L'isola senza tempo
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Che ci fa lì, Biagio, e che significato ha l’Isola?
In una storia sospesa tra realtà e fantasia, il protagonista dovrà fare i conti con la propria esistenza e con i segreti che hanno tenuto insieme la sua famiglia, fino all’epilogo che stravolgerà le sue e le nostre certezze.
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Anteprima del libro
L'isola senza tempo - Gianluca Mercadante
Indice
Copertina
Colophon
Frontespizio
Esergo
Dedica
Romanzo
L'autore
Dello stesso autore
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i jackpot
43
© 2020 Las Vegas edizioni s.a.s.
Via Genova, 208 - 10127 Torino
prima edizione: ottobre 2020
direttore editoriale: Andrea Malabaila
progetto grafico: Chiara Scavino
direttore creativo: Davide Bacchilega
correzione bozze: Sara Gasponi
ufficio stampa: Carlotta Borasio
foto di copertina: © kieferpix - iStock
foto dell’autore: Lella Beretta
ISBN eBook 9788831260039
ISBN Cartaceo: 9788831260046
www.lasvegasedizioni.com
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Gianluca Mercadante
L’Isola Senza Tempo
romanzo
Logo Las Vegas edizioniIo penso che alla fine tutta la vita non sia altro che un atto di separazione. Ma la cosa che crea più dolore è non prendersi un momento per un giusto addio.
Vita di Pi, regia di Ang Lee
Mio padre passò i momenti di veglia a inventare sogni da raccontare, sogni di cavalieri con armature scintillanti o di streghe malvagie, ma il più grande eroe della mia vita non uccise mai un drago, era solo un uomo che ogni sera mi rimboccava le coperte.
Brendan O’Carroll
La fantasia è un posto dove ci piove dentro.
Italo Calvino
A mio padre (1931 – 2015)
Vieni a trovarmi, qualche volta.
E per l’amico Andrea Giovanni Pinchetti,
che a forza di guidare nella nebbia
ha ritrovato il suo fuggevole turchese.
Troppo presto.
Mi mancate, ragazzi.
«Papà, dove andiamo stasera? Dove mi porti?»
«Sull’Isola, tesoro.»
«L’Isola Senza Tempo?»
«A-ha.»
«Uffa…»
«Qualcosa non va?»
«Ancora l’Isola, papà! Non puoi cambiare storia?»
«Le storie non sono mai uguali, anche se gira e rigira son sempre le stesse.»
«Cosa vuol dire?…»
«Che dipende da come le racconti.»
«Tu sei bravo a raccontare le storie, papà. Però le inizi e non le finisci.»
«Per forza: ti addormenti.»
«No, dài, stavolta resto sveglio, promesso.»
«In realtà, sai… le storie non iniziano e non finiscono.»
«E che fanno?»
«Le storie si aprono.»
«Come le porte?»
«Sì. E continuano. Perfino quando sembra siano finite. O finiscono quando sembra che stiano cominciando.»
«Non ci capisco un tubo, così…»
«Allora fidati e lasciati guidare. Partiamo per un bel viaggio.»
«Dove?»
«Sull’Isola, te l’ho detto.»
«Ma ci siamo stati un sacco di volte, papà!…»
«Sono le storie a cambiare, amore, l’Isola no. Resta lei, l’Isola. Resta se stessa.»
«Davvero non cambia?…»
«No, tesoro. Non cambia.»
«E che forma ha?»
«Dovresti immaginarlo. Fai un piccolo sforzo, su.»
«Vediamo… è a forma… è a forma… di mostro preistorico! Eh?»
«Acqua.»
«Uhm… Difficile. È a forma di… di Alberta, la signora di sopra!»
«Fuochino.»
«Dammi un aiutino, papà…»
«Beh, dunque… sì, ti do un aiutino. E l’aiutino è… che potresti… ecco, scendere di un piano.»
«Scendere di un piano?!»
«Esatto. Lo vedi che devo guidarti? Prova a seguirmi: la signora Alberta abita?… Dimmelo un po’.»
«Sopra.»
«E quindi? Se scendi di un piano arrivi…»
«Sul pianerottolo! L’Isola sta davanti a noi!»
«Ma no, tesoro!… Mi hai chiesto che forma ha, non dove si trova. Ti arrendi?»
«Mi arrendo. A cosa somiglia l’Isola, papà?»
«A una persona che abitava qui.»
«Qui? Prima di noi?»
«Con noi.»
«…»
«L’Isola somiglia alla mamma.»
Andata
1
Questa storia si apre con una porta che non si apre.
Esaurite le trattative con la serratura, messo in fila un certo numero di sacramenti, l’esito è inequivocabile: non vuol proprio saperne di comportarsi alla maniera che da una porta beneducata ci si aspetta, ’sta porta qui. Bisogna passare alle maniere forti. Biagio stringe il pomello, lo gira e lo tira, come un collo da spezzare, ma per quanto impeto ci metta, la bastarda di una porta maledetta ha deciso d’ingrossarsi d’estate, santo cielo. Ecco cosa succede a non aver più le mezze stagioni, succede che le cose di legno fanno di testa loro, succede, e se gli va di darsi una bella stiracchiata, che sia una rigida domenica d’inverno o l’alba della partenza per uno o due giorni fuori dalle balle, tac: se la danno, la stiracchiata, fine della storia. Vuoi uscire di casa? Prego, accomodati. Qui nessuno si muove senza che io collabori.
A posteriori penserà che la porta volesse trasmettergli tutt’altro tipo di messaggio, ma non è mentre la si vive che si presta attenzione ai piccoli dettagli che la vita stessa dissemina. Fa parte del gioco.
La lista di madonne che tritura fra i denti si allunga di diverse unità, fa un caldo tale da rendere disumano qualunque sforzo. Il borsone a terra, fra un piede e l’altro, lo zainetto in spalla, il corpo appeso al pomello, potesse rimanergli in mano, il pomello, finché, apriti sesamo: l’uscio si spalanca, con un colpo secco, una fucilata, che si moltiplica nell’androne delle scale.
Due secondi, forse tre, e dal piano superiore giunge lo scattare di una seconda serratura, che a differenza della sua c’impiega un attimo. La testolina della signora Ausilia, vedova Riccobono, nativa di Trapani, la più anziana abitante della palazzina per età e permanenza, guizza nella tromba delle scale. Messa in piega sempre perfetta, sussultorie movenze alla Giulio Andreotti, obiettivo: setacciare gli altrui accadimenti.
«Tutto apposto?» si sincera. Biagio la guarda di sbieco tenendo la sacca con la sinistra e girando le chiavi con la destra.
«Non riuscivo a uscire, signora. La porta era… boh? Bloccata, credo.»
«Ho sentito un rumore forte, mi sono spaventata.»
«Chiedo scusa.»
«Quella porta, dovete credermi, è così da quando vivo qua. Anche quelli che c’erano prima di voi avevano tutti ’sti problemi.»
«Capisco.» E fa per andare.
«Andate in vacanza?»
«Sì» ammette, con l’aria di voler tagliare corto.
«Beato a voi.»
«Già. Beato a noi. Avrei un aereo da prendere, signora.»
«Buon viaggio, allora, buon viaggio! E… ricordatevi che a settembre ci faremo sentire!» chiosa la signora Ausilia, alzando la voce in falsetto pur di essere udita, giù per le scale.
«Senz’altro!» le replica, tre rampe sotto, quasi all’attacco della quarta.
«A settembre vinceremo!» proclama infine, con mussoliniana enfasi.
Ma quale settembre, quale vittoria. La signora Ausilia sogna di metterci l’ascensore, in quel derelitto condominio degli anni Cinquanta. Costruire un ascensore esterno significherebbe smontare la facciata lato cortile, verrebbero spostate finestre, salterebbero posti auto, senza contare gli inquilini dei primi piani, che potrebbero avanzare danni al valore dei loro appartamenti. A trovarlo un amministratore abbastanza scellerato e affamato di grana da procedere nella folle impresa, sopportando reclami di questo e di quello in fase lavori, mettendo pezze a destra e a manca. Figuriamoci.
Tuttavia, lì per lì, che una donna di ottant’anni e rotti arda di passione di fronte alla possibilità di realizzare un sogno, l’ultimo che può permettersi, è una lettura della cosa che non lo lascia indifferente neppure mentre si precipita in cortile, butta borsa e zaino nel bagagliaio e schizza via, essendo in ritardo di quella mezz’oretta circa. Reato sanzionabile in molti, moltissimi modi. Da chi, lo vedremo dopo.
Lì per lì, dicevamo, il pensiero della signora Ausilia e della sua guerra personale lo ha intenerito. Il Riccobono, pace all’anima sua, ha trascorso gli ultimi anni recluso, affrontava le scale soltanto in barella, pover’uomo, all’andata e al ritorno dall’ospedale.
Finché capita agli altri è un conto. Dispiacere dispiace, ci mancherebbe, ma solo quando il nostro curatissimo orticello viene lambito episodi simili producono effetti assai differenti da un supplizio di default.
Un padre ricoverato in casa di riposo rende affini alla comprensione del dolore. E Biagio lo sa. Sono cinque anni che lo sa. Ecco perché la signora Ausilia e la sua storia lo toccano nell’esatta zona dell’animo dove i nodi si sciolgono. Ecco perché ha deciso di schierarsi dalla sua, a settembre, nella fatidica riunione condominiale che ancora una volta, ne è sicuro, accoglierà la proposta dell’ascensore nel generale dissenso. I sogni nascono per subire ostacoli, ma chi conosce questa verità, o per meglio dire ci sbatte contro, può scegliere. Non tutti sanno interpretare il ruolo del bastone fra le ruote. L’essere ipocriti per quieto vivere è un compromesso di facile esecuzione.
Tanto l’ascensore mica si fa, ma smettiamola.
L’edificio gli ricorda i test scolastici di geometria solida, i famosi problemi
. Chissà se si risolvono ancora i problemi, a scuola, pensa – e lo pensa tutte le santissime volte che, sceso dall’auto parcheggiata, in uno degli appositi spazi delimitati a pettine, si volta e fissa l’Istituto, un parallelepipedo rettangolo sforacchiato di finestre, scandite lungo la facciata con categorica ritmicità. Ognuna custodisce una vita destinata a spegnersi entro un termine prossimo, e nella loro geometrica spietatezza sembrano rappresentarne una porzione: quella che attende di scoprire se si affaccia sull’ultima notte o sull’ultimo mattino.
Quando accompagniamo i nostri figli all’asilo agiamo analogamente a quando saranno i nostri figli a condurci in ricovero, eppure al pensiero di tornare all’asilo viene il batticuore dalla felicità e al pensiero di tornare alla casa di riposo viene la tachicardia dall’ansia. Si possono sostenere innumerevoli opinioni su questo genere di cose, il punto è che questo genere di cose funziona e la società va avanti. La sensibilità non paga, Biagio caro: è coi peli sullo stomaco che si manda avanti la baracca, perciò suona il campanello da bravo e aspetta che ti aprano.
Tante volte la portinaia ti vede arrivare, dalla finestra che contiene la sua porzione di esistenza, buona parte della quale fissando appunto la strada che stai finendo di attraversare, e in parte altrettanto buona a sfogliare il giornale locale, stirato sulla scrivania. Se oggi è uno dei due giorni a settimana in cui esce, mettiti il cuore in pace e fai lo sforzo di pigiare il tastino del citofono. Altrimenti, approdato al marciapiede opposto già dovresti sentire, ed eccolo infatti, il confortante clack dell’apertura elettrica.
Biagio sospinge verso l’interno la pesante porta a vetro e saluta con un cenno la portinaia, che a seconda delle giornate ricambia in maniera più o meno empatica. Dall’ascensore giunto a terra in quell’istante defluiscono i parenti degli ospiti, persone che riconosce dal modo con cui si salutano in fretta nell’atrio, che non vedono l’ora di tornare nel mondo di fuori.
Biagio schiva tutti, entra e schiaccia il tasto 2.
C’è una piccola cappella davanti al vano d’uscita al secondo piano, la domenica e nelle ore preposte vi si officiano le messe. Ora è vuota, ma il forte odore d’incenso rimasto nell’aria lascia intuire sia appena terminata quella del mattino. Non ha il coraggio di controllare, si costringe a percepire che ore siano dai segnali esterni, e i segnali esterni rispondono con tre parole, tre paroline e basta. Sei. In. Ritardo.
Il reparto che ospita il padre è a sinistra, superato il vano scala di lato all’ascensore, subito oltre la vetrata che ne delimita l’ingresso, spalancata d’estate insieme ai finestroni della sala centrale, per far corrente ché sennò ci si scioglie. Un salottino di gusto retrò porge il benvenuto, uno spazio per molti versi rassomigliante a un qualunque salottino buono
di una qualunque casa abitata da vecchi; più in là, di fianco, si distinguono a una a una le camere, i profili degli infissi procedono intervallati lungo il corridoio, al termine del quale, nel periodo natalizio, viene allestito da ospiti e animatori un presepe che occupa il muro finale. D’estate c’è solo il color ocra della parete disadorna, un ficus a un angolo e un organismo vegetale non meglio identificato all’angolo opposto. Piante che hanno l’aria di sapere cosa sia l’acqua giusto perché qualche insetto di passaggio gliene ha accennato, al volo.
Fra salottino e corridoio c’è la stanza grande, gli ospiti del reparto vi trascorrono la maggior parte della giornata, perlopiù consumando i pasti a tavola e guardando la televisione seduti a semicerchio sul fondo della sala, eccetto durante le quotidiane attività motorie, cognitive e ludiche. O per farsi cambiare il pannolone.
Al padre della televisione non glien’è mai importato granché, eccezion fatta per le notizie, i film di Don Camillo e quelli con Salvatore Amedeo Carlo Leone Buffa, in arte Amedeo Nazzari, interprete di pellicole che neanche gli aguzzini di Arancia Meccanica avrebbero sottoposto all’attenzione del povero vecchio Alex. Nessuno merita di vedere film che s’intitolano Catene, o Tormento, per cortesia. Suo padre li sa a memoria, però, e in questo Biagio ha sempre letto il sintomo di un masochismo intellettivo a dir poco disarmante.
«Marcello, c’è tuo figlio!» cicaleggia Angela, un’operatrice, una donnetta tutto pepe, intenta a depositare presso i tavoli uno spuntino di frutta che a mezza mattinata (sei in ritardo, Biagio, madonna se sei in ritardo!) il personale dell’Istituto è uso offrire, allo scopo, parrebbe, di aprire l’appetito. Considerato che qui si pranza intorno alle 11.45, e si cena prima delle 18, non senza infilarci una merendina nel pomeriggio, gli anziani sono ostaggi inconsapevoli di una messa all’ingrasso, che curiosamente fallisce. Son magri, gli anziani. Non tutti, d’accordo, ma tanti sì. Sono, ecco, consunti, la carrozzeria cede, ulteriori tagliandi e prove fumi vanno esclusi a prescindere. Accomodatevi e finite di consumarvi, orsù, senza correre, uno alla volta. Di morte ce n’è per tutti.
Alla vista dell’adorato pargolo, Marcello si solleva dal suo posto, con premura compie uno scatto che per poco non gli fa perdere l’equilibrio. Biagio fa lo slalom fra i tavoli, dribbla le carrozzine di un trio di signore sempre vicine, delle majorette in pensione che ci danno dentro di uncinetto, non potendo più roteare il caratteristico bastone. Quando l’ha raggiunto e fa per sorreggerlo, il papà è pronto ad abbracciarlo stretto, questa meraviglia di figlio che l’ha portato lì.
«Lui è mio figlio» pronuncia solenne, rivolto al semicerchio. Teste annuiscono, pupille reagiscono opache. Lo sanno già, ogni volta che Biagio passa a trovarlo il preambolo si ripropone.
«Sei proprio tanto, ma tanto orgoglioso di questo figlio, vero Marcellino?» lo canzona Angela, ancora affaccendata, avanti e indietro dalla cucina dall’altra parte dello stanzone.
Angela piace al padre di Biagio e lui piace a lei. È un piacere casto, fra persone di diversa età entrate ognuna a modo suo a diretto contatto col dolore. Il dolore è un diapason, accorda animi semplici, ridotti all’essenza. Si tratti di animi cinici o di animi fragili, ciò che conta è risuonare insieme. E gli animi di Marcello e di Angela risuonano, alla loro maniera cantano, duettano, quando lei gioca sul fatto di piacergli, e lui, buontempone, guardalo come se la gode, come volentieri si presta allo scherzo, sorridendo coi pochi denti superstiti, di cui ben tre d’oro zecchino, e vantando con gesti virili la propria paternità sull’esemplare di maschio latino in piedi al suo fianco.
«Ci sediamo, papà?» chiede Biagio.
«Già?… Sei appena arrivato, se mi siedo te ne vai.»
Una al giorno. Di fissazioni ne sforna una al giorno. Invece della tradizionale mela, che secondo il noto proverbio andrebbe mangiata a cadenza quotidiana per togliere i mali di torno, Marcello mastica puttanate. Sono le minchiate che chissà dove ’sto vecchietto tutto pelle e ossa va a pescare ad allungargli la vita, mica le mele.
«Papà, lo sai che sono sempre di corsa, no?»
«Eh, sì. Ti ho cresciuto io, lo so sì. Non ti volevi mai alzare, quand’era ora di andare a scuola.»
Rimasto vedovo presto, col figlioletto di sei anni appena, ha fatto alla lettera quanto afferma: se l’è cresciuto lui, Biagio, fingendo spesse volte di prestar fede alle beghe di ordine salutare inventate da quello stronzettino in età scolare, ogni santissima mattina fattasi l’ora di alzarsi dal lettuccio bello. Fosse andato male, a scuola, o non fosse stato portato per lo studio, uno capisce, ci si rassegna. Si fosse reso antipatico a una maestra che di suo sembra già una strega – macché strega, ha più volte pensato, all’epoca cinquantenne, lui alla maestrina avrebbe volentieri insegnato daccapo l’abicì. Eppure, niente. Al birbante l’idea di uscire dalle coperte e sacrificare le restanti ore della mattinata nel tempio formativo della scuola appariva un’esperienza più devastante della Via Crucis di nostro Signore. E paparino faceva finta di cascarci, per farlo contento.
«Sennò raccontavi la storia dell’asino» lo sollecita Biagio, sull’onda dei ricordi che le parole del padre hanno smosso. Lui strabuzza gli occhi arrossati e gli appare in volto un’espressione stupita, se non ammirata.
«Davvero te la ricordi?…» chiede.
«Un pochino, papà, è passato un sacco. Com’è che faceva?»
La ricorda benissimo, Biagio, la storiella dell’asino. E comunque gli psicologi gliel’hanno tradotto in mille lingue che la patologia del padre è di natura regressiva. All’inizio i ricordi del passato restano a grandi linee intatti, è la memoria a breve termine quella che da subito va in tilt. Ma presto o tardi il serbatoio della memoria a lungo termine inizia a prosciugarsi, i neuroni sopravvissuti fanno quelle due pulizie sopra sopra e sgomberano i locali, sfrattati dalla malattia che, senza nulla di personale, ci mancherebbe, porta a termine il compito di generare il vuoto. Ciò nonostante, quello scellerato di un Biagio mica si persuade, non ci crede che il padre dall’oggi al domani potrebbe dargli del lei o scambiarlo per un amico d’infanzia, e insiste. E interroga. E spera.
«L’asino era al mercato, insieme a tanti altri asini, ma…»
«Ma?…»
«Ma qui non si mangia, oggi?»
«Sono le dieci del mattino, papà, avete fatto colazione e fra un attimo