La sacerdotessa del mare
Di Dion Fortune
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Anteprima del libro
La sacerdotessa del mare - Dion Fortune
DION FORTUNE
La Sacerdotessa del mare
Venexia
TITOLO ORIGINALE:
The Sea Priestess
Immagine di copertina di
Daniela Milani
Traduzione di
Federica Ventura
Grafica di copertina di
Floriana Romano per Ogham - Napoli
2002 Copyright by Venexia
Via Erodoto, 36
00124 Roma
www.venexia.it
www.venexia.it
La Sacerdotessa del mare
Introduzione
Se si desidera scrivere un libro che non debba piegarsi alle varie esigenze editoriali, l’unica via è pubblicarlo in proprio.
Questo libro non è quindi fornito di una sigla editoriale che gli dia prestigio, ma si erge orgoglioso come un Melchisedek letterario.
Una volta ho avuto l’esperienza divertente di ricevere in recensione un libro che avevo scritto io; se dovessi ricevere questo troverei difficile esprimere un giudizio chiaro.
È un libro con una corrente nascosta; si tratta di un romanzo che cela una tesi sul tema: Tutte le donne sono Iside e Iside è tutte le donne
, o nel linguaggio della psicologia moderna, il principio dell’anima-animus.
Vari tipi di critiche sono state mosse a questo manoscritto da coloro che l’hanno letto. Poiché probabilmente ne seguiranno altre da parte di chi lo leggerà una volta stampato, tanto vale cogliere l’opportunità di questa prefazione per affrontarle apertamente.
Un recensore di uno dei miei libri precedenti mi ha detto che è un peccato che i miei personaggi siano spesso sgradevoli. Questa critica mi ha molto sorpresa, perché non mi era mai capitato di pensare ai miei personaggi come tali. A quale artificio dovevo ricorrere affinché i lettori arrivassero ad amarli?
Nella vita reale nessuno sfugge ai propri difetti; perché dovrebbero farlo i personaggi di un romanzo? Il mio eroe è pieno di difetti come figlio, fratello, marito e socio in affari, e non fa niente per minimizzarli. Ciononostante gli sono molto affezionata, anche se so che non potrebbe mai competere con le creature di grandi scrittori come Samuel Smiles.
In fondo mi sta bene così: sono sempre stata convinta che, poiché non si può soddisfare tutti, si debba almeno cercare di accontentare se stessi. Nel mio caso non devo, grazie a Dio, fare i conti con un editore che si aspetti dal mio libro un contributo per ridurre i danni prodotti da spese smodate o dai suoi errori di valutazione.
Un esperto revisore editoriale ha affermato che lo stile di questo libro è discontinuo, si innalza a tratti ad altezze di bellezza lirica (parole sue, non mie), per poi ridiscendere nella stessa pagina a espressioni dialettali. Questa osservazione solleva un elemento interessante dal punto di vista della tecnica.
La mia storia è stata scritta in prima persona; è quindi un monologo e vi si applicano le stesse regole del dialogo in prima persona. Poiché l’umore del mio protagonista varia, si modifica di conseguenza anche lo stile di narrazione.
Ogni scrittore si troverà d’accordo sul fatto che la narrazione in prima persona è una tecnica assai difficile da utilizzare: il metodo di presentazione è quello del dramma, pur mantenendo l’aspetto della narrazione che passa inoltre attraverso gli occhi e il temperamento del protagonista. Diventa indispensabile limitarsi nei passaggi più emotivi per non correre il rischio di indulgere nell’autocommiserazione da parte dell’eroe che deve, a tutti i costi, mantenere la stima e il rispetto del lettore continuando a evocare nello stesso tempo la sua simpatia. Di conseguenza per le scene più toccanti sono adatte solo espressioni brevi e secche, perché nessuno impiegherebbe mai un linguaggio elaborato per descrivere situazioni in extremis.
L’effetto deve essere ottenuto annullando qualsiasi tipo di rumore di fondo
, effetto che in ogni caso andrebbe perso, a meno che il lettore sia ricco d’immaginazione e in grado di leggere in modo costruttivo. Questo introduce il tema della lettura costruttiva.
Tutti sanno quanto il contributo del pubblico sia importante per la riuscita di una rappresentazione teatrale, ma poche persone sono consapevoli di quanto il lettore contribuisca alla buona riuscita di un romanzo. Forse chiedo troppo ai miei lettori e posso solo dire con Martin Lutero: Dio mi aiuti, non so fare altrimenti.
Dopotutto, l’uomo è il suo stile e, a meno che non lo si intenda castrare, non può essere alterato. E chi vuole diventare un eunuco letterario? Io no di certo ed è questa forse la ragione per la quale sono costretta a pubblicare in proprio la mia opera.
Le persone amano leggere la narrativa per fornire un supplemento alla dieta della loro vita. Se la vita è piena e varia, scelgono romanzi che la analizzino e la interpretino per loro; se è scialba e insoddisfacente, si rifocilla di sogni presi in prestito dai best-seller trovati in biblioteca. Io ho cercato di collocare questo libro fra i due estremi, tanto che mi è difficile poter dire a quale dei due stili appartenga di più.
È un romanzo interpretativo e nello stesso tempo un libro che fa sognare.
Dopotutto perché le due cose non possono andare d’accordo? I personaggi devono passare attraverso un processo di psicanalisi, che guarda caso è stata il mio mestiere.
La frustrazione che affligge il mio eroe somiglia molto a quella di una considerevole parte dell’umanità, come i miei lettori potranno senza dubbio confermare sulla base delle loro esperienze.
È ben noto, e non occorre sottolinearlo qui, che, per una forma di compensazione emotiva, i lettori si identificano spesso con l’eroe o con l’eroina a seconda dei casi.
Per questa ragione gli scrittori che trattano questi argomenti fanno invariabilmente del protagonista di sesso opposto la rappresentazione oleografica della soddisfazione dei loro desideri. Gli uomini che ostentano la loro mascolinità e che scrivono per uomini simili a loro, di solito scelgono come eroine creature appiccicose, artificiali e sdolcinate e definiscono il risultato della loro opera un romanzo d’amore, oppure combinano tutte le incompatibilità degli animi umani credendo così di produrre una descrizione realistica.
Spesso anche le scrittrici forniscono come modelli maschili dei personaggi che non si sono mai infilati un paio di calzoni e sui quali, anzi, i pantaloni sarebbero sprecati.
È difficile per me giudicare i miei personaggi. Ovviamente, io li reputo eccezionali, ma una tale parzialità non è molto diversa da quella di un genitore verso i propri figli.
Persino lo scrittore Charles Garvice era convinto di aver scritto opere di eccelsa letteratura ed era estremamente invidioso del successo di Kipling.
Quanto le mie creazioni siano fantastiche o, al contrario, vicine alla realtà è una questione sulla quale sono l’ultima persona in grado di esprimere un’opinione obiettiva.
Si è spesso detto di me che io non sia una donna. Una volta ho dovuto insistere a lungo che non sono un uomo con la segreteria di un circolo assai noto che cercava la mia iscrizione. Lascerò quindi che il dubbio sulla vera identità del mio sesso rimanga avvolto nel mistero.
Tuttavia ritengo che se i lettori si identificheranno con l’uno o con l’altro dei miei personaggi, a seconda dei loro gusti, potranno percorrere una curiosa esperienza psicologica: l’uso terapeutico della fantasia, un aspetto non ancora abbastanza apprezzato della psicoterapia.
Le condizioni psicologiche della società moderna possono essere paragonate a quelle sanitarie delle antiche città medievali. Quindi io offro il mio tributo ai piedi della grande dea Cloacina:
"L’ironia rivela la tua saggezza,
tu sai quanto ricca sia".
Dion Fortune
Capitolo I
Di solito scrivere un diario è considerato un vizio nei coetanei e una virtù negli antenati.
Mi dichiaro colpevole se di vizio si tratta perché ho tenuto un diario piuttosto dettagliato per molti anni.
Poiché amo osservare, ma ho poca fantasia, avrei potuto essere un Boswell perfetto pur, ahimè, non avendo mai incontrato il mio Johnson. Di conseguenza, mi sono ridotto a essere il Johnson di me stesso.
Non è per scelta. Avrei preferito essere il biografo di un uomo famoso, ma un uomo famoso non l’ho mai incontrato. Quindi, doveva trattarsi di me o nessun altro. Non mi illudo che il mio diario sia letteratura, ma è servito al suo scopo come valvola nei momenti in cui uno sfogo era terribilmente necessario. Senza di esso, credo che sarei esploso in più di un’occasione.
Si dice che le avventure siano per chi osa, ma è difficile cercare l’imprevisto se si hanno delle persone a carico. Se avessi avuto una giovane moglie con cui affrontare la vita sarebbe stato diverso, ma mia sorella era più grande di dieci anni, mia madre invalida e il ricavo della nostra piccola azienda bastava appena per mantenerci tutti e tre durante la mia giovinezza.
L’avventura, allora, non faceva per me perché avrebbe messo in pericolo altri e io non lo ritenevo giusto. Da qui la necessità di una valvola di sfogo.
Quei vecchi diari, un volume sull’altro, sono riposti in un baule della soffitta. Ho provato a rileggerli ma li ho trovati noiosi; il divertimento sta nello scriverli. Si tratta di una cronaca oggettiva di avvenimenti visti attraverso gli occhi di un uomo di affari di provincia. Ben poca roba, se mi è consentita l’espressione. Ad un certo punto vi fu però una svolta: quanto era soggettivo divenne anche oggettivo, pur se non sono ancora in grado di spiegare con certezza quando e come.
Nello sforzo di chiarire la faccenda cominciai a leggere sistematicamente gli ultimi diari e a riscriverli organicamente. Ne venne fuori una storia durata qualche anno che non pretendo di capire. Speravo che si sarebbe chiarita scrivendo, ma non è stato così; anzi, è diventata più problematica. Se non avessi avuto l’abitudine di scrivere un diario, molti frammenti sarebbero andati persi nel limbo delle cose dimenticate; la mia mente avrebbe quindi disposto tutto secondo le sue inclinazioni, in base a idee preconcette e quanto era incompatibile con esse sarebbe scivolato via in silenzio.
Con i fatti nero su bianco, non era possibile ignorarne dei pezzi ed era necessario affrontare organicamente l’intera faccenda. Ne prendo nota per quello che vale sapendo che sono l’ultima persona che potrebbe valutarne il merito; mi sembra un capitolo curioso nella storia del pensiero ed è interessante anche solo per quello. Se imparerò dalle mie esperienze rivivendole quasi quanto ho imparato mentre avvenivano, sarò stato ripagato.
L’intera storia cominciò con una discussione di soldi.
Da mio padre ho ereditato un’agenzia immobiliare. Ha sempre dato dei buoni profitti ma è stata fortemente appesantita dalle speculazioni di mio padre, che non è mai riuscito a resistere alla tentazione di fare un affare. Se sapeva che una casa sarebbe stata costruita con una spesa di dieci e ne valeva venti, la doveva comperare. A nessuno piacevano le magioni enormi, così ereditai proprietà che danno molte spese e pochi utili. Dai venti ai trent’anni dovetti occuparmi di questi colossi, vendendoli un po’ alla volta, finché l’azienda tornò florida e io nella posizione di fare quello che avevo tanto desiderato: liquidarla e sbarazzarmene. Odiavo l’agenzia e tutta la vita di quella monotona città e contavo di utilizzare il ricavato per comprare le azioni di una casa editrice londinese. Questa mossa, pensavo, mi avrebbe introdotto nella vita che mi affascinava. Inoltre, non mi sembrava un progetto finanziariamente azzardato, perché gli affari sono affari, che si vendano case oppure libri. Avevo cercato di leggere tutte le biografie che trattavano l’editoria sulle quali ero riuscito a mettere le mani, e mi sembrava un mondo adatto per chi era avvezzo alla gestione aziendale. Posso di certo sbagliarmi non avendo esperienza diretta di libri e dei loro autori, ma questo era quanto pensavo.
Ne parlai con mia madre e con mia sorella che non furono contrarie, a condizione che non le costringessi a venire a Londra con me. Questo era un vantaggio che non mi sarei mai aspettato; infatti ero convinto che avrei dovuto prendere una casa per loro perché mia madre non si sarebbe mai adattata a un appartamento. Mi vidi davanti la strada spianata come non avrei nemmeno osato pensare e mi immaginai scapolo nei circoli della bohème, frequentatore di club e chissà cos’altro.
Ma allora accadde la disgrazia.
Gli uffici della nostra azienda erano ubicati in una vecchia ed enorme casa georgiana nella quale avevamo sempre vissuto. Non si poteva vendere l’azienda senza l’edificio perché era il più sontuoso della città e mia sorella si rifiutava di andarsene da lì. Forse avrei potuto impormi e vendere la casa senza il suo consenso, ma non mi piaceva agire in questo modo.
Mia sorella venne in camera mia a parlarmi, affermando che vendere la casa avrebbe ucciso mia madre. Le offrii di sistemarle ovunque desiderassero purché avessi potuto permettermelo, ma lei rifiutò: la mamma non avrebbe mai accettato. Certamente avrei voluto lasciarle vivere la vecchiaia in pace dato che non le restava molto. Questo è successo cinque anni fa e mia madre è ancora in ottima salute e sono sicuro che sarebbe stata in grado di trasferirsi tranquillamente altrove se io avessi solo insistito. Più tardi mia madre mi chiamò in camera sua e affermò che cedere la casa avrebbe gravemente ostacolato il lavoro di mia sorella, dato che teneva tutte le sue riunioni nell’ampio salone e che il quartiere generale dell’associazione benefica "Friendly Girls" era al pian terreno. Mia sorella aveva dedicato la vita a questo lavoro e tutto sarebbe andato all’aria se si fosse venduta la casa, perché non avrebbe avuto un altro posto dove svolgerlo.
Con queste premesse, non me la sentii di andare avanti e mi dovetti rassegnare a proseguire nella professione di agente immobiliare. La vita mi avrebbe offerto altre soddisfazioni. Il lavoro mi portava in giro in macchina per il paese ed ero sempre stato un appassionato lettore. La mancanza di veri amici con cui potessi condividere qualche affinità era il mio vero problema e la prospettiva di poterne fare qualcuno mi aveva attirato verso il mondo dell’editoria. Eppure i libri non sono una pessima alternativa e forse sarei rimasto deluso se mi fossi recato a Londra per crearmi delle amicizie. Infatti, come poi fu chiaro, il non essermi imbarcato in questa avventura si rivelò la soluzione migliore perché immediatamente dopo mi venne l’asma e non sarei stato in grado di reggere il ritmo della vita londinese. Poco tempo dopo svanirono le opportunità che avevo di creare filiali, o di vendere bene la mia società, e rimasi senza scelta.
Tutti questi avvenimenti avrebbero potuto non costituire un problema per il mio lavoro né mi misi mai a discutere sulla decisione finale. Il putiferio scoppiò quando tutto si era sistemato e io avevo scritto rifiutando entrambe le offerte ricevute. Successe durante una cena domenicale.
Ora, io detesto le cene fredde e, inoltre, quella sera il vicario aveva predicato un sermone particolarmente stupido, anche se a mia madre e a mia sorella era piaciuto. Ne stavano parlando, mi chiesero un’opinione che normalmente avrei evitato di esprimere e, come un folle, dissi quello che pensavo davvero, fui contraddetto e poi, per nessuna ragione evidente, mi arrabbiai e urlai che a tavola potevo dire quello che volevo, tanto pagavo io il cibo. Il seguito fu divertente. Nessuno si era mai rivolto così alle mie donne da quando erano nate e non gli piacque affatto. Erano parrocchiane assidue e, di conseguenza, dopo il primo urlaccio non fui più alla loro altezza. Me ne andai sbattendo la porta e mi lanciai sulle scale, salendo tre scalini alla volta. Sul pianerottolo, con quella orribile cena fredda sullo stomaco, rimasi colpito dal primo attacco d’asma.
Mi sentirono e uscirono trovandomi aggrappato alla balaustra; si spaventarono a morte. Anch’io ero spaventato e pensai che fosse giunta la mia ora. L’asma è una malattia che fa paura anche quando ci si abitua e quello era il mio primo attacco.
Sopravvissi, ma fu proprio nel periodo in cui giacevo a letto dopo l’attacco che ebbe origine tutto il resto. Credo di essere stato pesantemente drogato; in ogni modo ero in stato di semi-incoscienza e mi sembrava di fluttuare dentro e fuori dal mio corpo. Si erano dimenticati di tirare le tende, la luna piena riversava la sua luce proprio sul letto e io ero troppo debole per alzarmi a chiuderle. Disteso, osservavo la luna scivolare nel cielo notturno attraverso qualche nuvoletta lattiginosa, chiedendomi come fosse il suo lato oscuro.
Il cielo notturno mi aveva sempre affascinato e non finirà mai di stupirmi il prodigio delle stelle, né il mistero ancora più grande dello spazio interstellare, perché sono convinto che dallo spazio interstellare abbiano avuto inizio tutte le cose.
La storia della creazione di Adamo dall’argilla rossa non mi era mai andata a genio; preferivo l’idea che Dio geometrizzasse.
Mentre giacevo lì, narcotizzato ed esausto, mezzo ipnotizzato dalla luna, lasciai spaziare la mia mente fino al principio del tempo. Vidi l’immenso mare dello spazio infinito, indaco scuro nella notte degli dèi, e mi sembrò che quell’oscurità e quel silenzio celassero il seme di tutte le essenze. Come un seme racchiude un fiore che sboccerà con i suoi semi dando luogo all’infinito ad altri fiori e semi, così tutto il creato è insito nello spazio infinito, e io in esso. Mi sembrava meraviglioso dover giacere lì, praticamente impotente con il pensiero, con il corpo e con le mie facoltà, eppure essere in grado di tracciare i miei antenati nelle stelle. Con questi pensieri arrivarono delle strane sensazioni e la mia anima sembrò allontanarsi senza paura nell’oscurità.
Mi domandai se fossi morto come avevo pensato di essere quando mi ero aggrappato alla balaustra e ne fui felice, perché significava libertà. Poi realizzai che ero vivo ma che, con la debolezza e le droghe, le briglie dell’anima si erano allentate. Nella mente di ogni uomo esiste un lato oscuro, simile alla parte della luna che egli non vedrà mai, anche se io avevo avuto il privilegio di vederlo. Era come lo spazio interstellare della notte degli dèi e in esso affondavano le radici della mia essenza.
A questa consapevolezza si associò un profondo senso di liberazione; poiché sapevo che le briglie della mia anima non si sarebbero mai più strette e che avevo trovato un modo per fuggire verso il lato oscuro della luna che nessuno avrebbe mai visto. Mi sovvennero le parole della Browning:
"Dio sia lodato, poiché il più piccolo dei mortali
Ha due lati dell’anima,
Uno per affrontare il mondo
E l’altro da mostrare alla donna che ama".
Si trattava di un’esperienza insolita che mi lasciò una sensazione di felicità: la capacità di affrontare la malattia con equanimità poiché sembrava in grado di spalancarmi strane porte. Dovetti stare a letto per lungo tempo e non ebbi il desiderio di leggere per paura di rompere l’incanto che mi circondava. Di giorno mi assopivo e, come arrivava l’imbrunire, aspettavo la luna per restare in comunione con lei.
Non posso raccontare cosa le dissi o cosa la luna mi confidò, comunque l’ho conosciuta molto bene. Mi lasciò l’impressione che non governasse un regno materiale e neppure spirituale, bensì uno strano regno lunare, a lei ben specifico. In esso si muovevano le maree, fluendo e rifluendo; acque tranquille, acque alte, senza posa, sempre in movimento, su e giù, indietro e in avanti che crescevano e si ritiravano, salendo con l’alta marea, defluendo con il riflusso. Queste maree influenzano le nostre esistenze, così come la nascita e la morte e tutti i processi del corpo, nonché l’accoppiamento degli animali e la crescita della vegetazione o l’insidioso insinuarsi delle malattie. Anche le reazioni provocate dalle droghe e molti tipi di erbe dipendono dalle fasi della luna.
Tutte queste cose le appresi in comunione con la luna e mi sentii certo che se solo avessi potuto imparare il ritmo e la periodicità delle sue maree sarei potuto venire a conoscenza di molte cose. Ciò non avvenne poiché mi poté insegnare solo cose astratte i cui dettagli sfuggivano alla mia mente.
Scoprii che più tempo trascorrevo in sua compagnia, tanto più prendevo coscienza delle sue maree, e tutta la mia vita cominciò a seguire il loro ritmo. Sentivo la mia vitalità avanzare, rifluire, scorrere e rifluire ancora, e scoprii che, persino quando la descrivevo, utilizzavo il tempo dei suoi ritmi, mentre quando descrivo le cose della vita quotidiana usavo un ritmo staccato. Comunque stiano le cose, durante la mia malattia vissi al ritmo della Luna in modo davvero singolare.
La malattia seguì il suo corso e, come sempre accade, mi trascinai di nuovo giù dalle scale, più vivo che morto. La mia famiglia fu molto premurosa dopo il forte spavento e mi ricoprì di attenzioni. Tuttavia, quando cominciarono a capire che questi episodi si sarebbero ripetuti regolarmente, si stancarono ben presto. Il dottore le rassicurò che per quanto sembrassi vicino alla morte durante gli attacchi, l’asma non mi avrebbe ucciso; quindi cominciarono a prenderla più filosoficamente e presero l’abitudine di lasciarmi da solo finché non erano passati.
Temo che invece io non riuscii mai ad affrontarla filosoficamente, anzi, a ogni attacco mi facevo prendere dal panico come la prima volta. In teoria si sa che non si muore, ma subentra qualcosa di molto allarmante quando la propria riserva d’aria si interrompe bruscamente e il panico sopravviene a prescindere da tutto. Come dicevo, tutti si abituarono e poi si seccarono.
Era un tragitto lungo trascinare un vassoio dal piano terra alla mia stanza da letto. Cominciai a non poterne più nemmeno io poiché mi era diventato molto faticoso fare le scale quando mi mancava il respiro. Si rivelò quindi necessario cambiare stanza. L’unica alternativa, a meno che non spodestassi qualcun altro, sembrava essere una specie di seminterrato affacciato nel cortile che non mi piaceva affatto.
Improvvisamente mi sovvenne che in fondo alla lunga striscia di quello che chiamavamo giardino, erano allocate le vecchie scuderie che sarebbe stato possibile trasformare in una specie di appartamentino. Nello stesso istante in cui ci pensai, mi entusiasmai all’idea e uscii tra i lauri selvaggi per vedere cosa avrei potuto farne.
La vegetazione era troppo rigogliosa ma mi feci strada seguendo la traccia di un lungo sentiero nascosto e arrivai davanti a una piccola porta con un arco appuntito come quelli delle chiese, circondata da mattoncini antichi. Era chiusa e io non avevo la chiave, ma una spallata risolse presto la questione e mi trovai in una rimessa. Da un lato c’erano le scuderie dei cavalli e dall’altro i ripostigli. Nell’angolo, una scala a chiocciola si inerpicava tra le ragnatele e il buio. Salii con cautela perché scricchiolava un po’ e giunsi nel fienile. Era completamente buio, ma filtrava un po’ di luce dalle persiane delle finestre. Aprii una persiana che mi rimase in mano, lasciando un ampio varco che fece passare la luce del sole e l’aria fresca nell’oscurità maleodorante. Mi sporsi e rimasi stupito da ciò che vidi.
Il nome stesso della città, Dickford, suggerisce che doveva sorgere sulle sponde di un qualche fiume, probabilmente quello che nasceva a Dickmouth, una località di mare distante circa dieci miglia. Ebbene, lì passava il fiume, probabilmente il Dick che non avevo mai pensato potesse esistere sebbene fossi nato e cresciuto in quel posto.
Laggiù nella gola coperta di vegetazione scorreva un torrente, probabilmente piuttosto grande, da quello che riuscivo a intravedere tra i cespugli. Evidentemente a monte entrava in una galleria sotterranea e, sul vecchio ponte che lo attraversava un poco dopo, erano state costruite delle case, tanto che non mi era mai venuto in mente che Bridge Street corrispondesse a un vero ponte.
Ma questo era un fiume autentico, largo una ventina di piedi e sovrastato da veri salici come gli stagni del Tamigi. Rimasi sorpreso come non mai.
Com’era possibile che un ragazzo avesse potuto vivere tutta la sua vita tra i detriti di un fiume senza sapere che questo esistesse?
D’altra parte non avevo mai visto un fiume tanto nascosto; i giardini lunghi e stretti confinavano con la gola dove passava ed erano sovrastati da alberi e da arbusti alti quanto i nostri. Sono convinto che tutti i monelli della città lo sapessero, ma io avevo avuto un’educazione molto severa che mi aveva imposto infinite limitazioni.
Avrei potuto trovarmi in mezzo alla campagna, perché non si vedeva nemmeno un comignolo oltre gli alberi carichi di fogliame che fiancheggiavano gli argini a perdita d’occhio, lasciando l’acqua scorrere in un tunnel di fronde. Probabilmente era meglio che non avessi scoperto il fiume da ragazzino, perché ne sarei rimasto di certo talmente affascinato da caderci dentro.
Mi guardai intorno. La costruzione era piuttosto solida, in stile Regina Anna, come la casa, e non sarebbe stato un lavoro troppo complesso ricavare dalla grande soffitta, dotata di abbaini, un paio di stanze e un bagno. C’era già un camino a un’estremità e avevo visto un rubinetto e un canale di scolo al piano di sotto. Soddisfatto della mia scoperta tornai a casa e venni accolto dalla solita doccia fredda: era fuori discussione sperare che i domestici potessero raggiungermi con i vassoi quando ero malato. Dovevo optare per il seminterrato o niente. Urlai dannati domestici e dannato seminterrato (con la malattia ero diventato piuttosto collerico), presi la macchina partii per un giro di affari irrisori e le lasciai alla loro rabbia.
Gli affari non erano del tutto trascurabili. Occorreva prendere possesso di una schiera di villette che dovevano essere demolite per fare largo a una pompa di benzina; un’anziana signora aveva rifiutato di andarsene e qualcuno doveva parlarle. Di solito, preferisco sbrigare queste faccende da solo, perché i pubblici ufficiali si comportano in modo abominevole e io non amo trascinare i vecchi paesani in tribunale se è possibile evitarlo. È un compito ingrato per chiunque.
Erano delle ex villette di campagna, intorno alle quali era cresciuta la città. Nell’ultima di esse viveva una vecchia, Sally Sampson, che abitava lì dalla notte dei tempi e non voleva saperne di andarsene. Le avevamo offerto delle sistemazioni alternative e sembrava che la faccenda sarebbe finita in tribunale, cosa che detesto nel caso di questi vecchi attaccati alla loro casetta di campagna. Fu così che bussai con il battente di ottone alla porticina verde di Sally cercando di fare il duro, il che non mi riesce molto bene. D’altra parte meglio me che lo sceriffo.
Sally aprì la porta di un paio di centimetri con una grossa catena rumorosa di metallo con la quale sarebbe stato possibile rovesciare l’intera villetta e mi domandò cosa volessi. Immagino che avesse una mazza in mano. Fortuna volle che fossi rimasto senza fiato dopo essere salito dal sentiero scosceso del giardino; non riuscii a fare altro che appoggiarmi allo stipite della porta e rantolare come un pesce.
Questo