Indaco profondo
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Info su questo ebook
Narrativa - racconto lungo (34 pagine) - Una storia che prende spunto dalla vicenda (vera o presunta che sia) della Blue Whale, ovvero dell’influenza che persone con scopi nefandi hanno sulle menti deboli attraverso il web.
Un diario di lucida follia, un legame perverso che niente può spezzare, e l'orrore di essere minuscoli, indifesi, sull'orlo di una squallida allucinazione. Un fratello in fuga dalla realtà, una sorella che ha udito il canto gelido dei pianeti. Un gioco perverso che ha per premio la demenza e la fine del mondo.
Valentino Eugeni, classe 1975, è nato in un piccolo e ridente paese adagiato sul collinare entroterra marchigiano. È autodidatta in tutto, curioso in maniera parossistica, eclettico, eccessivo e innamorato della lettura e gattaro impenitente, come, del resto, Edgar Allan Poe, Howard Philips Lovecraft e Terry Pratchett. Eugeni è giocatore di ruolo da quando esisteva solo D&D prima edizione e si é nutrito di tutto l’immaginario che usciva dalla penna di Weis e Hickman da La sfida dei gemelli a tutte le saghe di Dragonlance e compagnia. Tra i suoi amori letterari Isaac Asimov, Lovecraft, Frank Herbert, Robert Ervin Howard. Ama lo stile crudo e immaginifico di Clive Barker, ma anche Gaiman al quale si ispira molto come stile e idee.
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Anteprima del libro
Indaco profondo - Valentino Eugeni
9788825414646
Citazione
Alghe malate ondeggiano nella vertigine di un acquario dimenticato su una scrivania polverosa. La luce filtra obliqua e stanca da una finestra sporca, e noi siamo pesci accecati con un ferro rovente, ignari delle ombre immani che ci oscurano, che ci dominano, che ci dimenticano nell’acqua putrida.
Questo siamo.
I.
Non voglio.
La codardia sussurra al mio orecchio, nel profondo di me stesso. Vorrei gettarmi tutto alle spalle, fingere che niente sia accaduto e giacere qui finché non sarò più. Ma non posso.
Continuerò a scrivere.
II.
Da quando sono tornato dalla nostra vecchia casa non oso aprire le imposte. Sono chiuso nel mio studio, curvo sulla tastiera, avvolto dai fasci di luce che filtrano dall’esterno. Provo orrore alla loro vista poiché sono l’emblema del tuo rito, la metafora della tua follia e di tutto ciò che hai fatto. Ho sprangato la porta del mio appartamento, un’azione futile e stupida, ma il corridoio grigio del condominio mi dà le vertigini. È pieno di voci trasmesse, posso quasi udirle se smetto di scrivere, e immagino le teste chine e illuminate dagli schermi di ogni abitante: asserviti a te, asserviti a Loro.
Flò vuole attenzioni. La sento miagolare da ore sotto la sedia della mia scrivania mentre batto queste righe. A momenti sono travolto dalla furia e scrivo picchiando i tasti con violenza, a momenti l’apatia mi assale e strappa via da me ogni forza. Lo sento, è tutto collegato. Il vuoto è una sanguisuga invisibile attaccata alle mie arterie, al collo, alle gambe, e assorbe la mia linfa così come deve aver fatto con tutti gli altri.
III.
I tamburi battono nella mia testa. Ritmati, sensuali al limite dell’erotico. È così che comincia. È così che è iniziata anche per te, vero? Fin da bambina tu potevi udirli. Non sono tamburi veri, e nemmeno gli strascichi di una musica udita in sogno, o un ricordo d’infanzia. Sono urti sordi, colpiscono il cuore, il petto, le meningi, e le scuotono. Sono come onde sottomarine, lontane, fischi di balena pervertiti, scremati di ogni bellezza. È il suono dei pianeti, il vibrare cosmico nel vuoto. Un suono che nessuno di noi dovrebbe mai udire. Non qui, non adesso. Eppure è ovunque. Loro non ti vedono, non possono. Siamo come muffa sulle pareti del nulla che è dimora di esseri ciechi e sordi. La luce gelida del monitor mi illumina, mi rende una mezza figura, sospesa tra tenebra e luce al neon. Quando si è fatto buio?
Flò si allontana. Le fauci del corridoio la ingoiano, non miagola più. Povera Flò.
Non oso staccarmi da qui, non oso abbandonare la console. Alle mie spalle le imposte chiuse potrebbero già non esistere più, il vuoto assoluto potrebbe essere già qui, avermi ghermito e schiacciato in una minuscola bolla, una sfera di vetro.
– Lasciali stare – ti dicevo.
– Perché? – rispondevi.
– Gli fai male!
– E allora?
– Non è giusto.
E tu ridevi, i tuoi occhi neri si facevano pozzi, la tua piccola bocca di bambina si piegava in un modo osceno. – Non importa a nessuno – Dicevi fissandoli, e le tue scarpette rosse schiacciavano le lucenti teste boccheggianti.
IV.
Ho tentato di cancellare tutte le tracce, e questo ha consumato l’ultima scintilla di me, mi ha reso un lumicino tremolante. Non sono