Tutti i suoni del silenzio
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Fantascienza - romanzo breve (63 pagine) - Finalmente anche i poveri potranno avere accesso agli impianti di connessione mentale. Ma se non fosse esattamente un regalo?
Nella Megalopoli Nord America, uno dei nove megaconglomerati nei quali l'umanità vive dopo la Guerra Cibernetica, la sicurezza e l'efficienza sono massime, grazie agli impianti: dispositivi di connessione mentale così pratici e utili da essere inseriti alla nascita. Sono in pochi "disadattati" a non averli, a causa di reazioni di rigetto o della povertà, e per loro il governo vara una campagna di impianti di massa. La giovane bibliotecaria Alicia è una "disadattata", e grazie all'incontro con il musicista di strada Derek si accorge che la campagna governativa è meno benevola di quanto sembri… e che il silenzio ha un suo prezzo, ma anche un suo senso.
Un racconto di fantascienza sociale classica, a firma della traduttrice del fantastico Annarita Guarnieri: il primo che Guarnieri pubblica singolarmente e non in antologia.
Triestina di nascita ma residente nel pavese, Annarita Guarnieri è una delle più note traduttrici italiane nel settore della fantascienza. Liceo Classico, laurea in Giurisprudenza, lavora nell’editoria dal 1979. Come scrittrice ha pubblicato con InknbeansCats: Instructions for Use, or how to survive being owned by a cat e The Importance of Being Shine, biografia del suo pastore belga narrata in prima persona. Traduce per Fanucci, Delos Digital, Elara e Urania. Divorziata, con due figlie ormai adulte e una splendida nipotina, vive sulle colline dell’Oltrepò pavese con i suoi gatti e una gallina.
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Anteprima del libro
Tutti i suoni del silenzio - Annarita Guarnieri
gallina.
Il silenzio urla nella mia anima,
Dove un tempo esso echeggiava
Come una tacita musica
Che avevo dominato;
Il silenzio urla nella mia anima,
Infrangendo la quiete
Che avevo costruito
Per tenere a bada la vita.
Il Silenzio… questo mio antico amico
È ora il mio nemico più accanito,
Perché nelle sue urla
Odo voci incalzanti che mi rammentano
Che la vita, futura o passata,
Non può essere elusa a lungo,
Che deve essere affrontata,
Qualunque sia il prezzo.
(12/89)
Parte prima
Si avvicina la tempesta
Alicia oltrepassò le porte di vetro della biblioteca alla fine della giornata di lavoro. Fuori c’era ancora un po’ di luce diurna, perché la stagione cominciava a cambiare e l’aria aveva perso il suo gelo invernale. Si fermò per un momento, poi salì sul marciapiede mobile che l’avrebbe portata verso la Skyway e a casa.
Era l’ora di punta, e tutti si affrettavano verso casa o i posti dove intendevano passare la serata, con le auto che scorrevano quasi silenziose sulle sospensioni gravomagnetiche e le aeromobili che solcavano il cielo con un rombo basso, come di un tuono lontano.
La Skyway stessa – quel lungo tubo trasparente nel quale le vetture del trasporto pubblico saettavano attraverso un vuoto pneumatico da una stazione all’altra – creava un’intricata ragnatela al di sopra della Megalopoli Nord America, collegando il centro con i suburbi e generando un sibilo sommesso, ma costante.
Lì in centro, la vegetazione scarseggiava: c’erano solo alti edifici di vetro e acciaio, uno dopo l’altro, e naturalmente non c’erano uccelli che intrecciassero i loro voli nel cielo intasato di traffico.
Alicia era impaziente di lasciarsi tutto questo alle spalle per arrivare alla quieta area suburbana dove viveva. Salì sul marciapiede scorrevole diretto a est e frugando intanto nella borsa si tenne a destra per lasciare che chi andava di fretta la oltrepassasse. Come al solito, quando arrivò all’angolo fra la Main e la Seconda Strada lasciò cadere alcune monete nel cappello che un musicista di strada aveva posato per terra, appena fuori della Corner Cafeteria.
L’uomo, che sembrava avere una sessantina d’anni, sedeva lì ogni giorno e suonava la sua logora chitarra per chiunque gli desse qualcosa. Le sue erano melodie molto antiche… Alicia non sapeva neppure quanto, sapeva solo che le piacevano perché la inducevano a pensare a tempi più semplici – e forse migliori – e le facevano dimenticare per un momento quello che non poteva sentire, mentre si perdeva nelle loro note. Come al solito, il suo sguardo indugiò sul musicista, mentre lui la ringraziava con un cenno silenzioso del capo, senza mai distogliere lo sguardo dalle agili dita che scorrevano fluide sulle corde.
Poi il marciapiede la trascinò via e di lì a poco entrò nel cilindro dell’ascensore che la portò alla sovrastante stazione della Skyway. Mentre saliva, vide la Megalopoli allargarsi sotto di lei, con le superfici di vetro e metallo splendenti dei toni rosso e oro del tramonto… sembrava quasi bella, non l’alveare brulicante di attività che era in realtà, pieno di persone che spesso le ricordavano insensate formiche che corressero avanti e indietro senza uno scopo effettivo.
Si riscosse da quei pensieri quando arrivò alla stazione, un centinaio di metri al di sopra della strada, ed entrò nella carrozza aerodinamica che le si fermò davanti con un sibilo di aria smossa. Un momento più tardi viaggiava a velocità elevata attraverso il tubo trasparente, con aeromobili che saettavano su ambo i lati lungo le loro corsie aeree.
Tenne lo sguardo fisso sul finestrino, contemplando quel traffico aereo senza vederlo davvero… cosa molto più facile che affrontare gli sguardi degli altri passeggeri, che ormai l’avevano di certo identificata per il fenomeno da baraccone che era.
Una disadattata. Qualcuno che non si sarebbe mai potuto connettere con loro nel modo in cui il mondo moderno esigeva che tutti facessero.
Perché nell’anno 2213 tutti gli abitanti della Megalopoli che potevano permetterselo – il che includeva all’incirca i due terzi della popolazione – venivano dotati dell’impianto mentale che aveva reso obsoleta la maggior parte dei congegni elettronici del passato – come smartphone, tablet e mp3 – riducendo al tempo stesso i computer a un ruolo di poco superiore a quello di una macchina da scrivere incrociata con un congegno per l’immagazzinamento di dati.
Notizie, home banking, mail, chat, social network… tutto passava dagli impianti mentali, che ormai venivano applicati alla maggior parte dei neonati come procedura standard.
Come era stato applicato a lei entro il suo primo mese di vita. Fin dall’inizio era stato chiaro che c’era qualcosa che non andava… l’impianto funzionava correttamente, ma lei non riusciva a connettersi con nessuno, neppure con i suoi genitori: a quanto pareva, era uno di quei rari casi di regressione genetica in cui il cervello non accettava l’impianto e non ne registrava neppure la presenza. Al massimo, quando intorno c’erano molte persone riusciva a cogliere una sorta di vago rumore da qualche parte nella sua testa, ma questo era tutto.
Questo la rendeva una disadattata, un fenomeno da baraccone, perfino agli occhi dei suoi stessi genitori, che dopo aver cercato istintivamente di connettersi con lei innumerevoli volte senza riuscirci avevano finito per ignorarla completamente. Non aveva amici… perché adesso la maggior parte delle amicizie era virtuale, sui social network… e poteva considerarsi fortunata che suo padre – attraverso i suoi contatti – le avesse trovato un lavoro come archivista presso la Biblioteca Centrale, anche se lo aveva fatto solo per renderla indipendente in modo che lui e sua moglie potessero finalmente liberarsi di lei. Non era un impiego importante, ma essendo considerata una disabile non poteva permettersi di avere grandi aspirazioni, e comunque il lato positivo del suo lavoro era che le permetteva di tenersi alla larga dagli altri per la maggior parte del tempo, il che era un sollievo, tanto per lei, quanto per loro.
La vettura si arrestò con un sussulto, strappandola alle sue riflessioni. Si guardò intorno, ma non era ancora la sua fermata. Un paio