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La Trama Millenaria
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E-book265 pagine3 ore

La Trama Millenaria

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Info su questo ebook

È da un incontro all’apparenza senza possibilità di evoluzione che Enrico Petrella realizza un romanzo fuori dal comune, in cui le essenze di due persone – e non solo – si rincorrono e si scontrano attraverso i secoli ma anche attraverso i luoghi del mondo. Diverse sono le linfe vitali che fanno un lascito a un essere in divenire; un essere che percepisce la presenza di qualcosa (o qualcuno) di insolito, dentro e fuori di sé, pur non riuscendo a comprenderne appieno il significato, fino a quando... La Trama Millenaria mantiene viva l’attenzione del lettore attraverso un intrecciarsi ritmico e sorprendente di emozioni e di parole, con un finale che non può che essere uno straordinario inizio.

Enrico Petrella ha compiuto studi umanistici, e dopo la Maturità Classica si è laureato in Lingue e Letterature Straniere Moderne nel 1987. Studente di Raja Yoga sin dalla metà degli anni Ottanta, nel 2000 si è diplomato come insegnante di yoga presso l’Istituto Kuvalayananda di Torino. Ha inoltre approfondito in parallelo altre discipline come l’astrologia olistica, lo sciamanesimo e la psicologia junghiana, integrando con la propria formazione umanistica un percorso di autoconoscenza alla ricerca di un ponte tra Oriente e Occidente. Nel 2011 ha pubblicato Verso lo yoga con Ugo Mursia e Il benessere della colonna vertebrale con L’Età dell’Acquario, e nel 2019 Linguaggi dell’anima con Bastogi Libri. La trama millenaria rappresenta il suo esordio in narrativa.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2022
ISBN9791220136068
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    La Trama Millenaria - Enrico Petrella

    cover01.jpg

    Enrico Petrella

    La Trama Millenaria

    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - [email protected]

    ISBN 979-12-201-3221-3

    I edizione novembre 2022

    Finito di stampare nel mese di novembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    La Trama Millenaria

    «Il sapere non è che un’unica cosa:

    comprendere ciò che dirige tutte le cose attraverso tutte.»

    (Eraclito, Fr. 9 - Trad. di Francesco Fronterotta)

    Questo libro è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a persone, luoghi ed eventi realmente esistiti è rielaborato dall’immaginazione. Gli altri nomi, personaggi, luoghi ed eventi sono prodotto della creatività dell’autore e ogni rassomiglianza con eventi, luoghi o persone reali, viventi o defunte, è puramente casuale.

    Prologo

    Nel mezzo del cammino che conduce a casa di Caterina, all’improvviso metto la freccia a destra e accosto. Ho bisogno di raccogliere pensieri e parole prima di mettere piede sulla soglia di casa sua. Oriento lo specchietto retrovisore in modo da vedermi bene in faccia: se fossi una donna che va a un appuntamento con un uomo, forse mi darei un altro tocco di mascara alle ciglia, e magari ancora una pennellata di rossetto sulle labbra. Invece, essendo un uomo che va a un appuntamento con una donna, mi limito a dare un’aggiustatina ai capelli, e mentre mi guardo ho la conferma che la palpebra del mio occhio sinistro sta tremolando.

    Poi distolgo lo sguardo dalla mia immagine e sposto l’attenzione sullo scenario che si apre fuori del finestrino. I vecchi dicono che a Torino la cattiva stagione arriva sempre con i Santi, e in effetti da alcuni giorni s’è fatto un bel novembre freddo e grigio, però piacevolmente contrastato dagli splendidi colori autunnali dei tanti viali alberati della città. Perché poi chiamarla cattiva stagione, mi domando. Di per sé ci sono soltanto stagioni, siamo noi a renderle buone o cattive.

    E l’autunno stavolta promette bene, l’occasione pare proprio di quelle da non lasciarsi scappare di mano.

    Caterina è la segretaria tuttofare della palestra Harmony, dove ho esordito pochi mesi fa come insegnante di yoga. Non è semplice conciliare silenzio e meditazione con le atmosfere fibrillanti del fitness, ma ho fatto bene attenzione a scegliere una palestra morbida, evitando il tipico tempio del muscolo dove assatanati body-builder passano le ore a gonfiare bicipiti e pettorali al ritmo di musica martellante. Ciononostante, prima di cominciare mi tocca quasi ogni volta ricordare gentilmente all’insegnante di step di abbassare il volume, visto che tengo la mia lezione in una sala adiacente alla sua.

    Il nostro primo incontro è avvenuto in estate, quando la palestra era ancora un cantiere. Camminavo con cautela sui teli di nylon, attento a non urtare le latte di vernice che ingombravano il passaggio. All’improvviso, in piedi sul gradino più alto di una scala a pioli, mi era apparsa una biondina sui trent’anni intenta a dipingere d’azzurro una parete. Si era voltata verso di me, e lanciandomi uno sguardo curioso, mi aveva salutato non con il tono che si usa con gli sconosciuti, ma con quella sfumatura di confidenza riservata di solito agli amici intimi o ai parenti stretti. Come se il suo sorriso mi stesse dicendo: «Ma io ti conosco, che ci fai qui?».

    Innamorarmi di lei non è stata una marcia di avvicinamento verso l’ignoto: ho piuttosto la sensazione di riportare alla luce poco per volta una regione della mia anima immersa nell’ombra da secoli. Non ci ho impiegato molto a sapere che è fidanzata, ma ho anche capito che la sua relazione è giunta a uno stato di crisi così acuto che il suo uomo è quasi del tutto assente tanto nei suoi discorsi quanto nella sua concreta vita quotidiana. Compare in palestra soltanto in rarissime occasioni, e finora ho intravisto sì e no un paio di volte la sua figura magra e allampanata aggiustarsi la cravatta prima di far capolino all’ingresso, con l’aria di chi sta facendo soltanto il proprio dovere.

    Essermi innamorato di una donna non libera è nella mia vita un evento così ricorrente che non me ne stupisco affatto. Fin dai tempi dell’adolescenza sono sempre stato un habitué dei triangoli, con amore impossibile incluso nel pacchetto in omaggio. Pare dunque che non ci sia nulla di nuovo in questo mio ennesimo tentativo di romance, se non che la storia di Caterina con il suo fidanzato sembra talmente compromessa che lei si comporta come una single in tutto e per tutto. Così, nel vuoto che si è creato tra loro due, sto provando a gettarmici io, rimettendo ancora una volta in scena il mio cronico conflitto tra il desiderio di godere l’intimità e la paura di affogarci dentro.

    Essendo noi due quasi coetanei è stato facile entrare subito in confidenza, cominciando con piacevoli conversazioni presso la reception della palestra, che ormai da qualche tempo si prolungano in rilassate visite al bar dell’angolo. Il mio punto forte, con le donne, è l’altra faccia del mio punto debole. L’aura contemplativa che emano desta curiosità e interesse, perché mi distingue nettamente, agli occhi del sesso femminile, dal più comune tipo di maschio latino sciupafemmine che loro conoscono fin troppo bene.

    Però, quando si tratta di accorciare le distanze e venire allo scoperto, tutto in me perde intensità e colore finendo con lo sbiadirsi e confondersi proprio in quella nebbiolina mistica che mi avvolge per la maggior parte del tempo. La mia più autentica natura maschile, che pure ribolle sotto la superficie, si smarrisce e latita a tal punto che qualche giorno fa, davanti a una tazza di tè fumante, mentre si chiacchierava di coppie e di matrimoni, Caterina ne ha approfittato per lanciarmi una di quelle frecciatine velenose che ti lasciano paralizzato: «Luca, mi sa che tu hai sposato lo yoga».

    Anche se non lo posso più osservare nello specchietto, sento il mio occhio sinistro tremolare ancora un poco mentre guido nel centro del viale alberato di corso Vittorio Emanuele II, attento al traffico e con la testa perfettamente lucida, risoluto a sfidare la provocazione di Caterina. Il gigantesco monumento dedicato al re omonimo, padre della patria, si erge nel mezzo di un’ampia rotonda, ma dall’abitacolo della mia macchina non riesco a contemplarlo in tutta la sua statura, tanto è in alto lui e tanto in basso sono io. Lo aggiro sulla destra percorrendo mezzo cerchio e poi vado oltre. Ormai sono vicino alla meta.

    Trovo parcheggio a poche decine di metri dal portone e, accarezzando con i miei passi un fitto tappeto ocra di foglie secche e fruscianti, approdo infine sull’asfalto solido del marciapiede e mi avvicino con passo deciso alla pulsantiera. Adesso, l’occhio non mi tremola più e ho ritrovato tutto il mio coraggio. Ma è segno di pericolo imminente, perché da tempo ho imparato che proprio quando mi pare di sentirmi forte e tranquillo, ecco che dall’ombra si materializza il boicottaggio del mio inconscio. Caterina tarda parecchio a rispondere, e la cosa mi mette in sospetto. Infine, ecco che dal gracchiare indistinto del citofono emerge una sfilza di parole imbarazzate:

    «Ascoltami, Luca, c’è un problema. Aspetta un minuto che scendo e ti spiego».

    Ci siamo, dico a me stesso, è arrivato l’intoppo. Evito congetture, ipotesi o qualsiasi contorsione mentale che non servirebbe a nulla se non a generare premature e magari infondate spiegazioni, e resto in attesa. Dopo una decina di minuti, dietro alle porte a vetri opache dell’androne si intravede per un momento una sagoma esitante, poi l’opacità si dissolve ed entra in scena Caterina traballante su un paio di decolleté nere dal tacco alto, gli occhi arrossati da un pianto recente e un abito scuro, elegante e malinconico, da uscita serale obbligata.

    «Devo andare a mettere a posto le cose nella mia vita – esclama con voce agitata e leggermente stridula, quasi a cercare una giustificazione nelle lacrime che già hanno cominciato a stingere il mascara sugli angoli dei suoi occhioni tristi – Mi dispiace tantissimo. Sono stata al telefono con Roberto per un’ora intera, e adesso sto andando da lui. Devo andare, devo proprio andare, scusami tanto davvero».

    Io la guardo ammutolito. Dalle mie labbra aride, come se in un istante il vento del deserto le avesse prosciugate, non schizza fuori il minimo suono.

    Trascorrono alcuni interminabili istanti densi di disagio, poi con fatica apro la bocca per rassicurarla, le dico ok va bene se proprio non puoi fare altrimenti. E il mio burattino, manovrato con sapiente ottusità, allarga le braccia a mostrare disappunto misto a rassegnazione, come se il suo repertorio di movenze, in risposta a una situazione simile, non potesse prevedere altro.

    Sono passati all’incirca tre mesi, siamo in pieno inverno e ci troviamo in palestra. Caterina mi prende da parte, abbassa il tono della voce fino al sussurro e mi rivela che aspetta un bambino, e che in primavera si sposerà. Lo dice guardandomi con una dolcezza inequivocabilmente sincera, e mi lancia dal profondo dei suoi occhioni blu un lampo segreto, un messaggio silenzioso e remoto che sembra giungere da un tempo altrettanto lontano e impalpabile. E allora afferro all’istante che io e lei siamo uniti da un filo sottile che corre parallelo alla sua storia con Roberto.

    Pare quasi che la sua relazione, di fatto ormai coniugale, non sia toccata dal nostro amore e viceversa. Almeno finché quell’amore resterà puro e idealizzato, schivando il rischio di diventare qualcosa di fisico, di carnale, come quella famosa sera, quando uscire con lei per la prima volta avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi. Fiutando il pericolo di un’autentica intimità pelle a pelle, fatta di mescolanza di fiati, di scambio di umori e di sapori, il mio inconscio si ingegna di trovare soluzioni sempre nuove per bloccare il mio motore, facendomi assomigliare a un aeroplano che ogni volta, al momento di accelerare per il decollo, perde velocità, e così non gli resta che frenare, rallentare e rimandare ancora una volta il suo amplesso con il cielo.

    Già da tempo sono diventato uno straordinario, inconsapevole maestro nel guarire le altrui crisi di coppia, ma stavolta ho compiuto un vero e proprio capolavoro. Non mi sono sfuggiti i sincronismi temporali della vicenda, e dopo aver fatto un paio di calcoli ho ipotizzato – con ottime probabilità di aver colto nel segno – che il nascituro sia stato concepito proprio quella famosa sera.

    Ora, mentre Caterina mi sta annunciando il suo imminente matrimonio e io rivolgo una fugace occhiata all’ancora impercettibile lievitazione del suo ventre, non ci sono più pericoli di sorta per nessuno dei due: lei, accasandosi, seguirà la via maestra della tradizione, e io resterò nel mio cronico stato di single instabile e irrequieto, medievalmente dilaniato tra il richiamo dello spirito e i desideri della carne, tra l’immagine serena che trasmetto all’esterno e le fiamme che si agitano dentro di me senza apparente via d’uscita.

    Lei mi sta silenziosamente dichiarando il suo amore sincero con quello sguardo blu oltremare che sembra arrivare da un altro mondo, come se volesse raccontarmi una storia vissuta insieme e ormai dimenticata, archiviata in zone remote e inaccessibili della memoria. Il bello è che ci stiamo guardando come se fossimo noi due la coppia che deve sposarsi, e facciamo a lungo l’amore con gli occhi fino al momento in cui lei muove lentamente la sua mano per regalarmi un indimenticabile addio che mi fa venire i brividi, accarezzandomi il braccio con un tocco così morbido e delicato e allo stesso tempo dalla sensualità così strabordante che credo resterà impresso per secoli nella mia memoria cellulare.

    Che altro dire? In me vive un grande paradosso. La mia pericolosità è tale da mettere ogni volta in allarme i compagni delle mie corteggiate e da farli intervenire con drastica urgenza per sfuggire al pericolo imminente di perdere la fidanzata, o la compagna, o la moglie. D’altra parte, risulto alla fine del tutto inoffensivo, perché i miei cavalli non riescono mai a raggiungere la velocità del galoppo prima che quell’altro si risvegli dal suo torpore e si riprenda ciò che, a torto o a ragione, considera suo. Così, la storia delle mie relazioni al femminile continua a essere un incessante susseguirsi di affannosi inseguimenti che finiscono per convertirsi in amori platonici belli, limpidi e puliti, ma acutamente frustranti per il mio corpo assetato di fisicità, di baci, di amplessi e del calore di un’altra pelle. La selva in cui mi sono smarrito è ingarbugliata per bene.

    Alcune settimane dopo l’annuncio nuziale e l’addio di Caterina, trovandomi nel bel mezzo del lavoro di sbroglio del Grande Garbuglio, in un pomeriggio di febbraio del 1995 e dunque ormai agli sgoccioli del secondo millennio, sto per avere la mia prima esperienza di channelling. Da questo momento in poi la mia idea lineare del tempo è destinata a sgretolarsi irreversibilmente.

    Da alcuni minuti sono immerso nell’atmosfera sospesa e misteriosa della casa di M, il medium a cui sono stato indirizzato da un’amica fidata. Dopo una concisa spiegazione sulla planchette e i suoi scopi, M socchiude gli occhi per concentrarsi, e atteso qualche istante, invoca il nome del suo Spirito Guida, pregandolo di trovare il mio. Seguono ancora diversi attimi di silenzio, quindi il medium comincia a far scorrere l’ametista che tiene nella mano destra su una tavoletta di legno rotonda appoggiata sulle ginocchia: disegna degli otto e ogni tanto un cerchio. Poi la sua voce, leggermente alterata, torna ad attraversare il silenzio e la penombra della stanza:

    E così sei finalmente giunto e qui da me raggiunto, mio protetto! Potrai riconoscermi nel nome di Ariane: immagina la mia figura come formata da astratti e multicolori filamenti luminosi, ognuno dei quali può darti una vibrazione, un’indicazione, uno stato d’animo: e qui vengo a illuminarti quelle pieghe oscure della tua coscienza che con tanta umiltà vai cercando di rischiarare.

    Anche se non sono una persona e non ho un corpo fisico e una mente come voi la concepite, conosco la vita umana: fui in Terra e conobbi le gioie e le pene, il vivere e il mondo, il mistero e la vita in ogni sua forma, dimensione e strada. Qui nel mio mondo non vi è alcuna separazione tra l’ora, il prima e il dopo, né vi è separazione tra anima ed anima, entità ed entità, poiché nella coscienza dell’anima non vi sono barriere alcune, né tanto meno limiti di potere: qui il potere è una fonte da cui realmente si attinge, ma in realtà non vi è bisogno di alcuna dimostrazione.

    Qui, tra mondi luminosi e praterie cristalline sconfinate si procede con il passo delicato che sfiora ogni cosa, è questa la leggerezza di ogni procedere. Nel cammino umano il peso della mente, la paura dell’amore e il giudizio sono i macigni che appesantiscono la crescita e l’espansione dell’anima e dello spirito. In questo spazio siderale, eterico ed astrale vi è una condizione in cui non esistono tempi passati, futuri o presenti, ma tutto è passato, presente e futuro contemporaneamente, poiché così è in realtà, e in verità così soltanto vi può essere un’unità della propria coscienza e della propria anima.

    Tra noi un legame antico ci lega, non già soltanto in questa esistenza ma già da tempo precedente, per dirla nei termini vostri umani. Così, la nostra comunicazione corre su due livelli: uno fisico e materiale, l’altro puramente astrale e spirituale. Quello fisico avvenne in una precedente esistenza in cui le nostre sorti e destini furono uniti da una malattia che mi colpì, amato.

    Qui fummo legati da vincolo di sangue: tu fratello maggiore, io sorella minore che ben presto si ammalò di una disfunzione polmonare che colpì le mie capacità di difesa immunitaria. Questo mi portò a una perdita della parola: il tuo amore e la tua costante fiducia non si fermarono mai. Noi, orfani di entrambi i genitori, dovemmo fare affidamento sulle nostre forze ma soprattutto sulle tue, e con espedienti e lavori saltuari sapesti darmi le cure principali. La mia malattia degenerò sempre più e la tua fede in un divenire, in un dio, mi portò in pellegrinaggio da guaritori, maghi e stregoni alla ricerca di una cura che potesse salvarmi.

    Fu il tuo amore, mio protetto, a donarmi così nuovamente quella gioia che può venire solo dalla vita e dall’amore, che seppe così ristabilire in me un equilibrio fisico, anche se non in tutta la sua potenzialità: ma grazie alla tua instancabile ricerca di verità, amato, sapesti così ridarmi l’uso della parola. Ecco, ora io ti dono il potere di guardare dentro di te e di leggere nel libro del passato ciò che fu e che ancora è.

    Il medium mi invita a fissare lo sguardo sull’ametista e a respirare in modo regolare. Dopo mezzo minuto, mi pare di addormentarmi e di sognare. Ma è senz’ombra di dubbio qualcosa di molto differente da un sogno ordinario.

    Parte Prima

    Capitolo Primo

    La trama millenaria

    La mia storia ha inizio nella Francia settentrionale presso il castello di Ardres, nell’anno del Signore 1188. O forse no. Forse è cominciata molto tempo prima e chissà dove, sempre che un inizio ci sia stato davvero, ma è soltanto fino a quell’epoca che la mia memoria arriva ad affondare le sue radici. Il Papa aveva tuonato contro gli infedeli che occupavano la Città Santa, e proprio in quell’anno, a Magonza, altisonanti squilli di tromba avevano sottolineato la proclamazione della Terza Crociata da parte dell’imperatore Federico Barbarossa.

    Il re di Francia Filippo Augusto, ben presto imitato da Riccardo I Cuor di Leone re di Inghilterra, aveva risposto all’appello. Molti signori si preparavano a seguire i loro sovrani, e molti cavalieri a seguire i loro signori. Anch’io avrei potuto seguire il mio signore ed esser parte di quella nobile schiera, ma così non fu.

    Ecco, mi vedo: un giovane alto, atletico e dalla folta barba color del rame, ritto sul suo destriero con aria di sfida e di incauta, prematura vanagloria. Ero stato sì, anch’io, un promettente paladino di Francia, ma non per molto. Il mio signore, Arnold conte di Ardres, non mi perdonò di aver risparmiato la vita al famigerato Jean La Motte durante il primo torneo ufficiale della mia breve carriera di cavaliere. Il mio temperamento focoso e impulsivo aveva indotto tutti quanti a credere che gli avrei tagliato la gola senza esitare, ma il fatto è che fui io stesso il primo a sorprendermi della mia condotta.

    In un torneo, d’abitudine non si colpivano mortalmente gli avversari, ci si limitava a dar prova di vigore fisico, maestria e prodezza; ma quando capitava di affrontare un nemico giurato, allora era diverso. Quella che doveva essere un’occasione ludica si trasformava in una piccola guerra e nessuno veniva risparmiato dall’ira del suo avversario, se quest’ultimo aveva la meglio: in realtà, era una situazione perfetta per eliminare uno scomodo rivale dietro al paravento del codice d’onore e delle regole della cavalleria. E destino volle che proprio in occasione della mia prima autentica prova si fosse per l’appunto verificato uno di quei casi, perché Jean La Motte era il braccio destro del duca di Guînes, il gran nemico del conte Arnold.

    All’ombra delle turrite mura del castello, il conte ci aveva tenuto concione: aveva parlato chiaro e aveva fatto oscure allusioni, aveva minacciato e aveva promesso, mostrando, più che un sorriso, un ghigno dalla forma bucherellata come una groviera per i numerosi denti che mancavano ormai all’appello dopo decenni di zuffe più o meno nobili; poi aveva benedetto e aveva maledetto, e alla fine aveva ordinato un brindisi al re di Francia, all’Imperatore e per non sbagliare pure al Papa, anche se non gli era troppo simpatico.

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