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Il mandante: La prima indagine del "Becchino"
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Il mandante: La prima indagine del "Becchino"
E-book258 pagine3 ore

Il mandante: La prima indagine del "Becchino"

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Info su questo ebook

Genova, 1950. La guerra è finita da pochi anni e Genova ne mostra ancora le ferite. In questa città, che con fatica e coraggio sta cercando di ritrovare la sua normalità, torna, in qualità di commissario capo, Damiano Flexi Gerardi. Durante il regime fascista e per tutto il periodo del conflitto ha esercitato il suo ufficio in Sardegna, confinato a Oristano per aver urtato i poteri forti con la sua ostinazione durante un’indagine. Al commissariato di Prè, dove è stato destinato, lo aspetta un collega, il vicecommissario Alfiero Bonvicini, con cui c’è una ruggine di vecchia data, e un giovane ispettore, Silvio Marceddu, con cui invece simpatizza subito, nonostante il proprio carattere restio alle amicizie. Fa appena in tempo a sistemarsi a casa del fratello e della cognata che viene chiamato in causa per un delitto: un modesto sarto di abiti ecclesiastici, Ermete Cicala, viene trovato ucciso nel suo laboratorio situato nel cuore del centro storico. Nessun testimone, nessun indizio aiutano il commissario nelle indagini, che si rivelano subito molto difficili. La vittima è un uomo di specchiata onestà, apparentemente senza nemici. Non un solo movente per il suo omicidio. Ma è davvero così? Un secondo delitto, vittima la tenutaria di una casa chiusa, Margherita Papi, detta Margò, seguito dalla scomparsa di un giovane collaboratore della polizia e, successivamente, da quella del fratello di Damiano, Vincenzo, complicano ulteriormente le indagini. Il commissario si imbatte inoltre in Else, alias Gerda, Gustav, alias Stefan, due fratelli giunti a Genova dalla Germania. Cosa li ha condotti nella città del porto? Perché hanno cambiato i loro nomi? Come si collega la loro vicenda con i delitti su cui sta indagando Damiano Flexi Gerardi? Il commissario, oppresso dalla rupofobia e dalla afefobia, tormentato da un amore impossibile, ostacolato dal questore, arriverà alla fine a scoprire un’amara verità. A suo modo di vedere solo una sarà la soluzione possibile “Ormai aveva preso la sua decisione. Si sentiva leggero. Il soprabito nero svolazzava nel vento.”

Maria Teresa Valle nata a Varazze (SV), risiede attualmente a Genova. Sposata, ha due figli e tre splendidi nipoti. Laureata in Scienze Biologiche ha lavorato per molti anni in qualità di Dirigente Biologa all’Ospedale San Martino di Genova. Per Fratelli Frilli Editori ha pubblicato: La morte torna a settembre (2008, anche in edizione economica per la collana “Liguria in Giallo”), Le tracce del lupo (2009 anche in edizione economica per la collana “Liguria in Giallo”), Le trame della seta. Delitti al tempo di Andrea Doria (2010, anche nella collana Super pocket in giallo e distribuiti con il quotidiano “Il Secolo XIX”), L’eredità di zia Evelina. Delitti nelle Langhe (2012, ha fatto parte della collana “Noir Italia” pubblicata dal “Sole 24 ore”), Il conto da pagare (2013 tradotto in Spagna col titolo Adjuste de cuentas per “Terapias Verde”), La guaritrice. Piccoli sospetti (2014), Burrasca. Delitto al liceo Chiabrera (2015), Maria Viani e le ombre del ’68 (2016), I ragazzi di Ponte Carrega (2017) e Delitto a Capo Santa Chiara (2018). Su soggetto del gruppo Neverdream (Progressive Rock) ha scritto The Circle la storia noir del loro ultimo concept album. CD e libro sono scaricabili gratuitamente dal sito. Ha pubblicato inoltre svariati racconti in molte antologie, tra cui Apro gli occhi premiato al 36° Premio Gran Giallo della Città di Cattolica.
LinguaItaliano
Data di uscita29 nov 2019
ISBN9788869434099
Il mandante: La prima indagine del "Becchino"

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    Anteprima del libro

    Il mandante - Maria Teresa Valle

    Capitolo 1

    1.

    Finalmente tornava a Genova. Alle sue spalle la costa sarda era scomparsa, inghiottita dal mare e dall’oscurità che aveva circondato il traghetto. Accese una sigaretta facendo scudo al cerino con le mani. Un gesto che compieva raramente, per stemperare il nervosismo, senza tuttavia trarne alcun sollievo. Il vento gli sferzava la faccia e, quando l’imbarcazione ricadeva sulle onde, gli spruzzi lo raggiungevano. Nonostante il freddo non si mosse dal ponte. Passò tutta la notte a scrutare il mare quasi volesse trovare nella schiuma del suo ribollire le risposte a tutte le proprie domande. Il cielo senza stelle era una spessa cappa oscura. Pesante come la sua anima. Desiderava da tempo tornare a casa, ma sapeva che i fantasmi che aveva lasciato alla sua partenza, qualche anno prima, non erano scomparsi. Certo che lo stessero aspettando, lì dove li aveva lasciati, era deciso ad affrontarli e, se possibile, a liberarsene per sempre. Il freddo e l’umidità della notte lo facevano rabbrividire, ma gli permettevano di sentire che il suo corpo era vivo. Freddo, dolore, paura, testimoniavano che era ancora in grado di provare qualcosa. Si aggrappò con le mani alla balaustrata per impedirsi di cadere. Il traghetto stava affrontando un’onda più alta. Una delle ultime, perché già si intravvedeva, nella luce incerta dell’alba imminente, il profilo della diga foranea. Quando fossero entrati nel porto la bonaccia avrebbe cullato l’imbarcazione annullando il rollio e il beccheggio con cui il mare l’aveva accompagnata per tutto il viaggio.

    Per scaldarsi un poco si concesse di entrare nella cabina sul ponte a bere un caffè, prima di scendere a terra. Osservò per qualche secondo la tazzina fumante che il ragazzo del bar aveva posato sul bancone. Sembrava pulita. Tuttavia dovette fare uno sforzo per vincere il disgusto, afferrarla con le mani e portarla alla bocca. Il liquido caldo scese confortante nella sua gola, ma immediatamente provò l’impulso di correre a lavarsi le mani. Riuscì a vincerlo solo perché fu distratto dalla visione della città illuminata dalla piena luce del giorno. Genova si scorgeva in lontananza con i suoi palazzi e le sue colline, sdraiata in riva al mare, come un grande animale ormai domo e ferito.

    Gli fece male al cuore pensare a come avrebbe trovato la sua città, che sapeva essere stata pesantemente bombardata e le cui macerie ancora non erano state del tutto rimosse. Dei palazzi sventrati e delle vittime aveva letto sui giornali, ma ora avrebbe visto con i suoi occhi i danni fatti dalla guerra in quei quartieri che ricordava intatti prima della sua partenza.

    Tuttavia vide che a compenso di quella distruzione stavano sorgendo sulla collina nuove abitazioni di edilizia popolare.

    – È stupefacente, vero? – Una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare. Si voltò di scatto e vide un anziano signore con un impermeabile chiaro e una grande sciarpa avvolta intorno al collo. – Non sembra anche a lei straordinaria la velocità con cui i genovesi hanno ricostruito il porto?

    – Non ci avevo pensato. Manco da prima della guerra.

    – Il porto era inutilizzabile dopo le numerose incursioni aeree degli alleati. I moli e le dighe foranee erano gravemente danneggiati, gli ingressi al porto erano ostruiti dalle imbarcazioni fatte affondare dai tedeschi durante la ritirata e il fondale era disseminato di mine. Le basta come quadro? È vero che i genovesi hanno potuto contare su ingenti fondi statali, ma pensi che già due anni fa, alla fine del ’48 i lavori erano terminati. Lei è genovese?

    – Sì.

    – Ha di che andarne orgoglioso.

    – La ringrazio. Sia per il complimento che per avermi fatto riflettere.

    Avrebbe voluto sapere qualcosa di più di quell’estraneo che lo aveva fatto sentire meritevole di stima e che aveva in parte ribaltato la sensazione provata, arrivando in vista della sua città, ma l’uomo si allontanò voltandogli le spalle. Non gli restò che guardare le falde del suo impermeabile e i lembi della sua sciarpa che svolazzavano scossi dal vento.

    Lentamente il traghetto si avvicinò al molo e le operazioni di attracco richiesero qualche minuto. Si occupò del bagaglio facendolo recapitare a destinazione da un facchino e prendendo con sé solo una piccola sacca. Si trovò al varco del molo dove i doganieri controllavano il grande via vai di autocarri e camion. Un odore che riconobbe famigliare gli penetrò nelle narici. Era un misto di afrore di alghe marce che saliva dall’acqua che sciabordava intorno ai moli e l’odore delle merci che ogni giorno i camalli scaricavano dalle navi. Non perse neanche un minuto e si diresse a grandi passi verso la sua destinazione.

    2.

    I segni lasciati dalla guerra erano ovunque eppure i vicoli, stranamente, non erano cambiati. Erano esattamente come li ricordava. Sporchi, bui e popolati di calabresi e napoletani che vendevano sigarette di contrabbando, radio rubate e giubbotti di pelle a poco prezzo, e di mocciosi vocianti che si rincorrevano tra le gambe della gente, mentre le madri li chiamavano a gran voce dalle finestre. Quelle stradine malfamate conservavano una loro selvaggia e altera bellezza, fiancheggiate com’erano da palazzi antichi in pietra bianca a nera ornati di bifore leggere e armoniose. Si aprivano all’improvviso lasciando il posto a piccole piazze silenziose, a portoni contornati di ardesie intagliate e a edicole poste sugli spigoli delle costruzioni. Oppure a vuoti cortili dove le pietre, che avevano formato i muri colpiti dalle bombe, giacevano a terra.

    Si diresse verso il commissariato di Prè. Era quella la sua destinazione. E anche quel luogo non era cambiato. Buio e sporco, come sempre. Un pensiero gli attraversò la mente e un leggero sorriso gli distese le labbra; sarebbe andato anche all’inferno, se ve lo avessero mandato, pur di tornare a Genova. Non ne poteva più di stare lontano. Non sopportava più quella gente che parlava un dialetto, anzi, una lingua, che lui non capiva. Era stufo di occuparsi di furti di bestiame in una regione dove nessuno vedeva e sentiva mai nulla, dove nessuno aveva il coraggio di fare una denuncia, di rendere una testimonianza. L’unica luce in quel panorama desolato era stata Agnese, la sua amica, la sua vecchia amica ¹, ma la guerra se l’era portata via.

    Arrivò davanti alla porta del commissariato dove era di guardia un piantone. Fece per entrare, ma l’altro con un gesto lo fermò.

    – Chi è lei? Dove crede di andare?

    – Sono Damiano Flexi Gerardi. Il nuovo commissario capo.

    – Mi scusi, – disse l’agente scattando subito in un saluto militare. – Non la conosco e... ma venga le faccio strada.

    Mentre veniva accompagnato nella stanza del vice, non poté fare a meno di notare che anche quel luogo era rimasto identico. Pareti nude. Scrivanie logore. Sedie scompagnate. Infissi scrostati.

    Nell’ufficio erano presenti alcuni agenti oltre una vecchia conoscenza. Alfiero Bonvicini era stato ispettore quando Damiano era di stanza a Genova e lo accolse con un sorriso sarcastico presentandolo agli altri in tono canzonatorio.

    –– Ecco qui il famoso Becchino. – Tutti scoppiarono a ridere non immaginando la reale identità del nuovo arrivato. – Voi non lo conoscete, ma costui è noto per la sua eleganza, un po’ funerea, diciamo così, ma impeccabile. È sempre vestito di nero, come se stesse andando a un funerale.

    – Vedo che non hai perso la tua verve. Ora se vuoi mettere da parte le spiritosaggini e presentarmi come si deve, te ne sarei grato.

    – Dimenticavo che non possiedi il senso dell’umorismo. Signori costui è il nostro nuovo commissario capo, Damiano Flexi Gerardi, arrivato fresco fresco dalla Sardegna.

    Le risate si spensero immediatamente e i visi divennero seri, mentre Bonvicini presentava uno a uno i sottoposti.

    – E ora gradirei che mi si accompagnasse nel mio ufficio.

    L’ispettore Silvio Marceddu si offrì di mostrargli la sua stanza.

    – Venga signor commissario capo. L’accompagno io.

    – È sufficiente che mi chiami commissario.

    – Io mi scuso per prima. Il vicecommissario non ci aveva avvisato del suo arrivo. Non sapevamo.

    – Non ti preoccupare. Non importa. Sono contento di essere qui.

    – Ho sentito che viene dalla Sardegna. Da dove, se posso chiederle?

    – Da Oristano. Ci sono stato spedito da prima che scoppiasse la guerra e ci sono rimasto fino a ora.

    – Io vengo da Nuoro. Cioè da un paesino vicino.

    – È da molto che sei qui?

    – Ho fatto due anni di guerra e poi ho messo la firma e ho fatto tre anni di caserma. Vita dura.

    – E adesso qui ti trovi bene?

    – Bene. Grazie.

    Il giovane aveva rivolto al superiore un sorriso timido e pieno di rispetto che non aveva mancato di colpire il commissario e fargli sentire di essere a casa, dopo l’accoglienza non certo affettuosa di Bonvicini.

    3.

    Il palazzo di via XX Settembre dove era situato l’appartamento della famiglia era rimasto intatto e Damiano salì con una certa emozione gli scalini che portavano al terzo piano.

    Suonò il campanello e venne ad aprirgli una bella signora che lo salutò con un sorriso e lo invitò con un gesto a entrare.

    – Tu devi essere Damiano, – disse tendendogli la mano, - entra, entra pure.

    – E tu devi essere Angela. Mi sono permesso di dare il vostro indirizzo per la consegna del mio bagaglio. Non sapendo ancora dove mi stabilirò.

    – Questa è casa tua. Sei il benvenuto. Accomodati ho preparato la minestra. I bambini sono andati a lavarsi le mani. Ora arriverà anche Vincenzo.

    – Vorrei lavarmi le mani anch’io se non ti dispiace.

    Una bimba si era affacciata alla porta.

    – Isabella accompagna lo zio Damiano. Fagli vedere dov’è il bagno e dagli un asciugamano pulito.

    – E così tu sei Isabella. Che bel nome!

    – E tu sei lo zio Damiano! Anche Damiano non è un brutto nome.

    – Sei gentile!

    – La mamma ci ha raccomandato di essere gentili con te, perché siamo in casa tua.

    – È anche casa vostra, – li rassicurò, colpito dall’affermazione della bambina.

    Anche il piccolo Pietro si era avvicinato silenziosamente ai due e si era messo a fissare lo zio con uno sguardo timido e al tempo stesso torvo, cercando di restare nascosto dietro le gonne della sorella.

    Al richiamo della madre i due bambini si affrettarono a raggiungere la cucina dove il tavolo era apparecchiato per cinque.

    – Siedi qui, Damiano, – disse Angela indicandogli una sedia.

    – Io voglio stare vicino allo zio, – disse Isabella appropriandosi del posto accanto a Damiano.

    – Isabella, che modo è di parlare? – La redarguì la madre. – Come si dice?

    – Posso sedere vicino allo zio, per favore?

    – Se non gli dai fastidio.

    – No, certo che non mi dà fastidio, – si affrettò a precisare Damiano, – siedi pure qui.

    Pietro invece si arrampicò su una sedia il più lontano possibile da quello zio che non conosceva e che era piombato nella loro casa all’improvviso. Continuò a fissarlo con il visino corrucciato.

    In quel momento arrivò Vincenzo. I due fratelli si salutarono con una stretta di mano e un abbraccio veloce. Nessuno dei due era particolarmente espansivo e il fatto di essere stati lontani per tanto tempo non aveva contribuito a rinsaldare i rapporti. Damiano riprese posto a tavola e, mentre la cognata serviva la minestra, osservò la famigliola. Isabella somigliava a Vincenzo, ma più ancora alla nonna paterna di cui aveva anche i capelli scuri e ricci. Provò una stretta al cuore nel ricordarla. Sua madre era morta da tanto tempo, ma lui continuava a sentire una fitta dolorosa tutte le volte che pensava a lei. Ora Isabella, con la sua somiglianza, gliela ricordava. Pietro, invece, con i suoi capelli castani e lisci, il musetto serio e gli occhi grandi color nocciola, somigliava senza dubbio ad Angela, ma con qualche tratto un po’ diverso, nel disegno della bocca. Forse ereditato dai nonni materni, che Damiano non conosceva.

    – Allora Damiano, sei tornato per restare? – Chiese Vincenzo tra una cucchiaiata e l’altra di minestra.

    – Sì. Questa è la mia intenzione. E ti ringrazio, anzi, vi ringrazio di esservi offerti di ospitarmi in attesa di una sistemazione.

    – Ci mancherebbe. Questa è anche casa tua, – rispose Vincenzo con un certo imbarazzo. – Puoi restare tutto il tempo che vuoi. Anzi. Appena potremo dovremo parlare di questo.

    – Non c’è nessuna fretta. Stai tranquillo.

    Il telefono prese a squillare. Vincenzo si alzò e andò a rispondere.

    Senza dire nulla tese la cornetta al fratello.

    – È per te.

    – Scusate, ho dato questo numero al commissariato, spero non vi dispiaccia... – e afferrando il telefono – Pronto... – e dopo aver ascoltato qualche secondo – vengo subito – aggiunse. Prese il soprabito e il cappello e uscì.

    Capitolo 2

    1.

    Davanti alla porta lo stava aspettando l’ispettore Silvio Marceddu. Fu contento di avere a che fare con lui. Era stato l’unico, quella mattina, ad accoglierlo con il dovuto rispetto, ma anche con evidente simpatia.

    – Cosa abbiamo? – Chiese restando sulla soglia.

    – Il cadavere di un uomo. Qui, dentro il suo laboratorio.

    Il commissario diede un’occhiata al vicolo in cui si apriva il locale. Una stradina abbastanza pulita, su cui si affacciavano diverse botteghe di artigiani. La porta a vetri era protetta da una saracinesca che, in quel momento, era sollevata. La soglia di marmo consunto introduceva direttamente al pavimento della stanza, senza nessun gradino. Il laboratorio era un locale di pochi metri quadrati arredato con un bancone posto vicino all’ingresso, dietro al quale giaceva un uomo dell’apparente età di cinquant’anni. Dal petto dell’uomo sporgevano i manici scuri di una forbice da sarto, le cui lame erano conficcate in profondità. Non molto sangue era uscito dalla ferita, ma una macchia scura spiccava sulla camicia chiara dell’uomo.

    Il commissario Flexi Gerardi sollevò lo sguardo dal cadavere per volgerlo intorno. Tutto sembrava in ordine. Un tavolino ospitava una macchina da cucire Singer professionale. Su uno scaffale erano appoggiati panni ripiegati accuratamente e alcuni campionari di stoffe. Un armadio ospitava una serie di tonache e pianete. Tutto ciò, insieme ai vari strumenti e oggetti che stavano nei cassetti, qualificava senza alcun dubbio il mestiere della vittima. Si trattava di un sarto. A Damiano venne subito alla mente il sarto Petròviĉ, Gogol’ era uno dei suoi scrittori preferiti. Un leggero sorriso gli distese per un attimo le labbra. Chissà se anche la vittima faticava a introdurre il filo nella cruna. Di certo non lavorava scalzo, come il piccolo sarto di Pietrogrado e la sua clientela era, evidentemente, molto diversa.

    – Chi è? Chi l’ha trovato? – La domanda del commissario era rivolta al suo vice che stava frugando nelle tasche di una giacca appesa a un attaccapanni posto in fondo al locale.

    – Si chiamava Ermete Cicala. E questo ce lo ha detto il calzolaio, qui di fronte che l’ha trovato. Non ci sono documenti. Nelle tasche non c’è il portafoglio. Non c’è nulla.

    – È lui che ha avvertito?

    – Sì.

    – Bonvicini, voglio essere avvisato subito, se c’è un delitto, non dopo che voi siete entrati senza di me. Chiaro?

    – Beh, capirai, siamo stati diverso tempo senza commissario capo, dopo la morte di Giovannetti, e, insomma avevo io il comando, non ci ho pensato.

    A Damiano non sfuggì che il suo vice aveva contratto ripetutamente i muscoli mascellari e, in contrasto con le parole remissive che aveva pronunciato, il tono non lo era stato affatto.

    – Non deve più succedere, – ritenne di ribadire.

    – Sarà avvisato tempestivamente, – si intromise Marceddu che nel frattempo era entrato e, avendo sentito il rimprovero, si era assunto una parte di colpa, anche se in realtà non ne aveva. – Commissario vuole parlare con il ciabattino?

    2.

    Gregorio Vernazza stava seduto dietro il suo deschetto e teneva l’incudine appoggiata al grembo rivestito con un grembiule cerato. In mano il martello dalla testa piatta e le code biforcute, in bocca i chiodi che gli sarebbero serviti per fissare la suola di cuoio. La colla, contenuta in un guscio di noce di cocco, spandeva il suo forte odore nel locale, del tutto simile, per esposizione e dimensioni, a quello del sarto. Damiano osservò che l’uomo, seduto sul suo sgabellino basso offriva alla vista un cranio quasi del tutto pelato, a cui facevano corona pochi capelli grigi sopra le orecchie e sulla nuca. Lo vide sollevare appena lo sguardo da sopra gli occhialini tondi, senza smettere di dedicarsi al suo lavoro. Estraeva dalle labbra i chiodi uno alla volta, e li piantava nella suola con un unico colpo di martello.

    – Signor Gregorio Vernazza, – gli disse restando in piedi davanti a lui, – è lei che ha trovato il suo

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