Da un Natale a l'altro
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Info su questo ebook
Divenuta scrittrice di professione dopo la morte del marito (seguita, nel 1912, da quella del figlio) ebbe una produzione feconda: fino al 1901 pubblicò oltre 150 titoli tra romanzi, soprattutto d'amore, novelle, scritti educativi e manuali di condotta quali Come devo comportarmi, L'arte di farsi amare dal marito, Per la mamma educatrice. Una delle sue opere, il Romanzo d'una signorina per bene è dedicato alla sorella Antonietta Vertua.
Contribuì alle riviste Giornale della maestre e La donna di Gualberta Alaide Beccari e, nel 1907, prese parte a Milano al Congresso sui diritti femminili promosso dalle donne cattoliche e socialiste. Tra il 1905 e il 1906 diresse Fanciullezza Italiana, un bisettimanale in cui pubblicava consigli di comportamento. Per le sue pubblicazioni venne definita come la figlia d'un ideale matrimonio tra Edmondo De Amicis (Cuore) e Louisa Alcott (Piccole donne).
I suoi scritti, pur intrisi di sentimentalismo e precetti morali, non furono privi di richiami all'indipendenza femminile.
Morì presso l'Istituto Santa Savina a Lodi, dove si ritirò nel 1923. Sulla facciata esterna dell'edificio, in via De Lemene, è stata affissa una targa:
«In questa casa trovò negli ultimi suoi anni asilo - conforto - pace Anna Vertua Gentile, scrittrice insigne che volle fine supremo dell'arte sua il trionfo della bontà, il trionfo della gioventù. Nata a Dongo 1846 morta a Lodi addì 23 11 1926»
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Anteprima del libro
Da un Natale a l'altro - Anna Gentile Vertua
I.
Nella vasta cucina il ceppo di pino crepitava la sua agonia in uno sfoggio ardente di brage ammucchiate, che spandevano nell’oscurità, calore odoroso e luce fantastica.
Dolfo, finito di rigovernare, scopare, rimettere tutto nell’ordine abituale, aveva, per economia, spenta la lampada pendente dal soffitto; e, seduto su uno dei panconi ai lati del focolare, si crogiolava fumando la pipa.
La bragia gli batteva in volto un colore rosso, che dava al suo volto dai baffoni brizzolati e i capelli irti e canuti, un aspetto strano.
Di fuori, nella fredda notte di dicembre, il vento ululava spazzando le nuvole dal cielo e scuotendo la neve dalle piante.
Ogni tanto, una folata rabbiosa si cacciava per il fumaiuolo del camino e guizzava giù con un urlo ad avvivare le brace, scomporle, morire in cenere le più arse.
Dolfo con una gamba accavallata su l’altra e le braccia conserte, continuava a fumare con un puff puff regolare e lo sguardo vagante nell’aria rossastra, che i ricordi animavano di figure e scene, di persone e di luoghi.
Di solito, a quell’ora, Dolfo dormiva sodo, su nella sua cameretta, attigua a quella del padrone. Ma quella era la notte di Natale; e il vecchio soldato, che credeva in Dio, eseguiva fedelmente per abitudine ed anche per convinzione, le pratiche religiose; vegliava per assistere alla Messa di mezza notte, che il Curato doveva celebrare nella chiesuola del paese. Vegliava senza impazienze, nel silenzio e nella solitudine, rifacendo la via del suo passato di cinquantasei anni. Il passato d’un galantuomo; semplice, un po’ monotono, con qualche sprazzo di luce viva, fatta di entusiasmo giovanile, di fedeltà, di schietto sentimento del dovere, di amore per il paese. Aveva vent’anni quando la leva lo chiamava dalla sua vallata, fra le montagne alte e boscose della Valtellina nativa. Orfano, solo su la terra, non aveva pianto lasciando il casolare, che la morte aveva, in pochi anni, fatto deserto. Si era bravamente vestito della festa, e consegnate le chiavi della catapecchia al prete che l’aveva battezzato e dato ai suoi l’olio santo, lo pregava di dare un occhio al campicello e al piccolo castagneto che possedeva su nella selva, e correva già, pronto alla voce del dovere. Si rivedeva bello di salute e di forza; un pezzo di giovanotto gagliardo, per Dio! che le fanciulle dei villaggi per dove passava, gli lasciavano dietro gli occhi e rispondevano premurose e lusingate, al suo saluto. Sorrideva alla memoria delle sue ingenue meraviglie al primo giungere in città; e dentro il cuore gli si ripeteva il senso di soddisfazione e di legittimo orgoglio, al ricordo della simpatia del suo giovine tenente; alto, snello, biondo, che vedendolo, goffamente infagottato nell’abito del coscritto, gli aveva sorriso battendogli una mano su la spalla e chiamandolo «bel montanaro».
Da allora egli aveva preso ad amarlo il suo giovine tenente, di cui aveva capito l’anima attraverso gli occhi chiari e sinceri. La reciproca simpatia aveva fatto ch’egli diventasse subito l’attendente dell’ufficiale. E non l’aveva lasciato più. Erano invecchiati insieme.
Il tenente dagli occhi chiari e sinceri, adesso era canuto come lui e godeva i suoi anni di riposo con il titolo di colonnello. Quante vicende, quanti momenti giocondi e dolorosi in quegli anni passati insieme!
Il cuculo dell’orologio a pendolo, uscì dalla sua nicchia con un colpettino secco e cantò le undici ore aprendo le ale e movendo la bruna testina. Nello stesso tempo il fischio dell’ultimo treno che veniva da Milano, si confuse con il mugolìo del vento; e il fracasso delle ruote pesanti, fece tremare i vetri delle finestre.
Dolfo scosse la testa. Come il suo padrone, egli non amava il treno, che giungeva lì uscendo dalle viscere tenebrose della montagna e guastava la quiete del villaggio tingendo del suo fumo grasso l’esterno turchino della casetta. Che bisogno c’era di quel mezzo precipitoso di girare il mondo, quando per vivere basta un piccolo angolo di terra?... L’idea del progresso non aveva fatto breccia nel cervello e nè pure nel sentimento di Dolfo; fatto per gli affetti intimi, per la vita semplice e tranquilla, non poteva avere slanci per ciò, che disturbando pochi, reca giovamento e risorse a mille e mille.
Pensava, che per quel maledetto treno, s’era dovuto dividere nel bel mezzo la vigna del padrone e che non si viveva più nella quiete di prima. Il colonnello tirava moccoli ad ogni fischio di locomotiva; e adesso, lui, si tolse rabbiosamente di bocca la pipa per lanciare il suo «accidenti!» uno di quelli detti a denti serrati e a occhi torvi, che strappavano le risatine squillanti della padroncina, la signorina Maria, la quale egli aveva visto nascere, che adorava e che era cresciuta sotto i suoi occhi fino alla morte della signora, che Dio benedicesse alla sua soave memoria, povera santa!... Se non fosse stato per via dell’educazione e dell’istruzione, Maria sarebbe sempre stata a casa; ma, la nonna, la madre della povera signora, dopo la morte della figliuola, l’aveva voluta con sè, sempre per via dell’educazione e dell’istruzione; che, diceva, a star lì con loro, due uomini, due antichi soldati, non avrebbe per certo potuto diventare una fanciulla a modo; c’era anzi pericolo, diceva, che crescesse a suo talento; una specie di selvaggia, una ignorante!... E Maria aveva dovuto andare con la nonna; e venire a casa di rado; a pena le vacanze!
Dolfo si intenerì pensando alla gaiezza che avrebbe portato in casa la signorina quando, a educazione compiuta, sarebbe tornata con lui e il padrone; e nella giocondità della visione, fumava in fretta; puff! puff! puff!
Il treno s’era fermato un momento solo sotto la tettoia della piccola stazione; poi aveva infilata la galleria di sotto la montagna e il suo fischio si perdeva in distanza, soffocato nel rinchiuso.
Il cuculo dell’orologio uscì un’altra volta ad annunciare le undici e mezzo e la campana della chiesa tocheggiò il primo segnale della Messa.
Il vento andava perdendo di forza; soffiava a rade folate; non ululava più.
Il cane accovacciato nella sua cuccia dell’andito, abbaiò ad un tratto; subito l’uscio venne aperto e guizzò dentro una figurina imbaccuccata in un’ampia pelliccia, la testa sprofondata nel cappuccio.
— La signorina! — fece Dolfo balzando dal suo cantuccio e correndole incontro. — Oh! oh! oh!... Maria!... la signorina!
E la voce trillava di gioia, in gola al vecchio soldato.
Sveltamente Maria si levò pelliccia e cappuccio, e allungando le braccia, cinse il collo di Dolfo e lo baciò su le guancie.
Egli la sollevò da terra come una piuma, la mise a sedere davanti al fuoco, accese la lampada, portò in un attimo su la tavola dei piatti di roba. La signorina era fredda, diceva; la signorina doveva esser morta di fame. Si riscaldasse, mangiasse, intanto che lui andava su a chiamare il colonnello.
— No, Dolfo, no! non disturbare papà; mi vedrà domattina. Con questo freddo egli non vorrebbe che... che... Sai Dolfo?... ho pregato tanto la nonna che mi lasciasse venire stasera invece di domani, perchè ho una gran voglia di sentire la Messa di mezza notte!...
— Tu? — fece stupito il bravo uomo. Si corresse subito grattandosi la nuca in atto di malcontento, e soggiunse: — Lei, signorina?
— Senti, Dolfo! — gli rispose la fanciulla —non ti seccare a darmi del lei, che tanto non ci riesci e a me dà su i nervi; trattami come prima e sarà meglio per tutti due e anche per il papà, che tu sai come la pensa. Dammi del tu una volta per sempre e lasciami venire a Messa con te. Lo desidero tanto!.... deve essere così bello, a notte fitta, in una chiesuola di campagna!
Si era seduta a tavola, e con i dentini bianchi e forti, sgretolava con appetito, da creatura sana e giovine.
Dolfo le metteva su ’l piatto i bocconcini migliori, le versava da bere, la accarezzava degli occhi, lieto della bella sorpresa, lietissimo della gioia che aspettava il padrone al suo svegliarsi.
— Mi lasci venire, Dolfo? — gli chiese ancora, guardandolo di sotto in su, con gli occhioni turchini tanto espressivi. E soggiunse in accento di preghiera: — Lo desidero tanto!
Il pover uomo si trovava in lotta fra il vivo desiderio della fanciulla che adorava, e il timore di far cosa che spiacesse al padrone, il quale forse si sarebbe opposto a quel capriccio che esponeva per la seconda volta, in quella notte, la cara figliuola, al freddo rabbioso.
— Lo desidero tanto! — ripetè Maria, non smettendo di mangiare. L’aria gelida — soggiunse — non mi fa nulla a me. Sono forte; non ho mai un colpo di tosse. Ho per fino imparato a pattinare.
Il cuculo uscì a cantare le dodici ore, e per l’aria buia toccheggiarono lenti e solenni gli ultimi richiami alla Messa.
Maria trangugiò in fretta l’ultimo boccone, vi bevette sopra un bicchiere d’acqua, si alzò, si imbaccuccò nella pelliccia e nel cappuccio e disse senz’altro: — Andiamo Dolfo!... Sii buono!... Lasciami venire!
Come avrebbe potuto dir di no il pover uomo, che per un desiderio della fanciulla si sarebbe buttato nel fuoco?
Uscirono di cucina, quindi dall’andito che dava su ’l viottolo, che menava dritto alla chiesa, posta un po’ su, sopra un rispiano di monte.
La neve indurita dal gelo scricchiolava di sotto i piedi; ogni poco una folata d’aria staccava dai rami brulli i diaccioli, che cadevano su le spalle, su ’l cappuccio di Maria e su ’l cappellone a cencio di Dolfo.
Il cielo spazzato dalle nuvole e fitto di stelle, pioveva su la terra bianca un bagliore fioco, che dava al paesaggio un aspetto fantasticamente pittoresco.
La fanciulla, accarezzata, stuzzicata, nel suo fine senso artistico e nel sentimento, da quel tutto insieme di bello e solitario e silenzioso, fremeva di voluttuosa compiacenza. E camminava in silenzio, gli occhi vaganti, tutta l’anima soavemente commossa.
Presso la chiesuola, proprio dinanzi alla porta d’ingresso, a un venti di passi, la palazzina Ferroni dalle finestre a doppie vetrate e senza cortine, invitava, con la brillante illuminazione del salotto, a guardar dentro. Si cenava quella sera, in casa Ferroni; le persone, sedute a mensa, si potevano vedere spiccate e riconoscere alla prima.
— Ecco là la signora Candida! — disse Maria guardando, mentre passava e rallentando un poco il passo. — Ecco il dottore con la moglie, il farmacista, il capo stazione.
Si fermò su i due piedi; e additando un giovine signore alto e robusto, con la testa un po’ insaccata nelle spalle e i lineamenti grossolani e forti:
— Chi è colui? — chiese a Dolfo.
Era il figliuolo della signora Candida, tornato dall’America da parecchi mesi; e tornato con fior di gruzzolo. Oh i quattrini correvano in casa Ferroni come l’acqua dalla china al piano!... E i signori Ferroni ci tenevano a far sapere a tutti che avevano danari a bizzeffe. Accidenti se ci tenevano!... E adesso non pensavano alla gola che potevano fare ai poveri, che in quell’annata ce n’erano a dozzine; poveri in canna da non sapere come far gorgogliare la pentola. Che era una cosa giusta, che era carità, farsi vedere così da tutti a mangiare e bere, a rimpinzarsi di ghiottonerie, quando tanti disgraziati andavano a Messa forse per chiedere a Dio la forza di sopportare la miseria?...
No; non c’era giustizia; no, non c’era pietà in quello sfoggio sfacciato di abbondanza e benessere.
Maria si sentiva perfettamente d’accordo con Dolfo; e dentro il cuore le si andava formando un sentimento di disapprovazione e di rimprovero per quei gaudenti senza riguardo della povertà, forse della fame altrui.
Si trovò in Chiesa quasi senza avvedersene. Pensava a la mensa, scintillante di cristalli e argenteria, dai gran piatti fumanti, dalle spesse bottiglie, di casa Ferroni. Pensava alla figura tozza e grossolana del giovinotto tornato dall’America, che a lei richiamava l’antico compagno d’infanzia; quando, durante le vacanze, ella veniva per un mese lì al villaggio a fare la cura dell’aria ossigenata, come diceva il suo papà.
Quel suo compagno, che aveva sei anni più di lei, allora era superbo, violento, che tutti dovevano piegare alla sua volontà e chinare il capo alle sue prepotenze. Tutti, tranne lei, che piccolina e esile com’era sempre stata, si era sempre ribellata a quel tiranello, che, credeva d’avere il diritto di soperchiare gli altri per via della sua alta statura, della sua forza moscolare, della ricchezza de’ suoi. Ricordava d’avere una volta così risposto a una sua prepotenza: «Le bestie grosse sono, di solito buone e generose con le piccole; ma tu sei un bestione egoista e cattivo».
La Chiesa era zeppa di gente. Su l’altare brillavano tre sfilate di ceri, e i lumicini raccolti nei gusci di lumache, illuminavano le rozze figure, i paesaggi in miniatura, i festoni di edera e pugni-topo adorni di bacche e mele