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Vieni a sederti tra i fiori
Vieni a sederti tra i fiori
Vieni a sederti tra i fiori
E-book367 pagine4 ore

Vieni a sederti tra i fiori

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Info su questo ebook

Matilde ripercorre quarant’anni di vita dei Gallo, una famiglia di origine contadina che vive in un piccolo centro del torinese.
Con grande fatica e sacrifici, nonno Primo e nonna Regina riescono ad elevarsi socialmente e a diventare agricoltori indipendenti, all’inizio degli anni Sessanta, nel momento del boom economico. I loro figli, però, sono attratti dalla vita della grande città e dal lavoro in fabbrica, anche se in alcuni di loro rimane l’attaccamento alla campagna.
Tra tradizione e innovazione, a volte con qualche screzio, ma su cui sempre prevale l’affetto, l’invito della nonna di “sedersi tra i fiori”, nella stanza che lei stessa ha decorato con i suoi ricami floreali, rappresenta un momento di unione familiare, di condivisione di valori e di sentimenti.
LinguaItaliano
Data di uscita4 ott 2022
ISBN9788855392518
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    Anteprima del libro

    Vieni a sederti tra i fiori - Giuseppina Valla Innocenti

    Giuseppina Valla Innocenti

    Vieni a sederti tra i fiori

    EEE - Edizioni Tripla E

    Giuseppina Valla Innocenti, Vieni a sederti tra i fiori

    © EEE - Edizioni Tripla E, 2022

    ISBN: 9788855392518

    Collana Grande e piccola storia, n. 28

    EEE - Edizioni Tripla E di Piera Rossotti

    http://www.edizionitriplae.it

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Copertina: olio su tavola di Rodolphe Pissarro (c.a.1930), collezione privata.

    AI LETTORI

    Vieni a sederti tra i fiori! è l’invito rivolto a chi entra a far parte della famiglia Gallo, a chi condivide le sue aspirazioni e i suoi traguardi.

    È un salto nel passato con la certezza che, in quell’angolo della grande casa, si potranno trovare le risorse per affrontare le difficoltà del presente e la forza per continuare a credere nel futuro.

    È la storia di una normale famiglia piemontese che vive in un piccolo centro agricolo a pochi chilometri da Torino e si adatta alle trasformazioni che dal 1961, nel pieno del boom economico, giungono fino al 2001.

    Sessanta capitoli di vita dai tratti delicati e coinvolgenti, tra mutamenti storici, scontri generazionali e desiderio di cambiamento. In quarant’anni i vecchi rimangono visceralmente legati alla terra, i giovani subiscono il fascino della città e le donne lottano, ogni giorno, contro una società che tende a metterle da parte e a trascurare i loro sentimenti. Con determinazione e tenacia saranno proprio loro a salvare le sorti dei loro cari…

    "Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé

    come le pagine di un libro imparato a memoria

    e di cui gli amici possono

    solo leggere il titolo".

    Virginia Woolf

    PREFAZIONE

    Sessanta capitoli brevi e intensi, come gli anni che nonna Regina compie il 7 settembre 1961, giorno in cui inizia il bel romanzo di Giuseppina Valla Innocenti. A parlare è Matilde, la nipote della matriarca che, tra ricordi e riflessioni, ripercorre quarant’anni di vita dei Gallo, una famiglia di origine contadina che vive in un piccolo centro vicino a Torino. Il filo conduttore della narrazione sono le trasformazioni sociali e culturali comprese tra l’anno simbolo del boom economico, il 1961 (per Torino soprattutto l’anno del centenario dell’Unità d’Italia), e il 2001, l’anno dell’attentato alle Torri gemelle. La saga dei Gallo si trasforma così in chiave di lettura per comprendere un percorso storico tanto ardito quanto rapido: Nonna Regina e il marito, Nonno Primo, sono personaggi della prima metà del Novecento, lei anima della casa e ricamatrice esperta, lui contadino tenace che a forza di sudore e risparmi riesce a comprare abbastanza terra da elevarsi socialmente, trasformandosi da manovale in coltivatore diretto.

    L’evoluzione dei tempi corre però veloce: il piccolo borgo rurale viene progressivamente inghiottito nella metropoli industriale, il richiamo del lavoro in fabbrica è seducente, i solchi e i campi di cereali appaiono obsoleti. È la storia comune alla generazione cresciuta negli Anni Cinquanta/Sessanta.

    La famiglia Gallo è attenta e perspicace, ha fatto studiare un figlio all’istituto per geometri, pensa alla meccanizzazione agricola ma i vecchi vivono nell’orizzonte della terra, i giovani in quello della metropoli e ognuno ha diritto di cercare la propria strada e percorrerla fino in fondo, foss’anche per tornare alle origini dopo aver sperimentato altre dimensioni (come capita a uno dei nipoti, che lascia la Fiat per poi tornare alla campagna).

    Quando Nonna Regina si spegne, ormai ultranovantenne, una nuova rivoluzione si va affermando: l’era informatica sconvolge le nozioni tradizionali di spazio e tempo, proietta il lavoro in una dimensione postindustriale, omologa comportamenti e Culture nel mito della globalizzazione.

    La seconda parte del volume è dedicata a quest’ultima sfida e presenta i più giovani dei Gallo immersi, con successo, nella prospettiva del Terzo Millennio. Quarant’anni di vita familiare attraverso i quali scorrono i quarant’anni forse più veloci della storia umana. L’ultimo gesto della nonna, tuttavia, è un messaggio che consegna al futuro i valori della tradizione, che devono aggiornarsi nel trasformarsi delle stagioni ma non possono mutare nella loro essenza più profonda: Nonna Regina, che non aspetta il 2000 (mi piacerebbe ma ci sono troppi zeri e lo guarderò di lassù) chiede a Matilde di sedersi tra i fiori colorati che ha sempre ricamato e le dice: sono stati un punto fermo della mia vita, qui potrai sempre trovare conforto.

    I fiori ricamati sono il simbolo della dimensione familiare, il riferimento dove s’intrecciano memoria, solidarietà, affetto e sono il simbolo della figura femminile, di quelle donne che nella saga dei Gallo rappresentano l’asse portante di tutte le vicende. Con questa bella immagine Giuseppina Valla Innocenti conclude un libro che si legge agilmente, in cui le storie di vita (speranze e sofferenze, errori e successi) vengono raccontati senza enfasi né retorica: un omaggio autobiografico dell’Autrice alla propria storia personale ma anche una lezione di vita vissuta per i più giovani e per quanti vorranno leggere queste pagine.

    GIANNI OLIVA

    A mio marito e ai miei figli.

    PROLOGO

    «Uscirà per Natale. A un mese di distanza dalla consegna del manoscritto, lei, signora Gallo, potrà avere il più bel regalo per le persone che l’amano e che hanno conosciuto i suoi parenti.»

    La giovane donna si sistemò meglio gli occhiali sul naso e tirò fuori dal cassetto della scrivania un foglietto con un numero scritto a grossi caratteri.

    «Ecco la somma che dovrà sborsare subito, prima che tutto inizi...» concluse.

    Osservai attentamente la zelante signorina della Casa Editrice che, viso rassicurante, sorriso radioso, modi estremamente gentili, dopo una lunga serie di telefonate fatte nei giorni precedenti, sottoponeva alla mia attenzione il preventivo della stampa: una cifra che era esattamente il triplo di quel che avevo pensato.

    «Grazie per l’interesse dimostrato nei confronti del mio lavoro. Lo rivedo e mi farò sentire a breve» risposi con il cuore che correva all’impazzata per la sorpresa.

    Lasciai l’ufficio e nello stretto spazio di un vecchio ascensore del centro di Torino strinsi a me lo spesso plico contenente la storia della mia famiglia dal 1961 al 2001.

    Da tempo volevo pubblicarla ma per una sorta di pudore, e di forte attaccamento, avevo sempre rimandato. In centinaia e centinaia di pagine avevo messo in evidenza i valori, le emozioni, i segreti di chi mi aveva amato e cresciuto.

    A ogni gradino la richiesta sembrava ingigantirsi e la frase che nonna Regina ripeteva mordendosi le labbra Nella vita ci vuole misura! non mi abbandonò più.

    Sul pianerottolo incontrai il caporedattore. Mi avvicinò con il suo abituale garbo e aggiunse:

    «Spero di rivederla per gli ultimi dettagli...»

    «Mi farò sentire» risposi decisa.

    Uscii sul corso e, anche se eravamo ai primi di novembre, le luci natalizie, grandi e piccole, già rendevano il capoluogo sabaudo ancor più bello e magico. Le vetrine allestite a festa invitavano a far acquisti ma io raggiunsi subito il parcheggio.

    Pulii con un vecchio straccio i vetri della mia utilitaria, innescai con decisione la marcia e percorsi, a velocità abbastanza sostenuta, il trafficato tragitto che conduceva in periferia. Dopo cinquanta minuti giunsi davanti al portone di casa e, nello spazioso cortile, rividi le persone che anni prima lo avevano popolato e che continuavano a esser presenti nella mia memoria.

    Sentivo le voci squillanti delle donne che mi avevano stimolato fin dall’infanzia e rivivevo i momenti delle loro gioie e sofferenze.

    Di colpo decisi che non avrei dato le loro esperienze in pasto agli altri. Erano un tesoro prezioso che io, gelosamente, intendevo continuare a tener dentro di me, tra le più segrete pieghe del mio cuore. Da piccola non avevo certo la capacità di valutarne l’importanza e, da giovane, il tempo era troppo incalzante per apprezzarle pienamente.

    Da adulta, giorno dopo giorno, le avevo considerate a fondo e avevo capito che erano state la linfa della mia crescita, la spinta delle mie azioni e il modello della mia vita.

    Entrai nel salotto, mi avvicinai al telefono, composi a memoria il ben conosciuto numero e, con i battiti a mille, precisai:

    «Ho deciso di non pubblicare il libro».

    Dall’altra parte del filo una voce fredda, formale, diversa da quella che avevo sentito circa un’ora prima rispose:

    «Prendo atto della sua rinuncia e la comunicherò ai miei superiori».

    Desideravo fornire altre spiegazioni ma non mi fu possibile. L’efficiente segreteria aveva bruscamente interrotto la telefonata.

    Il suo mutato atteggiamento, stranamente, non destò in me alcun rammarico, anzi fui presa da una calma inusuale. Mi avviai con decisione verso la camera di mia figlia, inserii il malloppo in una grande busta gialla e scrissi sopra Alla mia gran donna.

    Sul retro, nella casella del mittente:

    Matilde, la Tua mamma e sotto, con un’efficace sottolineatura, aggiunsi:

    Un aiuto per capirti meglio!

    I - REGINA

    Un applauso seguito da esclamazioni di gioia risuonò nel centro del piccolo paese, quasi deserto per l’ora di pranzo e per il caldo che soffocava i caseggiati intorno.

    Anche se la grossa porta che dava sul balcone era aperta e le tende scostate, non c’era un filo d’aria nella spaziosa sala.

    Il calendario, portato dagli incaricati della confraternita di sant’Antonio con l’immagine del francescano appoggiato al lungo bastone, segnava 10 settembre 1961, l’anno del centenario dell’Unità d’Italia. Non si era festeggiato il 7, giorno della ricorrenza, perché di festa tutto era più bello. Di domenica non si lavorava, si poteva mangiare senza fretta, chiacchierare a lungo. Era una buona opportunità per godersi un po’ il riposo visto che, in quella casa, nessuno perdeva tempo. Era tutto pronto.

    Era l’onomastico di mia nonna Regina, di nome e di fatto, padrona del grande caseggiato situato nella via principale, al centro del piccolo paese.

    Sessantenne, fisico ben conservato, portamento ancora altero, la donna conservava l’energia della gioventù in cui la sua bellezza era sfolgorante.

    Negli occhi grandi, di un verde scuro, brillava la vivacità di chi continuava a cercare il futuro e nelle mani lunghe, operose da sarta, vibrava l’ambiziosa impazienza di avere ancora molto da realizzare.

    Il bruno colorito delle sue guance, invece di sbiadire, con il passare degli anni si era rinvigorito quasi a voler dare maggiore risalto ai lineamenti fini e regolari. Lo sguardo intenso, il naso armonioso, le linee marcate delle labbra, le orecchie ben proporzionate ingentilivano l’ovale perfetto su cui il sorriso, anche se i denti erano bianchissimi, stentava a apparire.

    La capigliatura castana mostrava qua e là numerose venature grigie, le incorniciava con garbo il volto e un’ondulazione morbida, leggermente all’indietro, le sovrastava la fronte come una corona. Regina non era solo bella ma anche ambiziosa e certi particolari risultavano veramente curati.

    L’abbigliamento, poi, semplice ma di buon gusto, faceva il resto.

    Quando nei giorni feriali andava nei negozi a fare le commissioni e in quelli festivi usciva dalla chiesa con il velo di pizzo in testa, le pettegole mormoravano con un briciolo di invidia:

    «Si vede che arriva dalla città. Neanche l’abitare in paese da tanti anni le ha tolto i suoi modi raffinati».

    Avevano ragione perché la sua figura alta e slanciata, il suo modo di fare, di camminare, di esprimersi, mai fuori posto, la rendevano davvero speciale. Sulla sua persona aggraziata anche il più semplice scampolo diventava un capo importante, si trasformava in un grazioso vestito e un delicato collettino ricamato completava il quadro. Al collo portava, giorno e notte, una collana d’oro con il medaglione recante la foto del padre, morto prima che lei nascesse in un brutto incidente in moto.

    «Con l’ago hai trasformato la tua e la mia vita!» le ripeteva spesso Primo, il marito, con orgoglio e un pizzico di commozione.

    Ogni sera, prima di andare a letto, come in un rito, la donna si metteva di fronte al piccolo specchio del suo bureau, tirava fuori dal fondo del cassettino e sistemava, proprio sull’attaccatura dei capelli davanti, quattro pinze di metallo lucido che, simili a un lungo becco di cicogna, afferravano e fermavano il grosso ciuffo ribelle. Al mattino le ciocche, perfettamente domate, le conferivano eleganza e stile.

    Dinnanzi alle difficoltà, Regina non si era mai tirata indietro e quando le cose non andavano per il verso giusto, invece di arrabbiarsi, ribadiva che Nel bello e nel brutto della vita ci vuole misura.

    Poi, serrava le labbra fino a farle scomparire. Il gesto chiamava a raccolta tutte le sue forze, gli occhi si riempivano di luce e con quella riusciva a illuminare il mondo.

    Nulla sfuggiva al suo sguardo attento. Girava sempre con il suo puntaspilli di panno rosso cucito sul petto, convinta che in qualsiasi momento qualcuno poteva avere bisogno di un punto qua o là.

    Anche se tutti in paese la chiamavano «la torinese» appena sposata, quando i capelli erano ancora nerissimi e la vitalità non veniva mai meno, aveva lavorato per pomeriggi interi sotto un sole così ardente che pareva consumare tutti gli strati della pelle.

    Aveva camminato a piedi scalzi nei campi sulla terra dura per ammucchiare il fieno. Con il passare delle ore il rastrello diventava sempre più pesante ma lei si muoveva con destrezza da un lato all’altro del prato e canticchiava senza sosta. La sua voce era chiara, dava sollievo a chi l’ascoltava e, in autunno, mentre era intenta a sfogliare il granoturco sotto i porticati, tutti le ripetevano:

    «Regina, intona una canzone, così il mucchio delle pannocchie si abbassa più in fretta».

    Lavorava senza sosta e quando si dovevano pulire i futuri raccolti dalle erbacce, era la prima a partire con la zappetta sulle spalle. La sera però le ossa erano rotte, la schiena spezzata e, invece di dormire nel letto, si stendeva sul sofà della cucina perché non riusciva a salire le scale per raggiungere il piano superiore.

    Quando nella campagna tutti si ritiravano con le famiglie nelle stalle calde di aliti e di letame per le lunghe veglie o nelle fredde stanze poco riscaldate con i vetri coperti di arabeschi, lei come per magia riprendeva vita. Un punto dopo l’altro, cuciva gonne e camicie, pantaloni grandi e piccoli. A tenerle compagnia erano i latrati dei cani o lo sferragliare di vecchie biciclette sulla cui sella giovani pieni di vita e di vino intonavano canzoni di guerra e di amore.

    Tutte le ragazze la cercavano per l’abito da sposa e le mamme per la Comunione dei figli.

    Un giorno sullo stipite della porta comparve una targa di legno con su scritto il suo nome e nessuno ebbe più dubbi sulle sue capacità. Regina diventò la sarta del paese.

    A diciotto anni aveva incontrato il marito e poco dopo l’aveva sposato. A forza di rimanere con lei l’uomo aveva assorbito la sua stessa raffinatezza del discorso e quando si trovava con i suoi fratelli nessuno avrebbe potuto individuare l’appartenenza alla stessa famiglia. Tanto erano rozzi e sguaiati loro, tanto era fine lui.

    Scherzava spesso sul suo nome e soleva ripetere:

    «Sono diventato veramente primo da quando ho conosciuto questa donna».

    II - IL RITRATTO

    Da quando aveva lasciato la casa in campagna, un camino e una stanza tramezzata da una tenda a diretto contatto con i cognati, Regina si sentiva davvero libera e le capitava ormai sempre meno frequentemente di serrare le labbra.

    Ogni mattina, impaziente di assaporare la sua nuova condizione, era la prima ad aprire le persiane sulla piccola piazza del paese. A volte, piena di brio, le sbatteva troppo forte e, di sotto, la gente alzava lo sguardo per controllare cosa fosse successo.

    Quarant’anni prima aveva deciso di unire la sua forza e il coraggio a quell’uomo e insieme a lui aveva scacciato i fantasmi delle paure e delle incertezze. In quattro e quattr’otto si erano sposati senza un sospiro di Dio, come dicevano i vecchi, ma lei sapeva cucire e lui zappare.

    Nei primi anni di matrimonio, lavorando senza sosta da mattino a sera, avevano potuto comprare un minuscolo pezzo di terra che, con l’aumentare dei sacrifici, si era allungato come le gambe del loro unico figlio, diventato il geometra del piccolo centro in cui abitavano, situato a pochi chilometri dal capoluogo piemontese.

    Una volta rimasti soli, l’uomo rivolse una sguardo pieno di tenerezza alla moglie e la invitò a sedersi accanto a lui.

    Alto, un corpo ancora sciolto, con i suoi settantasei anni suonati aveva nello sguardo l’autorevolezza di chi sapeva esprimere sentimenti positivi ed elargire consigli preziosi.

    I capelli bianchissimi, il naso dritto, importante e i baffi ben curati che sapevano di sigaro. Gli occhi chiari, bonari, si perdevano nell’azzurro della camicia celeste arrotolata ai gomiti, con una fine plissettatura sul davanti, opera della donna. Le bretelle larghe, scure, dello stesso colore dei pantaloni, aumentavano l‘eleganza della figura.

    Si sedette alla sommità della lunga tavola imbandita e il bianco della tovaglia di batista, stirata da mani abili fin nei minimi particolari, e i piatti dal filo d’oro, conferivano grande importanza all’evento.

    Di fronte, la vetrina dell’alta credenza in noce massello mostrava dietro i lucidissimi vetri molati, altre stoviglie di raffinata fattura. Sul ripiano centrale, una foto di larghe dimensioni ritraeva la coppia, 20 anni lei e 36 lui nel giorno del loro matrimonio, avvenuto nella piccola chiesa del paese. Nessuno se l’era dimenticato perché, anche se i soldi erano pochi, gli sposi erano talmente belli e felici che tutti avevano le mani che bruciavano a forza di applaudire.

    «Quanta gente era venuta a vederci all’uscita! E quanto eravamo giovani!» esclamò Primo.

    «Lo siamo ancora e io sempre più di te!» ribadì Regina.

    «Tu non avevi ancora la corona sui capelli...» osservò scherzosamente il marito, «ma portavi già il collettino alto e ricamato, simile a quello che indossi tutti i giorni».

    «La stoffa del vestito la mamma l’aveva trovata al mercato, per spendere di meno, e io avevo lavorato intere notti per cucire le perline sul giacchino, una accanto all’altra e alla stessa distanza.»

    «Mi ricordo i tuoi orecchini. Luccicavano come i tuoi occhi!» aggiunse l’uomo con l’entusiasmo di un bambino.

    «Me li aveva comprati lo zio in un negozio di via Roma per i bei voti della licenza elementare e chissà quanto li aveva pagati! Mi voleva tanto bene anche se non era mio padre, anzi era buono come un padre.»

    La donna continuò:

    «Tu sembravi imbalsamato nel tuo completo scuro!»

    Lo scatto aveva uno stampo antico. Allora il riso non si poteva ancora sprecare e i due sposi non erano ritratti in chiesa o sul sagrato sotto una pioggia di granellini bianchi, bensì nello studio di un fotografo.

    Accanto alla coppia, una sedia in stile impero con il sedile ricoperto di velluto scuro e un grande mazzo di fiori bianchi adagiato su un tavolino in ottone, rendevano il momento ancora più dolce e romantico.

    «Dopo aver vissuto tra i campi e la stalla, trovarmi davanti a quel grosso mostro nero fu per me davvero una grande sorpresa.

    Era la seconda volta che andavo a Torino, la prima era quella quando ti ho incontrata» precisò frettolosamente Primo.

    «Sceso dal carretto del mio vicino di casa rimasi per almeno dieci minuti, fermo come un fantasma, a guardare i palazzi e la gente che, come delle formiche, arrivava da ogni parte.

    Non riuscivo a affrettare il passo perché ero attratto da tutto quello che c’era intorno. Ogni tanto uscivano delle macchine nuove di zecca con gli specchi luccicanti e, per la curiosità, davanti a tutto quel movimento io procedevo sempre più lentamente.»

    Si fermò un attimo, si lisciò i baffi e continuò:

    «Quando ti vidi arrivare il cuore cominciò a battere come un tamburo. Ti presi per mano e, insieme, raggiungemmo i portici di via Roma. Un signore, vestito di scuro, i capelli lucidi di brillantina, un forte profumo di colonia addosso, un fare cordiale, ci accompagnò in una stanza dai colori chiari con il soffitto interamente affrescato con foglie di edera.

    Sulle pareti erano appesi ritratti di intere famiglie e giovani innamorati dagli occhi sognanti sulle rive del Po, davanti al cavallo di bronzo e al duomo di San Giovanni.

    Sembrava quasi di essere in chiesa, talmente l’ambiente era importante e il mobilio lucido e ben conservato. Nel centro, un lampadario rotondo distribuiva una grande luce. Lo spiffero della finestra faceva muovere lentamente le sue cannette di opalina. Tutto era per me una novità! Per te non era così perché nella tua casa già c’era l’energia elettrica.»

    Regina sorrise, Primo abbassò il mento compiaciuto e continuò il suo racconto.

    «Il fotografo mi ordinò di drizzarmi accanto a te, di non muovermi e mentre mi sforzavo di stare tranquillo, nascosto dietro una lunga tenda nera, provocò uno scoppio così forte e incredibile che quasi mi staccò il cuore.

    Per alcuni secondi non realizzai quello che era successo. Quando ricomparve, inciampai nelle frange del tappeto e, per la gioia di vederlo in buona salute, gli strinsi la mano come a un amico.»

    Nonna Regina, nonostante il suo carattere rigoroso, rise con gusto mettendo in mostra la bella dentatura, valorizzata da un leggero filo di rossetto.

    Quel cartoncino di 30 per 40 centimetri fece il giro nelle case dei parenti e dei conoscenti. Dal vetro ancora si potevano notare i bordi sgualciti e, sullo sfondo, le chiazze chiare dovute alle ditate dei molti ammiratori.

    III -LA CASA DI PIAZZA

    A settembre, quando si chiusero le porte, il sole picchiava forte e i suoi raggi impietosi sembravano infuocare i tetti e trafiggere con violenza i muri nuovi delle ville appena costruite e gli intonaci sbiaditi delle vecchie case.

    Anche i galletti segnavento, issati sulle abitazioni intorno alla chiesa, sfiniti dalla mancanza di un filo d’aria, rimanevano immobili e sognavano le piogge dell’autunno.

    Le colture nella campagna soffrivano l’arsura di un’estate troppo calda. L’erba di un colore acceso era secca ai bordi dei prati e, nei boschi, le foglie dei pioppi aspettavano un po’ di fresco. Tra il folto delle distese di granoturco anche gli insetti avevano smesso il loro incessante lavorìo.

    Pur essendo periodo di festa, qualche contadino, in bicicletta, coraggioso e trafelato, tornava a casa sorreggendo sulle spalle una zappa o un tridente.

    Si avvicinava l’ora di pranzo e dalla pesante tenda rossa dell’ingresso della chiesa parrocchiale cominciavano a uscire i fedeli che avevano assistito alla solenne messa della domenica. Le signore più abbienti, con la borsetta di vera pelle, sgattaiolavano tra i crocchi degli uomini che, liberi dal lavoro, parlavano tranquillamente degli animali, del prezzo della terra e delle stalle da rimodernare.

    Le loro esclamazioni, a volte anche abbastanza colorite, volavano alte nel cielo che si stava imbronciando e non turbavano affatto San Rocco, immortalato nell’affresco centrale della facciata principale. Egli mostrava le ferite sul ginocchio e, nonostante il freddo e il caldo, continuava il suo pellegrinaggio in compagnia del cane fedele.

    Da anni custodiva tutto il paese e l’edificio, costruito nei primi del Seicento per ringraziamento per aver fermato la peste che aveva decimato la popolazione.

    L’esterno era di colore chiaro come quello del campanile senza punta che gli stava attaccato, ma al suo interno tutto era un fiorire di pitture, di marmi. Proprio questi ultimi erano stati posati nel mese di marzo. Erano costati molto ma l’elenco dei benefattori, proclamati dal pulpito nelle celebrazioni, metteva in risalto una notevole generosità.

    Mentre in cucina Regina stava riempiendo i lunghi piatti di portata con grosse fette di salame accompagnate dal panetto di burro fresco, di peperoni con la bagna càuda, di pomodori ripieni, si avvertì nell’aria una leggera brezza.

    Goccioloni prima lievi e poi via via più pesanti scesero di colpo, uno dietro l’altro, e l’area della piazza mostrò grosse macchie scure sempre più vicine. Una pioggia minacciosa colpì le vetrate delle alte finestre a bifore della chiesa e gli uccellini impauriti si rifugiarono dentro l’abbaino, l’aria da bollente si fece tiepida e tolse un po’ di afa intorno. L’acquazzone diventò sempre più impetuoso e, nell’arco di pochi secondi, riempì le buche dei campi e delle strade.

    Le donne con i bambini per mano si rifugiavano sotto i portoni e i vecchi affrettavano il passo per tornare a casa.

    Marito e moglie si affacciarono e, tra le persone che correvano per non bagnarsi, distinsero il parroco procedere curvo e frettoloso facendo attenzione a dove metteva i piedi per non sciupare la lunga tonaca.

    «Vada con calma, don Guglielmo, non abbiamo ancora cominciato!» urlò nonno Primo.

    Il religioso alzò il viso con rispetto e gli sorrise. Arrivò un’ondata di refrigerio e i fiori, nei vasi di coccio, alzarono il fusto rinfrancato.

    I passanti si rallegrarono per il miglioramento della temperatura e il nonno, come il feudatario di un castello, osservò intorno a sé i coppi lucidi e le persiane ben chiuse per la paura del temporale.

    Ancora ricordava le parole della madre quando, piccolino, lo accompagnava presto alla messa delle sei e, sistemandogli i capelli, gli diceva:

    «Ora andiamo nella casa di Gesù ma quella che c’è davanti, così alta e con tante finestre, è di un signore molto intelligente. È del medico che, quando non va dai malati, fa il contadino».

    «Ti piacerebbe abitare lì?» domandava ogni volta il figlio.

    «Sì» rispondeva la donna, «perché al risveglio, invece di soli prati e campi, vedrei tante persone in giro».

    La donna si aggiustava il grande foulard nero sulla testa e:

    «Lo sai che, anche se è nel centro del paese, ha

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