Il destino dei gemelli
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Nel frattempo, Caramon fatica a riportare indietro il fratello dall’orlo dell’Abisso. Insieme sono trasportati nei giorni di gloria della leggendaria Istar, città del Grande Sacerdote, dove affronteranno un male talmente diffuso da abbracciare i secoli, poiché la più grande città di tutto il continente di Ansalon si trova sull’orlo della catastrofe. Li accompagna una figura minuta, Tasslehoff Burrfoot, i cui occhi innocenti vedono più chiaramente di quelli di chiunque altro.
Il Cataclisma si avvicina...
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Anteprima del libro
Il destino dei gemelli - Margaret Weis
Weis
L’Incontro
Una figura solitaria avanzava con passo leggero verso la luce lontana. Camminava senza farsi sentire, il trepestio dei suoi passi veniva risucchiato dalla vasta oscurità tutt’intorno. Bertrem si concesse un raro volo pindarico quando lanciò un’occhiata alle file in apparenza interminabili di volumi e di rotoli di pergamena che facevano parte delle Cronache di Astinus e descrivevano nei particolari la storia di quel mondo, la storia di Krynn.
«È come venir risucchiati dentro il tempo», pensò, sospirando, mentre guardava quelle file immobili e silenziose. Per un breve istante desiderò di venir risucchiato via da qualche parte, così da non dover affrontare il difficile compito che aveva davanti.
«Tutto il sapere del mondo si trova in questi libri», aggiunse fra sé con nostalgia. «E non ho mai trovato una sola cosa che rendesse più facile comparire, non richiesti, alla presenza dei loro autori».
Bertrem si fermò fuori della porta per fare appello a tutto il suo coraggio. Le sue fluttuanti vesti di Estetico gli si riadagiarono intorno, ricadendo in pieghe decorose e ordinate. Il suo stomaco, però, si rifiutò di seguire l’esempio delle vesti e cominciò a trabalzare come impazzito. Bertrem si passò una mano sulla sommità del cranio, un istintivo gesto di nervosismo che risaliva a una più giovane età, prima che la professione da lui scelta gli fosse costata i capelli.
Cos’era mai che lo angustiava? si chiese, cupo, salvo il fatto che stava per entrare e incontrare il Maestro, naturalmente, qualcosa che non aveva più fatto da... da... Rabbrividì. Sì, da quando il giovane mago era quasi morto sui gradini della loro biblioteca durante l’ultima guerra.
La guerra, il cambiamento, ecco cos’era. Come le sue vesti, il mondo era parso infine stabilizzarsi intorno a lui, ma sentiva che il cambiamento stava per arrivare ancora una volta, proprio come l’aveva percepito due anni prima. Quanto avrebbe bramato poterlo fermare... Bertrem sospirò.
«Certamente non fermerò un bel niente standomene in piedi qui fuori nel buio», borbottò. Comunque si sentiva a disagio, come se fosse circondato da fantasmi. Una vivida luce filtrava da sotto la porta, diffondendosi nel corridoio. Lanciando una rapida occhiata alle spalle verso le ombre dei libri, cadaveri pacifici che riposavano nelle loro tombe, l’Estetico aprì senza far rumore la porta ed entrò nello studio di Astinus di Palanthas.
Malgrado fosse lì, nello studio, Astinus non parlò, neppure sollevò lo sguardo.
Camminando con passo leggero e misurato sul ricco tappeto di lana di pecora che copriva il pavimento di marmo, Bertrem si fermò davanti alla grande scrivania di legno lucido. Per alcuni lunghi istanti non disse nulla, osservando assorto la mano dello storico che guidava la penna d’oca con tratti fermi e costanti.
«Allora, Bertrem?». Astinus non smise di scrivere.
Bertrem, immobile davanti ad Astinus, lesse le parole che, perfino capovolte, erano nitide, chiare, facilmente decifrabili:
Questo giorno, come sopra Scuraveglia ascendendo il 29, Bertrem è entrato nel mio studio.
«Crysania della Casa di Tarinius è qui per incontrarti, Maestro. Dice che l’aspettavi...». La voce di Bertrem si dissolse in un sussurro, già aveva dovuto far ricorso a una grande dose del suo coraggio di Estetico per arrivare fino a quel punto.
Astinus continuò a scrivere.
«Maestro», continuò Bertrem con un filo di voce, tremante per ciò che stava osando, «io-noi non sapevamo che fare. Dopotutto è una Reverenda Figlia di Paladine e io-noi abbiamo trovato impossibile rifiutarle l’accesso. Cosa do...».
«Conducila nelle mie camere private», disse Astinus, continuando a scrivere senza neppure alzare gli occhi.
Bertrem sentì la lingua appiccicarglisi al palato, lasciandolo per un lungo istante senza parole. E intanto altre parole continuavano a fluire dalla penna d’oca di Astinus sulla pergamena bianca:
Questo giorno, come sopra Scuraveglia ascendendo 28, Crysania di Tarinius è arrivata per il suo appuntamento con Raistlin Majere.
«Raistlin Majere!» esclamò Bertrem, restando a bocca spalancata, lo choc e l’orrore gli sciolsero di nuovo la lingua. «Dobbiamo ammettere il...».
Adesso Astinus sollevò lo sguardo, il fastidio e l’irritazione gl’increspavano la fronte. Quando la penna cessò il suo eterno raschiare sulla pergamena, un profondo e innaturale silenzio calò nella stanza. Bertrem impallidì. La faccia dello storico avrebbe potuto esser giudicata scultorea in una maniera senza tempo e senza età. Ma nessuno che avesse visto con i propri occhi quella faccia riusciva a ricordarla. Ricordavano soltanto gli occhi, scuri, assorti, consapevoli, in costante movimento, occhi che vedevano tutto. Quegli occhi potevano anche comunicare immensi universi d’impazienza, ricordando a Bertrem che il tempo stava scorrendo. Anche mentre si stava svolgendo quel colloquio, interi minuti di storia stavano passando, senza venir documentati.
«Perdonami, Maestro!». Bertrem fece un profondissimo, reverente inchino, poi arretrò, uscendo a precipizio dallo studio e chiudendo silenziosamente la porta. Una volta fuori, si asciugò il cranio pelato che luccicava di sudore, poi si affrettò lungo i silenziosi corridoi di marmo della Grande Biblioteca di Palanthas.
Astinus si soffermò sulla soglia della sua residenza privata, il suo sguardo si appuntò sulla donna seduta all’interno.
Situata nell’ala orientale della Grande Biblioteca, la residenza dello storico era piccola e, come ogni altra stanza nella biblioteca, era piena di libri d’ogni genere e dalle più svariate rilegature; gli scaffali alle pareti ne rigurgitavano, esalando, anche lì nel soggiorno, un debole odore di muffa, come un mausoleo che fosse rimasto chiuso per secoli. La mobilia era poca, e antica. Le seggiole, di legno meravigliosamente scolpito, erano dure e scomode. Un tavolo basso, accanto a una finestra, era assolutamente libero da qualsiasi ornamento e oggetto e rifletteva la luce del sole al tramonto con la sua liscia superficie nera. Ogni cosa nella stanza era disposta in un ordine perfetto. Perfino la legna per il fuoco serale nel camino – le notti della tarda primavera erano fresche, anche lì nel profondo nord – era disposta in file così ordinate da assomigliare a una pira funeraria.
Eppure, per quanto fresca, pura e schietta fosse la camera privata dello storico, essa sembrava soltanto rispecchiare la bellezza fredda, pura, con un sentore d’antico, della donna, che se ne stava con le mani ripiegate in grembo, in attesa.
Crysania di Tarinius aspettava paziente. Non giocherellava con le dita in preda al nervosismo, né sospirava, e neppure lanciava frequenti occhiate al congegno ad acqua che, in un angolo, segnava il tempo. Non leggeva, anche se Astinus era sicuro che Bertrem doveva averle offerto un libro. Non camminava su e giù per la stanza, né esaminava i pochi, rari ornamenti che si trovavano nelle nicchie in ombra all’interno degli scaffali. Sedeva eretta sulla scomoda seggiola di legno, gli occhi limpidi e luminosi fissi sulle frange tinte di rosso delle nuvole sopra le montagne, come se stesse osservando il tramonto del sole forse per la prima volta – o l’ultima – sopra Krynn.
Era talmente assorta nello spettacolo al di fuori della finestra che Astinus entrò senza attirare la sua attenzione. La guardò con intenso interesse. Non era insolito che lo storico ispezionasse ogni creatura di Krynn con lo stesso sguardo imperscrutabile e penetrante. Cosa insolita, invece, fu l’espressione di pietà e di profondo dolore che, per un attimo, attraversò il volto dello storico.
Astinus documentava la storia. L’aveva documentata sin dall’inizio del tempo, osservandola scorrere davanti ai suoi occhi e trasferendola poi nei suoi libri. Non poteva prevedere il futuro, quella era la provincia degli dei. Ma poteva percepire tutti i segni del cambiamento, quegli stessi segni che avevano tanto turbato Bertrem. Lì, in piedi, immobile, poteva sentire le gocce dell’acqua che cadevano nel misuratore del tempo. Ponendo la mano sotto di esse, poteva interrompere il flusso delle gocce, ma il tempo avrebbe continuato a scorrere.
Sospirando, Astinus rivolse la propria attenzione alla donna della quale aveva sentito parlare ma che non aveva mai incontrato. I suoi capelli erano neri, blu-neri, come l’acqua d’un mare tranquillo durante la notte. Li portava lisci, pettinati all’indietro, partendo da una scriminatura centrale, tenuti insieme dietro la testa da un semplice pettine di legno privo di ornamenti. Quello stile severo non s’intonava con i suoi lineamenti pallidi e delicati, ma accentuava ancor di più il suo pallore. I suoi occhi erano grigi e apparivano troppo grandi. Perfino le sue labbra erano esangui.
Alcuni anni prima, quand’era giovane, i servi avevano intrecciato e attorcigliato quei folti capelli neri secondo gli ultimissimi dettami della moda, fermandoli con spilloni d’argento e d’oro, decorando quelle sfumature cupe con luccicanti gioielli. Avevano tinto le sue guance con succhi di bacche spremute e l’avevano vestita con abiti sontuosi, dai rosa più pallidi e dagli azzurri più impalpabili. Un tempo era stata bellissima, un tempo i suoi corteggiatori avevano fatto la fila per lei.
L’abito che adesso indossava era bianco, come si confaceva a un chierico di Paladine, ed era semplice anche se confezionato con un raffinato tessuto. Era privo di ornamenti, salvo per la cintura d’oro che le cingeva la vita. Il suo unico vero ornamento era quello di Paladine: il medaglione del Drago di Platino. I suoi capelli erano coperti da un bianco cappuccio che metteva in risalto la levigatezza e l’algido aspetto marmoreo della sua carnagione.
Astinus pensò che forse era fatta di marmo, ma con un’unica differenza: il marmo, almeno, avrebbe potuto essere scaldato dal sole.
«Salve, o Reverenda Figlia di Paladine», disse Astinus entrando e chiudendo la porta alle sue spalle.
«Salute a te, Astinus», replicò Crysania di Tarinius alzandosi.
Mentre la fanciulla attraversava la stanzetta diretta verso di lui, Astinus rimase in qualche modo sorpreso nel notare la velocità e la lunghezza quasi mascolina del passo di lei. Il che era incongruo rispetto ai lineamenti delicati di Crysania. La sua stretta di mano, inoltre, era ferma e vigorosa, a differenza delle donne di Palanthas che raramente concedevano una stretta di mano e si limitavano a tendere la punta delle dita.
«Devo ringraziarti per aver rinunciato al tuo tempo prezioso per fungere da parte neutrale in questo incontro», disse Crysania con freddezza. «So quanto ti riesce sgradito sottrarre del tempo ai tuoi studi».
«Fintanto che non è tempo sprecato non m’importa», rispose Astinus, prendendole la mano e fissandola intensamente. «Devo comunque ammettere che me ne risento».
«Perché?». Crysania scrutò il volto senza età dell’uomo mostrandosi sinceramente perplessa. Poi, con una comprensione improvvisa, sorrise, un sorriso freddo che non portò altra luce al suo volto, più di quanta avrebbe fatto il chiarore lunare sulla neve. «Tu non credi che lui verrà, non è vero?».
Astinus sbuffò. Lasciando ricadere la mano della donna, come se avesse perduto ogni interesse anche nella sua sola esistenza. Si voltò e raggiunse la finestra, e guardò fuori la città di Palanthas, i cui risplendenti edifici bianchi ardevano alla radiosità del sole, sprigionando una bellezza che lasciava senza fiato, con una sola eccezione: uno degli edifici non veniva toccato dalla luce del sole, neppure dal pieno fulgore del mezzogiorno.
E su questo edificio si fissò lo sguardo di Astinus. Pur ergendosi al centro della città bella e sfavillante, le sue torri di pietra nera parevano agitarsi e contorcersi, i suoi minareti restaurati di recente, innalzati dai poteri della magia, si rivestivano d’una tinta rosso sangue al bagliore del sole calante, dando l’impressione di dita putride, scheletrite, striscianti su da qualche remoto cimitero.
«Due anni or sono lui è entrato nella Torre dell’Alta Magia», disse Astinus con voce calma e spassionata, quando Crysania lo raggiunse accanto alla finestra. «È entrato al buio nel cuore della notte, l’unica luna nel cielo era la luna che non emana luce. Ha attraversato il Boschetto di Shoikan, una macchia di querce maledette, alla quale nessun mortale osa avvicinarsi. Ha raggiunto i cancelli sui quali era ancora conficcato il corpo del mago malvagio che, nell’estremo rantolo della morte, aveva lanciato la maledizione sulla Torre dopo essersi lanciato giù dalle finestre più alte ed essersi impalato sulle sbarre acuminate: era rimasto là in basso quasi fosse un temibile guardiano. Ma quando lui è arrivato là, il guardiano si è inchinato a lui, i cancelli si sono aperti al suo tocco, e poi si sono rinchiusi alle sue spalle. E non si sono più aperti in questi ultimi due anni. Lui non se n’è andato e, se qualcuno è stato fatto entrare, nessuno l’ha mai visto. E tu... tu ti aspetti che lui... venga qui?».
«Il Maestro del Passato e del Presente». Crysania scrollò le spalle. «Lui è venuto come è stato predetto».
Astinus la fissò vagamente stupito.
«Conosci la sua storia?».
«Certamente», rispose con calma la chierica, levando per un istante lo sguardo su di lui, per poi rivolgere di nuovo i suoi limpidi occhi in direzione della Torre, che già si era ammantata delle incombenti ombre della notte. «Un buon generale studia sempre il nemico prima d’impegnarsi in battaglia. Conosco Raistlin Majere molto bene, molto bene davvero. E so che verrà stanotte».
Crysania continuò a fissare la spaventevole Torre, il suo mento si sollevò, le sue labbra esangui divennero una linea dritta e uniforme; teneva le mani serrate dietro la schiena.
D’un tratto il volto di Astinus divenne grave e pensieroso, i suoi occhi erano turbati, anche se la sua voce suonò fredda come sempre. «Sembri molto sicura di te stessa, Reverenda Figlia. Come fai a saperlo?».
«Paladine mi ha parlato», rispose Crysania, senza mai distogliere lo sguardo dalla Torre. «In un sogno il Drago di Platino è apparso davanti a me e mi ha detto che il male, un tempo bandito dal mondo, era tornato nella persona di questo stregone dalle Vesti Nere, Raistlin Majere. Ci troviamo a dover fronteggiare un pericolo tremendo, ed è stato affidato a me il compito di prevenirlo». A mano a mano che parlava, la faccia marmorea di Crysania parve divenire liscia come il cristallo, gli occhi grigi erano limpidi e luminosi. «Sarà la prova della mia fede che ho invocato nelle mie preghiere!». Lanciò un’occhiata ad Astinus. «Vedi, ho saputo sin dall’infanzia che il mio destino era quello di compiere qualche grande impresa, qualche grande servizio per il mondo e il suo popolo. Questa è la mia possibilità».
Il volto di Astinus diventava sempre più grave a mano a mano che ascoltava, e perfino più severo.
«È stato Paladine a dirtelo?» chiese a un tratto.
Crysania, forse avvertendo l’incredulità dello storico, increspò le labbra. Ma soltanto una linea sottile comparsa fra le sue sopracciglia fu il segno della sua collera; questo, e una calma ancora più studiata nella sua risposta.
«Mi rincresce di averne parlato, Astinus, perdonami. È stato fra il mio dio e me stessa, e di cose tanto sacre non si dovrebbe discutere. Ho tirato fuori il discorso soltanto per dimostrarti che quest’uomo malvagio verrà. Non potrà farne a meno. Paladine lo condurrà qui».
Le sopracciglia di Astinus si sollevarono talmente che quasi scomparvero tra i suoi capelli ingrigiti.
«Quest’uomo malvagio, come tu lo chiami, Reverenda Figlia, serve una dea potente almeno quanto Paladine: Takhisis, la Regina delle Tenebre! O forse non dovrei dire serve», precisò Astinus, con un sorriso amaro. «Non è da lui...».
La fronte di Crysania ridivenne liscia. «Il Bene redime i suoi», rispose con dolcezza. «Il male si rivolge contro se stesso. Il Bene trionferà di nuovo, come ha fatto nella Guerra delle Lance contro Takhisis e i suoi draghi malvagi. Con l’aiuto di Paladine, io trionferò su questo male come l’eroe, Tanis Mezzelfo, ha trionfato sulla stessa Regina delle Tenebre».
«Tanis Mezzelfo ha trionfato con l’aiuto di Raistlin Majere», disse Astinus, imperturbabile. «Oppure è una parte della leggenda che hai scelto d’ignorare?».
Neppure la più piccola increspatura emotiva alterò la superficie tranquilla e immobile dell’espressione di Crysania. Il suo sorriso rimase fisso, lo sguardo sempre puntato fuori della finestra, sulla strada.
«Guarda, Astinus», disse con voce sommessa. «Ecco che arriva».
Il sole affondò dietro le lontane montagne, il cielo, illuminato dagli ultimi bagliori del tramonto, risplendeva purpureo simile a una gemma. I servi entrarono in silenzio, accendendo il fuoco nella piccola stanza di Astinus. Perfino il fuoco ardeva silenzioso come se lo storico avesse insegnato alle fiamme medesime come mantenere la tranquillità e il riposo nella Grande Biblioteca. Crysania sedeva nuovamente sulla scomoda sedia, con le mani ancora una volta raccolte in grembo. Esteriormente il suo volto era calmo e freddo come sempre. Interiormente, il suo cuore batteva per l’eccitazione che traspariva soltanto da un illuminarsi dei suoi occhi grigi.
Nata dalla nobile e ricca famiglia dei Tarinius di Palanthas, una famiglia antica quanto la città stessa, Crysania aveva ricevuto ogni conforto e ogni beneficio che il denaro e il rango potevano concederle. Intelligente, volitiva, avrebbe potuto facilmente diventare una donna cocciuta e caparbia. Ma i suoi genitori, saggi e amorevoli, avevano attentamente nutrito e potato il forte spirito della figlia, facendolo sbocciare in una profonda fiducia in se stessa. In tutta la sua vita Crysania aveva fatto una sola cosa che aveva addolorato i suoi affezionatissimi genitori. Aveva voltato le spalle a un matrimonio ideale con un nobiluomo giovane e bello dedicando la propria vita al servizio di dei da tempo dimenticati.
Prima aveva ascoltato il chierico Elistan quand’era giunto a Palanthas alla fine della Guerra delle Lance. La sua nuova religione, o forse avrebbe dovuto esser chiamata l’antica religione, si stava diffondendo come un incontrollabile incendio per tutto Krynn, poiché la neonata leggenda supportava questa credenza, che gli antichi dei avessero contribuito a sconfiggere i draghi del male e i loro padroni, i Signori dei Draghi.
Quando era andata a sentir parlare Elistan per la prima volta, Crysania era rimasta scettica. La giovane donna, aveva venticinque anni allora, era cresciuta ascoltando le storie sul modo in cui gli dei avevano inflitto il cataclisma a Krynn, scagliando giù la montagna infuocata che aveva spaccato il suolo, facendo precipitare la sacra città di Istar nel Mare di Sangue. Dopo questo, così aveva riferito la gente, gli dei avevano voltato le spalle agli uomini, rifiutandosi di avere ancora qualcosa a che fare con loro. Crysania era più che disposta ad ascoltare Elistan con cortesia, ma disponeva di molti argomenti per confutare le sue affermazioni.
Quando l’aveva incontrato, era rimasta favorevolmente impressionata. Elistan a quell’epoca era nella pienezza dei suoi poteri. Bello, forte, perfino nei suoi anni di mezzo, pareva uno dei chierici di un tempo che avevano guidato la battaglia, così dicevano le leggende, insieme al poderoso cavaliere, Huma. Crysania già all’inizio della serata aveva trovato motivi per ammirarlo. L’aveva finita inginocchiata ai suoi piedi, piangendo in umiltà e gioia: la sua anima aveva trovato l’ancora che le mancava.
Gli dei non avevano voltato le spalle agli uomini, questo era il messaggio. Erano stati gli uomini a farlo, esigendo nel loro orgoglio ciò che Huma aveva cercato con umiltà. Il giorno seguente Crysania aveva lasciato la sua casa, la sua ricchezza, i suoi servi, i suoi genitori, e il suo fidanzato, per trasferirsi nella piccola casa gelida destinata ad essere il primo nucleo del nuovo tempio che Elistan aveva progettato di edificare a Palanthas.
Adesso, due anni più tardi, Crysania era una Reverenda Figlia di Paladine, una dei pochi eletti che erano stati trovati degni di guidare la chiesa durante le doglie della sua giovinezza. Era stato un bene che la chiesa avesse quel sangue forte e giovane, ed Elistan vi aveva dedicato senza risparmio tutta la sua vita e tutte le sue energie. Adesso pareva che gli dei che lui aveva servito con tanta fedeltà avrebbero presto chiamato il loro chierico al proprio fianco. E quando quel triste evento si fosse verificato, erano in molti a credere che Crysania avrebbe portato avanti la sua opera.
Certo, Crysania sapeva di essere pronta ad accettare la guida della chiesa, ma era sufficiente? Come aveva detto ad Astinus, la giovane chierica aveva da tempo sentito che il suo destino era quello di rendere qualche grande servigio al mondo. Guidare la chiesa attraverso la sua quotidiana routine adesso che la guerra era finita le era parso troppo monotono e mondano. Ogni giorno aveva pregato Paladine perché le assegnasse qualche arduo compito. Aveva promesso d’esser pronta a sacrificare qualsiasi cosa, anche la vita stessa, al servizio del suo amato dio.
E poi era arrivata la sua risposta.
Adesso aspettava in preda a un desiderio talmente ardente da riuscire a malapena a trattenerlo. Non aveva paura, neppure d’incontrare quell’uomo, che si diceva fosse la più potente forza del male che adesso vivesse sulla faccia di Krynn. Se la sua educazione gliel’avesse permesso, il suo labbro si sarebbe arricciato in un sorriso sdegnoso. Quale male poteva mai resistere alla potente spada della sua fede? Quale male poteva penetrare la sua splendente armatura?
Come un cavaliere che cavalcasse in un torneo, con la ghirlanda del suo amore al collo, sapendo che era impossibile patire una sconfitta con quei simboli che fluttuavano al vento, Crysania teneva gli occhi fissi sulla porta, aspettando con ansia il primo squillo di tromba. Quando la porta si aprì le sue mani, fino a quel momento ripiegate tranquille, si serrarono per l’eccitazione.
Bertrem entrò e il suo sguardo andò ad Astinus, che sedeva immobile come un pilastro di pietra su una sedia dura e scomoda accanto al fuoco.
«Raistlin Majere, il mago», annunciò Bertrem. La sua voce cedette sull’ultima sillaba. Forse stava pensando all’ultima volta che aveva annunciato quel visitatore... il giorno in cui Raistlin era stato trovato morente, vomitando sangue sui gradini della Grande Biblioteca. Astinus corrugò la fronte nel constatare la mancanza di autocontrollo di Bertrem, e l’Estetico scomparve attraverso la porta con tutta la rapidità concessagli dalle sue vesti svolazzanti.
Inconsciamente, Crysania trattenne il fiato. Dapprima non vide nulla, soltanto un’ombra, una chiazza d’oscurità sulla soglia, come se la notte stessa avesse preso forma plasmandosi all’interno dell’ingresso. Per lunghi istanti l’ombra restò lì, immobile.
«Entra pure, vecchio amico», disse Astinus impassibile con voce profonda.
L’ombra era delineata da un tremolio di calore – la luce del fuoco si attardava sulle vesti nere, vellutate – e da minuscole scintille, quando il bagliore si rifletteva sulle rune intessute con fili d’argento intorno al cappuccio di velluto. L’ombra divenne una figura, le vesti nere avvolgevano completamente un corpo. Per un breve istante l’unica appendice umana visibile della figura fu una mano sottile, quasi scheletrica, che stringeva un bastone di legno. Il bastone stesso era sormontato da una sfera di cristallo, stretta nella morsa dell’artiglio scolpito di un drago dorato.
Quando la figura entrò nella stanza, Crysania avvertì il brivido gelido della delusione. Aveva chiesto a Paladine un compito difficile... Ma quale grande forza malefica poteva esserci mai da combattere in quella creatura? Adesso che poteva vederla con chiarezza, vedeva un uomo esile, fragile, con le spalle leggermente ricurve, che si teneva appoggiato al bastone mentre camminava, come se fosse troppo debole per muoversi senza il suo aiuto. Crysania conosceva la sua età, adesso doveva avere all’incirca ventotto anni. Ma si muoveva come un essere umano di novant’anni, i suoi passi erano lenti e misurati, perfino esitanti.
Quale prova della mia fede può mai esserci nella conquista di questa disgraziata creatura? Crysania interrogò con amarezza Paladine fra sé. Non ho nessuna necessità di combatterlo. È divorato all’interno dal suo stesso male.
Rivolto verso Astinus, voltando la schiena a Crysania, Raistlin ripiegò all’indietro il suo cappuccio nero.
«Ancora una volta salute a te, Immortale», disse ad Astinus con voce sommessa.
«Salute a te, Raistlin Majere», rispose Astinus senza alzarsi. La sua voce aveva una lieve nota sarcastica, come se spartisse una battuta privata con il mago. Fece quindi un gesto. «Posso presentarti Crysania della Casa di Tarinius?».
Raistlin si voltò.
Crysania rantolò, un terribile dolore al petto costrinse la sua gola a chiudersi, e per un attimo fu incapace di respirare. Spilli aguzzi le trafiggevano crudelmente le punte delle dita e il suo corpo fu colto da gelide convulsioni. Inconsciamente si ritrasse sulla sua seggiola, serrando le mani, affondando le unghie nella pelle divenuta insensibile.
Tutto ciò che poteva vedere davanti a sé erano due occhi dorati che scintillavano dalle profondità del buio. Gli occhi erano come uno specchio dorato, piatti, riflettenti, non rivelavano nulla dell’anima all’interno. Le pupille... Crysania fissò quelle pupille tenebrose rapita nell’orrore. Le pupille all’interno degli occhi dorati avevano la forma di clessidre! E il volto del mago – tirato per la sofferenza, segnato dal dolore d’una esistenza torturata che quel giovane aveva condotto per sette anni, sin da quando le crudeli prove nella Torre dell’Alta Magia avevano infranto il suo corpo e tinto d’oro la sua pelle – era diventato una maschera metallica, impenetrabile, insensibile, come l’artiglio del drago dorato sul suo bastone.
«Reverenda Figlia di Paladine», disse con voce piena di rispetto e, perfino, di reverenza.
Crysania trasalì, fissandolo con stupore. Certo, questo non era ciò che lei si era aspettata.
Però non riusciva ancora a muoversi. Lo sguardo di Raistlin la immobilizzava, e si chiese in preda al panico se non le avesse lanciato un incantesimo. Dando l’impressione di percepire la sua paura, Raistlin attraversò la stanza fermandosi davanti a lei in un atteggiamento che era allo stesso tempo condiscendente e rassicurante. Levando lo sguardo, poté vedere il bagliore del fuoco nel caminetto tremolare nei suoi occhi dorati.
«Reverenda Figlia di Paladine», disse di nuovo Raistlin. La sua voce suadente avvolse Crysania come l’oscurità vellutata delle sue vesti. «Ti trovo in buona salute... spero». Ma adesso percepì in quella voce un sarcasmo cinico e amaro. Questo se l’era aspettato, a questo era preparata. Il suo iniziale tono di rispetto l’aveva colta di sorpresa, ammise con se stessa con rabbia, ma il suo primo istante di debolezza era passato. Alzandosi in piedi, levando gli occhi allo stesso livello dei suoi, strinse inconsciamente con la mano il medaglione di Paladine. Il contatto con quel freddo metallo le diede coraggio.
«Non credo che siamo obbligati a scambiarci inutili amenità sociali», asserì Crysania in modo chiaro e tondo, il suo volto aveva riacquistato la sua gelida calma. «Stiamo impedendo ad Astinus di occuparsi dei suoi studi. Astinus apprezzerà molto se concluderemo la nostra faccenda con alacrità».
«Sono più che d’accordo», disse il mago impaludato di nero con una leggera contorsione del suo labbro sottile che avrebbe anche potuto essere un sorriso. «Sono venuto in risposta alla tua richiesta. Che cosa vuoi da me?».
Crysania sentì che stava ridendo di lei. Abituata sempre al massimo rispetto nei suoi confronti, questo aumentò la sua collera. Lo fissò con occhi grigi e gelidi. «Sono venuta ad avvertirti, Raistlin Majere, che i tuoi disegni malvagi sono ben conosciuti da Paladine. Fai attenzione, altrimenti ti distruggerà...».
«Come?» chiese Raistlin d’un tratto, e i suoi strani occhi avvamparono d’una intensa, strana luce. «Come farà Paladine a distruggermi?» ripeté. «Saette? Inondazioni e fiamme? Forse un’altra montagna di fuoco?».
Fece un altro passo verso di lei.
Crysania si scostò freddamente da lui, arretrando fino alla sua sedia. Aggrappandosi con forza al dorso di duro legno, girò intorno ad essa, poi tornò a voltarsi verso di lui.
«È la tua stessa condanna che beffeggi», gli rispose con calma.
Il labbro di Raistlin si torse ancora di più, ma continuò a parlare come se non avesse udito le sue parole. «Elistan?». La voce di Raistlin divenne un bisbiglio sibilante. «Manderà Elistan a distruggermi?». Il mago scrollò le spalle. «Ma no, certamente no. Stando a tutti i rapporti, il grande e santo chierico di Paladine è stanco, debole e morente...».
«No!» gridò Crysania, poi si morse le labbra, infuriata perché quell’uomo l’aveva pungolata inducendola a esternare i propri sentimenti. Tacque per qualche istante, tirando un profondo sospiro. «I modi di Paladine non vanno discussi o dileggiati», aggiunse poi, con gelida calma, ma non poté evitare che la sua voce si addolcisse in maniera quasi impercettibile. «E la salute di Elistan non ti riguarda».
«Forse m’interesso alla sua salute più di quanto tu ti renda conto», replicò Raistlin con quello che parve a Crysania un sorriso di scherno.
Crysania sentì il sangue pulsarle alle tempie. Nel momento stesso in cui parlava, il mago aveva a sua volta girato intorno alla sedia, avvicinandosi ancor più alla giovane donna. Adesso era talmente vicino a lei che Crysania poteva sentire uno strano, innaturale calore irradiarsi dal suo corpo attraverso le vesti nere. Poteva sentire un profumo lievemente nauseante ma non del tutto spiacevole aleggiare intorno a lui. Un sentore di spezie... d’un tratto si rese conto che si trattava di componenti del suo incantesimo. Il pensiero la fece star male e la disgustò. Stringendo il medaglione di Paladine nella propria mano, i suoi bordi lisci e cesellati che le mordevano la pelle, tornò a scostarsi da lui.
«Paladine mi è apparso in sogno», dichiarò altera.
Raistlin rise.
Pochi erano coloro che avevano udito ridere il mago, e quei pochi che l’avevano udito lo ricordavano per sempre, echeggiante nei loro sogni più tenebrosi. Era sottile, acuto e tagliente come una lama. Negava ogni bontà, si faceva beffe di tutto ciò che era giusto e veritiero, e in quell’istante trafisse l’anima di Crysania.
«Molto bene», lei disse fissandolo con uno sdegno che indurì i suoi luminosi occhi grigi facendoli diventare d’un azzurro acciaio. «Ho fatto del mio meglio per distoglierti da questa strada. Ti ho dato un avvertimento leale. Adesso la tua distruzione è nelle mani degli dei».
D’un tratto, forse rendendosi conto dell’ardimento con cui lei l’affrontava, la risata di Raistlin cessò. Fissandola intensamente, i suoi occhi dorati si strinsero. Poi Raistlin sorrise, un segreto sorriso interiore intriso d’una gioia così strana che Astinus, seguendo la conversazione fra i due, si alzò in piedi. Il corpo dello storico bloccò la luce del fuoco. La sua ombra cadde su entrambi. Raistlin trasalì, quasi allarmato. Accennò a girarsi, lanciando ad Astinus un’occhiata bruciante e minacciosa.
«Attento, vecchio amico», l’ammonì il mago. «Oppure vuoi interferire con la storia?».
«Io non interferisco», rispose Astinus, «come tu ben sai. Sono un osservatore, un documentatore. In ogni cosa sono neutrale. Conosco le tue trame, i tuoi piani, così come conosco le trame e i piani di tutti coloro che hanno respirato quest’oggi. Perciò ascoltami, Raistlin Majere, e fai attenzione al mio ammonimento. Costei è amata dagli dei, come implica il suo nome».
«Amata dagli dei? Ma lo siamo tutti, non è così, Reverenda Figlia?» chiese Raistlin, voltandosi ancora una volta verso Crysania. La sua voce era morbida come il velluto delle sue vesti. «Non sta forse scritto nei Dischi di Mishakal? Non è forse questo che insegna il divino Elistan?».
«Sì», sillabò Crysania, fissandolo con sospetto, aspettandosi altri dileggi. Ma il suo volto metallico era serio, d’un tratto aveva l’aspetto d’un erudito, intelligente, saggio. «Così sta scritto». Crysania esibì un freddo sorriso. «Mi fa piacere sentire che hai letto i sacri Dischi, anche se è ovvio che non hai appreso nulla da essi. Non ricordi quello che viene detto nel...».
Fu interrotta da una sbuffata di Astinus.
«Sono stato distolto dai miei studi per anche troppo tempo». Lo storico attraversò il pavimento di marmo fino alla porta dell’anticamera. «Suonate per chiamare Bertrem quando sarete pronti ad andarvene. Arrivederci, Reverenda Figlia. Arrivederci... vecchio amico».
Astinus aprì la porta. Il pacifico silenzio della biblioteca fluì dentro la stanza, avvolgendo Crysania d’una corroborante frescura. Sentì che recuperava il controllo di sé e si rilassò. La sua mano lasciò andare il medaglione. Rivolse un inchino graziosamente formale ad Astinus, così come fece Raistlin. Poi la porta si chiuse dietro lo storico. I due furono soli.
Per lunghi istanti nessuno dei due parlò. Poi Crysania, sentendo il potere di Paladine scorrerle attraverso il corpo, si voltò verso Raistlin. «Avevo dimenticato che siete stati tu e quelli che erano con te a recuperare i sacri Dischi. È naturale che tu li abbia letti. Vorrei discuterli ulteriormente con te ma, d’ora in avanti, in qualunque futuro rapporto possa esserci tra noi, Raistlin Majere», gli disse con la sua fredda voce, «ti chiederò di parlare di Elistan con maggior rispetto. Egli...».
S’interruppe stupefatta, osservando allarmata il corpo del mago che pareva sbriciolarsi davanti ai suoi occhi.
Scosso da accessi di tosse, stringendosi il petto, Raistlin annaspò per riuscire a respirare. Barcollò, e se non fosse stato per il bastone a cui si appoggiava, sarebbe caduto sul pavimento. Dimenticando la sua avversione e il disgusto, reagendo d’istinto, Crysania tese le braccia e, appoggiandogli le mani sulle spalle, mormorò una preghiera guaritrice. Sotto le sue mani le vesti nere erano morbide e calde. Poté sentire i muscoli di Raistlin contorcersi in preda agli spasimi, avvertì il suo dolore e le sue sofferenze. La pietà riempì il suo cuore.
Raistlin si sottrasse al suo tocco con uno scatto, spingendola via. Gradualmente la sua tosse si calmò. Quando fu in grado di respirare di nuovo liberamente, la guardò con disprezzo.
«Non sprecare le tue preghiere per me, Reverenda Figlia», disse in tono amaro. Tirò fuori dalle sue vesti un morbido panno, si sfregò le labbra, e Crysania vide che si macchiava di sangue. «Non c’è cura per la mia malattia. Questo è il sacrificio, il prezzo che ho pagato per la mia magia».
«Non capisco», lei mormorò. Le sue mani si contrassero ricordando vividamente la levigatezza morbida e vellutata delle vesti nere e, inconsapevolmente, serrò le dita dietro la schiena.
«Davvero non capisci?» le chiese Raistlin, fissandola nelle profondità della sua anima con i suoi strani occhi dorati. «Qual è stato il sacrificio che hai fatto per il tuo potere?».
Un debole rossore, appena distinguibile alla luce del fuoco morente, tinse le guance di Crysania di sangue, proprio come ne erano tinte le labbra del mago. Allarmata da questa invasione del suo essere, Crysania distolse lo sguardo dal mago volgendo ancora una volta gli occhi verso la finestra. La notte era scesa sopra Palanthas. La luna d’argento, Solinari, era un gancio luminoso nel cielo buio. La luna rossa, la sua gemella, non era ancora sorta. La luna nera – si sorprese a chiedersi Crysania – dov’è? Lui riesce davvero a vederla?
«Devo andare», disse Raistlin, il respiro gli usciva raschiante. «Questi spasimi m’indeboliscono. Ho bisogno di riposo».
«Certo». Crysania si sentiva di nuovo calma. Con tutti i fili delle sue emozioni non più aggrovigliati ma disposti in bell’ordine, tornò a voltarsi per affrontarlo. «Ti ringrazio per essere venuto...».
«Ma la nostra faccenda non è conclusa», disse Raistlin con voce sommessa. «Vorrei una possibilità per dimostrarti che le paure dei tuoi sono senza fondamento. Ho un suggerimento. Vieni a farmi visita nella Torre dell’Alta Magia. Là mi vedrai in mezzo ai miei libri e capirai i miei studi. Quando l’avrai fatto, la tua mente si tranquillizzerà. Come ci viene insegnato dai Dischi, noi temiamo soltanto ciò che ignoriamo». Si avvicinò a lei di un altro passo.
Sbalordita da quella proposta, Crysania spalancò gli occhi. Cercò di allontanarsi da lui ma, inavvertitamente, si era lasciata intrappolare accanto alla finestra. «Non posso venire... nella Torre», disse balbettando, mentre la sua vicinanza la soffocava, rubandole il respiro. Cercò di girargli intorno, ma lui mosse leggermente il proprio bastone, bloccandole la strada. Freddamente, lei continuò: «Gli incantesimi lanciati sopra di essa tengono tutti fuori...».
«Salvo coloro che io scelgo di far entrare», bisbigliò Raistlin. Ripiegando il panno chiazzato di sangue, tornò a infilarlo in una tasca segreta della sua veste. Poi allungando un braccio prese la mano di Crysania.
«Come sei coraggiosa, Reverenda Figlia», commentò. «Non tremi al mio tocco malefico».
«Paladine è con me», rispose Crysania, sprezzante.
Raistlin sorrise, un sorriso caldo, tenebroso e segreto... un sorriso per loro due soltanto. Ciò affascinò Crysania. Lui l’attirò vicino a sé, poi lasciò cadere la sua mano. Appoggiò il bastone alla sedia, tese le braccia e le prese la testa fra le esili mani, appoggiando le dita sul suo bianco cappuccio. Adesso Crysania tremò al suo tocco, ma non poteva muoversi, non poteva parlare o fare qualunque altra cosa se non fissarlo in preda a un’incontrollabile paura che non riusciva né a reprimere né a capire.
Tenendola con mano ferma, Raistlin si sporse in basso e sfregò le proprie labbra chiazzate di sangue sulla sua fronte. Mentre lo faceva, farfugliò strane parole. Poi la lasciò andare.
Crysania inciampò e quasi cadde per terra. Si sentiva debole e stordita. Portò la mano alla fronte dove il tocco delle sue labbra le penetrava bruciante nella pelle, causandole un dolore lancinante. «Che cos’hai fatto?» gridò con voce rotta. «Non puoi lanciare un incantesimo su di me! La mia fede protegge...».
«Naturalmente». Raistlin ebbe uno stanco sospiro, con un’espressione di dolore nel suo viso e nella sua voce, il dolore di qualcuno che viene sempre sospettato, frainteso. «Ti ho soltanto dato un incantesimo che ti permetterà di passare attraverso il Boschetto di Shoikan. Il percorso non sarà facile». Il suo sarcasmo tornò. «Ma indubbiamente la tua fede ti sosterrà!».
Riabbassandosi il cappuccio sugli occhi, il mago rivolse in silenzio un inchino a Crysania, la quale riuscì soltanto a fissarlo, poi s’incamminò verso la porta con passi lenti ed esitanti. Allungando una mano scheletrica, tirò il cordone del campanello. La porta si aprì e Bertrem comparve così in fretta e all’improvviso da far intuire a Crysania che doveva aver sostato fino ad allora appena fuori della porta. Le sue labbra si strinsero. Lanciò all’Estetico un’occhiata così furente e imperiosa che l’uomo impallidì visibilmente, anche se del tutto inconsapevole del crimine che aveva commesso, e si asciugò la fronte luccicante con la manica della sua veste.
Raistlin fece per andarsene, ma Crysania lo fermò. «Mi... mi scuso per non essermi fidata di te, Raistlin Majere», disse con voce sommessa. «E, ancora una volta, ti ringrazio per essere venuto».
Raistlin si voltò. «Ed io mi scuso per la mia lingua tagliente», rispose. «Arrivederci, Reverenda Figlia. Se davvero non temi il sapere, allora vieni alla Torre, due notti da questa notte, quando Lunitari farà la sua prima comparsa nel cielo».
«Ci sarò», dichiarò Crysania con voce ferma, osservando con piacere l’espressione di orrore e di choc di Bertrem. Facendo un cenno di saluto con la testa, appoggiò leggera la mano sullo schienale della seggiola scolpita.
Rimasta sola nella stanza calda e silenziosa, Crysania si genuflesse davanti alla sedia. «Oh, grazie, Paladine!» bisbigliò sommessa. «Accetto la tua sfida. Non ti deluderò! Non ti deluderò!».
3Libro Primo
Capitolo primo
Alle sue spalle poteva udire il rumore di piedi artigliati che raschiavano in mezzo alle foglie della foresta. Tika divenne tesa, ma cercò di comportarsi come se non avesse udito, inducendo la creatura ad avanzare ancora verso di lei. Con fermezza serrò la spada nel pugno. Il suo cuore batteva. Il rumore di passi si avvicinava sempre più, poteva udire l’aspro respiro. Una mano artigliata le cadde sulla spalla. A quel tocco minaccioso, Tika si girò di scatto, fece roteare la propria spada e... un vassoio pieno di boccali cadde sul pavimento con uno schianto.
Dezra strillò e balzò indietro allarmata. I clienti seduti al bancone esplosero in rauche risate. Tika sapeva che la sua faccia doveva essere rossa come i suoi capelli. Il cuore le batteva. Le mani le tremavano.
«Dezra», disse Tika, con freddezza, «hai tutta la grazia e il cervello di un nano di fosso. Tu e Raf dovreste scambiarvi i posti. Tu porterai fuori la spazzatura e lascerò che sia lui a servire ai tavoli!».
Dezra sollevò lo sguardo da dove si era inginocchiata, intenta a raccogliere i pezzi dei boccali frantumati, che galleggiavano in un mare di birra. «Forse dovrei!» gridò piangendo la cameriera, buttando di nuovo i pezzi sul pavimento. «Servi tu stessa ai tavoli... oppure è al di sotto di te, adesso, Tika Majere, Eroina delle Lance?».
Lanciando a Tika un’occhiata ferita, Dezra si alzò in piedi, scostò con un calcio il vasellame rotto, e uscì di corsa dalla locanda.
Quando la porta d’ingresso si spalancò con un colpo secco, urtò con forza il telaio, strappando una smorfia a Tika la quale immaginò i graffi sul legno. Parole taglienti le salirono alle labbra, ma si morse la lingua, sapendo che se lo avesse fatto più tardi se ne sarebbe dispiaciuta.
La porta rimase aperta, lasciando che la vivida luce del pomeriggio morente inondasse la locanda. Il bagliore rossastro del sole calante suscitò riflessi dal legno lucidato di fresco del bancone, sfavillando sui bicchieri. Danzò perfino sulla superficie della pozzanghera sul pavimento. Sfiorò stuzzicante i fiammeggianti riccioli rossi di Tika, come la mano di un amante, inducendo parecchi degli ilari clienti a soffocare le loro risate e a fissare quella donna aggraziata con desiderio.
Non che Tika non se ne accorgesse. Ma adesso, vergognandosi della propria collera, sbirciò fuori dalla finestra e vide Dezra che si stava asciugando gli occhi con il grembiule. Un cliente entrò dalla porta aperta, tirandosela dietro e chiudendola. La luce esterna scomparve, lasciando la locanda ancora una volta immersa nella fresca semioscurità.
Tika si sfregò la mano sugli occhi. Che razza di mostro sto diventando? si chiese, piena di rimorsi. Dopotutto non è stata colpa di Dezra. È questa orribile sensazione che provo dentro di me. Vorrei quasi che ci fossero dei draconici contro cui combattere. Per lo meno, allora sapevo cosa temevo, per lo meno allora potevo combattere con le mie stesse mani! Come posso combattere, qui, contro qualcosa che non riesco neppure a nominare?
Delle voci irruppero nei suoi pensieri, reclamando birra, cibo. Le risate tornarono a innalzarsi.
È questo che sono tornata a cercare. Tika tirò su con il naso e se lo pulì con lo straccio del bancone. Questa è casa mia. Questa gente è bella, calda e al posto giusto, come quel sole calante. Sono circondata dalle voci dell’amore: le risate, la buona compagnia, un cane adorante...
Un cane adorante! Tika cacciò un gemito e uscì di corsa da dietro il bancone.
«Raf!» esclamò orripilata, fissando disperata il nano di fosso.
«Birra rovesciata. Me pulire», disse Raf, guardandola e passandosi allegramente la mano sulla bocca per asciugarsela.
Parecchi dei clienti abituali scoppiarono a ridere, ma ce n’erano alcuni, giunti per la prima volta nella locanda, che stavano fissando con disgusto il nano di fosso.
«Usa questo straccio per pulire!» sibilò Tika dall’angolo della bocca, rivolgendo un pallido sorriso ai clienti per scusarsi. Lanciò a Raf lo straccio del bancone e il nano di fosso l’agguantò al volo. Ma si limitò a tenerlo in mano, fissandola con un’espressione perplessa.
«Cosa fare me con questo?».
«Pulisci quello che è stato rovesciato!» lo rimproverò Tika cercando, senza riuscirci, di nasconderlo alla vista dei clienti con la sua lunga camicia svolazzante.
«Oh, me niente bisogno questo», dichiarò Raf in tono solenne. «Me non sporcare bello straccio». Restituito lo straccio a Tika, il nano di fosso tornò a mettersi a quattro zampe e riprese a leccare la birra rovesciata, adesso mescolata al fango portato dentro la locanda dalle scarpe dei clienti.
Con le guance che le bruciavano per il rossore, Tika allungò una mano con uno scatto, afferrò Raf e lo trascinò in piedi, scrollandolo energicamente. «Adopera lo straccio!» gli bisbigliò furibonda. «I clienti stanno perdendo l’appetito! E quando avrai finito voglio che tu pulisca quel grande tavolo vicino al camino. Sto aspettando degli amici e...». Tika s’interruppe.
Raf la stava fissando con gli occhi spalancati, cercando di assimilare quelle complicate istruzioni. In verità, per essere un nano di fosso era eccezionale. Si trovava lì da tre settimane soltanto, e Tika gli aveva già insegnato a contare fino a tre (pochi nani di fosso riuscivano a superare il due) ed era finalmente riuscita ad eliminare la sua puzza. Quella nuova prodezza intellettuale avrebbe fatto di lui un re nel regno dei nani, ma Raf non aveva nessuna ambizione del genere. Sapeva che nessun re viveva come viveva lui, pulendo la birra rovesciata per terra (se era veloce) e portando fuori la spazzatura. Ma c’erano limiti al talento di Raf, e Tika li aveva appena scoperti.
«Sto aspettando alcuni amici e...» cominciò a dire un’altra volta, poi ci rinunciò. «Oh, non ha importanza. Basterà che tu pulisca qui, con lo straccio», aggiunse in tono severo, «poi vieni da me e ti dirò che cosa devi fare ancora».
«Me niente bere?» cominciò a dire Raf, poi colse l’occhiata furibonda di Tika. «Me fare».