Pioggia di fango
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Pioggia di fango - Gianmarco Dosselli
Gianmarco Dosselli
PIOGGIA DI FANGO
Elison Publishing
© 2022 Elison Publishing
Tutti i diritti sono riservati
www.elisonpublishing.com
ISBN 9788869633171
Avvertenze
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, esistenti o esistite, è del tutto casuale. I nomi e le sigle di enti di fatto, di società aziendali, di locali pubblici e altro sono tutti di fantasia, pertanto considerati inesistenti.
I
1980. Una bella sera, l’ultima d’inverno. La stazione ferroviaria nel pieno della folla di gente di tutti i ceti: drogati, agenti, stranieri, prostitute, travestiti; anche animali come cani, gatti, topi. Masse popolari si davano in esuberanza: chi una fetta onorava qualcuno in partenza e chi attendeva l’arrivo di una cara persona. La zona scalo merci era la più attiva; una decina gli addetti ai lavori di scarico di imballaggi d’ogni formato destinati al deposito presso il piano caricatore. La stazione nel suo pissi pissi continuo pareva uno sperduto paradiso selvaggio di chissà quale mondo: la stazione di Brescia.
L’orologio a muro del magazzino indicava le ore ventidue e trentasette. L’unico bar inaridito del luogo era scarsamente affollato. Attorno a un tavolino di ristoro, un ferroviere commentava intenerito qualcosa di problematico a un ragazzo sedicenne pieno di virtù. L’operaio che gli parlava non era che suo padre: Giuseppe Mosini, un tipo a volte permaloso in famiglia e la sua longanimità era rara. Lasciò passare i minuti sorbendo un grog bollente, e solo quindici minuti prima della partenza l’uomo si affrettò al treno merci.
«Vorrei ti sbrigassi per il ritorno a casa, Carlo.»
«Lo farò, papà! Buon lavoro.» mormorò.
Alle ventidue e cinquantasette, un capo-locomotore omiciattolo sfornò raccomandazioni, poi fischiando a più non posso, il treno cominciò a muoversi, prese velocità e finì per lasciare la stazione in un lungo lasso di tempo. Carlo agitò un braccio in un gesto salutare e smise quasi subito. Vi restò un altro minuto, immobile, con lo sguardo fisso nel punto in cui treno e vagoni furono inghiottiti dal buio. Fu l’aria quasi gelida a farlo scuotere. Scrutò il suo orologio da polso e constatò che veramente s’era fatto tardi.
In quel mentre si udì uno strano vociare. Uomini della Polfer intenti a sgombrare alcune carrozze occupate da sbandati, che le avevano usufruite come dormitorio, in sosta su quei binari definiti "fasci di ricovero". Buona parte erano uomini di colore, gli stessi che di giorno sostavano a gruppi nella sala d’ingresso o sui marciapiedi dei binari di partenza e d’arrivo, in attesa di lavoro saltuario o di qualche altra attività abusiva non ben definita. Il resto era formato da balordi e tossicomani da ogni dove d’Italia; soliti a sporcare o provocare danni: vetri infranti, lampade strappate, scompartimenti insudiciati in modo ripugnante. Fatti frequenti.
Nel fuggi fuggi, Carlo riconobbe un amico vecchiotto
del fratello maggiore. Gli si slanciò dietro. Inciampò in una rotaia e finì a terra. Ma si rialzò senza indugio e riprese a correre. Lo fermò dopo una corsa affannata terminatasi all’esterno e dopo avere entrambi scavalcato una inferriata. Era un uomo magrissimo e dedito ad abituale assunzione di droghe, il quale spesso fu fermato e segnalato. Protestò qualcosa di sconcio, poi, con una smorfia di disgusto digrignò:
«Che cosa vuoi da me, stavolta!»
«Mio fratello è stato con te sulle carrozze, stasera?» chiese trattenendogli un braccio.
«Non lo vedo da sei giorni, manco male! Vuole da me un mucchio di quattrini e i miei testicoli per mangiarseli dalla rabbia. Lasciami, non vorrai che mi prendano per la ventesima volta.»
«Dici sul serio oppure mi stai prendendo per il bavero?»
«Vuoi che usi le maniere forti?»
Il tarpano giovane riprese la fuga, dapprima con fiacchezza, poi vigorosamente. Carlo recuperò la sua bicicletta posta nell’atrio riservato al personale delle ferrovie e ne fece ritorno a casa. Pedalò la vecchia due ruote da donna piegandosi in avanti per affrontare la salita del cavalcavia, con le lunghe gambe muscolose che pompavano senza tregua come i pistoni di un autoveicolo. La casa dove viveva con la famiglia era un condominio di mattoni rossi ed era l’ultima della strada. La casa, del 1950, era frapposta tra palazzi e abitazioni nuovi.
Di rado succedeva che Corrado, fratello di Carlo, rincasasse sempre tardi, ma quella sera qualcosa suggerì che il fratello dovrebbe trovarsi nella intimità della sua camera. La qualcosa
era la malandata Fiat 500 adornata di adesivi, alcuni dei quali spinti, che stava parcheggiata in strada. La Fiat, vecchia di almeno quindici anni, doveva avere vissuto una vita operosa. In certi punti, infatti, l’imbottitura appariva quasi sventrata e sostituita con qualche manciata di paglia; allo stesso modo, le molle erano state rimosse e sostituite con stanghe d’acciaio. Una macchina per masochisti, volendo dire.
Entrò sbuffando, appese il giubbotto, si lavò le mani e si fece la camomilla. Sopra la piastra in ghisa non mancavano mai pentole e pentolini; l’acqua calda sempre pronta. Canovacci, fazzoletti e calzini lì ancora ad asciugare. Momenti familiari e conviviali, sensazioni, calore e profumi: il sapore di un caldo passato del quale si provava nostalgia.
Sul desco di cucina numerosi fogli di quaderni strappati e il migliaio di parole scritte. Il maggiore era solito scrivere le letterine a Milena, la sua ragazza. Il modo di impiegare quelle serate solitarie, con lunghi scritti loquaci, era stato in passato piuttosto vario.
«Ti aspettavo per la camomilla. Una dose anche per me.» fece Corrado; il tono di voce era un po’ amaro.
Ventitré anni portati bene, alto, carnagione un po’ abbronzata, capelli neri alla paggio e occhi di un azzurro seducente. Bellezza virile indescrivibile, volto da star per fotoromanzi d’amore; era oggetto d’ammirazione di molte fanciulle, oltre a essere il ragazzo più impantanato che Milena conoscesse. Stile da proletario: pantaloni e giubbotto blue jeans, camicie militari, scarpe da ginnastica o da footing; a volte predilesse la bandana con l’effigie di Che Guevara. La teoria marxista era la sua Bibbia. Sapeva fare spinelli, sapeva dove cercare le dosi quando ne aveva bisogno.
Tossicomane da due anni per colpa di un amico che gli insegnò quella che vorrebbe fosse la meravigliosa realtà
. Validò la sua tossicodipendenza per scordare le brutte situazioni familiari fatte di cose spiacevoli e per sentirsi altrettanto euforizzante. La povera madre, conscia dell’importanza della gravità, cedette quando i tentativi per levarlo dalla cattiva sorte le erano costati una fatica micidiale. Nemmeno l’esortazione del padre riuscì allontanarlo dalla droga.
«Chi ragazzo della tua età correrebbe dietro al culo del padre?» replicò duramente, Corrado.
«Ho compiuto il mio solito dovere. Papà ha avuto la soddisfazione della mia compagnia.»
«Impara a piantare in asso il vecchio
.»
«Bada, sciacallo, a non più classificare vecchio nostro padre!» scattò Carlo. «Non ti dona la fame e ti aiuta alla cura della tua salute. Dovresti ringraziarlo.»
Si scambiarono uno sguardo esteso, a disagio. L’arrogante modo di Carlo spossò lui che chinò il capo, adagiando i gomiti sul tavolo. Dette una sbirciata agli scritti e chiese scusa al fratello, e lo disse in un tono che cercava di rendere indifferente.
«Sì, d’accordo, scuse accettate. Il tuo principale ha deciso riassumerti?» volle ora sapere Carlo, preparando la bevanda nelle tazze.
«Mi ha spedito al diavolo. Si lagna di me perché non rendo sul lavoro.»
«Ancora mi chiedo quanto mai è così infinitamente stupido il tuo cervello. Fascista o marxista, ladro o marmocchio svagato…almeno ti sei chiesto per quale colpa, bell’Apollo? Bistratti i colleghi e spesso li mandi al diavolo. Tutto perché è angoscia, aggressività e gravi complicazioni. Ti manca l’equipaggiamento mentale necessario.»
«Stai usando le espressioni del mio psicologo. Ma finiscila, perdiana! Mi cercherò un altro lavoro. Lo cercherò con la forza del mio impegno morale.»
«Ci risiamo! Come lo cercheresti il nuovo lavoro? Compiendo marachelle o divagamenti? Sfrutti mattinate tra fumo, spinelli e pasticche, in compagnia di balordi in quella malfamata piazza di città oppure a suonare il piffero a due buchi sulle scalinate del teatro per ottenere una questua, convinto di incantare la gente. Impegno morale, vero? A un misfatto di tale genere ti si addice una punizione severa.»
«Quale genere di punizione severa
?»
La reazione di Corrado era metà scherzosa e metà seria. Carlo fece un gesto vago; chinò il capo, e i capelli neri gli ricaddero sulle spalle. Disse:
«La naia che cosa ti ha insegnato?»
«Un cazzo! Anche se dicono che, dopo averla praticata, ci si può affacciare per la prima volta alle esperienze della vita. La naia anela a traguardi prestigiosi: questo è un altro dire. Ancora altro: serve per raddrizzare i figli viziati… Si facevano idee e discorsi conditi con molte metafore.»
Gustarono la camomilla, mentre il silenzio cadeva su di loro. L’innaturale silenzio urtava i nervi al minore. Lo ruppe.
«Ti credevo alla stazione, stasera. C’è stato un disordine. La Polfer è intervenuta a scacciare un gruppo di fetenti che occupava le carrozze. Ho avuto un ingaggio con un tuo amico-nonno per sapere di te.»
«Chi sarebbe?»
«Colui che lo chiamasti col vezzeggiativo ‘Bigo’.»
Al colmo dell’ira, Corrado si girò dall’altra parte: aveva le mascelle contratte, tanto era furente. Si voltò verso il fratello.
«Banale incontro! Avresti fatto bene se lo avessi lasciato in pace. Egli è pronto a ogni bassezza pur di farsi strada. Non si ferma la gente per chiedere informazioni di chi si fosse fermato qui o là, sappilo.»
«Quanti spiccioli hai da succhiare lui? I suoi testicoli come li condiresti?» sospirò. Gli occhi si fecero lucidi, le labbra tremarono un istante. Parve che dovesse scoppiare in singhiozzi ma il pianto non vi fu. «Le risorse finanziarie di casa vanno esaurendosi e non…»
«Basta, non fai altro che intronare la mia testa.» lo interruppe. Gli occhi ebbero un lampo duro e cattivo. «Io voglio bene a tutti voi, ma più volte supplico mamma e papà che la smettano pagarmi lo psicologo. Sedute inutili e senza senso.»
Si alzò perché il suo stomaco andò in subbuglio. Corse nella stanza da bagno a rimettere il pasto della cena. Carlo non mosse un dito per soccorrerlo; l’odore nauseante del vomito lo avrebbe fatto contrarre le mascelle. Inchiodò lo sguardo sugli scritti che il fratello li lasciò incustoditi; li prese e vi dette uno sguardo. Gli errori sempre frequenti di ortografia, di divisioni di sillabe, di sintassi, di punteggiature e mancanza di accenti e di maiuscole. Orribile la scrittura: tutta zampe di mosche.
"Caro frottolino mio, ore 21.36, come stai? Io bene a parte il freddo cane. Mondo schifo, più sfortunati di noi non c’è nessuno. Spero rivederti (ti tiri indietro?) ancora oggi, ne sento bisogno, almeno da parte mia, mi manchi proprio, perché non me lo dimostri e non me lo dici mai e io sono stanco intuire le cose, quelle che pensi, che ti andrebbe di fare e di dire. Col tempo le mie idee della testa hanno pensato a delle cose che sai bene sono cattive. Due giorni fa ai rinunciato un mio invito; l’idea era che ci divertissimo, almeno un po’. Non ai ballato con me."
Scosse il capo. Il fratello non sapeva esprimere in modo brillante ed efficace. Come capirebbe, quella lettera, Milena? Passò al secondo foglio.
"Questo che dico non è un pretesto per litigare e non ne avrei intento perché son quattro giorni che litighiamo e penso veramente proprio che è ora di farla finita e di trovare pace e serenità e per fare così sappiamo che cosa ci vuole ci vuole un maggiore controllo e calma da nostra due parte. Ho peso nel mio cuore e non voglio più che… faccio tanti puntini perché stanco usare le stesse parole cose dette e stradette. Ti chiedo se le hai capite e se ti va offrirti a me il tuo corpo. Non te la pongo più la solita domanda ma ti va rispondere? Non voglio obbligarti a fare cosette o cose infantili, perché te la chiedo e voglio fare anch’io qualcosa da questo rapporto sappiti che io ti amo. Se vuoi che ti scrivo se pensi che ti servo fammelo sapere forse sarò un po drastico ma penso che qualcosa da te me lo merito. Non vorrei che tutto questo dissidio è dovuto alla mia cura presso il dottor Saletti? A proposito, mi dicevi di svelarmi dei segreti del mio psichiatra. So che tuo padre è un rappresentante con le competenti Istituzioni del mondo della psicologia, ma che cosa avrai da raccontarmi del mio curatore? P.S. Il prossimo anno mi tatuerò tutta la schiena: un giovane non tatuato non è ritenuto un uomo."
Finiva così il secondo foglio. Restò a lungo con i fogli tra le mani. Si rese conto che, per coglierne ampiamente il significato, avrebbe dovuto rileggerli. Il terzo iniziava con un inutile "P.S.", non lo lesse ma l’occhio riuscì a frugare alcune parole sconce.
Trascorsero cinque minuti che altri conati mise Corrado in una critica situazione; fece scorrere l’acqua dal rubinetto, portò le mani riunite a coppa sotto il getto e si sciacquò il viso. Altri risciacqui fino a quando non si sentì meglio. Ritornò nel cucinino e sorprese il fratello che stava scrutando i fogli.
«Ficcanaso!» borbottò, strappando senza riguardo dalle mani dell’altro i suoi scritti.
«Ti confesso di avere riportato soltanto un gran mal di testa. Sarò debole di mente, ma non ci ho capito assolutamente nulla. Mi chiedo se Milena capirebbe il tuo frasario da becero. Sai una cosa? Tu sei bravo a esprimere meglio a voce che nello scritto. Ti paragonerei a ‘Bigo’: lui non sa tenere la penna in mano. Hai sospetto per il professor Saletti?»
«E che ne so!»
«Hai avuto l’ennesimo malessere, fratello?»
«Si vomita perché trascuriamo lo stomaco, ma tu intuisci alla droga da me presa, vero?.» disse dopo il lungo esitare; e lo disse in modo solenne, senza scomporsi. «Non hai da rispondermi? A domanda rapida, risposta tarda! Buonanotte, fratello rompiscatole.»
Rintanatosi nel dormitorio privato e invaso da posters di cantanti rock internazionali e di scaffalature disordinate, Corrado s’infilò sotto le lenzuola evitando il pigiama. Uno spregio di stanza. Diversamente quella del fratello, brillante studente liceale, bene arredata oltre il repulisti, e in un angolo uno scaffale con trofei sportivi e un riconoscimento dal Club dei Cerbiatti
per la costanza e la spontaneità con cui assisté e aiutò a scuola un coetaneo costretto alla sedia a rotelle perché paraplegico.
Corrado si rizzò a sedere sul letto ed esaminò le fotografie attraenti da una rivista porno tenuta nascosta. Ogni tanto diede una sistemata al suo pene ingrossato che, gonfio com’era, gli faceva male nei suoi stretti slip.
§§§
Notte serena per tutti. Carlo si destò imponendo il silenzio al terzo trillo della sveglia. Primo atto della giornata era il sollevare la tapparella. Nasceva uno stupendo mattino e il primo giorno di primavera. Aperta la finestra respirò aria nei polmoni, un’aria pura e odorosa d’erba e di rugiada. I primi autobus verdi operavano al trasporto di pendolari. Gli automobilisti parevano gettati allo sbaraglio tra gli stop e i semafori lampeggianti.
Secondo atto: raggiungere la camera dei genitori. Sempre questa azione ogniqualvolta mancasse il padre per il riposo notturno. La madre ancora dormiva; la bocca socchiusa, i capelli avvolti in un foulard, un braccio disteso in avanti e l’altro appoggiato lungo il corpo. La osservò. Toccò quei suoi capelli neri; sfiorò con le labbra la dolce curva della guancia materna. Odorava di vera "Violetta di Parma", il di lei profumo preferito.
Dormiva in un letto logoro che era appartenuto ai genitori di Giuseppe, gente appartenente al ramo di una dinastia di contadini piemontesi. Sul finire dell’ultima guerra erano rimasti in vita Giuseppe e la sorella Cecilia, scampati miracolosamente da una rappresaglia nazista. L’aspra guerra privò a Giuseppe di un podere a vigna distrutto per ripicca dai fascisti perché sospettato di simpatie per i partigiani. Caricata la poca mobilia rimastagli, tra cui il letto, si trasferì a Brescia su invito di una zia ottuagenaria che morì prima ancora che i due fratelli giungessero destinazione. Il prete di allora fece loro una malefatta: rubò i beni della morta consistente di seimilatrecentottanta lire. Senza eredità, Giuseppe e Cecilia fecero di tutto per trovare un vero sostentamento; lei fece la sarta, lui trovò un lavoro presso un facoltoso uomo agricolo fino a quando un operaio lo ferì alla gamba con il ranghinatore. Dopo l’infortunio egli mise a sopraffarsi in mestieri saltuari da l’uno e l’altro padrone di aziende meccaniche o alimentari. Ottenne l’ambito ruolo di macchinista ferroviere quando il boom economico fruttò l’Italia. Sposò, al momento opportuno, una donna del posto: Lia.
Alla nascita di Corrado avvenuta nel 1957, Giuseppe ottenne dal Comune un appartamento e vi si trasferì con le donne e il fagotto umano. Nel 1959, Cecilia andò in sposa a un uomo di media borghesia, e da questi ebbe due gemelli. Nel 1978, dopo un breve malanno, l’amore della sua vita morì. Mesi strazianti per lei.
La vita di casa Mosini procedeva abbastanza tranquilla nonostante i costi di luce, gas e affitto non proprio consono, oggigiorno. I veri problemi erano ben altro: lo stato di neuropatia in Giuseppe, lo algido stato di condiscendenza in Lia, il continuo uso di stupefacenti e le visite psicologiche del primogenito, il sostentamento per l’ultimo rampollo tra scuola e paghetta mensile.
Sul comodino a lato del letto stava l’immagine fotografica di Giuseppe; Carlo ricordò il giorno in cui l’aveva scattata, il grande sorriso con il quale il padre lo aveva fissato mentre Lia lo teneva per mano.
Lasciò la camera e prese il corridoio per la cucina. Sorpresa: lì, Corrado intento a sorseggiare il caffè. Sul desco stavano pezzi stracci degli scritti. Alzò su di lui il viso assorto e lo guardò, come se facesse fatica a ridestarsi da un sonno.
«Buongiorno, fratellino.»
«Buongiorno a te, Corrado. Il motivo del tuo risveglio anticipato quale sarebbe?»
«Milena mi ha piantato in asso! Da adesso… non siamo più niente l’uno per l’altra.»
«Com’è che lo sai già a quest’ora?»
«Le ho telefonato prima che lei uscisse per lavoro. Avrei preferito che mi chiamasse. Io che credevo a una speranza, a una riconciliazione…» disse soffocando un gemito. «Non sono certo che stia facendo bene. Perché non ha detto a me, tempo addietro, che voleva lasciarmi?»
«Forse era angustiata per come avresti potuto insorgere.»
«Non l’ho chiesto a te. Avrebbe dovuto dirmelo. Avrebbe dovuto offrirmi una probabilità.»
«Che cosa ti aspettavi da lei? Guardati nello specchio e descrivi la tua caratteristica: essa è aggressiva, è distratta, è incomprensibile, è irruente. La tua sgarbatezza per lei la ideano pure mamma e papà.»
«Le tue idee sono mummificate! Sono o non sono un uomo col diritto di essere libero nei pensieri e nei movimenti?»
«Sei un satanasso col cervello primitivo. E te ne sbatti di noi come se fossimo dei burattini.»
«Sono settimane che mi predichi in quel modo. Vai a raccontarlo al kaiser.» Il tono detto era palesemente di rimprovero, quasi per finire con voce strozzata.
«Milena ha intuito che non vuol più niente d’aver a che fare con un incapace. Quanto sei cambiato da quando ti drogasti. Ora come ora sei un degenerato. Neppure accettasti il parere del nostro medico.»
«Non ricordo più molto di quell’incontro col medico. Basta, santi numi! Tutti i giorni t’inventi una ciarla. Stai tirandoti scemo da solo.» protestò sparpagliandosi i propri capelli, minaccioso e imponente. Strinse convulsamente una giacca da casa giallo limone. Morse il labbro. Si sforzò di trattenere l’ira.
«Commento di tutto perché ti voglio bene, fratello.» sentenziò Carlo.
Corrado s’accostò alla finestra; ogni passo rappresentò una fatica. Gettò lo sguardo fuori, vide pochi passanti e delle autovetture frettolose.
«Non sto nel mio modo di vivere, qui!» La voce di Corrado era velata. Ebbe un altro attacco di depressione.
«So che non ce la fai andare avanti così. Come la vorresti la tua vita, detta in poche parole?»
«Che mamma e papà conformino la mia personalità e la mia vita, che non s’illudano sulle mie scelte. Mi duole che mamma mi dia le briciole dei suoi guadagni. Non trovo lavoro nonostante quanti sforzi facessi. Vorrei già poter avere un lavoro, quello preferito, e pagare di tasca mia le medicine e a quel farabutto di Saletti, il peggior psicologo di città. Sono in analisi da due anni, e con quale risultato? È avere a disposizioni soltanto dei dati bruti.»
«Sempre addosso al pregiato dottor Saletti. Potresti smetterla? In quanto al lavoro che ami, la meccanica, nessuno t’accetta perché non hai conseguito nessun diploma di specializzazione.»
«Questo è il guaio. Fortunati quei che si comprano diplomi a fior di stelle, ma che stenterebbero riconoscere le bielle e i pistoni. Ehi, fratello… la scuola?»
«Hai ragione. Prima ho da salutare la mamma.»
«Se tarderai ancora, assicurati che non ti ci porterò mai più.»
Carlo lo scrutò in silenzio; poi un cenno come per accomiatarlo, sussurrando:
«In tal caso arriverò a prendere l’autobus delle sette e trentanove.»
Quando entrò nella stanza della genitrice, ella era intenta a dare gli ultimi ritocchi in toilette davanti allo specchio opaco appeso sopra il suo tavolino da trucco,