Il giorno che mi hai ammazzata
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Anteprima del libro
Il giorno che mi hai ammazzata - Gisella Gerosa
Breve Prefazione
Cara Lettrice, caro Lettore,
dedico a te questi racconti, quasi tutti brevi e in diversi casi d’ambiente, come vedrai dalla coloritura del linguaggio.
L’ultima storia, che è la più lunga, vuol essere un dulcis in fundo per farsi qualche risata dopo narrazioni in cui al gioco si mescolano l’ironia, un pizzico di malinconia, talvolta il dramma, che accomunano vicende diverse di cui è protagonista la gente nella vita di ogni giorno.
Il filo che lega queste storie ha il colore del sangue, talvolta sparso in rivoli scarlatti, talaltra metaforico, pari a una sfumatura leggera tra le righe, impalpabile come la violenza sottile del quotidiano.
L’Autrice
"Bastardo, mi hai uccisa.
Non capivo perché, non ricordavo perché,
ma mi avevi uccisa."
1. Il giorno che mi hai ammazzata
Il giorno che mi hai ammazzata, Augusto, ero fuori di me per via dei capelli. Che scema a cambiare il colore da sola, cosa mi era saltato in mente? La testa era diventata color verde oliva.
Fai schifo. Potevi farteli da Cinzia. Un rospo, sembri
mi hai detto.
Sì, ma come facevo a dirti che non ero andata a farmi i capelli da Cinzia perché dovevo vedermi con Ricky? Per quanto ne sapevi tu ero al mercato.
Ero al mercato,
ti ho detto. E infatti ci ero passata, dal mercato, avevo pure comprato il pesce. Dopo, però.
Mmm.
Stavi sul divano a fumare smozzicandoti le unghie e non mi toglievi gli occhi di dosso. Capivo che intenzioni avevi, ma non mi andava neanche un po’. Che faccia incazzata, Augusto. Ma cosa potevo farci, avevo in testa Ricky. Solo lui.
Ti tenevo, certo, eri mio marito, e si sa com’è, meglio non disfarsi delle scarpe vecchie, anche con un paio nuovo di zecca a disposizione. E poi ormai ero abituata a te, al tuo caratteraccio, al tuo alito cattivo, alla tua voglia di far niente. Giocavi e perdevi, e zitto; però io lo sapevo. Ti arrangiavi arraffando qua e là, col rischio di finire dentro, ma io attenta a non parlare, che le mani le muovevi alla svelta. Eppure, sai? ti volevo bene.
Due sigarette, una dietro l’altra.
Senti un po’, tu. Non sono un cretino. Cos’è che non gira?
Ho fatto finta di non capire.
Ma niente, niente. È per la tinta, guarda che roba, adesso come la rifaccio, che manca solo un’ora.
Alle cinque dovevo dare il cambio a Luana a servire ai tavoli, al locale.
Non è quello che volevo dire, non provare a farmi fesso. Comunque che ti frega se hai i capelli verdi. Chi ti guarda, a te. Racchia eri, racchia sei.
Racchia? Se sapesse. Stronzo.
In bagno mi ero messa a osservarmi nello specchio per diritto e per traverso. Secca. Scarnita. Eppure sono mica male, sarà per gli occhi, li ho belli, e Augù non può farci proprio niente. Ma quel verde oliva in testa! E sì che le avevo seguite, le istruzioni.
Ricky mi ha detto di aspettarlo al locale, a fine turno. Che rabbia essere conciata in questo modo. Magari provo con l’acqua ossigenata, peggio di così di sicuro non sarà, ho pensato; e allora ho aperto il flacone e mi sono messa a inumidire i capelli, ciocca a ciocca, attenta bene stavolta a non far casini. Intanto ti vedevo dallo specchio del bagno, ti eri messo a gironzolare per il soggiorno.
L’Augusto riflesso dallo specchio fa qualcosa che non dovrebbe fare: mi fruga in borsa, poi nelle tasche del giubbino appeso all’attaccapanni. Cosa cerca? I soldi mica sono lì, mi ha presa per un’allocca?
Un momento. Il cellulare. Cerca il cellulare. Cristo, il cellulare! L’ho lasciato in tasca. Come ho fatto, c’è pure il messaggino che ho mandato a Ricky, che idiota, non l’ho cancellato, penso frenetica. Forse l’ha già trovato. Magari sospettava. Mi controllava. Ma da quando, che sono stata sempre così attenta?
Anche la mia faccia diventa verde, dentro specchio. Adesso sa, mi dicevo, adesso geloso com’è monta in bestia, adesso…
L’acqua ossigenata mi colava negli occhi, bruciava, ho tuffato la testa sotto il rubinetto. Ho fatto appena in tempo a rialzarmi che sei arrivato. Stavi ancora fumando, la sigaretta aveva la cenere lunga. Ti sei appoggiato allo stipite. È caduta la cenere tutta d’un blocco. Avrà mica scoperto davvero qualcosa, mi dico, con l’acqua che mi scorre giù nel collo. Mi prende una vampata in faccia. Tu mi guardi fisso.
Com’è che sei così rossa?
Mi è venuto mal di testa. Dev’essere l’acqua ossigenata.
Facciamo che non ci vai a lavorare, stasera.
Come, non vado! Certo che vado, ci mancherebbe.
Chiama. Di’ che non vai.
Lo conosco, questo tono, e non mi piace. Con calma, togli di tasca il mio telefonino, me lo sbatti sotto il naso, leggo il mio sms: amore ci vediamo stasera non farmi aspettare bacio. Sabry.
Strillo, chissà perché.
Poi non so cosa è successo. C’è stato come un lampo e qualcosa che mi pizzicava forte il petto. Il rosso l’ho visto dopo, quando mi è arrivato il secondo lampo, stavolta alla testa. Allora si è messa a colarmi acqua rossa dai capelli e ho pensato che se ne stava andando tutto quel cazzo di verde.
Ma non era facile pensare, c’erano i lampi che mi scattavano addosso, su e giù, alla pancia, al seno, alla gola. Facevano male, non riuscivo a pararli, e mi è venuto sonno, un gran sonno, come avere una sbornia, o essermi fatta. In mezzo al sonno mi vedevo le ciabattine inzupparsi di rosso. Non capivo.
Mi sono guardata dentro lo specchio, e non c’ero.
Ti ho visto, Augusto, che spostavi un fagotto di lato, passavi bene lo spazzolone per terra, strizzavi lo straccio – quanta acqua rossa! –, lavavi un coltello, facevi la doccia, ti cambiavi e tornavi in soggiorno.
La gatta sbadigliava sulla sedia. Ti sono venuta dietro.
Nella stanza c’eri solo tu. Tu e lei. Tu hai appoggiato il coltello sul tavolino, ti sei seduto sul divano. E io dove sono, dicevo, eppure sono qui anch’io: sì, però dove sono?
Augusto, hai posato il coltello e ti sei acceso un’altra sigaretta, e fumavi come se niente fosse. Mi sono accorta che potevo guardare nello stesso momento da tutte le parti, davanti, di fianco, dietro la testa. Mi sembrava che se volevo potevo camminare sul soffitto come una mosca. Ho sbattuto contro uno stipite e non ho sentito male.
Vedevo il coltello, era quello della carne. Pulito, bello lucido. L’ho preso. Ma non riuscivo a tenerlo in mano, ma che è? dicevo. Non ci riesco. Riprovo. No. Non ci riesco.
Mi viene in mente di colpo quel film dove lui lo hanno ammazzato, e non lo sa, cerca di fare tutte le cose che faceva prima e non ce la fa, e solo dopo un po’ incomincia a pensare che magari è morto. Così, preciso! Possibile? Non voglio capire, non voglio crederci. Vuoi vedere che mi ha uccisa…? Augusto, mi hai uccisa? Mi hai uccisa, cazzo, mi hai uccisa!
La gatta smette di pisolare sulla sedia, spalanca gli occhi di colpo e salta giù, mi viene incontro. Ma tu non mi senti urlare. E adesso? Sono morta, gridavo, non ci sono più, eppure mi sento, sì che mi sento. E le mie ciabattine sono tutte piene di sangue.
Mi hai uccisa, Augusto.
Lo ripetevo a nessuno, lo ripetevo per convincermi.
Bastardo, mi hai uccisa.
Non capivo perché, non ricordavo perché, ma mi avevi uccisa.
Cosa dovevo fare? Mi aggiravo convulsa per la casa, cercavo di mettere ordine, sarebbe venuta gente, guarda che casino. Ma tutto mi scivolava tra le dita. Sì. Come nel film. Eppure mi sembrava di essere quella di sempre, solo che…
Solo che non c’ero più.
E tu fumavi.
Sai, a volte è difficile pensare, quando sei vivo. C’è il cervello che s’intoppa, che ronza. Ma io mi accorgevo che non sentivo più ronzare niente. Pensavo facile, così come soffia l’aria.
Augusto, non dovevi uccidermi. Non era il caso, per così poco. Ma tu sei sempre stato manesco e vigliacco. In fondo ti sono stata abbastanza fedele, ero così abituata a te. Adesso come faccio che non ci sei più? Anzi, che non ci sono più io?
E Muci? Forse sono ancora un po’ viva se la gatta mi guarda, mi gira intorno, anche se non mi si struscia alle caviglie come faceva sempre.
Mi viene un’idea improvvisa, accecante, sembra una scarica elettrica.
Magari mi resta un po’ di tempo ancora, prima di scomparire del tutto. Cristo, scomparire… Scomparire dove? Ma non devo pensarci, no, eh? non adesso.
Tu ti sei allungato sul divano, tieni gli occhi chiusi, che fai, Augù? piangi, pensi?
Dormi.
Vado in cucina e provo a girare la chiavetta del gas. Le mie dita le vedo, sono quelle di sempre, con le unghie rosse, ma è come se fossero fatte di niente. Ricordo che appena sposati me le pitturavi tu, le unghie. Quanto mi piaceva. Che magone mi viene.
Cosa succederà adesso? Verrà qualcuno a portarmi via?
Ho paura. Non dovevi farmelo, Augusto.
Provo ancora con la chiavetta del gas. Non gira, le dita non hanno presa. Ma provo, provo e riprovo, lo voglio, lo voglio, lo voglio! Ti voglio, Augusto.
Ecco… ecco… la chiavetta schioda… sì, gira adagio… gira… gira… gira…
Non volermene Augusto. Sai come sono fatta. Non riesco a tenere il muso.
Alla fine, sia come sia, non me la sento di lasciarti qui da solo.
2. La bella vita
Erano stati tre ad andarsene, in due mesi e mezzo. No, anzi, quattro, se contiamo l'Aliprandi. Ma il Gino Aliprandi era malato da un pezzo, si sapeva, prima o poi… Lui non era da contare. Gli altri, però, stavano bene, soprattutto il povero Berto, che pareva ancora un giovanotto, neanche una ruga.
Roba da matti, rimuginava pedalando di malavoglia. Schivò una buca della strada. Il manubrio era diventato duro, ultimamente, sacrinò il Peppo, guarda che roba, e poi queste rotonde, a cos'è che servono? A far casino, servono, era mica meglio un semaforo? che almeno le macchine si fermavano, così invece non si capiva mai se…
Un'auto strombazzò di colpo, col rischio che la curva del Peppo, a fil di perfetto semicerchio, per lo spavento si tramutasse in una serpentina mortale. Meglio fermarsi da qualche parte, lasciar scorrere via il grosso del traffico.
E il Peppo planò con la sua bici nel parcheggio del Bar Bison, ultima meta della giornata, visto che ormai era quasi ora di cena. E lì, nel locale vuoto, davanti a un malinconico calicino di rosso, attento a non macchiare il vestito buono – quello grigio, da dirigente, secondo sua moglie Mariuccia, o da usciere, secondo lui –, rifletteva sulla caducità della vita umana.
C'era poco da scherzare. Uno andava in pensione: la festa, il brindisi, il regalo; si comprava la canna da pesca, o la zappetta e il rastrello per l'orto, o magari si ritirava con la moglie nella casina al mare. Due o tre mesi, e zac! se ne andava senza nemmeno il tempo di dire amen.
Erano morti in questo modo i suoi tre amici pensionati, a parte appunto il Gino Aliprandi: quello era tanto se aveva tirato i sessantacinque, sempre in cassa mutua, pur avendo i pomelli rossi. Come certe mele, belle fuori e marce dentro.
Dammene un altro, va'.
Il Carletto s'allungò, dietro il banco, a impugnare il bottiglione del barbera.
Com'è stato il funerale?
chiese, versando piano piano, come il prete nel calice della messa, non fosse mai di rovesciarne una goccia.
Bello,
rispose brevemente