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Padri e figli
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E-book281 pagine4 ore

Padri e figli

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Info su questo ebook

Tra le più acclamate opere russe del XIX secolo e la più famosa e importante di Turgenev, "Padri e figli" affronta il nichilismo nella sua accezione atea, materialista, positivista e rivoluzionaria. La tematica verrà ripresa, approfondita, criticata da altri autori russi degli anni Sessanta del XIX secolo in maniera estensiva. L'opera scatenò diverse polemiche in Russia e all'estero, che costrinsero Turgenev a dare spiegazioni e, di fatto, a diradare la sua attività letteraria.
LinguaItaliano
Data di uscita7 gen 2021
ISBN9788833467658
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    Anteprima del libro

    Padri e figli - Ivan Turgheniew

    Pubblicato da Ali Ribelli

    Direttore di redazione: Jason R. Forbus

    In copertina: Nikolaj Ge, Golgota, 1893, Olio su tela, Mosca, Galleria Tretjakov

    www.aliribelli.com – [email protected]

    Ivan Turgheniew

    Padri e figli

    Traduzione e prefazione di Federigo Verdinois

    Sommario

    IVAN TURGHENIEFF

    PREFAZIONE

    PADRI E FIGLI

    I.

    II.

    III.

    IV.

    V.

    VI.

    VII.

    VIII.

    IX.

    X.

    XI.

    XII.

    XIII.

    XIV.

    XV.

    XVI.

    XVII.

    XVIII.

    XIX.

    XX.

    XXI.

    XXII.

    XXIII.

    XXIV.

    XXV.

    XXVI.

    XXVII.

    XXVIII.

    IVAN TURGHENIEFF

    Giovanni Sergio Turghenieff fu uno dei maggiori romanzieri russi. Nato a Orel nel 1818, studiò successivamente a Mosca e a Pietroburgo, recandosi infine a perfezionarsi all’Università di Berlino.

    Aveva venti anni allora, e la conoscenza delle istituzioni libere e civili che trovava all’estero, gli ispirò orrore ed esecrazione per il tirannico regime sotto cui soffocava la sua patria infelice.

    Noi giovani, dal pensiero all’azione è facile e rapido il trapasso; ond’egli, non potendo combattere con le armi gli oppressori della Russia, si diede a combatterli con la penna. E una battaglia furono le Memorie di un cacciatore, da lui scritte a Berlino intorno al 1840 e incominciate a pubblicare soltanto nel 1847.

    La gioventù colta non aveva allora in Russia altra via aperta che quella dei pubblici impieghi. Turghenieff, reduce in patria nel 1841, fu assunto al Ministero degli Interni. Ma il suo cuore era altrove. La letteratura lo chiamava con voce di passione. Si provò alla poesia: non fu una rivelazione. Una rivelazione furono invece alcune sue novelle pubblicate in varie riviste e quella serie di bozzetti di vita rurale scritti a Berlino e venuti in luce tra il ’47 e il ’51, che costituirono appunto le famose Memorie di un cacciatore.

    Dal 1854 Turghenieff trascorse la maggior parte della sua vita all’estero, specialmente in Francia, ove ebbe amici carissimi. Ma la Russia gli fu sempre presente alla memoria e l’amore per la patria lontana gli ispirò le sue opere più belle: Dmitri Rudin (1856); Una nidiata di gentiluomini (1859); Padri e figli (1860), il cui protagonista Bagarof è il primo tipo di nichilista comparso nella letteratura russa; Fumée (1866); e Terre vergini (1876), in cui riappare il tipo del nichilista cospiratore.

    Oltre il romanzo, coltivò la novella e il poema in versi e in prosa. Fra le novelle sono note, perchè tradotte anche nella nostra lingua: Primo amore; Il re Lear della steppa; Acque di primavera, ecc., disperse in edizioni popolari e presso che introvabili ormai.

    Turghenieff ha meno potente immaginativa di Tolstoi, ma è un artista più finito. La sua forma è impeccabile ed egli le attribuisce tanta importanza quanta nessun altro scrittore suo compatriota.

    E. F.

    PREFAZIONE

    Nessuna opera d’arte ebbe, come questa, tanta fortuna di violenti attacchi, quando uscì per la prima volta nel 1860, e più tardi ancora. Gli alti strati sociali si sollevarono di sdegno, i bassi fondi ribollirono; la critica, paurosa e piaggiatrice dei più, scagliò all’autore ogni più abbietta calunnia, ogni più velenosa contumelia. Piaceva all’aristocrazia il ritratto parlante della democrazia, mentre i democratici, dal canto loro, trovavano stupenda la satira contro i parrucconi. Ciascuno, in somma, accettava quella metà di libro che non lo riguardava: e così anche il libro era dilaniato come l’autore.

    Naturalmente, il romanzo fu proibito in Russia: la stessa sorte avrebbe avuta, se pure non avesse sollevato una così fiera tempesta. Che cosa in Russia non si proibisce? L’Indice dello Zar è più rigoroso di quello del Sacro Collegio. Autori nazionali e stranieri, poeti e scienziati, storici e romanzieri, statisti e teologi, filosofi e naturalisti, – il bando li coglie tutti alla rinfusa. Ciò vuol dire che lo Zar ha una stima grande della stampa, al contrario di quanto accade in Italia, dove per la stampa si ha così poco riguardo che la si lascia dire tutto quel che vuole. Sul gran mercato librario di Lipsia non passa giorno che non si spacci una novità letteraria o scientifica, v’Rassii zaprescenà (proibita in Russia). È un artifizio molto usato per stuzzicare la curiosità dei lettori. I lettori abboccano all’amo e, dopo aver divorato il libro, cercano studiosamente il segreto motivo della proibizione. E non lo trovano quasi mai.

    Ma anche senza la feroce critica della imperial revisione, il libro del Turgheniew sarebbe salito in fama. L’arte vera non abbisogna per emergere di superlativi che la esaltino o la deprimano. Sta da sè, splende di luce propria. Se tutti gli uomini si accordassero a dire che è notte quando c’è il sole, è molto probabile che il sole seguiterebbe ad essere quello che è: e così pure se mai sentissero il bisogno di magnificarne la luce.

    Il valore sostanziale del libro del Turgheniew è nella sua verità umana e nella larghezza del concepimento. Benchè vi abbondi il così detto color locale, bisogna pensare che il cuore umano non è piuttosto russo che tedesco o scozzese: ma è lo stesso sempre. È certo che quei padri e quei figli che l’autore trae sulla scena si trovano anche da noi in occidente; sia perchè tutto il mondo è paese, sia perchè oggi non ci può essere limitazione regionale delle idee, e queste involgono la terra come in un’atmosfera: la materia grigia si equilibra nei cervelli come il liquido nei varî recipienti messi in comunicazione: e che comunicazione! l’elettrico, che è più rapido della luce, la stampa che è più fulminea dell’elettrico.

    Il fatto è che da un pezzo in qua l’angustia delle dispute politiche è soverchiata dalla grandiosità terribile delle questioni sociali; e sull’une e sull’altre incombe un problema morale che tanto più incalza quanto più sordi si diventa al suo stimolo, quanto meno la fiacca indifferenza degli animi vuole esserne scossa. Se ciò sia un bene od un male, lo sapremo forse dopo; ma certo nessuno può oggi disconoscere la virilità poderosa della generazione che se ne va di fronte alla fiaccona di quella che si dispone a prenderne il posto. I giovani, che non incanutiscono prima del tempo, nell’anima e nel corpo, si contano sulle dita; e la maggior parte dei vecchi serbano ancora i sacri entusiasmi e le baldanze giovanili.

    È possibile che l’autore non sia stato affatto imparziale, elevandosi a giudice fra due generazioni: a momenti, anzi, si potrebbe sorprenderlo in flagranza di predilezione verso i vecchi. Veda il lettore da sè; perchè qui non gli si vuol togliere il gusto dell’inaspettato, nè d’altra parte il lettore di cose letterarie aspetta un’opinione bell’e fatta, come pare che accada spesso ai lettori di cose politiche. Importa notare quel che s’è detto più sopra: cioè che l’autore ha preso a ritrarre il cuore umano e alcuni caratteri generali della società contemporanea, in un momento e in un paese in cui l’invasione delle idee nuove è costante, e che, sforzandosi di averne delle proprie, ne piglia volentieri dagli altri, ieri da Hegel, oggi da Schopenhauer e da Nietzsche, domani non si sa da chi e di dove. Il domani, dicono i giovani, è nostro; e lo affrettano assai più col desiderio che con l’azione concludente; e intanto il domani arriva e li trova vecchi. «Demain c’est la grand’chose....»

    Il traduttore di questo libro si è trovato davanti ad una enorme difficoltà: ed è stata questa che il Turgheniew è, come tutti i grandi artisti, uno scrittore individuale, caratteristico, col suo stile e il suo colorito. Di altre difficoltà minori non si parla. Non ha voluto, naturalmente, entrare in una lotta impari e vana con l’autore, com’era moda al tempo in cui le traduzioni si chiamavano le «belle infedeli». Ha cercato il giusto mezzo tra l’eleganza traditrice e l’arida servilità. Si è studiato, rispettando il carattere del testo, di non mettervi nulla del proprio

    Doris amara suam non intermisceat undam....

    e finalmente ha cercato di presentare i russicismi in veste italiana, tra per non confondere il lettore con note spiegative, tra perchè, secondo lui, non ci sono lingue povere e lingue ricche e le medesime cose in qualunque lingua si possono dire. Di più in uno scrittore come il Turgheniew il color locale non dipende dalla frase ma è tutto nella sostanza.

    Comunque questa versione sia riuscita il traduttore è sicuro che le persone di cuore e d’ingegno gli sapranno grado di aver loro fatto conoscere un’opera magistrale, e fra le più vive per dipintura di caratteri e di passioni, di una letteratura educatrice ed originale, in un momento in cui pochi scrittori si curano di pensare con la testa propria e il così detto realismo coopera efficacemente alla scostumatezza nazionale.

    Maggio 1908.

    F. Verdinois

    PADRI E FIGLI

    I.

    – Che c’è, Pietro? niente ancora si vede? – domandava il 20 maggio 1859, uscendo senza berretto sulla bassa scalinata dell’albergo sulla strada maestra di...., un signore sui quaranta, in soprabito polveroso e calzoni a scacchi, al suo domestico, ometto giovane e paffuto, dalla peluria bianchiccia sul mento e dagli occhi foschi.

    Il domestico, nel quale e le turchine agli orecchi e i capelli fragranti di pomata e il portamento affettato, tutto insomma, rivelava un domestico progredito, si affrettò a guardare. lungo la strada e rispose:

    – Niente ancora si: vede.

    – Niente? – ripetè il padrone.

    – Niente, – tornò a dire il domestico.

    Il padrone trasse un sospiro e si mise a sedere sopra un banco, ritirando a sè le gambe e guardando intorno, tutto pensoso.

    Presentiamolo intanto al lettore.

    Aveva nome Nicola Petrovic Kirsanow, e possedeva un discreto fondo, a quindici verste dall’albergo, di duecento «anime» o, come egli esprimevasi dopo essersi accordato coi contadini, una «fattoria» di duemila ettari. Suo padre – un brav’uomo tagliato alla grossa, burbero e valoroso generale del 1812 – aveva prima comandato una brigata, poi una divisione, vivendo sempre in provincia, dove la mercè del grado era passato per una persona notevole. Nicola Petrovic – come il fratello Paolo, di cui parleremo; appresso – era nato nella Russia meridionale e fino ai 14 anni era stato educato in casa, in mezzo a mediocri pedagoghi e ad ufficiali di varie armi, stato maggiore e intendenza, che, su per giù, si rassomigliavano tutti in una loro disinvolta servilità. La madre, da ragazza Agata Koliezin, apparteneva al numero delle «mamme comandanti», portava vistosi cappellini e fruscianti abiti di seta, precedeva tutti in chiesa al bacio della croce, discorreva molto e forte, ammetteva la mattina i figliuoli al baciamano, li benediceva la sera.... era insomma la sopracciò del capoluogo. Quale figlio di generale, Nicola Petrovic – benchè non fosse il coraggio personificato ed anzi si acquistasse il nomignolo di poltroncino – doveva, come il fratello Paolo, entrare in servizio; ma il giorno stesso della nomina si ruppe una gamba e, dopo due mesi di letto, rimase per tutta la vita un po’ zoppo. Il padre, non avendo di meglio a fare, lo mandò a Pietroburgo perchè frequentasse i corsi universitari. In quel frattempo il fratello Paolo usciva ufficiale nel reggimento della guardia. I due giovani dimorarono insieme sotto la remota tutela di uno zio cugino dal lato materno, un pezzo grosso nelle sfere governative. Il padre tornò alla sua divisione e alla consorte, e solo tratto tratto spedì ai suoi figliuoli certi fogliacci illeggibili, con in fondo tanto di firma pomposa: «Pie tro Kirsanow, maggior generale».

    Nel 1835 Nicola Petrovic uscì col titolo di candidato dall’Università, e l’anno stesso il generale Kirsanow, messo a riposo dopo una malaugurata ispezione, venne con la moglie a fissarsi a Pietroburgo. Prese a pigione un quartiere verso il giardino della Tauride e s’iscrisse al circolo inglese. Se non che un colpo apoplettico lo fulminò.

    Agata non istette molto a tenergli dietro: non le andava a versi la vita della capitale; il cruccio di un’esistenza isolata la distrusse. Nicola intanto, viventi ancora i genitori e con sommo loro dispetto, s’era innamorato della figliuola di un tal Prepolovenski, impiegato, già loro, padrone di casa. La ragazza era belloccia e, come si suol dire, piuttosto sciolta: basti dire che nei giornali leggeva soltanto gli articoli serii nella rubrica «Scienze». La menò in moglie, non appena scaduto il lutto e, lasciando il ministero delle pensioni dove era entrato la mercè della protezione paterna, visse felice con la sua Masoia prima in campagna presso l’Istituto agrario, poi in città, in un grazioso quartierino dalla scala pulita e dal salottino un p’ fresco; finalmente tornò in campagna e vi si fissò, felicitato di lì a poco dalla nascita di un bambino, Arcadio. Gli sposi se la godevano: leggevano insieme, suonavano a quattro mani il pianoforte, cantavano duetti, nè c’era caso che si bisticciassero. Mascia piantava fiori e badava alla corte; il marito andava tratto tratto a caccia e si occupava della campagna. In mezzo a questa pace veniva su Arcadio. Dieci anni volarono come un sogno.

    Nel ’47 Mascia morì. Nicola n’ebbe tal colpo che in poche settimane si fece grigio. Voleva andare all’estero per distrarsi.... e ci sarebbe andato se non fosse venuto il ’48. A malincuore tornò in campagna e, dopo un ozio piuttosto lungo, si dedicò a introdurre delle riforme nella proprietà.

    Nel ’55 condusse il figliuolo all’Università; passò con lui tre inverni a Pietroburgo, non uscendo quasi mai e, studiandosi di far conoscenza coi giovani compagni di Arcadio. L’ultimo inverno non era potuto andare, – ed ecco che lo vediamo nel maggio 1859, già tutto grigio, obeso e un po’ curvo. Egli aspetta il figliuolo che ha ottenuto, com’egli stesso un tempo, la sua brava patente di candidato.

    Il servo, tra per rispetto, tra per non stare sotto gli occhi del padrone, si allontanò dalla porta e si accese la pipa. Nicola Petrovic, abbassato il capo, fissava i vecchi scalini smussati; un pollastro grasso e screziato, gravemente gli passeggiava davanti, stampando forte in terra le zampe gialle; un gatto sudicio, accoccolato sulla balaustrata, lo guardava di mal occhio. Ardeva il sole; un odor di pane fresco di segala veniva dalla buia entrata dell’osteria. Il nostro Nicola Petrovic fantasticava.... «Mio figlio.... candidato.... Arcadio....» gli ronzavano per la testa; sforzavasi di pensare a qualcos’altro, e da capo quei pensieri tornavano. Gli veniva a mente la buon’anima della moglie.... «Non volle aspettare!» balbettò con tristezza.... Un piccioncello traversò volando la via e andò a dissetarsi frettoloso ad una pozza accanto alla cisterna. Nicola Petrovic si mise a guardarlo, mentre già nell’orecchio gli suonava confusamente un rumore di ruote....

    – Chi sa che non sia il signorino, – comunicò il servo, mostrandosi di nuovo.

    Nicola Petrovic balzò da sedere e aguzzò gli occhi lontano, in fondo alla strada. Un tarantass apparve, attaccato a tre cavalli di posta; un berretto orlato da studente.... un noto e caro profilo....

    – Arcadio! figlio mio! – gridò il padre, correndo ed alzando le mani....

    Pochi momenti dopo, le labbra di lui si attaccavano alla guancia imberbe ed abbronzata del giovane candidato.

    II.

    – Lascia che mi spolveri, papà, disse Arcadio con voce un po’ rauca ma sonora, rispondendo alle effusioni paterne, – io t’insudicio tutto.

    – Niente, niente, – rispose Nicola Petrovic con un sorriso di tenerezza, e battendo una e due volte con la mano sul bavero di Arcadio e sul proprio soprabito. – Fatti vedere, fatti vedere, – soggiunse indietreggiando d’un passo; e subito dopo, entrando frettoloso nell’osteria, gridò: – Presto, qua, i cavalli, sbrighiamoci!

    Nicola Petrovic sembrava molto più agitato del figlio, si scalmanava, perdeva la testa. Arcadio lo fermò.

    – Papà, – disse, lascia che ti presenti, il mio buon amico, Basarow, del quale t’ho scritto tante volte. È così buono che ha consentito di passar con noi qualche giorno.

    Nicola Petrovic si voltò in fretta e, accostatosi ad un uomo di alta statura con un lungo camiciotto a fiocchi e che proprio in quel punto sbucava dal tarantass, gli strinse forte la mano grossa e rossa, che quegli non gli porse però a primo tratto.

    – Lietissimo, – cominciò, – grato cordialmente alla eccellente intenzione di essere nostro ospite; spero signor.... permettete che vi domandi il vostro nome?

    – Eugenio Vasilew, – rispose Basarow con voce pigra e maschia nel tempo stesso; e arrovesciato il bavero del camiciotto, mostrò tutta intiera la faccia a Nicola Petrovic.

    Era una faccia lunga e magra, sormontata da un’ampia fronte e con un naso schiacciato in su ed aguzzo alla punta: grandi occhi verdastri e folte basette color cenere: animavasi di un tranquillo sorriso ed esprimeva la fiducia e l’intelligenza.

    – Spero, carissimo Eugenio Vasilew, – soggiunse Nicola, che non vi seccherete a casa nostra.

    Le labbra sottili di Basarow si mossero appena, ma non articolarono sillaba. Egli si cavò il berretto. I capelli di un biondo oscuro, lunghi e folti, non nascondevano le pronunciate protuberanze del largo cranio.

    – Sicchè, Arcadio, – riprese a dire Nicola Petrovic voltandosi al figlio, – attacchiamo subito i cavalli, eh? o volete riposarvi?

    – Ci riposeremo a casa, papà. Fa attaccare.

    – Adesso, adesso, – rispose il padre. – Ehi, Pietro, hai inteso? Su, ragazzi, lesti!

    Pietro, il quale da domestico della nuova scuola non era venuto a baciare la mano al signorino limitandosi ad inchinarsi da lontano, scomparve di nuovo di là dalla porta.

    – Ho qui una carrozza, ma pel tarantass c’è tre cavalli, – disse tutto affaccendato Nicola Petrovic, mentre Arcadio si dissetava ad una secchia recatagli dall’ostessa e Basarow, fumando la sua pipa, s’accostava al postiglione che staccava i cavalli; – soltanto che la carrozza non ha che due posti, ed io non so se il tuo amico....

    – Verrà nel tarantass lui, – rispose Arcadio a mezza voce. – Non far complimenti con lui, ti prego. È una perla di ragazzo, alla buona, vedrai.

    Il cocchiere di Nicola Petrovic menò fuori i cavalli.

    – Su, barbone!– gridò Basarow al postiglione, –svelti!

    – Senti, Demetrio, esclamò l’altro postiglione, che se ne stava a guardare con le mani nelle tasche deretane del soprabito; – te l’ha proprio imbroccata il signore! Barbone sei, non c’è che dire.

    Demetrio si contentò di scrollare il berretto e sfibbiò la cinghia al cavallo di mezzo, tutto coperto di spuma.

    – Svelti, ragazzi, svelti! – gridò Nicola Petrovic, – ci sarà da bere per voi!

    In pochi minuti i cavalli freschi furono attaccati; il padre montò col figlio in carrozza e Pietro in serpe; Basarow con un salto fu nel tarantass e puntò la testa contro il cuscino di cuoio. I due equipaggi partirono di galoppo.

    III.

    – E così, – disse Nicola Petrovic, ora battendo sulla spalla ora sui ginocchi di Arcadio, – e così finalmente eccoti candidato e tornato a casa. Finalmente!

    – E lo zio? sta bene? – domandò Arcadio, il quale, benchè contento ed allegro come un ragazzo, voleva dare alla conversazione un tono più calmo e ordinato.

    – Benone. Voleva venire con me ad incontrarti, ma non so più perchè, se n’è rimasto a casa.

    – E tu mi hai aspettato di molto?

    – Cinque, orette buone.

    – Buon papà!

    E così dicendo, Arcadio si volse al padre e gli appioppò sulla guancia un bacio sonoro. Nicola Petrovic rise pianamente.

    – Vedessi che gioia di cavallo t’ho preparato, – soggiunse, – vedrai. E in camera tua, tutti i parati nuovi!

    – E c’è anche per Basarow una camera?

    – La si troverà anche per lui, non dubitare.

    – Senti, papà, trattalo per benino. Non ti so dire a che punto apprezzo la sua amicizia.

    – L’hai conosciuto da poco?

    – Da poco.

    – Ecco perchè non l’ho visto l’altro inverno. Di che si occupa?

    – Specialmente di scienze naturali. Ma sa di tutto, poi. Quest’altro anno sarà addottorato.

    – Ah! studia medicina, – notò Nicola Petrovic. Poi, stendendo la mano, domandò: – Ehi, Pietro, sono contadini nostri quelli laggiù?

    Pietro guardò da quella parte, dove il padrone accennava. Varie carrette, tirate da cavalli senza briglia, rapidamente traversavano un’angusta scorciatoia. Su ciascuna sedevano uno o due contadini dalle cacciatore sbottonate.

    – Proprio così, – rispose Pietro.

    – Dov’è che vanno? in città?

    – Così pare. Vanno all’osteria, – soggiunse in tono sprezzante, piegandosi un po’ verso il cocchiere, come per prenderlo a testimone. Ma questi non se ne diè per inteso: era un uomo del vecchio stampo che non partecipava alle nuove idee.

    – Un gran da fare mi hanno dato quest’anno i contadini; – riprese a dire Nicola Petrovic, volgendosi al figlio. – Non pagano. Che ci vuoi fare?

    – E dei braccianti sei contento?

    – Sì, – borbottò fra i denti Nicola Petrovic. – Me li guastano, ecco il guaio. Un vero e proprio lavoro non lo fanno. Mi sciupano gli ordegni. In quanto ad arare non se ne parla neppure. Con un po’ di tempo tutto s’aggiusta. O che ti preme ora l’agricoltura?

    – Non abbiamo ombra

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