strinsero una meravigliosa scarpina di cristallo.

    Con qualche difficoltà cercò di sollevarsi e assumere una posizione più eretta.

    Quindi cominciò a osservare con attenzione la scarpina, voltandola e rivoltandola da ogni parte.

    Scostò le coperte con un’energia del tutto inusitata e cercò di scendere dal letto. I medici intorno cercarono di impedirglielo, dicendo che non era prudente dopo tanti giorni di immobilità. Ma il re non li ascoltò.

    Chiese di vestirsi.

    Fu accontentato. Chiese da mangiare.

    Fu accontentato.

    Tutti i presenti compresero che la guarigione era vicina.

    E infatti da quel momento fu notato un nuovo vigore in lui. Riprese a occuparsi delle impegnative incombenze del regno con l’energia e l’efficienza di sempre. Tutti se ne rallegrarono.

    Ma quando, libero da impegni, si ritirava nella sua camera, si buttava sul letto e riprendeva quella scarpina tra le mani. La osservava in ogni minimo particolare e la mente vagava lontano lontano. Poi si rivolgeva al falcone, lo invitava a saltargli sul braccio e gli parlava.

    Oh, se tu potessi raccontarmi dove hai trovato questa scarpina e soprattutto dirmi a chi appartiene! Sarei l’uomo più felice del mondo! Sento già di amare la persona che ha un piedino così piccolo e grazioso da calzare una scarpetta simile.

    Il falcone lo fissava come al solito col capino ripiegato e col suo verso gutturale sembrava comprenderne le parole.

    Perché non mi conduci là dove hai trovato questa scarpina? gli chiese a un tratto.

    L’animale allora svolazzò verso la finestra chiusa, graffiando i vetri con gli artigli.

    Il sovrano diede immediatamente ordine di sellargli un cavallo. Prese dieci guardie con sé e partì al galoppo. Il falcone volava in alto dinanzi a lui.

    Attraversarono monti e valli finché non giunsero in un villaggio, uno dei più lontani del suo regno. Il falcone si fermò sul tetto di una graziosa casetta e lanciò il suo grido possente. La porta si spalancò. Ne uscì una fanciulla bellissima. Riconobbe immediatamente il falcone che le aveva portato via una delle scarpine di cristallo che il padre, il vetraio del paese, le aveva confezionato per il giorno del suo diciannovesimo compleanno.

    Il re rimase estasiato alla vista di quella fanciulla dalla bellezza straordinaria e fu ancora più sbalordito allorché lei gli mostrò l’altra scarpina di cristallo. Il re non ebbe più dubbi. Quella fanciulla doveva diventare la sua sposa.

    Chiese il permesso al padre della ragazza. L’ottenne. Chiese il consenso alla fanciulla. L’ottenne. Solo allora la fece salire sul suo bellissimo cavallo bianco e con il falcone, appollaiato sulla spalla, fece ritorno al castello.

    Dieci giorni dopo furono celebrate le nozze con grande pompa e da quel momento la felicità regnò per sempre su quel paese, dove la bellissima figlia di un modesto vetraio divenne regina.

    il bosco in collina

    di Alessandra Agnoletti

    C’era una volta, su di una collina,

    un boschetto e una casetta

    di sasso bianco e calcina,

    con verdi finestrelle

    il tetto rosso e le mattonelle.

    Fra la vegetazione

    quasi non la si vedeva,

    nascosta com’era:

    una corona di cipressi

    la avvolgeva

    e un piccolo sentiero

    là vi conduceva.

    Vi vivevano

    sei simpatici orsetti:

    mamma e papà orso

    con i quattro figlioletti.

    La mattina si svegliavano presto

    per sbrigare le faccende:

    Martina orsettina,

    con grande dedizione,

    aiutava mamma orsa

    a preparare la colazione;

    poi andava

    a riordinare la cucina,

    a rifare i letti

    e a ripulire la cantina.

    Papà orso e i tre orsetti

    si occupavano del prato,

    lo mantenevano tagliato,

    coltivavano ortaggi

    che del sole

    sfruttavano i buoni raggi.

    Poi nutrivano i cinghialotti,

    che di ghiande erano ghiotti,

    e le caprette selvatiche,

    che in cambio

    offrivano loro il latte,

    se non facevano

    le antipatiche.

    Dovevano curare

    le api nelle arnie

    perché producessero

    miele in abbondanza,

    loro cibo preferito

    e pieno di sostanza.

    Ognuno di loro

    aveva un compito:

    Gigino orsettino,

    il più piccolino,

    si occupava di raccogliere

    frutta e verdura

    già matura

    e innaffiava bacche e piante,

    che erano tante;

    Pierino, il fratellino,

    adorava occuparsi degli animali:

    dava loro da mangiare e

    mungeva le caprette,

    prima di rientrare;

    Paoletto orsetto maggiore,

    assieme a papà orso,

    faceva l’apicoltore.

    Un giorno,

    mentre tutti erano intenti

    alle loro attività,

    arrivò una triste notizia

    dalla città.

    Il postino, che fin lassù

    non andava quasi più,

    portò una letterina

    dalla città più vicina:

    tutti gli abitanti

    del bosco in collina

    dovevano lasciare

    la loro casina!

    Per il denaro e il progresso

    costruivano lì un gran complesso,

    con parchi gioco e villette

    e degli alberi avrebbero fatto polpette.

    Papà orso allarmato

    indisse una riunione.

    Tutti gli abitanti del bosco

    dovevano essere informati

    della situazione:

    questa è una vitale questione!

    Il postino avvertì:

    "Non c’è tempo da perdere!

    I bulldozer in tutta fretta arriveranno

    e da casa orsi inizieranno".

    Mamma, papà orso

    e i piccoli orsetti

    ad ogni angolo sono diretti,

    per chiamare a raccolta la comunità: scoiattoli, ghiri e leprotti,

    talpe, fagiani, falchetti e gufetti,

    infine le caprette e i cinghialotti.

    Quando tutti furono accorsi,

    una domanda bisognava porsi:

    come fare per salvare

    gli alberi del bosco

    e la casa degli orsi?

    "Le ruspe, noi soli,

    non le possiamo fermare!"

    - affermò papà procione

    con parole amare.

    Dopo una lunga discussione,

    gli animali presero

    una sofferta decisione:

    "Proveremo a parlare con gli uomini, ci devono ascoltare!

    In una piccola delegazione, incontreremo il sindaco

    e la sua famiglia domani a colazione".

    L’indomani papà orso e Paoletto,

    il procione, la talpa e il falchetto scesero in città con fare circospetto.

    A casa del sindaco Lupo

    li ascoltarono con viso cupo,

    ma poi Ferrante,

    il lupo lattante,

    scoppiò a piangere:

    non voleva che il bosco

    in collina fosse distrutto,

    sarebbe stato un grave lutto!

    Anche Giorgina, la sua sorellina,

    chiese a papà che

    per salvarlo facesse

    ciò che potesse.

    Seguirono applausi a iosa

    e la delegazione ritornò fiduciosa.

    Le ruspe sarebbero arrivate

    il giorno seguente:

    la distruzione era imminente!

    Ma il passaggio fu bloccato:

    con tronchi e sassi ammassati

    i lavori furono ostacolati.

    "Niente ruspe e nuove costruzioni,

    se volete evitare rivoluzioni!

    Questa è una certezza".

    - sentenziarono gli abitanti

    del bosco con fermezza.

    Il sindaco Lupo avrebbe convinto

    gli investitori ad andare a vedere

    il bosco in collina:

    "Potete andarci in gita

    o per una visitina;

    non servono ruspe e cemento:

    è così bello lassù

    che non ci si annoia un momento!"

    I demolitori si ritirarono,

    dicendo un po’ seccati:

    "I nostri propositi

    sono solo rimandati!"

    Gli abitanti del bosco

    replicarono convincenti:

    "Non provateci e

    vi mostreremo i denti! ".

    Gli uomini se ne andarono

    spaventati e scontenti.

    Gli animali poterono esultare:

    il bosco erano riusciti a salvare!

    Il sindaco Lupo e papà orso

    ora in trionfo volevano portare.

    Quando uniti si vince

    una giusta battaglia,

    stendiamo la tovaglia:

    andiamo tutti a Casa Orsi

    a mangiare,

    è tempo di festeggiare

    con musica, dolci e frittelle

    e tante altre cose buone e belle.

    lo scoiattolo alfie

    di Alessandra Alesci

    C’era una volta uno scoiattolo che si chiamava Alfie che era un po’ pasticcione. Nel bosco conosceva tutti: parlava con il ghiro Eddy che, quando era sveglio e la smetteva di dormire, parlava, parlava, parlava per trentatré…. Mamma mia quanto parlava! Recuperava tutto il tempo perso! Ma Alfie aveva sempre il piacere di dialogare con lui… quando Eddy andava in letargo gli mancava e quindi sopportava ben volentieri le sue chiacchiere lunghe ma allegre e brillanti nei periodi in cui era desto!

    Ma del bosco conosceva anche la rana Jenny che saltellava di qua e di là e con lei si faceva delle corse dallo stagno alla fattoria del contadino Luke. Quando giungevano alla fattoria venivano accolti festeggianti dalla papera Dolly, dal bue Zac, dal gallo Ralph ed insieme danzavano e cantavano a squarciagola e il povero contadino Luke ogni volta era costretto, con le mani alle orecchie, ad allontanare i nuovi arrivati con tanto di ramazza per calmare quel frastuono generale che svegliava tutti i vicini di casa.

    Alfie era il classico amicone di tutti: stava in compagnia e rideva, scherzava, faceva i piccoli dispetti che erano più giochetti allegri e divertenti per mettere di buon umore i suoi amici. Era anche un po’ distratto… Una volta, infatti, mentre parlava con Eddy, non si accorse che il ghiro si era addormentato ma sbadatamente gli aveva dato una pacca sulla schiena. Dato che stavano sul ramo di un albero, il ghiro era caduto giù e Alfie, accortosi immediatamente del malfatto, si era precipitato ai piedi dell’albero, per attutire la caduta di Eddy sul suo esile corpo di scoiattolo. Eddy non si era accorto di niente e aveva continuato a dormire cambiando solo per un attimo il regolare respiro con un brontolio. Alfie invece era sbucato da sotto il ghiro tutto ammaccato e dolorante.

    Un’altra volta, dopo la solita corsa con la rana Jenny, si era appoggiato stanco su di un tronchetto del recinto della fattoria del contadino Luke ma si era tanto lasciato andare con tutto il suo peso che il tronchetto aveva finito per cedere lasciando un’apertura per gli animali per cui Dolly, Ralph e Zac erano usciti e insieme erano andati allo stagno a schizzarsi l’acqua addosso per la contentezza di essere sfuggiti a Luke! Ma appena il contadino se ne accorse, urlò tanto, ma così tanto che si sentì l’eco fino al paese vicino. Gli animali rimasero atterriti e si misero a correre, ma Luke fu così furbo e agile che inseguì tutti e col bastone in mano, con aria minacciosa, li costrinse a ritornare nel recinto! Gli animali della fattoria, così, ritornarono tristi dentro il recinto, mentre Alfie e Jenny se ne tornarono nel bosco con un livido dovuto ad una bastonata e con il senso di colpa. Ma in fondo in fondo si divertivano e anche nelle disavventure ridevano a crepapelle….

    Una mattina, Alfie si svegliò e vide accanto a sé, con gli occhietti ancora un po’ socchiusi, la farfalla Sandy che svolazzava felice in aria con ali leggiadre e volteggiando lieve e soave con battiti tenui e continui. Buongiorno Sandy disse Alfie ancora un po’ assonnato Buongiorno Alfie rispose la farfalla lieta di aver incontrato l’amico scoiattolo. Mi hanno detto giù allo stagno che ieri sera c’è stata una gara tra te e la rana Jenny fino alla radura erbosa e che per batterla sei finito addosso all’oca Daisy, la quale, spaventata dall’impatto, le è venuto un colpo ed ha smesso di starnazzare per un lungo tempo… Un piccolo imprevisto, ma niente di grave… Daisy si è ripresa poco dopo. Poi lo sai, che è una gran chiacchierona e se ha taciuto un po’ è stato un bene per tutti noi… e mentre lo diceva, l’immagine della povera oca ammutolita, gli aveva provocato una risatina. Sei il solito burlone Alfie… Ma dai Sandy ribatté lo scoiattolo sai che non farei mai del male, è stato davvero un incidente passeggero… ma te lo ripeto, dovevi proprio vedere la faccia di Daisy, sai quante arie si dà…in quel momento era più bianca del suo solito colore… Ma scusa, lei non è già bianca? rispose la farfalla Si infatti, lo è, ma era così maestosamente bianca, pallida e atterrita che sembrava lo spettro dell’oca dello stagno… Le parole di Alfie erano uscite così veloci e in maniera talmente concitata che Sandy, sebbene volesse difendere a tutti i costi Daisy, non poté trattenere una risata e insieme a lei si unì la risata cristallina di Alfie.

    Così era cominciata la sua giornata.

    Ma solitamente ad Alfie piaceva incontrare i suoi amici, farsi delle belle chiacchierate trascorrendo il tempo in maniera piacevole e spensierata.

    Pensò quindi di andare allo stagno per chiedere a Jenny di farsi l’abituale gara fino alla fattoria del contadino Luke. Era ormai vicino e cominciò a chiamare: Jenny dove sei? Jenny!!! E fu mentre chiamava la rana che lo sentì, sentì un forte odore di bruciato e si chiese da dove provenisse… Si guardò attorno, ma niente non riuscì inizialmente a capire l’origine… poi improvvisamente, gli balenò in mente: La radura! e corse, corse a più non posso fino a giungere alla radura erbosa… Alfie aveva ragione: molti arbusti secchi prendevano fuoco e le fiamme guizzano alte in cielo…un attimo di gelo e un profondo pericolo si impossessò di lui, ma senza perdersi d’animo, capì che al pericolo imminente bisognava far fronte subito e senza esitazione corse nuovamente fino allo stagno. C’era Jenny che era sbucata fuori e aveva capito subito la situazione; Jenny, avvisa tutti i tuoi amici dello stagno, serve un aiuto per spegnere il fuoco! Io andrò alla fattoria, devo dirlo a Dolly, Zac e Ralph. Dobbiamo fare in fretta, il bosco corre seri pericoli. Vai Alfie, pensa a stabilire il record delle nostre gare! Lo so che sei il migliore! Corri alla fattoria! E senza ulteriori parole, lo scoiattolo schizzò via, velocissimo come se Jenny gli avesse dato la carica per la gara più competitiva della sua vita, quella che si fronteggia con l’avversario più temibile: il tempo…

    Corse, corse come non aveva mai fatto e giunse alla fattoria ansimando…Gli amici cercavano di estorcergli le parole e lui: Il bosco… la radura… il fuoco…l’incendio!

    Poche parole e già tutto era chiaro…e gli animali cominciarono ad agitarsi e preoccuparsi per la gravità della situazione. Cominciò un frastuono incredibile per i calci che Zac diede allo steccato, il quale alla fine cedette. Il contadino si era appena affacciato sentendo quella grande confusione, ma già gli animali erano fuggiti tutti verso il bosco. Luke non aveva avuto il tempo di trattenere gli animali nel recinto, ma si preparò con grande fretta per rincorrerli, sicuro di trovarli allo stagno.

    Intanto gli animali si davano un bel da fare… Jenny e gli altri amici dello stagno e persino Daisy, allertata dalla rana, avevano costruito insieme cestini intrecciati di foglie e raccoglievano acqua che portavano velocemente ed agilmente alla radura per estinguere l’incendio. L’arrivo degli amici dalla fattoria fu provvidenziale! Zac, il bue, riempì a più non posso la sua enorme bocca d’acqua e la riversò tutta in un unico getto sul fuoco. Anche Ralph il gallo aveva cantato con forza il suo Chicchirichì! e adesso molti animali del bosco e anche gli uccelli erano allertati e davano ognuno il loro contributo: gli animali più grandi gettavano tanta acqua, ma pure i più piccoli, legati in una cordata di amici in mutuo soccorso, creavano secchi di foglie e rami intrecciati in maniera robusta ricolmi d’acqua che versavano agilmente per arginare il pericolo. Alfie era uno di loro… Nessuno, dico nessuno rimase senza fare niente! Anche gli uccelli, avvisati dal canto del gallo avevano unito le loro forze e dall’alto gettavano grandi e piccole quantità d’acqua… E fu così che nell’aiuto unanime di tutti gli animali del bosco l’incendio fu domato!

    Luke, il contadino che cercava i suoi animali ed era giunto in prossimità dello stagno, aveva visto tutto ed era rimasto ammutolito… Si pentì di tenere chiusi in un recinto dei prodi difensori del bosco e decise, all’istante, di lasciarli liberi!

    E così quella sera fu ricordata da tutti gli amici animali come uno dei momenti più belli della loro vita: ci fu un’enorme festa nel bosco con ogni tipo di canti, danze e attimi di allegra condivisione!

    E Alfie fu ringraziato da tanti, tantissimi animaletti per essersi reso conto del pericolo per il loro piccolo grande mondo! E a nessuno, davvero a nessuno importava se lui era uno scoiattolo un po’ pasticcione! Tutti avevano imparato che dietro quella faccetta buffa, un po’ ficcanaso e tanto, tanto giocherellona, c’era uno scoiattolo dal cuore d’oro a cui tutti erano molto affezionati!

    miciomao e il collare magico

    di Vincenza Allegra

    C’era una volta in un regno lontano un principe coraggioso.

    O forse no?

    In verità non era un principe e non c’era neanche un regno lontano, c’era solo un piccolo paesino e un gattone pigro che si trovò a essere eroe insieme al suo amico Benny.

    In una piccola casa, in un paesino nel bosco vivevano Benny e nonna Mara.

    E il gatto?

    Sì, c’era pure Miciomao. Pigro com’era passava le sue giornate acciambellato su un cuscino accanto al dondolo di nonna Mara.

    Si alzava solo in casi eccezionali.

    Ma badate bene, non arrivava più lontano della ciotola piena di cibo.

    Uno dei suoi hobby preferiti era osservare Benny quando giocava a essere un cavaliere a caccia del drago, poi pensava quanto fosse sciocco quel bambino a sprecare tante energie.

    Un giorno nonna Mara saltò il solito pisolino sul dondolo, Miciomao rimase un po’ ad aspettare, poi con molta calma, fece il giro della piccola abitazione, alla fine trovò la nonnina a letto.

    Nonna Mara, che è successo?

    Le chiedeva un uomo con il camice bianco.

    Prenda queste pillole, stia a letto e vedrà che si rimetterà di nuovo in salute.

    Miciomao non capì cosa stesse succedendo comunque, con fare circospetto, saltò sul letto e pensò che fosse anche più comodo del cuscino.

    Caro gattone, il mio tempo sta per finire. È giunto il momento che tu riceva un regalo.

    Si tolse una catenina che portava al polso e gliela agganciò al collo.

    Miciomao, questo collarino è magico, ti permetterà di parlare con ogni essere del bosco e un umano a tua scelta. Ora tocca a te essere coraggioso.

    Nonna Mara parlava come se il gatto potesse capirla e in effetti Miciomao rispose.

    Nonnina mia, io conosco solo il miagolese. Posso parlare con i gatti.

    Ne sei proprio sicuro, Miciomao?

    Il gattone alzò la coda, rizzò il pelo.

    Nonnina, stai parlando con me, mi hai risposto? Conosci il miagolese?

    Te l’ho detto che il collarino è magico, me l’ha donato Canebau prima di andare nel mondo dei cani.

    E gli raccontò di come insieme a Canebau avesse imprigionato Rubaluce ed evitato di far scendere il buio sul paese e nel bosco, anche se non poté evitare di far spegnere le stelle.

    Ora è arrivato il mio tempo di andare e toccherà a te con l’umano che sceglierai, tenere Rubaluce in gabbia.

    Miciomao non fu per niente contento di ricevere questo dono e avanzò tante scuse.

    Io sono un fifone, ho paura. E poi sono così pigro! Di certo non tengo le forze per avere a che fare con questo come si chiama.

    Nel frattempo tentava in tutti i modi di togliersi il collare.

    Nonnina non lo voglio questo regalo.

    Ma nonnina non rispondeva più, era già volata via e il collare continuava a non aprirsi.

    Rassegnato ma poco convinto, andò ad acciambellarsi sul suo cuscino e guardò Benny che si dondolava e piangeva.

    Miciomao, nonna non ci farà più le coccole, ci ha lasciato.

    Il gattone saltò sulle gambe di Benny e cercò di raccontargli di quel collare.

    Meo, miao, meo, mao.

    Il ragazzino lo guardava e continuava a carezzarlo senza comunque dargli la benché minima risposta.

    Miciomao pensava che nonna Mara gli avesse detto una bugia, si disperò.

    Come faccio a dirgli che l’ho scelto per essere un eroe. Aveva appena finito di pensare che il bracciale si illuminò come fosse una stella del firmamento.

    Ci mancava l’esplosione di luce. Povero me! Perché mi hai fatto questo regalo?

    Il ragazzino un po’ stordito, si guardò intorno.

    Chi ha parlato? Non spaventarmi, eh! Vieni fuori.

    Ehi, sono io! Miciomao.

    Benny si alzò di botto e spinse via il gatto che piroettò in aria e atterrò sulle quattro zampe col pelo arruffato e la coda alzata.

    Ma che ti prende? Non hai mai sentito un gatto parlare?

    In verità neanche lui aveva mai parlato, aveva solo miagolato e miagolato e ancora miagolato nella speranza che qualcuno lo coccolasse o gli desse da mangiare.

    Sei tu che parli? O sono io che miagolo?

    È strano anche per me, posso dire che questo collare me l’ha dato nonna Mara e io ti ho scelto per tenere un certo Rubaluce in gabbia.

    Benny si sentì un vero cavaliere e corse a prendere la sua spada di legno, l’armatura, uno scatolo di cartone che infilava come una casacca, e un vecchio colapasta di smalto bianco che mise sulla testa.

    Miciomao lo guardò rassegnato.

    Ma che fai?

    Sono pronto per la battaglia.

    Ma quale battaglia! Non sappiamo neanche dove si trova Rubaluce.

    Benny tolse l’armatura e per quella sera decisero che sarebbe stato meglio andare a letto. La mattina un chiacchierio proveniente dalla strada li fece svegliare.

    Sono preoccupata, questa notte ho sentito rumore. Ma fuori era buio pesto e non si scorgeva niente.

    Sarà stato Rubaluce?

    Che non sia mai! Ora che non c’è più nonna Mara siamo in pericolo.

    Poveri noi!

    Miciomao si nascose, Benny capì che era l’ora di agire.

    Miciomao dove sei? Presto, facciamo colazione e andiamo.

    Che ne pensi se andiamo domani? Sono un po’ stanco, miao.

    Ormai era deciso e il prode cavaliere Benny e il suo gatto poco coraggioso partirono.

    Il sole era già alto quando si addentrarono nel bosco, a ogni crepitio di foglie secche e di rametti spezzati, i due che di prode avevano ben poco, si precipitavano a nascondersi con gambe tremanti. Ben presto si resero conto che scoiattoli, ghiri, conigli, volpi, un orsetto e per ultimo uno stormo di colombacci con fare circospetto li stavano seguendo.

    Cosa volevano mai da loro?

    Comunque fra un rumore, uno spavento e tante perplessità che gli frullavano per la testa, i due arrivarono davanti ad un antro buio.

    Vai, Miciomao, tu al buio vedi meglio di me.

    Ma no, che dici! Sei tu il cavaliere coraggioso non ti toglierei mai quest’onore.

    Alla fine entrarono insieme e arrivati in fondo all’antro riuscirono a scorgere qualcuno aggrappato alle sbarre che scuoteva la gabbia.

    Povero me! Liberatemi. Perché non mi credete io non rubo la luce, la prendo in prestito.

    I due impavidi quasi eroi si nascosero dietro delle sporgenze, bisbigliavano nel decidere chi avrebbe dovuto avvicinarsi alla gabbia.

    Chi siete? Fatevi vedere, venite a liberarmi. Sono anni che mi tengono prigioniero.

    All’improvviso il collarino si illuminò e, quantunque puntasse i piedi per terra, Miciomao fu trascinato verso la gabbia. Col pelo arruffato per il terrore fu sul punto di perdere i sensi ma poi riuscì a scorgere Rubaluce.

    Ma sei un piccolo omino!

    E sì, sono uno gnomo! Lo gnomo della luce notturna.

    Benny, capito che non c’era pericolo, uscì dal nascondiglio.

    La notte non c’è luce e quella del giorno è di tutti, non la puoi rubare.

    Disse il cavaliere con la spada sguainata.

    Lo so, infatti dal giorno mi faccio dare giusto la luce che serve per la notte.

    Miciomao, ma nonna cosa ti ha detto?

    Ha detto che Rubaluce vuole prendere tutta la luce del giorno e lasciare il bosco al buio.

    Nonna Mara è stata ingannata. Io non sono un ladro!

    Benny e Miciomao si scambiarono uno sguardo perplesso, per quanto si sforzassero non riuscivano a percepire niente di cattivo in quel piccolo omino con il cappello a punta.

    Mia nonna era brava, ha salvato il paese e il bosco dal buio e abbiamo sempre avuto una bellissima luce di giorno.

    Lo so, ma durante la notte c’è solo buio fitto.

    Benny si ricordò che la nonna le raccontava del sacrificio che fecero le stelle per salvare il giorno e se quella storia fosse vera? E se le stelle si sono sacrificate quando nonna imprigionò Rubaluce? E se lo gnomo non stesse mentendo?

    Era troppo per un gatto e un bambino, per cui decisero di ritornare a casa per rifletterci sopra ma strada facendo furono fermati dagli animali del bosco che continuavano a seguirli.

    Cosa volete? Fateci passare.

    Da dietro una quercia sbucò un grosso lupo, Miciomao non perse tempo a nascondersi.

    Miao, ci mancava il lupo!

    Io sono Lupogiusto e aiuto tutti gli abitanti del bosco. Anni fa, Canebau invidioso della pace che c’era fra gli abitanti del bosco, con l’inganno rubò il collare magico allo gnomo della luce, così riuscì a parlare con nonna Mara e le fece credere che lo gnomo avrebbe rubato tutta la luce e lasciato il paese al buio. Nonna Mara ebbe paura e fece costruire una gabbia da cui lo gnomo non poté più uscire perché senza il collare non ha poteri magici. Da allora tutti siamo privi della luce delle stelle ora Miciomao ha il collare e tu sei l’umano prescelto per capirci, sta a voi far ritornare tutto al suo posto.

    Quando finì di parlare, Lupogiusto e gli animali del bosco andarono via. Benny e Miciomao erano ancora più confusi di prima.

    A chi credere?

    Arrivato a casa, Benny tolse l’armatura e si sedette sul dondolo, Miciomao si acciambellò sul cuscino accanto e si addormentarono.

    Il sonno porta consiglio e i due eroi decisero di ritornare nel bosco e dare a Rubaluce la possibilità di mostrare la sua sincerità. Non vi dico la gioia dello gnomo e non vi racconto la paura di Miciomao quando il collare lo trascinò verso la gabbia.

    Gattone mi ridai il collare?

    Sì, prendilo! Non lo voglio.

    Si affrettò a dire Miciomao e in quell’istante la gabbia si aprì e il collare tornò dal suo legittimo proprietario.

    Sono libero, sono libero.

    Ripeteva Miciomao e corse a nascondersi.

    Sono fuori, sono fuori.

    Ripeteva Rubaluce e saltellando all’impazzata si precipitò fuori dall’antro e volse lo sguardo al sole.

    Padre della luce, ti ringrazio per il dono che mi dai.

    Poi tolse il cappello.

    Ora tocca a te. Vai!

    E in men che non si dica il cappello iniziò a roteare verso il cielo e a diventare sempre più luminoso.

    Benny e Miciomao ritornarono a casa, in cuor loro speravano di aver preso la decisione giusta. Affacciati alla finestra aspettarono con ansia la sera e quando il sole tramontò ecco arrivare gli animali del bosco.

    Venite, venite. Questa è una notte speciale, le luci ritorneranno nel cielo!

    Nel bosco era festa, lo gnomo regalò la luce del giorno alle stelle, fece il dono alle lucciole di illuminarsi durante la notte per far da guida agli abitanti del bosco e alla fine, per ringraziare i due eroi, illuminò tutti i portici del paese.

    Fu così che dopo tanto tempo la notte ritornò a essere luminosa e da allora, sotto le stelle, si racconta di due eroi coraggiosi che lottarono contro la paura e l’ingiustizia per riportare alla luce la verità.

    la strega clorinda

    di Chiara Antonioli

    Arior è un luogo ricco di colline e fiori. Passeggiando si può vedere uno splendido lago azzurro contornato da dei bellissimi narcisi. Fra gli alberi ci sono tanti scoiattoli indaffarati a procurarsi il cibo correndo. Le casette degli abitanti sono tutte vicine e nel mezzo vi è una piazzetta con un pozzo dal quale si può attingere l’acqua.

    In apparenza sembra un luogo sereno, ma qualcosa di poco buono, purtroppo, sta accadendo.

    In questo regno, viveva una ragazza di nome Clorinda: era sola in una casetta umida e sporca che dava sul lago. I genitori erano morti da un paio di anni di malattia.

    Clorinda era povera, non aveva vestiti di ricambio, spesso non mangiava e tutti gli abitanti la tenevano a distanza chiamandola brutalmente, strega Clorinda. Quand’ella andava al pozzo a prendere l’acqua, al vederla, tutti si allontanavano non comprendendo le sue condizioni disagiate; nessuno voleva stare in sua compagnia e di questo ne soffriva perché nonostante le sue problematiche, la ragazza era di animo buono e affabile ma non incontrava persone disposte ad ascoltarla e a comprenderla.

    Un giorno, Clorinda stava camminando per il bosco e incontrò Nodug, il mago malefico di Arior che con i suoi artifici aveva ipnotizzato gli abitanti del regno, per questo essi la trattavano male. L’incantesimo su Clorinda, non aveva attecchito e ciò era un mistero per il perfido mago, per questo la odiava. Egli aveva la testa calva, era di corporatura robusta, indossava un cappello conico, una veste grigia, e aveva unghie affilate come quelle di un gatto. Il suo sguardo era crudele e la sua voce stridula, per niente orecchiabile.

    Nel momento in cui Nodug la vide disse:

    Questa sera darò una festa per tutti gli abitanti di Arior nel mio castello, peccato tu non possa essere dei nostri, sei sporca, brutta e maleodorante!. Clorinda, che aveva un carattere comunque forte e determinato, rispose: Preferisco la compagnia dei ratti e dei rospi che la tua. Il mago Nodug si irritò molto, diede una spinta alla ragazza che cadde a terra e con uno schiocco di dita, sparì.

    Clorinda nella caduta si accorse di essersi slogata una caviglia, si sporcò tutta di fango ma, improvvisamente, accadde una cosa insolita. Mentre la ragazza era a terra, saltellò verso di lei uno scoiattolo che cominciò ad esaminare la sua caviglia gonfia. Dal canto suo, Clorinda, incredula e dolorante osservava questo buffo animaletto che sul muso aveva un paio di occhialini e senza emettere versi, l’esserino si girò e strofinò la sua coda riccia sulla sua caviglia e il gonfiore e il dolore scomparvero. La giovane ringraziò lo scoiattolo e questo gesto di gentilezza lo interpretò pensando che se non aveva il favore degli esseri umani almeno aveva quello degli animali e della natura.

    Così Clorinda, tutta infangata e maleodorante tornò a casa ma purtroppo la attendeva una brutta sorpresa: la sua dimora era tutta bruciata, non se ne era salvato neanche un pezzetto!

    Alla vista del disastro, Clorinda restò in un primo momento attonita e poi scoppiò in pianto affermando con dolore: Perché nessuno mi ama?. Perché mi hanno fatto questo?. Intanto le lacrime avevano tolto un po’ di sporco dal viso di Clorinda, la quale presa dalla disperazione, si buttò nel lago che era davanti a ciò che rimaneva della sua povera casa. A un certo punto, però, l’acqua del lago rigettò la ragazza indietro.Anche al lago faccio ribrezzo pensava. Non mi fai ribrezzo, disse una voce. Ma chi parla? chiese Clorinda. Sono il lago rispose la voce. Clorinda disse: Come mai non mi hai lasciata morire?".

    Il lago rispose: Hai un animo buono e generoso che gli esseri umani non comprendono. La natura circostante, invece, ha capito il tuo valore così ti porto con piacere un messaggio di ringraziamento da parte di tutti gli animali. Porre fine alla propria vita non è una soluzione, lottare per migliorare le proprie condizioni è la strada giusta!.

    Il lago continuò ancora il suo discorso: Ora ai tuoi piedi c’è un secchio, riempilo della mia acqua e gettalo su ciò che rimane della tua casa!. Clorinda, ancora incredula, fece quanto le aveva ordinato il lago e in men che non si dica apparve una casa nuova, dal tetto fatto di tegole marrone chiaro, l’edificio era tutto rosa e appese alle finestre vi erano delle tendine azzurre su cui erano disegnati tanti cuori. Clorinda era sbalordita e il lago le disse: Ora tuffati dentro di me e poi ritorna a riva immediatamente. Clorinda lo fece, si immerse nelle acque del suo amico lago e quando giunse a riva non era più sporca e brutta come prima. Infatti la sua pelle era liscia, i suoi capelli erano splendidi, rossi e ricci e indossava un vestito bordeaux. Due farfalle, sotto il suggerimento del lago, le portarono un grande specchio dove Clorinda poté ammirarsi e scoprire di essere una ragazza bellissima, aveva anche gli occhi chiari! Sono io! Esclamò sbalordita. Sei tu, rispose il lago e le ordinò di entrare in casa. Clorinda varcò la soglia notando che tutto era meraviglioso e in cucina notò che vi era una tavola completamente imbandita di focacce, carne, dolci, frutta e Clorinda si accomodò e rifocillò; finalmente mangiava, era da tanto che non accadeva! In seguito la ragazza sazia e rinvigorita andò al piano di sopra e non c’era più la rete del suo vecchio letto coperto di ragnatele, ma una camera confortevole, accogliente con un letto a baldacchino. Clorinda si stese e si addormentò profondamente.

    Quella notte la giovane fece un sogno. Si trovava ai piedi del castello del cattivo Mago Nodug e le apparve una donna con un abito color oro e i capelli lunghi e neri, che le disse: Clorinda sono Myriam la regina dei laghi ho bisogno che tu faccia una cosa per me. Cosa? domandò Clorinda. La regina riprese: Il mago Nodug ha preso possesso del paesello di Arior ipnotizzando gli abitanti che da quel momento fanno ciò che egli dice. La gente non ha più una personalità. Ti chiedo di sconfiggere questo mago crudele.

    Clorinda rispose: Ma come faccio? Io non sono in grado, non ho poteri magici!. La regina Myriam disse: In realtà tu li hai perché sei stata immune ai suoi, io ti darò il resto dei poteri per potercela fare, solo chi è immune alle abilità malefiche di Nodug, lo può distruggere!. Myriam ancora continuò: Al risveglio avrai tutto l’ occorrente necessario.

    Clorinda si svegliò presto il mattino del suo compleanno e si trovò davanti tre scoiattoli tra i quali riconobbe quello con gli occhialini che le aveva guarito la caviglia. I tre esserini si presentarono: Vi era lo scoiattolo dottore, lo scoiattolo cuoco e la fata scoiattolo. Clorinda intenerita diede un bacetto a tutti e tre per ringraziarli dell’affetto che da sempre le era mancato.

    Lo scoiattolo dottore si accertò che Clorinda stesse bene, lo scoiattolo cuoco le preparò la colazione e la fata scoiattolo diede alla ragazza una bacchetta magica a forma di ghianda e le disse: Clorinda, Arior è nelle tue mani, devi sconfiggere il cattivo Nodug e una volta fatto potrai essere la buona regina di questa cittadina e tutti gli esseri umani ti ameranno; abbi fiducia e credi in te stessa! Consegnandoti questa bacchetta entri in possesso dei tuoi poteri e non temere il mago tu hai un cuore buono!.

    Clorinda, a quelle parole, si convinse; salutò i tre amichetti e andò al castello dove viveva il mago. Appena ella fu dinanzi alla porta gridò: Nodug! Esci fuori se hai il coraggio!.

    Il mago a quel grido, aprì la porta e con sorpresa affermò: Chi sei donnaccia insolente?. Clorinda rispose: Sono colei che ti spodesterà dal trono!. Il mago la riconobbe e disse: Clorinda!. La ragazza impugnò la bacchetta a forma di ghianda gettandolo a terra. Il mago si alzò e agitando il dito indice fece spezzare un ramo di un albero vicino che, cadendo stava per colpire Clorinda, la quale si scansò in tempo facendo un salto all’indietro: alzandosi disse al mago: Nodug, io non voglio annientarti, per te se vuoi, c’è possibilità di perdono!. Il mago rispose: Oh streghetta, quasi mi commuovi, ma ho solamente intenzione di raggiungere i miei scopi di potere. Urlò ancora: Falce infuocata!. Così dal cielo una falce di fuoco si scagliò contro Clorinda, la ragazza per evitare il colpo puntò la bacchetta contro il mago gridando: "Acqua

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