A distanza ravvicinata
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Anteprima del libro
A distanza ravvicinata - Henriette Gyland
Prologo
Attraverso il binocolo, l’ombra vide accendersi la luce nella stanza della vecchia signora. Le tende erano tirate, ma quando la donna uscì inciampando in corridoio, avvolta nella camicia da notte bianca e fluttuante come un sinistro sudario, per un istante fu ben visibile dall’esterno. Apparve un’altra luce, questa volta in bagno, e rimase accesa per un’infinità di tempo.
Muori, pensò l’ombra nascosta fuori. Cosa aspetti a morire?
Finalmente la donna tornò in corridoio, brancolando, e con un breve guaito il Jack Russell che aveva comprato solo qualche settimana prima manifestò la sua ansia per la padrona. Lei sembrò non accorgersene, e salì in cima alle scale, barcollando a destra e sinistra come ubriaca. Quando scomparve alla vista, l’ombra si avvicinò per guardare, lasciando il binocolo penzoloni sul ramo di un albero.
Ora la luce veniva dalla cucina. La vecchia si era piegata in avanti, e si afferrava lo stomaco come in preda a crampi insopportabili.
Un altro sorriso crudele. Spero che tu soffra.
Il dolore doveva essere insopportabile, perché la donna aveva il viso contratto dallo sforzo di rimanere in piedi. Infine fu costretta a cedere. Con un grido di terrore che oltrepassò il vetro della finestra, cadde in ginocchio sul pavimento di pietra. L’osservatore nascosto vide che era scossa da violenti conati di vomito. Non rimetteva nulla, quindi era chiaramente disidratata.
Brucia all’inferno.
La vecchia si costrinse a rialzarsi, ma il suo fu un successo solo temporaneo; un ultimo, vano sforzo. Arrivò fino al retrocucina e si riempì un bicchiere d’acqua direttamente dal rubinetto.
L’acqua non le sfiorò nemmeno le labbra. Si versò sulla camicia da notte quando gli occhi della donna incrociarono quelli dell’ombra al di là della finestra. Il suo shock fu palese a entrambi, e per un lungo momento i due si fissarono soltanto, come ammaliati, impietriti, mentre i ricordi di un legame odioso, indesiderato, attraversavano le loro menti.
Poi allo shock subentrò la determinazione, e mentre il cane abbaiava saltando su e giù, la donna si raddrizzò appoggiandosi alla parete e attraversò la cucina barcollando, senza più alcun controllo sui propri movimenti. Arrivata alla credenza si fermò come per prendere fiato, e di colpo si portò le mani al petto. Aprì la bocca in un rantolo, poi cadde, quasi al rallentatore, spingendo giù dalla credenza alcune carte e un elenco telefonico, e picchiando la testa su uno spigolo. Per un attimo vi fu silenzio, poi il cagnolino cominciò a ululare – un suono orribile, prolungato, che fece rizzare i capelli all’ascoltatore nascosto.
La sua gioia, così lenta a mostrarsi, si velò di rimpianto.
1
Creature d’ombra emerse dagli abissi le fluttuano intorno vorticando, e con i loro artigli tentano di afferrarla e tirarla giù. Lei vuole urlare, ma sa che se apre la bocca annegherà.
Quando sente l’acqua chiudersi sopra di lei è presa dal panico. Fa un ultimo tentativo disperato di raggiungere la superficie, ma è ormai a centinaia di metri di profondità, e la spinta verso il basso è troppo forte.
Poi è fuori dal suo corpo, e vede tutto. Le gambette che si dibattono con forza, scalciando acqua dappertutto, il grido soffocato dall’acqua, gli occhi scuri – sempre tanto fiduciosi – ora spalancati, imploranti, increduli. Una vita che passa.
Infine silenzio. Un silenzio di morte.
Ora ha le maniche bagnate. Le fissa non riuscendo a ricordare come sia accaduto. Nel frattempo, guarda con orrore crescente l’acqua che le inzuppa i vestiti trasformarsi in nebbia, alzandosi. La vede attorcigliarsi in serpenti liquidi che le si insinuano a forza giù per la gola, fin dentro ai polmoni, facendole dimenticare tutto il resto.
Lottando contro l’indicibile pressione al petto, cerca di afferrarsi alla realtà, ma è risucchiata ancora più in basso.
Aria.
Ha bisogno d’aria…
Lia Thompson si svegliò tossendo e sputacchiando. La stanza da letto era scura e silenziosa, e per un attimo Lia si sentì completamente disorientata. Poi ricordò. La casa di sua nonna e l’eredità indesiderata. Allungò la mano verso la sveglia da viaggio con le lancette luminose e fece cadere un flacone di pillole dal comodino.
«Oh merda» borbottò, mentre il contenuto precipitava sul pavimento di legno. Il tappo non era stato avvitato bene.
Cinque e mezza del mattino. Con un sospiro Lia ricadde sul cuscino, rabbrividendo. Le pillole la aiutavano a dormire, ma c’erano gli effetti collaterali, e i sudori notturni erano il peggiore. Si svegliava infreddolita, col pigiama inzuppato. Se lo sfilò dalle spalle, prese la vestaglia ai piedi del letto a due piazze e se la avvolse addosso. Poi si riaccucciò sotto le coperte.
D’un tratto sentì un’ondata di panico. Odiava svegliarsi e ritrovarsi da sola. Il mondo era così silenzioso prima che gli uccelli cominciassero a cantare. Era come se tutti avessero deciso di trasferirsi su un altro pianeta dimenticandosi di svegliarla.
Rimase a letto per un po’, aspettando che il calore le penetrasse di nuovo nelle ossa, poi si alzò lentamente e andò alla finestra ciabattando. Scostò le tende e guardò fuori nell’oscurità. Il Norfolk settentrionale era un altro mondo rispetto a Philadelphia, la città in cui aveva scelto di abitare qualche anno prima. Lì non faceva mai veramente buio, e in un primo momento era stato proprio quell’aspetto ad attrarla.
Oltre al fatto che fosse a un milione di chilometri da lì.
In quell’angolo sperduto del Norfolk, gli elementi regnavano incontrastati, e nel pieno dell’inverno a quell’ora del mattino era ancora buio pesto. Sentiva il Mare del Nord oltre il vetro della finestra – un ruggito distinto, ininterrotto – e pensò ai marinai che, più o meno dopo un’ora, si sarebbero ritrovati per guadagnarsi la pagnotta. Li immaginò tirare su le reti faticosamente, afferrarsi alle catene e ai paranchi con le dita gelate, mentre la schiuma schizzava sulla barca, rendendo il ponte scivoloso e traditore.
E sotto le onde vertiginose li aspettava l’inferno.
Scacciò quell’immagine chiudendo gli occhi. Era troppo simile ai suoi sogni.
Cosa ci faccio qui?, pensò per l’ennesima volta, ma la risposta era semplice.
Alla morte della nonna, era toccato a Lia occuparsi delle faccende legali. Sua madre, Connie, si era rifiutata di averci a che fare e aveva persino dichiarato di non volere un penny dell’eredità.
Lia non riusciva a capire. Connie guadagnava pochissimo e quei soldi le avrebbero permesso di vivere comodamente, quando fosse andata in pensione. Ma il dolore spingeva a dire e fare le cose più strane. Aveva sperato che fossero solo chiacchiere, ma, dopo due settimane, sua madre era ancora irremovibile.
Sospirò, strofinandosi gli occhi. La sera prima, quando si era buttata a letto, sfinita, era ancora lontana dal trovare una soluzione al problema. A due giorni dal volo, non si era ancora ripresa dal jet lag, e la cosa non era certo d’aiuto.
Non la voglio neanch’io, quest’eredità!
Raccolse dal pavimento tutte le pillole che riuscì a recuperare e si diresse in bagno, dall’altra parte del corridoio. Mentre allungava la mano verso lo spazzolino, s’intravide di sfuggita allo specchio. Un’ombra scura si alzò dalla vasca alle sue spalle. Lia si voltò di scatto, urlando, col cuore che le batteva all’impazzata.
Non c’era nessuno.
Al sollievo subentrò un’irresistibile voglia di piangere. È qui che… no, non voleva pensarci adesso. Decisa, voltò le spalle alla vasca e si lavò i denti con tanta energia da farsi sanguinare le gengive.
«Caffè» disse alla sua immagine riflessa, quando osò di nuovo sbirciare lo specchio. «Ecco di cosa hai bisogno.»
Si infilò un paio di calzettoni di lana e scese al piano di sotto. La guida sulle scale era consunta, e Lia avanzò con cautela per evitare che le dita dei piedi si impigliassero nella trama del tappeto.
Tutto confermava lo stato d’abbandono della casa. Superfici polverose, tascabili ingialliti, insetti stecchiti intrappolati sotto le cornici. Erano passate solo due settimane dalla morte di Ivy Barrington, ma sembrava che nessuno vivesse più in quella casa da mesi, fuorché nella cucina e nella stanza da letto principale. Se sua nonna faceva fatica a occuparsi della casa, man mano che invecchiava, perché non lo aveva detto?
Perché era troppo orgogliosa. Lia si sentì in colpa: avrebbe dovuto accorgersene e fare qualcosa per aiutare sua nonna, senza metterla in imbarazzo.
Preparò il caffè, poi si sedette al tavolo della cucina davanti a un mucchio disordinato di documenti legali. Ancora una volta desiderò non dover sistemare tutta la faccenda da sola.
Fuori, un cane abbaiò. Lia diede un’occhiata all’orologio a muro. Erano quasi le sei. Un po’ troppo presto per portare a spasso il cane, pensò, ma dopotutto, che ne sapeva lei delle abitudini della gente, in quella parte del mondo? Da anni non viveva più lì.
Circondò la tazza con entrambe le mani per riscaldarsi. Il giorno in cui era arrivata, la vecchia cucina della nonna aveva fatto i capricci, e dato che era collegata al sistema di riscaldamento centrale, la casa era gelida come un cimitero. Sembrava ridicolo che Lia conoscesse i segreti di un apparecchio medico all’avanguardia, ma non fosse capace di far funzionare dei semplici fornelli.
Quel pensiero le riportò alla mente Brett, e il lavoro a Philadelphia. Tutta un’altra vita, un altro mondo. Luci brillanti, vetro e acciaio cromato; efficienza e progresso. Di sicuro in quel momento il suo fidanzato stava per andare a dormire. Forse stava guardando l’ultimo telegiornale, con in mano un bicchiere di brandy. Pensò all’attico con la vista sul fiume Delaware e desiderò essere lì, subito, invece che in quella casa vecchia e traballante, con la sua polvere e i suoi ricordi.
Il cane abbaiò di nuovo, questa volta da più vicino. Lia andò alla porta del retrocucina per indagare, e la trovò chiusa a chiave. Infilò la mano dietro la giacca Barbour di sua nonna, appesa a un gancio sul muro, e tirò fuori una vecchia chiave. La porta era bloccata, e dovette forzarla. L’improvvisa corrente d’aria fece sbattere un’altra porta al piano di sopra. Il cuore le fece un salto nel petto.
Che razza di catapecchia! Non c’è niente che funzioni, cade tutto a pezzi, e mi fa venire i brividi.
Fuori, una vecchia e un cane si materializzarono all’improvviso nell’oscurità, come una strega con il suo famiglio. Lia riconobbe la signora Larwood, l’amica più stretta di sua nonna nel vicinato. Abitava in un cottage di pietra in fondo alla strada.
«Buongiorno» la salutò Lia, chiedendosi se fosse normale fare visita ai vicini alle sei del mattino.
«Ti ho portato il tuo cane» disse la signora Larwood senza preamboli. «Si chiama Jack.»
«Cosa?» Lia la fissò stupita.
Poi i suoi occhi si spostarono dalla faccia avvizzita della donna al cane, con un sentimento vicino all’orrore. Era un Jack Russell dalle gambe corte, il pelo raso e liscio e chiazze marroni intorno agli occhi. Il cane ricambiò lo sguardo, con l’aria di sapere cose che lei ignorava. Lia sentì un brivido freddo lungo la schiena.
«Ivy non ha mai parlato di un cane» continuò, inorridita. «Me lo avrebbe detto, se l’avesse comprato.»
«Be’, lo ha fatto, e tu lo hai ereditato.»
La signora Larwood le porse il guinzaglio e la sfiorò entrando in cucina. Depositò una busta di plastica sul tavolo, quindi prese una tazza e si versò un caffè. Lia dovette ripetersi che da quelle parti la gente si comportava in modo diverso.
Cercò di trascinare il cane in casa, ma quello rimase testardamente sui gradini. «Su, muoviti, stai facendo uscire tutto il calore.»
Tremando, il cane mise una zampetta bianca davanti all’altra e varcò la soglia. Lia sganciò il guinzaglio, e lui trotterellò fino alla cucina Rayburn, per accomodarsi su un tappeto di iuta davanti ai fornelli.
Se la signora Larwood si era accorta dell’irritazione di Lia, fece come se nulla fosse. Mise invece tre cucchiaini di zucchero nel caffè e disse arrotando la erre, con il forte accento del Norfolk: «L’ho trovata io, sai. Aveva battuto il capo, sai, sullo spigolo della credenza». Scuotendo la testa come incredula, afferrò Lia per un braccio con la mano macchiata dagli anni e ridotta a un artiglio per colpa dell’artrite. Benché ossuta, era una mano straordinariamente forte. «C’era un gran macello, sai. Sangue dappertutto.»
«Preferirei non sapere i particolari» disse Lia, più che altro per fermare la signora Larwood, e non perché avesse un temperamento impressionabile. Dopotutto, al lavoro vedeva il sangue tutti i giorni. Liberandosi dalla stretta della vecchia, si sedette e allungò la mano verso la sua tazza. Quanto al «sangue dappertutto», Lia prese quelle parole con beneficio d’inventario. Secondo il rapporto del medico legale, Ivy era morta per un attacco di cuore. È vero, cadendo aveva battuto la testa, e dalle ferite alla testa si perdeva molto sangue, ma era più probabile che il sangue fosse fuoriuscito internamente, nel cervello. In ogni caso, il certificato di morte era inequivocabile: era stato l’attacco di cuore a ucciderla.
«Com’è triste» disse la signora Larwood. «Una donna nel fiore degli anni.»
Lia sorrise dietro la tazza. Ivy aveva quasi ottant’anni, ma all’età della signora Larwood, che di sicuro aveva superato i novanta, doveva essere una questione di prospettiva.
Lia era abituata alle morti improvvise, ma succedeva sempre nelle famiglie degli altri, mai nella sua. Ivy era una roccia, una con cui bisognava sempre fare i conti. Per lei, morire così era stato quasi un insulto.
Non erano mai state particolarmente vicine, ma Ivy si era sempre interessata a lei, e l’aveva sostenuta quando aveva deciso di diventare medico.
«Vai dove succedono le cose» era stato il suo consiglio, e Lia l’aveva ascoltato. Aveva lasciato il suo paese per gli Stati Uniti, dove si era specializzata in medicina d’emergenza, occupandosi di ferite da arma da fuoco o da coltello. Lì aveva conosciuto un giovane, energico avvocato. Brett Melrose era un rampollo dell’alta società, prodotto della Ivy League, cresciuto nell’ambiente giusto, con le conoscenze giuste. Al suo fianco la aspettava un futuro radioso, e lei era pronta ad afferrarlo con entrambe le mani.
Ma in quella vita perfetta si era aperta una falla: una sensazione di insicurezza. Lia si dava da fare per curare le vittime di un certo tipo di persone, proprio quelle che Brett tirava fuori di prigione col suo lavoro. Era come se entrambi fossero impegnati all’infinito a riparare danni sui due lati opposti di una barricata, senza mai arrivare a una soluzione.
E inoltre, in un angolo della mente la tormentava la sensazione di avere lasciato in Inghilterra una parte importante di sé. Qualcosa continuava a richiamarla indietro nel Norfolk, ma lei esitava, perché a volte era più facile nascondere la testa nella sabbia che prendere una decisione.
Poi i sogni erano ricominciati. Sognava l’acqua, lunghe dita pallide. Sogni di morte…
La signora Larwood si schiarì la gola. «Sai, era sana come un pesce, tua nonna. Sempre in giro in paese, a sbrigare questo e quello. Poi si è presa Jack, per tenersi occupata. Erano sempre insieme.» Sospirò e finì il caffè. «Non credevo che le sarei sopravvissuta, neanche di un minuto. E in qualche modo non mi sembra giusto.»
Lia si limitò ad annuire. Se solo la vecchia se ne fosse andata, lei sarebbe riuscita a raccogliere i pensieri.
«Sarai sconvolta per essere mancata al funerale. C’erano tutti in chiesa, sai, e anche qui, dopo.» Scrutò Lia con espressione scaltra. «Pressioni al lavoro, vero?»
Lia era sulle spine. «Eravamo a corto di personale, e non sono riuscita a liberarmi. Ho dovuto aspettare di poter prendere un congedo più lungo.» In realtà, si era persuasa che fosse inutile sottoporsi al ridicolo rituale degli addii prescritto dalla società.
Non si sarebbe sentita più vicina a sua nonna solo per il fatto di starsene seduta su una scomoda panca di legno a fissare una bara, mentre tutti quanti intorno a lei parlavano con voce sommessa, lanciandole occhiate eloquenti e furtive.
La signora Larwood non sembrava convinta. Con un ultimo sguardo calcolato a Lia, si chinò a dare una pacca sulla testa di Jack. «Non è poi così male, sai. Ha le sue abitudini, ma si comporta benissimo. È anche un buon cane da guardia. Ti affezionerai a lui.»
Lia guardò quella creatura ridicola accoccolata sul tappetino di iuta. Cercherò di evitarlo, pensò. «Be’, cosa mangia allora? E quand’è che ha bisogno di uscire?»
La signora Larwood si raddrizzò a fatica. «Sarà lui a dirlo. Ti ho lasciato qualche scatoletta di cibo per cani e un pacco di croccantini, le sue ciotole e un paio di giocattoli. È tutto nella borsa.»
Lia frugò rapidamente nella busta, poi si guardò intorno. «Manca la cesta. Dove dorme?»
«Ivy lo teneva a letto, credo.»
Oh, no, pensò Lia, non se ne parla. Non aveva nessuna intenzione di dividere il letto con un cane.
«Sembra che stia per piovere» disse la signora Larwood. Alzò il colletto del soprabito e sgusciò fuori, svanendo nella fioca luce del mattino.
Lia la guardò allontanarsi con aria torva. Poi, mentre cominciavano a cadere pesanti gocce di pioggia, scoppiò a ridere. «Non posso crederci» borbottò. Si vantava della sua abilità nel capire la gente, eppure quella vecchia scaltra era riuscita a fregarla, in un modo o nell’altro. Tornò in cucina, dove Jack la studiò con un’occhiata nervosa. Piegando la testa da un lato, alzò le sopracciglia marroni.
Di nuovo quello sguardo saggio.
Lia passò in rassegna il sogno di poco prima, con le sue immagini disturbanti. Pensava di esserseli lasciati alle spalle una volta per tutte, quei sogni, ma dopo la morte di Ivy erano tornati con intensità crescente. Di rado li raccontava a qualcuno, ma quel cane con le sue strane macchie sembrava sapere perfettamente come si sentiva. Era un’idea ridicola, certo, ma l’espressione di Jack era così seria che un po’ s’intenerì.
Prese il cibo per cani portato dalla signora Larwood e ne mise qualche boccone in una ciotola col nome di Jack, poi lo guardò masticare soddisfatto.
Sua nonna non aveva mai avuto un debole per gli animali, e tollerava a stento l’amore degli altri nei confronti dei loro fedeli amici. Non si era mai offerta di badare a un cane o di dar da mangiare al coniglio di un amico durante le vacanze, e nessun animale aveva mai messo piede a casa sua.
E allora come le era venuto in mente di comprarsi un cane?
2
Aidan Morrell parcheggiò la sua Honda 4x4 spruzzata di fango e spense il motore. La lasciava sempre dietro una fitta macchia di abeti, al margine di un sentiero che portava a Holkham Beach, al sicuro da occhi indiscreti. Si fermò un attimo a controllare la carta delle maree, poi scese dalla macchina e aprì il bagagliaio.
Dopo essersi accertato che l’attrezzatura da sub fosse a posto, si appoggiò alla portiera sfilandosi il maglione dalla testa. Finì di spogliarsi e, rimasto in boxer, tirò fuori dalla borsa una tuta di pile. Aghi di pino gelati gli scricchiolavano sotto i piedi nudi, e una brezza fresca gli scompigliava i folti capelli castani, ma lui non ci badava. Non aveva mai sofferto il freddo più di tanto.
Nuvole pesanti, color piombo, promettevano pioggia; il ma-re ruggiva da lontano, e nell’aria c’era il gusto pungente dell’acqua salmastra.
Perfetto, pensò.
Con la marea favorevole e il vento che soffiava sulla costa, le condizioni per le immersioni invernali erano ottime. Il volto gli si aprì in un sorriso di pura gioia.
Ma fu una felicità di breve durata. Mentre si infilava la tuta, la stoffa sfregò sulla pelle raggrinzita della coscia destra, e Aidan rabbrividì per il dolore. Senza volerlo, i suoi occhi si spostarono sulla ferita livida, come lo sguardo di un passante che per metà è affascinato, per metà disgustato dalla vista del sangue in un incidente stradale. La bruttezza di quella cicatrice lo sorprendeva sempre. Si estendeva dall’attaccatura della coscia fino al ginocchio, in diverse sfumature di rosa. Col suo reticolo di ecchimosi, lo faceva pensare a un paesaggio alieno.
Distolse lo sguardo per il ribrezzo, ma il ricordo di come si fosse procurato quella ferita continuò a scorrere nella sua mente come in una sequenza di fotogrammi. Una nave da guerra nel Golfo, uno stupido incidente giù nelle cucine, dove di solito non andava mai. La tempesta che cominciava a infuriare, sollevando onde altissime, ed ecco che la nave sbandava, e uno tsunami di olio bollente si rovesciava dalla friggitrice chiusa male. La gamba letteralmente in fiamme, bruciante di un dolore insopportabile. Aidan ricordò le urla – anche se solo in seguito capì di essere stato lui a gridare – e poi lo svenimento.
Se solo la sua mente fosse rimasta annebbiata come allora. Invece ricordava sempre tutto, ogni volta che si guardava la gamba. Afferrando la muta, lasciò che lo spesso tessuto di neoprene sotto le dita lo riportasse al presente.
No, mi rifiuto di pensarci. È acqua passata.
Le mani gli tremavano per l’emozione repressa mentre si infilava la muta e chiudeva la cerniera. Fece un respiro profondo per costringersi a tornare alla calma provata prima che la cicatrice gli ricordasse il passato. Immergersi in stato di forte agitazione non era mai una buona idea. Condizionava il battito cardiaco e la respirazione, e anche la capacità di giudizio.
E inoltre, era una storia vecchia ormai.
Prese il kit per le immersioni – il respiratore, il cappuccio, la maschera e un asciugamano – chiuse il bagagliaio e infilò le chiavi in un piccolo astuccio impermeabile attaccato alla cintura della muta. Poi si diresse verso la spiaggia.
Mentre piluccava da una poco invitante scodella di cereali, Lia tornò a chiedersi per quale ragione Ivy avesse comprato un cane. Sembrava un gesto irrazionale in una persona che non nutriva alcun interesse per gli animali. E irrazionale non era una parola che Lia avrebbe usato per descrivere sua nonna. Dispotica, sì. Forse anche un po’ eccentrica, ma non irrazionale.
Spinse da parte la scodella ancora mezza piena proprio mentre il cane finiva di spazzolare la sua colazione. Nella foga di addentare l’ultimo boccone, Jack stava trascinando la ciotola sulle mattonelle del pavimento, colpendola col naso. Impietosita, Lia allungò il piede per fermare il tragitto della scodella, e il cane aspirò il pezzetto di cibo spalancando le fauci. Poi si leccò il muso con la lingua molle, esageratamente lunga per un cane della sua taglia, e la guardò speranzoso.
«E ora cosa vuoi? Un po’ di caviale?»
Lui guaì piano piegando la testa.
«Mi spiace, ma non parlo il linguaggio canino.» Lia portò la sua scodella nel retrocucina e la sciacquò nel lavandino.
Jack la seguì, incollò il naso alla porta sul retro, la annusò e poi guaì un’altra volta.
Lia diede un’occhiata all’orologio al muro. Erano le sette passate. Moriva dalla voglia di farsi una doccia, di lavare via dagli occhi, assieme al sonno, i ricordi del sogno della notte prima.
«Ora non usciamo» disse. «Sono occupata. Ho delle cose da fare, dei posti da visitare.» Sì, davvero, e quali?
Quella voce era nel suo cervello, o veniva da qualche altra parte? Scrutò il cane con aria sospettosa. «No» ripeté, in tono più deciso.
Per tutta risposta, Jack trotterellò in cucina e si accostò alla credenza.
«No!» In due falcate Lia attraversò la stanza e lo afferrò per il collare prima che riuscisse a irrorare il prezioso bene di sua nonna. «Non ti permettere.» Il cane le lanciò uno sguardo addolorato. «Okay, okay, hai vinto tu. Puoi andare fuori a fare pipì.»
Gli aprì la porta sul retro e Jack si diresse ubbidiente verso un’aiuola in fondo al giardino. Tenendolo d’occhio nel caso avesse provato a scappare, Lia annusò l’aria, fresca dopo la pioggia, e decise di andare a correre un po’.
Quando Jack rientrò in cucina, salì di sopra per mettersi una tuta e raccogliere i capelli in una coda di cavallo.
Su una mensola del bagno c’era una vecchia spazzola di metallo con qualche capello tra le setole. Se aguzzava la vista, strizzando gli occhi fin quasi a chiuderli, quasi la vedeva, sua nonna Ivy, intenta a ritoccarsi la permanente blu ghiaccio. Ivy Barrington si era sempre spazzolata i capelli in un certo modo. Era parte della sua toilette quotidiana, ed erano quelle piccole manie a mantenere vivo il ricordo di una persona.
Un altro movimento nello specchio, forse l’acqua, un’intuizione improvvisa, la fece indietreggiare allarmata. Qualunque cosa fosse – ricordo, visione, fantasia – le restò attaccata ai margini della mente come un cattivo odore. Poi si rasserenò. Sua nonna era morta, e lei non credeva ai fantasmi. Anche se Ivy fosse tornata per riprendere possesso della casa, certo non avrebbe fatto del male alla sua unica nipote. Finì di ravviarsi i capelli e si infilò le scarpe da ginnastica.
Quando tornò al pianoterra, Jack teneva in bocca il guinzaglio.
«Va bene, sta’ fermo» disse Lia, e agganciò il guinzaglio al collare. «Forse sei più educato di quanto pensavo.»
E ora cosa faccio, parlo con un cane? Neanche mi piacciono, i cani!
Dopo aver chiuso la porta sul retro, nascose le chiavi sotto un vaso. L’aria del mattino era frizzante, e il suo respiro caldo formava delle nuvolette di vapore. Alzò il cappuccio della felpa e si incamminò sul viottolo che portava alla strada principale. Le suole di gomma scricchiolavano sul lastricato a mosaico. Tirando impaziente, Jack affondava il muso qua e là, e di tanto in tanto alzava la testa per fiutare un odore sfuggente. Lia gli tolse il guinzaglio e lo guardò schizzare in avanti, euforico.
Lo richiamò con un fischio, e lui tornò subito indietro a grandi balzi.
«Bravo» disse Lia.
Per un po’ corsero sulla strada silenziosa, con la sola compagnia degli alberi lungo il marciapiede. I loro tronchi coperti d’edera riuscivano a mantenere un certo pudore pur nella nudità invernale. A un bivio, Lia scelse il sentiero a sinistra, che portava alla spiaggia. Il giorno prima era andata dalla parte opposta, in direzione del paese, solo per vedere se era sempre lo stesso. Non aveva incontrato nessuno, e ne era contenta. Non era lì per socializzare e mettere radici. Qualunque legame la tenesse ancorata a quel posto abbandonato da Dio, era venuta a reciderlo. Tanto più che Brett aveva molto denaro e una grande famiglia. Avrebbe potuto comprarle tutte le radici che avesse mai potuto desiderare.
Lanciò un’occhiata a Jack, che zampettava al suo fianco con un sorriso da birbante sulla faccia bicolore, come se la vita fosse un eterno divertimento. Non si era aspettata di ereditare un cane e ora non sapeva cosa farne. Poteva trovargli una casa adatta, ma non sapeva proprio da che parte cominciare. Quello era il paese di Ivy, e anche se vi aveva abitato per un po’, da ragazza, ed era venuta a trovare sua nonna un paio di volte negli ultimi dieci anni, non conosceva poi molta gente da quelle parti. Era chiaro che la signora Larwood non aveva alcuna intenzione di prendere Jack con sé. Non le restava che affidarlo a un ospizio per animali, oppure, in mancanza d’alternativa, farlo abbattere. A quel pensiero aggrottò la fronte. Non sarebbe stato facile.
Le siepi di faggi potati cominciarono a diradarsi, cedendo il passo ai sempreverdi. Quando fu più vicina alla spiaggia, Lia notò che avevano piantato dei nuovi alberi di pino. Così, mentre correva lungo il margine erboso della strada, cercando di evitare la pista piena di buche, dovette schivare alcuni giovani alberelli.
Jack si arrampicò di corsa su per l’argine di sabbia e sparì dall’altra parte. L’argine era coperto di ginestra spinosa e bassi pini nodosi, e faceva da barriera naturale al mare. Lia rallentò il passo e si mise a camminare. Qualche tempo prima si era infortunata al ginocchio durante una partita di squash, e correndo in salita avrebbe affaticato troppo l’articolazione.
Arrivata in cima, si fermò per allungare i tendini dei polpacci. Il Mare del Nord si stendeva davanti a lei come una levigata lastra d’ardesia, scheggiata da piccole creste di schiuma in lontananza. Il sole ormai era alto, ma non riusciva a penetrare le spesse nubi, e la terra era avvolta in una coltre di piombo. Solo Jack vi spiccava come un puntolino bianco, un bersaglio mobile tra le onde.
Alla sua sinistra, la costa si allungava a occidente verso l’insenatura di Wash, e a oriente fino a un promontorio chiamato The Point. Oltre ancora c’era la città di Wells-next-the-Sea, ma bisognava arrivare a The Point per vederla, ed era lì che Lia aveva intenzione di andare.
Chiamò Jack con un fischio. «Andiamo. Vediamo un po’ di che pasta sei fatto.»
Il cane lasciò cadere qualcosa che aveva pescato sulla spiaggia, alghe o un animale morto, Lia non lo sapeva, non le importava. Non riusciva a capire come mai a sua nonna fosse venuto in mente di comprarsi un cane, dopo tutti quegli anni senza un animale da compagnia. La solitudine, forse. O c’era un altro motivo?
Eppure le sarebbe bastato fare una telefonata. Sua figlia Connie, che abitava alla periferia di Lowestoft, non era poi così lontana. Lia scosse la testa e cominciò a correre. Ormai non l’avrebbe più scoperto, e allora perché preoccuparsene? Aveva già abbastanza pensieri.
Mentre correva, sentiva i cristalli di ghiaccio sulla sabbia scricchiolarle sotto i piedi. Sapeva di essere stata ingiusta. Ivy e Connie avevano un rapporto difficile; per Ivy non sarebbe stato facile chiedere aiuto a sua figlia. E quanto a Lia, era come se vivesse su un altro pianeta.
Quando aveva conosciuto Brett, il suo trasferimento negli Stati Uniti era diventato definitivo. In America tutto era migliore, e più grande. La gente parlava a voce più alta, le macchine erano più grosse e consumavano più benzina, le case erano più spaziose e moderne, le distanze maggiori, il cielo più alto, le condizioni del tempo a volte eccezionalmente buone. Anche chi era sovrappeso era più grasso. Tutto un altro mondo. Lì era facile scordarsi della propria nonna nel vecchio e ventoso Norfolk.
Attanagliata dal senso di colpa, corse più veloce. Correre l’aiutava a fuggire dalle cose a cui non voleva pensare, da quello che non voleva ricordare. Si sforzò di concentrarsi sugli effetti dell’esercizio fisico sul suo corpo: il respiro, il dolore sordo al ginocchio contuso, i piedi che lasciavano impronte profonde sulla sabbia. Mentalmente, cercò di tenere il conto delle falcate. Mille corrispondevano all’incirca a un miglio. Jack teneva il passo, godendosi quel nuovo gioco. Lia immaginò che per lui fosse una novità gradita, abituato com’era all’andatura tranquilla di sua nonna. Percorsero alla svelta più di un miglio.
Ansimando, Lia si lasciò cadere su un argine di legno umido di pioggia. Anche i suoi vestiti erano bagnati, sia dalla pioggerella che dal sudore. Mentre si sventolava con la maglietta per rinfrescarsi, un’altra visione della morta le balenò nella mente. Le guance incipriate con cura, il rossetto discreto, e le dichiarazioni a volte puritane sulle funzioni del corpo umano.
Le donne non sudano, Ophelia. Arrossiscono.
Quel ricordo la fece ridere piano, ma poi in lei si fece strada uno strano sentimento di nostalgia, e col dorso della mano si asciugò il naso dal sudore, o dalla pioggia, o dalle lacrime. Jack le saltò sulle ginocchia, coprendola di sabbia bagnata, e provò a leccarle la faccia. Lia lo spinse giù e si avviò per la strada da cui era venuta.
«Non ho bisogno del conforto di uno stupido cane!» gridò. «Anzi, non ho bisogno del conforto di nessuno. È tutto a posto. Sto bene.»
La morte di Ivy era stata uno shock, perché, nonostante l’età, sua nonna era sempre stata in buona salute. Certo, la scomparsa di una persona era sempre un fatto triste. Non c’era mai un momento «giusto», e ogni volta era una batosta. Insomma, non ci si alzava la mattina aspettandosi un avvenimento del genere.
Ma lo shock, insieme al jet lag e allo spaesamento dovuto al nuovo ambiente, non bastava a spiegare la sensazione indefinibile che ci fosse qualcosa che proprio non andava. Era come se la sua vita avesse cambiato binario, ma lei non era in grado di dire con esattezza quando fosse successo. Non riuscire a chiarirsi le idee su quel punto la esaperava.
Corse più veloce, come se accelerando potesse sfuggire a quei pensieri confusi. Raggiunse gli alberi che fiancheggiavano il sentiero percorso poco prima, e si sedette sulla sabbia boccheggiando, in preda a una sete terribile. Ma non aveva portato dell’acqua con sé.