Magdala di Fonni: Balente
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L'AUTORE
L’autore si chiama Giovanni Caruso, latinizzato in Johannes Carusus. Nato in Escalaplano, oggi in provincia di Cagliari, nel 1938, figlio di segretario comunale, periodicamente trasferito da un paese all’altro, ha vissuto oltre che in Escalaplano, anche in Jerzu, San Vito, Monastir, Capoterra, nonché Torretta, in provincia di Palermo, luogo originario del padre. Diplomato al liceo classico nel 1957, laureato in ingegneria a Cagliari nel 1974, ha insegnato per trenta anni negli istituti tecnici diverse discipline. In pensione dal 2003 ha dato sfogo all’antico sogno di scrivere, diventato meno faticoso con l’ausilio del computer. In questi anni ha scritto moltissime cose: un migliaio di file per il suo sito dedicato ai suoi studenti, un manualetto di informatica, un romanzo storico, un manuale per meccanici navali, una serie di racconti, alcune pagine di commento ad alcune opere di Dante Alighieri, articoli di varia natura per il suo blog e la sua pagina Facebook. Dal 2009 è impegnato nella preparazione di un saggio contro tutte le religioni, essendo ateo più che convinto. Attualmente vive in Quartu S. Elena, a pochi chilometri da Cagliari, in campagna e dedica un poco del tempo a curare i suoi alberi da frutto, e il resto, naturalmente, a leggere e a scrivere. Il romanzo è ambientato nella Sardegna del 1200 – 1300, al tempo dei Giudicati, i 4 regni che governavano l’isola. Le azioni prendono spunto da alcune frasi emblematiche tratte dal volume L. Macciotta – La Sardegna e la storia – Editrice Sarda Fossataro, Cagliari 1971. In pratica si tratta di un giovane politico e generale pisano (Pisa allora attraverso un suo uomo governava il giudicato di Cagliari), Alberco, che inizialmente favorisce il sogno di indipendenza di una parte della regione istituendo il giudicato del Gennargentu con capitale Desulo, paese vicino a Fonni, ma in seguito, travolto e trascinato dagli avvenimenti negli altri giudicati, mossi da Genova e Spagna, si trova a tentare di riunire sotto le sue insegne tutta la Sardegna, formando un regno indipendente. Parte della storia di quasi due secoli raggrumati nella vita di un uomo generoso ed egoista, guidato prima da un sogno e poi dalla realtà politica e militare, che finisce con una totale sconfitta e perde la vita con il pugnale di una giovane sarda, prima innamorandosi del sognatore e poi odiando il politico.
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Anteprima del libro
Magdala di Fonni - Johannes Carusus
PREFAZIONE
Johannes Carusus, in quest’opera ha ricostruito l’atmosfera, nonché gli usi, di un’epoca che ha visto la Sardegna lottare, perdere e ricostruire la sua identità. Un romanzo storico quindi, dove la mescolanza di fatti realmente accaduti e di personaggi inventati riportano il lettore ad altri tempi. Il ritrovamento casuale di una pergamena sarà l’espediente per narrare la storia di Alberco e Magdala e, come scrive l’autore, Se un giorno si trovassero altri documenti più espliciti, un altro potrebbe scrivere la vera storia di Alberco e Magdala, e questo racconto finirebbe, giustamente, nel cestino
. Perché egli l’ha scritta non seguendo puntualmente le indicazioni che la Storia ci ha lasciato ma quelle del suo cuore, mosso dalla passione per la letteratura e per la sua terra.
Johannes Carusus ci permette di conoscere anche l’animo e la forza di un popolo: i sardi. L’importanza della famiglia, del ruolo delle donne, che comandano e che non amano la guerra ma che sanno covare la voglia di vendetta. Lo spirito della balentìa, perché Balente è un uomo che vale, è un uomo che è in grado di rispondere a un’offesa o a un’ingiustizia a viso aperto.
Un romanzo speciale, insomma, che ci riporta indietro lasciandoci riflettere anche sulle cose che non sono mai mutate.
Carmen Salis
PREMESSA
Lo sfacelo dell’Impero Romano d’Occidente (nel 476 d.C. Odoacre, re dei Goti, depone Romolo Augustolo, imperatore d’occidente con capitale in Ravenna) determinò una redistribuzione delle competenze sui territori che lo costituivano. In particolare la Sardegna fu annessa all’Impero Romano d’Oriente con sede in Costantinopoli o Bisanzio che dir si voglia, l’attuale Istanbul.
I diversi imperatori che si succedettero su quel trono, per oltre tre secoli assicurarono la difesa dell’isola dalle invasioni provenienti prima dal nord (Vandali, Goti, Ostrogoti) e poi dal sud (i Mori, arabi musulmani del nord Africa). Per far fronte a tali periodiche intrusioni la Sardegna fu riorganizzata sia militarmente che civilmente: il comando militare fu trasferito a Fordongianus (nome attuale dell’antico Forum Traiani) e delegazioni a Calaris (Cagliari), Tharros (le cui rovine si trovano sulla penisola a nord del golfo di Oristano), Civita (Olbia), Turris Libisonis (Porto Torres). La suddivisione militare fu affiancata da un’analoga divisione dell’organizzazione della chiesa in curatorie, con a capo un vescovo, e di quella civile con la nomina di judex (giudici), competenti su un vasto territorio isolano.
A partire dal IX secolo i sardi dovettero iniziare a far fronte con le proprie forze alle minacce esterne, mentre l’impegno dell’Impero Orientale veniva diminuendo sempre più, dovendo a sua volta combattere contro l’espansione musulmana nel medio oriente e in nord Africa, e il Sacro Romano Impero fondato da Carlo Magno non aveva ancora forze sufficienti alla bisogna. I sardi se la cavarono bene, riuscendo a respingere gli invasori in alcune battaglie, sia in terra che in mare, con l’aiuto delle Repubbliche marinare di Pisa e di Genova.
Il tempo che va dal IX all’XI secolo è piuttosto oscuro, nel senso che la Sardegna esce del tutto o quasi dalla scena della storia (mancano completamente documenti prodotti nell’isola) e quel poco che si conosce discende dalle cronache delle ingerenze di Pisa e Genova, che intanto acquistavano sempre maggiore potenza militare ed economica nel Mediterraneo, insieme a Venezia.
La storia della Sardegna dal mille al 1400 fu un susseguirsi impazzito di guerre di potere (e di periodiche ribellioni) fra Sacro Romano Impero d’Occidente, Papato, Pisa, Genova, Spagna (e Francia) e Giudicati. I Giudicati furono forme di autogoverno legittimo e sovrano delle genti di Sardegna, che traghettarono la Regione dal Medioevo all’Evo Moderno. Sorsero in forma, si potrebbe dire, spontanea, sulle ceneri dell’organizzazione civile e militare lasciata da Bisanzio, che i sardi mantennero in vita, adattandola alle condizioni via via venutesi a creare.
Se si volessero ridurre a unità emblematica le vicende di quel tempo ci si troverebbe, come è accaduto a me, nella necessità di far avvenire in poco tempo azioni che nella realtà si sono svolte in un tempo dilatato sin quasi a cento anni. La sequenza reale è così confusa, di azioni, di tempi, di luoghi, di attori, da non consentire alcuna visione logica e congruente. Le istituzioni più sopra nominate hanno agito con accordi e disaccordi così mutevoli e intricati da rendere impossibile riconoscere una qualunque linea di sviluppo, tanto da non poter individuare un progetto
politico a lungo termine. Mille e mille volte le alleanze si sono fatte e disfatte, gli alleati di ieri sono diventati i nemici di oggi, che domani formeranno legami eterni con altri attori, subito pronti però al tradimento e al voltafaccia, inseguendo spesso piccoli ed effimeri successi personali.
Ecco, l’azione di questo lavoro si svolge proprio durante tale congerie di avvenimenti, con i soli artifici di contrarre il tempo e di considerare pochi avvenimenti concentrati in poche decine d’anni, con un solo eroe eponimo, mentre la realtà storica è ben più complessa e dilatata nello spazio e nel tempo.
I nomi dei luoghi sono quelli moderni, essendo i nomi antichi di difficile scrittura e talvolta irriconoscibili nella topografia attuale.
Ecco come si esprime Leonida Macciotta nel volume La Sardegna e la storia
Editrice Sarda Fossataro, Cagliari 1971:
a) – pagina 120 – Difficile, per non dire impossibile oltre che inutile – salvo che non si voglia di proposito trattare dei fatti accaduti fra il 1330 e il 1350 – cercare di esporre, secondo un metodo analitico e sistematico, quanto avvenne in quel periodo, tali e tanti furono i cambiamenti di scena (l’assedio di Alghero ne fu un esempio), e gli accordi di frequente stipulati e ripudiati dai loro protagonisti: Aragona, Arborea, Pisa, Genova, Sassari, i Doria, i Malaspina, i Gherardesca; né vanno trascurati i Visconti di Milano che intendevano salvaguardare i loro diritti in Gallura, e i barbaricini che combattevano per non sottostare a nessuno.
b) – pagina 126 – Il tempo che trascorse tra la partenza di re Pietro e la morte del giudice Mariano IV avvenuta nel 1376, fu tutto un susseguirsi di intrighi, di congiure, di lotte celate e palesi fra Aragona ed Arborea, durante i quali ricomparvero Pisa, Genova e i Doria.
- Signore, qui in Sardegna è diverso: se nessuno ci attacca, noi non attacchiamo nessuno! – così conclude Gonario. (II - 6).
Questa frase è indicativa dell’intima natura dei sardi.
Io ho da molti anni un sogno rivolto al passato: se i sardi al tempo dei Giudicati avessero avuto un poco più di animo guerresco, di cattiveria, di spirito di avventura, di senso della comunità, se uno dei Giudicati, per esempio Arborea o Cagliari, avesse avuto una piccola dose di desiderio di conquista, se tutto ciò si fosse avverato, la Sardegna sarebbe stata riunita in un solo Stato, forte abbastanza per respingere qualunque invasore. E sarebbe stata da allora una terra ricca e felice. Disposta dalla natura al centro del Mediterraneo, fra terre per secoli unite nel nome di Roma e culturalmente avanzate, l’isola sarebbe stata il centro di una nuova civiltà fra nord cristiano e sud musulmano.
La storia, si dice, non si fa con i se; invece i sogni si fanno anche con i se e i ma e i forse e a me piace pensare che, in un altro tempo, in un universo parallelo, la Sardegna diventa la culla di una civiltà nella quale il rispetto reciproco è alla base dei rapporti fra le persone e i popoli.
Perché quest’altro è un aspetto della natura sarda: - Rispetta me e io rispetto te. - E questo rispetto, dato e ricevuto, è così forte da escludere, sin dove è possibile, l’interessarsi dei fatti altrui. E ciò ad esempio nel commercio significa non fare concorrenza, perché la concorrenza significa danneggiare l’altro.
E, infine, la famiglia sarda è retta dalla madre o, meglio ancora, dalla donna anziana di casa, la quale ha sempre ragione, le sue parole sono sentenze, come quelle di Salomone. La cultura matriarcale di antichissima tradizione, fondata su un’ava, attraverso le altre donne di casa, sorelle, figlie, nipoti, nuore, costituisce il clan, l’unità di base dell’organizzazione della società sarda. Più donne che si conoscono, che hanno avi in comune, costituiscono la tribù e il villaggio. Fuori di casa la faccia della famiglia è quella dell’uomo, ma essa è costruita dentro le mura domestiche, e la figura dell’uomo è quella di un ambasciatore. Naturalmente nessun uomo ammetterà mai che le decisioni siano prese dalle donne di casa…
E poiché le donne non amano la guerra (ma quanto amano la vendetta, però!) ecco che i mariti e i figli non hanno spirito guerresco endogeno. Ma se li si chiama a far la guerra, allora guai al nemico di turno…
Ecco perché l’eroe di queste pagine non è sardo, ma figlio di quella Toscana che in quegli anni ormai lontani era una fucina di idee e di rinnovamento in tutti i campi di attività umana: dall’arte alla politica, dall’economia alla guerra, dalla religione alla scienza.
Prendiamo ancora due parole dal citato volume del Macciotta:
c) – pagina 127 – Con Mariano IV scompare uno dei personaggi più notevoli della storia sarda: condottiero valoroso, avversario irriducibile di Aragona, politico ambizioso e destro, legislatore saggio, egli avrebbe meritato di poter riunire sotto Arborea tutta la Sardegna, la cui storia in tal caso sarebbe stata assai diversa. Ma egli aveva contro di sé e contro i suoi progetti, un nemico troppo agguerrito e troppo potente, anche se le sue truppe erano sempre pronte ad affrontare ogni rischio al grido di Sardegna e Arborea
.
Il sottotitolo balente
indica una qualità dell’individuo molto importante nella cultura sarda, anche oggi in una relativamente piccola parte dell’isola. Balente letteralmente significa valente, che vale, valoroso
con una connotazione speciale. Balente è in genere un uomo che è in grado di rispondere a un’offesa o a un’ingiustizia a viso aperto, aspettando tempo e luogo opportuni, per trarre vendetta con un’azione nella quale la propria vita è messa in gioco. Chi colpisce alle spalle o spara celandosi dietro un cespuglio o un muretto a secco non è balente
poiché non mette a repentaglio la propria incolumità e soprattutto perché l’autore dell’offesa non sa chi lo colpisce e perché. Come l’offesa copre di vergogna tutto il clan, così la gloria e la fama del balente si sparge su di esso, riscattandolo e facendolo diventare un esempio per tutta la comunità.
Normalmente la balentìa è una prerogativa dell’uomo di casa, mentre la donna ha il compito di covare anche per molti anni il rancore e l’odio, e di istigare il marito, il figlio, il nipote, alla vendetta. Ma in caso di mancanza di uomini a ciò validi, eccezionalmente è lei stessa ad assumersi tale compito, ricorrendo alle armi e alle arti donnesche
.
PROLOGO
Desiderio, fantasia e realtà possono coincidere?
A Cagliari non ci sono molte piazze. Una delle più grandi è piazza della Repubblica, che però ha ben poco delle classiche piazze italiane, cioè luogo di riposo, di sosta e di incontro di persone. Piazza Repubblica è quasi esclusivamente un luogo di arrivo e di smistamento di automobili. Un lato è occupato dal massiccio, tetro, monumentale, grigio di pietra e di polvere, Palazzo di Giustizia. Gli altri lati sono costituiti da palazzi costruiti negli anni sessanta, anch’essi grigi e massicci. Nella piazza confluiscono alcune strade importanti come via Dante, via Pessina e via Alghero, nelle quali si aprono l’uno al fianco dell’altro negozi di tutti i generi e pizzerie e bar. Le vie sono luoghi di passeggio e di passaggio per una quasi ininterrotta fiumana di persone.
Ci sono soltanto due minuscole aree destinate al riposo del viandante, mentre le automobili si accumulano quasi l’una sull’altra in numero infinito. Davanti al Palazzo di Giustizia, in aiuole striminzite che servono come spartitraffico, si ergono, alti ed eleganti, alcuni bellissimi alberi di Jacaranda (o falso palissandro), che due volte all’anno riversano sull’asfalto un profumato tappeto di fiori violacei. Di fronte al Palazzo, dove confluiscono via Deledda e via Alghero, si trovano un’edicola e quattro panchine.
Un pomeriggio di primavera, dopo aver comprato una rivista, sedevo su una di esse, leggevo, fumavo e davo un’occhiata curiosa e distratta ai passanti, giovani e vecchi, che tutti apparivano frettolosi di raggiungere una qualche meta.
Ciao Salvatore! Dove vai?
Ciao Giovanni! Che fai seduto qui?
Devo andare dall’avvocato, sono in anticipo e quindi aspetto. E tu?
Fammi compagnia. Vado all’Archivio di Storia Patria qui vicino. Devo terminare una ricerca
.
L’Archivio? E cos’è?
Vieni, vieni. Ci sono tutti o quasi i documenti antichi che riguardano la storia della Sardegna
.
Che tipo di documenti?
Tutti i tipi: contratti notarili, lettere, poesie, trattati di pace, dichiarazioni di guerra, donazioni alle Chiese e ai conventi, liste di magazzino, eccetera, eccetera. Insomma tutto ciò che di scritto è stato lasciato e trovato nelle chiese, nelle preture, nelle case private
.
E tu cosa vai a fare?
Ho individuato uno scaffale dove si trovano i documenti lasciati da un notaio del 1600. Spero di trovarci qualcosa di interessante per la mia ricerca sul XVII secolo in Sardegna
.
Ma mi permetteranno di entrare?
Certo, certo, non ti preoccupare
.
Seguo il mio amico Salvatore in via Deledda, in un palazzone tutto rivestito di marmo, alto e squadrato. L’interno odora di carta sin dall’ingresso. Saliamo una rampa di scale ed entriamo attraverso una grande porta di scuro legno di quercia. L’androne è ampio e il soffitto è altissimo. Attraverso una porta spalancata intravedo una lunga fuga di scaffali di legno, alti sino al soffitto, carichi di faldoni in bell’ordine. Qualche piano d’appoggio è addirittura piegato sotto il peso. Poche lampade diffondono una luce non proprio bianca negli stretti corridoi fra gli scaffali.
Salvatore mi porta in un’altra stanza, ben illuminata, dove si trovano una decina di tavoli con intorno alcune sedie. Quattro o cinque persone, tutte anziane, sono sedute ai tavoli, con il naso dentro mucchietti di carte. Due di loro hanno davanti i computer portatili aperti e leggono e scrivono in fretta. L’unico rumore nel vasto spazio è quello delle dita sui tasti. Salvatore e io abbiamo le scarpe con le suole di gomma, non facciamo che pochissimo rumore, eppure tutte le facce si girano verso di noi e sembrano infastidite.
Il mio amico mi sussurra in un orecchio:
Dammi la carta di identità e aspettami qui. Io vado a prendere il mio faldone
.
Gli consegno la mia carta di identità e Salvatore sparisce in una porticina laterale. Dopo un poco ricompare con un cartellino per me e il suo faldone di carte antiche: evidentemente è di casa in quella chiesa della storia.
Non voglio annoiarvi ancora a lungo.
La fortuna ha voluto che, frugando sotto l’imbottitura della sedia sulla quale Salvatore mi aveva fatto accomodare, e che non era affatto comoda, per via di un bozzo che mi comprimeva la natica sinistra, la fortuna ha voluto, dicevo, che trovassi una buona porzione di pergamena.
La pergamena era vecchia e mal ridotta: infilata a forza per comprimere una molla che tentava di bucare il rivestimento del sedile, aveva assunto un milione di pieghe. Per non fare brutta figura davanti agli altri ospiti, con calma, senza bruschi movimenti, in assoluto silenzio, sfilai quel pezzo che credevo di carta, e lo infilai nella tasca della giacca, e lì lo dimenticai per qualche giorno, insieme a un’altra quantità di carte inutili, secondo il mio solito.
Due settimane dopo, facendo pulizia nelle tasche, ecco che salta fuori il mozzicone di pergamena: lo spiego, lo stiro ben bene, lo tendo e provo a leggere. È scritto in latino.
È vero che ho frequentato, con relativo successo, il Liceo Classico in tempi non sospetti di lassismo, ma sono passati quasi cinquant’anni. Ho riesumato il mio bravo vocabolario (che spesa fu, acquistarlo, per mio padre nel 1952, insieme a quello di greco!), ho riesumato i ricordi più profondi, e alla fine, pur non avendo capito tutto alla perfezione…
Non vi racconto tutto il resto, ma solo la conclusione: si trattava di una lettera inviata da un Papa a un Arcivescovo di Cagliari, nella quale si raccomandava che nessun male venisse fatto a un generale pisano che aveva combattuto diverse guerre in Sardegna. La raccomandazione, anche a nome di un Imperatore, doveva essere fatta al Governatore del Giudicato di Cagliari. Nella lettera c’erano nomi e titoli nobiliari e funzioni dei protagonisti e una breve cronistoria delle imprese del generale.
La storia che racconterò nelle pagine seguenti è un tentativo di ricostruzione degli avvenimenti che portarono un Imperatore e un Papa a scrivere quella lettera.
Se il paziente lettore collega questo episodio del tutto fortuito (che ruolo ha il caso nelle vicende umane?) con quanto è scritto nella premessa, il lettore, dico, si renderà conto di quanto valore sia stato il ritrovamento della pergamena per chi, come me, ha sempre avuto un debole per la storia e per la Sardegna in particolare, tanto da spingerlo a cimentarsi nel vasto e periglioso mare delle lettere.
Se un giorno si trovassero altri documenti più espliciti, un altro che non io potrebbe scrivere la vera storia di Alberco e Magdala, e questo racconto finirebbe, giustamente, nel cestino.
Per ora, gentili Lettori, siate generosi: accontentatevi!
1 LA DISFATTA
La lotta fra le due rivali (1166) si inasprì. I pisani vennero cacciati da Cagliari.
(L. Macciotta – La Sardegna e la storia – pag. 103)
1.
Pisa è lontana, Oristano è soltanto a tre giorni di marcia.
Gonario, sdraiato su un tappeto di tenera erba con indosso tutta l’armatura, lì al confine di villa Duccio, nella campagna di Assemini, sulla riva del Rio Flumineddu, era il ritratto della stanchezza e della fame.
Gli altri cinque, stravaccati sotto una quercia da poco scorticata, con il fusto così rosso da sembrare un torso umano insanguinato, con bassi grugniti approvarono stancamente. Alberco, appoggiato con il gomito all’elsa dello spadone, la camicia ormai non più bianca, la barba lunga, lo sguardo perso verso il lontano monte Serpeddì, si voltò, aprì la bocca per parlare e poi cambiò espressione. Si rizzò, alzò la spada, si voltò di scatto verso Gonario e gettò un urlo strozzato:
No! Il disonore è vicino! Vuoi andare? Vai con il Diavolo alla tua Oristano e portati via questi altri babbei. Io torno a Cagliari, da solo magari. Troverò pure una barca per Pisa e tornerò con un esercito e allora guai a te, a Cagliari e a Oristano!
Il Conte Alberco era furente, arrabbiato con tutto il mondo: con i cagliaritani che lo avevano costretto alla fuga con soli sei uomini, con Oristano che non aveva mandato gli aiuti promessi, con Pisa che non gli aveva dato forze sufficienti alla bisogna, con il Papa che interferiva negli affari di Sardegna, con l’Imperatore che gli aveva promesso il titolo di Marchese della Sardegna e poi lo aveva deluso, restituendo onori e riconoscimenti ai Giudici, con la moglie Leonarda che non aveva voluto seguirlo in quell’avventura.
Sono barbari!
diceva. E puzzano di pecora!
E così eccolo solo, abbandonato, senza viveri e quasi senza denaro, con i nemici di Cagliari non troppo vicini ma neppure troppo lontani. È vero che nessuno si era arrischiato a inseguirlo, (uscire da Cagliari non era buona idea per quei bastardi mezzo Mori!) ma neppure era utile tornare indietro a sfidarli.
Correre a Oristano e pretendere da Mariano i cento cavalli e i trecento fanti promessi, tornare a Cagliari, riconquistare la città, prendere, torturare, squartare il vescovo e tutti i preti che gli avevano sollevato contro quei maledetti pescivendoli? Ma Mariano era affidabile? Lo aveva abbandonato e ora magari si era alleato con i genovesi, per estrometterlo dalla sua Sardegna. Se avesse avuto ancora con sé più uomini! Mariano anche di cattivo grado si sarebbe convinto a mantenere gli impegni. Con sei uomini affamati, stanchi, demoralizzati, presentarsi a lui sarebbe stato come dirgli Prendimi, prendimi! Forse era meglio fare un lungo giro intorno a Cagliari, arrivare alla spiaggia della Maddalena, rubare una barca, un paio di polli, un sacco di grano e partire per la Gallura, veleggiando lungo la costa. Ma come vincere la fame durante il percorso? Assalire dei contadini per nutrirsi voleva dire chiamare i soldati del vescovo Sisinio!
Andando verso Oristano potevano rubare qua e là perché intanto si allontanavano da quel maledetto rappresentante di Bonifacio (che il diavolo in persona se lo porti!) E se Mariano non aspettava altro che una scusa per arrestarlo?
Eccomi preso fra due fuochi. Qui non posso stare, andare avanti non se ne parla, indietro neppure!
Villa Duccio era una casa, grande, ma una casa di campagna. I muri qua e là scrostati mostravano la struttura fatta di mattoni di fango. Travi di legno, con la testa sporgente dal muro, sostenevano il tetto di tegole rosse. Un grosso comignolo, coronato da due tegole oblique per proteggere dalla pioggia il focolare, dal quale usciva fumo tutto il giorno, denunciava l’esistenza di un camino usato anche per cucinare. Una stalla, con cinque vacche, un vitello, due cavalli e un asino, e un fienile mal ridotto completavano le costruzioni.
Lontano dal casale c’erano cinque capanne di pietra e frasche per i contadini.
Tra la stalla e le capanne scorrazzavano le galline e le anatre. Di tempo in tempo si sentivano cantare i galli e grugnire alcuni maiali. Alberi di pere e viti e olivi allineati erano tutt’intorno, i fichi, piantati lungo un basso muretto di pietrame alla rinfusa, segnavano il confine della proprietà. Due donne sciorinavano il bucato su corde tese fra gli alberi. Il sole ormai alto in cielo proiettava corte ombre fra i pampini.
Alberco e i suoi uomini erano sulla proda del fiumiciattolo che segnava un confine della proprietà di Duccio. L’acqua aveva scavato il suo letto nella tenera terra nera formando un canale di qualche metro più basso del livello del terreno circostante. In questo canale, ingombro di canne fruscianti, di cisto, di lentisco, di mirto, di oleandri in fiore e di querce, gli uomini erano nascosti alla vista degli abitanti della villa. A sinistra le montagne di Capoterra e di Villacidro, in lontananza, dalla parte opposta, le montagne di Sinnai. Erano arrivati in quel nascondiglio il giorno prima a notte inoltrata, dopo una fuga durata una mezza giornata e s’erano fermati facendo affidamento sulla cortina di vegetazione che li circondava. Avevano dormito a turno, ma ora la fame li teneva tutti in allarme e preoccupati per il futuro.
Tre straccioni pisani, un francese senz’arte, due pastori sardi erano la compagnia di soldati di Alberco, i resti di un’armata di duecentocinquanta uomini che il giorno prima sembrava in grado di prendere Cagliari senza fatica. E invece… Invece quei maledetti pescivendoli, aizzati dai preti, guidati da un invasato, li avevano fatti entrare in città senza ostacoli e poi li avevano assaliti con i bastoni, con i sassi, con le tegole scagliate dai tetti, aizzando i cani. E loro, i suoi soldati ben addestrati, ben pagati, con la pancia piena del suo grano e dei suoi maiali, quei vermi schifosi, s’erano fatti uccidere e gli altri si erano arresi. Lui era stato costretto a fuggire, Alberco di Lando, gran signore in Pisa, con quei sei miserabili che s’erano salvati scappando al primo urlo dei cagliaritani. Avrebbe dovuto ucciderli lui stesso, per la loro codardia.
Ma ora forse potevano essergli utili.
Ho deciso
. Alberco aveva mutato tono, era tornato un comandante responsabile della vita propria e di quella dei suoi uomini, Appena sarà buio entreremo nella villa, prenderemo tutti prigionieri, mangeremo e dormiremo. Domattina decideremo cosa fare. Là dentro ci saranno tre o quattro persone al massimo, sarà facile e senza pericoli. Ora state tranquilli e nascosti. Tu, Marco, e tu Lallo, andate lassù e sorvegliate che nessuno venga da questa parte
.
Marco e Lallo, due dei pisani, s’alzano di gran malavoglia, si tolgono l’elmo e si avviano strisciando verso l’orlo del canale. C’era un ciuffo di canne anche lassù, vi infilarono la testa e si fermarono.
Gonario guarda torvo il suo padrone, poi si volta e sgattaiola carponi fra le canne. Nessuno protesta: Che se ne andasse all’inferno!
Qualche minuto dopo ecco Gonario tornare con le mani colme di qualcosa.
Prendete e mangiate, almeno lo stomaco si riempie
.
Cosa sono?
Cime di canne, sono tenere. Vicino all’acqua stanno nascendo ora. Le mangiano le pecore e le capre
.
Io non sono una capra!
Tieniti la fame!
Su, soldati non facciamo storie!
interviene Alberco, Se le mangia Gonario, a noi non faranno male
. E diede l’esempio addentando il cilindro di un bel colore paglierino. Tenero e dolciastro. Ma quanto a inghiottirlo era una fatica. Ne morde dei pezzi piccolissimi, mastica a lungo, rompendo le fibre e infine lo manda giù.
Buono, bravo Gonario!
Leon, il marsigliese, va a prendere l’acqua con l’elmo: con l’acqua le canne vanno giù più facilmente.
Il sole scotta fuori dell’ombra della quercia. I calabroni ronzano sui rossi fiori dell’oleandro e fanno compagnia alle api e alle farfalle. Le rondini vanno e vengono: strappano un poco di mota dal margine del ruscello, lo portano in volo e poi lo depositano sul muro della casa per costruire il nido. Ogni tanto arriva una capinera, fa il bagno e vola via. Alberco osserva con attenzione e pian piano si calma, si tranquillizza, socchiude gli occhi. S’addormenta con la testa sul braccio piegato, su un letto di erba e muschio. Anche i suoi uomini prendono sonno. Più tardi Lallo e Marco vengono giù dall’osservatorio e il loro posto viene preso da Masetto e Leon. Sino al calare del sole nulla si muove tra loro e la casa. Al tramonto ecco che esce un uomo che chiama a gran voce:
Mohammad! Vieni qui!
Dal gruppo di capanne arriva di corsa un uomo dalla pelle scura:
Eccomi signore! Cosa volete?
S’avvicina al primo uomo e i due parlottano brevemente; poi il moro si allontana. Poco dopo dalla casa escono un bambino, una ragazza e una donna che porta in mano un cestino. S’avviano alla stalla e ne escono poco tempo dopo:
Oggi solo cinque uova!
dice la donna Deve esserci una volpe o una donnola che le mangia. Avrebbero dovuto essere almeno dieci
.
Mamma
, dice il ragazzo, se ci fossero animali avrei visto le tracce. E poi le volpi e le donnole non mangiano le uova ma le galline!
Bravo Tonino! E tu come fai a sapere queste cose? E come spieghi che con quindici galline ci sono solo cinque uova?
Me lo ha detto Mohammad, che al suo paese era un grande cacciatore
.
E tu gli credi?
interviene la ragazza, Lo sai che i mori sono tutti bugiardi
.
Così chiacchierando e scherzando i tre rientrano in casa.
Gonario e Totore prendono il posto di Masetto e Leon, e nulla più avviene intorno alla casa.
2.
Alberco è a cavallo, l’elmo luccicante, il corpetto di cuoio rosso, la lancia con l’insegna oro e argento in resta, alla testa dei suoi soldati. Fanti e cavalieri lo seguono al suono ritmato dei corni e dei tamburi.
Non ho capito perché vostra signoria è sbarcata a Teulada
, dice il Vescovo, a cavallo al suo fianco, invece di venire direttamente qui a Cagliari. Il popolo vi aspettava con impazienza dopo che il governatore Errico vostro zio si è allontanato dalla città per un equivoco
.
Eccellenza, mio zio ha riferito al Gran Consiglio di gravi disordini e di aperta ribellione di Cagliari, non di un equivoco di poco conto e quindi ho ritenuto opportuno arrivare a Teulada in modo da vedere con i miei occhi la situazione, avvicinandomi a Cagliari lentamente
.
E quale impressione avete ricevuto dai fedeli sudditi sardi che avete incontrato?
"Tutto bene, Monsignore, tutto bene. Non ci sono state feste, ma neppure cattivi incontri. Sembra proprio che mio zio abbia sbagliato nel giudicare la situazione.
E mentre così dice al vescovo, del quale conosceva le ambizioni, rimugina fra sé gli accordi presi dall’ambasciatore presso il Giudice di Arborea: non appena Alberco fosse sbarcato in Sardegna, trecento fanti e cento cavalieri, con armi e vettovaglie, si sarebbero uniti alle sue forze per riprendere Cagliari e rinsaldare l’alleanza fra i due Giudicati.
Teulada era in una piccola valle circondata da colline non alte ma erte. Il porto piccolo, ma con buoni fondali, ed era ben difeso dai venti dominanti trovandosi all’interno di un golfo stretto fra Capo Teulada e Capo Spartivento. L’abitato distava dal porto un paio di chilometri e la campagna era coltivata a grano e vite, i rilievi adibiti a pascolo e bosco.
Alberco è sbarcato da una delle sue sette navi da sei giorni e ha inviato pattuglie verso tutti i centri intorno a Teulada (Giba, Narcao, Santadi) con l’ordine di rimandare indietro corrieri che riferissero sull’umore degli abitanti. I corrieri hanno tutti riportato buone notizie: nessun segno di ribellione o di malanimo, i maggiorenti dei villaggi avevano tutti accolto benevolmente le pattuglie, dando ai soldati da bere, mangiare e dormire in modo conveniente.
I suoi corrieri vanno e vengono, ma non ha notizie da Oristano: non sa ancora dov’è la promessa armata di Arborea. E tuttavia le buone notizie portate dai corrieri lo hanno indotto a cominciare la marcia verso Cagliari con le sue sole forze.
I sei giorni di sosta hanno rinfrancato gli uomini e reso Alberco impaziente di iniziare l’azione. Ha requisito sei carri trainati da buoi e cinque carretti con i cavalli, da aggiungere ai sette portati da Pisa, e acquistato farina, lardo, olio, carne di maiale e di pecora e finalmente si è messo in marcia.
I buoi sono lenti e l’avanzata della colonna di uomini e animali procede con fatica: la strada è una brutta carrareccia piena di buche e di curve.
Alberco è impaziente: lascia trenta cavalieri fra le colline con i carriaggi e procede più speditamente, superando il passo, s’inoltra fermandosi alle porte di Domus de Maria a metà del pomeriggio. Tre ore più tardi arriva la carovana dei carri. Mentre i soldati montavano le tende, gli inservienti accendono i fuochi e preparano il rancio: minestra di grano e fave con lardo, mezza pagnotta e un pezzo di pecora arrosto. Le donne vivandiere distribuiscono il vino agli uomini che riposano in gruppi serrati intorno ai fuochi, con le armi a portata di mano. I cavalli e i buoi sono liberati dai carri, sono stati abbeverati e a ciascuno à stata servita una buona dose di orzo, avena e foraggio: ora si muovono lentamente per i campi, ben impastoiati e sorvegliati.
Domus de Maria è un piccolissimo villaggio di contadini e boscaioli, ai piedi del massiccio che culmina nel monte is Caravius a più di cento metri. Tutto il monte sino a Santadi e Capoterra è coperto di fitte foreste di lecci e di sughere, in un saliscendi di rilievi scoscesi separati dai letti di torrenti che precipitano in neri burroni. Gli abitanti sono pochi e vivono quasi isolati dal resto del mondo: l’arrivo dei soldati è un grosso avvenimento. La maggior parte degli uomini vive nel bosco per far legna o a far carbone e quindi in paese ci sono quasi soltanto donne, vecchi e bambini: e solo i bambini hanno il coraggio di farsi vedere, gli adulti pur rosi dalla curiosità si tengono lontani. Pian piano i ragazzini si fanno più arditi, finché, chiamati dai soldati più anziani, che a loro volta avevano figli a casa, si avvicinano e toccano le armi, giocano con gli elmi, mangiano con quelle persone strane.
La mattina dopo