Patto tra amiche (eLit): eLit
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Suzanne Forster
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Patto tra amiche (eLit) - Suzanne Forster
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1
Rowe Academy for Girls
Tiburon, California
Inverno 1980
La canottiera era troppo piccola e le fasciava il seno, riducendolo a una prima scarsa. Sopra, infilò una fresca camicetta bianca e la abbottonò, lasciando scoperta solo un po' di gola dalla carnagione lattea. Le batteva forte il cuore.
Vedeva il riflesso di lui che la guardava, totalmente assorta in quel rituale davanti allo specchio a grandezza naturale. Vestirsi per fare sesso le era sempre parso strano, ma era così che gli piaceva. La gonna scozzese le arrivava al ginocchio e si apriva come un kilt. Il lembo si sollevò quando lei abbozzò una piroetta. Si sentiva allegra come una ragazzina. La sua treccia scura danzava. Di certo lui avrebbe notato la trasformazione. Non si guardò allo specchio mentre infilava i calzettoni bianchi al ginocchio. Preferiva la seta, ma tutto doveva essere autentico. Non era permesso trucco, solo un po' di lucido per labbra. Nessun gioiello. Sarebbe stato di cattivo gusto.
L'immagine di lui era scomparsa. Si voltò, sperando di vederlo sul letto, in attesa, eccitato e tremante di vergogna. Era così che lei lo controllava, e aveva funzionato fino a quel giorno, o in caso contrario la relazione non sarebbe sopravvissuta. Aveva qualcosa di importante da dirgli, ma la speranza svanì quando lo vide in piedi davanti alla finestra, intento a osservare il cortile, sotto il suo appartamento nella torre campanaria, dove le studentesse si godevano l'intervallo fra una lezione e l'altra.
L'accademia, una struttura a ferro di cavallo, una copia dei castelli vittoriani della vecchia Inghilterra, era più di una scuola; per lei era la casa di famiglia, devoluta tramite una fondazione alla causa dell'istruzione quando sua nonna era morta, quindici anni prima. In quel momento le sembrava una prigione.
Lo raggiunse, ma lui non parve accorgersi della sua presenza. Fissava come trasfigurato una creaturina squisita, con una cascata di ricci scuri e il sorriso pensoso di una madonna. La ragazza era in piedi accanto alla fontana, al centro del cortile, apparentemente ignara della bruma che la avvolgeva come un velo da comunione. Quel giorno il tempo rigido aveva costretto all'interno quasi tutte le studentesse, ma lei probabilmente aveva desiderato restare sola con i propri pensieri.
«È lei, allora?» chiese la direttrice. «Una delle mie ragazze? Vuoi una ragazzina?»
La sua amarezza avrebbe dovuto ferirlo, ma lui pareva inconsapevole. «Non è una bambina» replicò. «È già adulta, ma ancora nel fiore della femminilità. È fresca e deliziosa. Intatta.»
La rabbia le strinse la gola. Non aveva ancora trent'anni e già stava per essere messa da parte? Dopo tutto ciò che aveva fatto per lui? Tutta la sua vita ruotava intorno a quell'uomo, ma ora diventava impossibile dargli la notizia. Lui l'avrebbe giudicata ridicola. La sua collera divenne furia. Lui avrebbe avuto quello che voleva, e ne avrebbe pagato il prezzo. Era un uomo potente, avrebbe potuto rovinarla. Ma aveva varcato il limite, e lo sapevano entrambi. Avrebbe avuto ciò che voleva. E avrebbe pagato.
Prigione di San Quentin
Estate 2005
La foschia avvolgeva il sole, trasformandolo in una luna argentea quando il cancello principale si aprì con fragore. Sulla soglia apparve uno spettro di essere umano, alto e sparuto. Fece qualche passo. L'abito scuro ballava intorno al corpo sottile, e i folti capelli nerissimi gli ricadevano sul viso, ombreggiando la luce degli occhi. Ciò che si vedeva del volto erano solo mascelle e cartilagini. Era un detenuto del braccio della morte, ma ora camminava libero, l'unico prigioniero rilasciato quel giorno.
L'uomo non sembrava consapevole della strada davanti a lui, solo della cupa fortezza che si ergeva alle sue spalle. Dopo pochi passi, si fermò e si girò, ondeggiando come un albero scheletrico troppo cresciuto. Alzò una mano e piegò le dita, tutte tranne il medio. Sembrava più un test dei suoi diritti costituzionali che un gesto di sfida. Era davvero un uomo libero? Una portiera sbatté in lontananza e lui si chinò di scatto, aspettandosi uno sparo.
Un uomo si trovava sull'altro lato della strada accanto a un lucente SUV con i finestrini oscurati. Jameson Cross era alto come l'ex detenuto e i suoi capelli neri avevano la stessa sfumatura bluastra, ma la somiglianza fra loro finiva lì. Sotto ogni altro aspetto, i due erano profondamente diversi.
«William Broud? Posso darle un passaggio?» Cross si fece cautamente avanti, offrendo la mano... e la sua auto. «La strada verso la civiltà è lunga.»
Broud non lo guardò, né prese atto della sua presenza. Cross avrebbe potuto essere invisibile, ma sapeva che l'altro l'aveva sentito. Quell'indifferenza era deliberata. William Broud aveva ignorato Jameson Cross fin dal giorno in cui era entrato in carcere. Non erano nemici; era qualcosa di peggio.
Cross gli si affiancò. «Vorrei parlare con lei degli omicidi alla scuola di perfezionamento. Avrà bisogno di un lavoro, ora che è fuori, e io posso pagarla per il tempo che mi dedicherà.»
Cross era autore di best seller polizieschi, e in quel caso la posta in gioco andava oltre il libro che intendeva scrivere. Broud aveva lavorato come giardiniere tuttofare in un esclusivo istituto di perfezionamento di Tiburon. Aveva passato in prigione ventitré anni per l'omicidio di Millicent Rowe, direttrice della scuola. Di recente, tuttavia, il test del DNA l'aveva scagionato, e Cross non capiva la sua riluttanza a parlare di quell'ingiustizia. Quando l'avevano arrestato si era dichiarato innocente, farfugliando di cospirazioni e di un circuito sessuale che coinvolgeva le studentesse. Ma gli avevano trovato della droga, aveva precedenti e il sangue sulla scena del delitto era B negativo, il suo gruppo.
«Chi sono le Ragazze Sole?» chiese Cross. «Lei disse che erano state loro a uccidere la direttrice. Erano studentesse?»
Broud continuava a camminare, la testa china, il viso nascosto dai capelli.
La frustrazione invase Cross. Quella storia doveva finire. «È marcito in galera per ventitré anni senza che a nessuno importasse» proruppe. «L'avrebbero lasciata morire. Chiunque sia il colpevole dovrebbe pagare per averla scaraventata in quell'inferno.»
I capelli neri volarono all'indietro, lasciando finalmente libero il viso torturato di Broud. «Ha ragione» disse guardando l'altro. «A nessuno importava. Perché dovrei farlo? Mi lasci in pace.»
«Non deve essere necessariamente così. Billy...»
«Non mi chiami così» sibilò Broud. «Billy non esiste più.»
Cross si fermò, guardandolo allontanarsi. Se avesse insistito, forse avrebbero finito per fare a pugni. Billy Broud non c'era più, pensava, ma se gli zombie esistevano, quell'uomo era uno di loro. Il suo viso era un teschio urlante di Halloween. Gli era stata risparmiata l'esecuzione, ma ciò che di lui era stato umano, ora era morto. Solo le pupille dei suoi occhi ardevano di una vita terribile, e Jameson Cross non le avrebbe dimenticate facilmente.
Era certo che Broud sapesse chi gli aveva giocato quello scherzo, ma per qualche ragione si rifiutava di parlare. Forse voleva vendicarsi. Nondimeno, quella era una storia che Cross intendeva raccontare. Era certo che i sospetti sarebbero stati sufficienti per i titoli di testa. Sarebbe stato interessante vedere chi sarebbe corso ai ripari quando lui avesse sparato il primo colpo. E, se aveva ragione, sarebbe stata una caccia grossa. Le persone sospettate operavano ai più alti livelli del governo, della magistratura e degli affari. E, fattore ancora più interessante, erano tutte donne.
2
«Dimmi che c'è un perizoma di pizzo bianco sotto quella veste nera, e io giuro che rinuncerò al mio video Girls Gone Wild.»
China su una scatola piena di fascicoli, Mattie Smith ignorò la supplica sussurrata dal suo assistente legale, attribuendola al grande dio degli ormoni dei giovani maschi. Quando il ventiquattrenne - ex membro di una banda - era entrato, lei aveva cambiato posizione, negandogli così la vista del suo sedere mentre frugava tra i fascicoli. Cercava un caso che ricordava dai suoi anni di pubblico ministero e che trattava di confessioni estorte... ma al diavolo se lo avrebbe incoraggiato.
Quanti assistenti legali parlavano di perizoma in presenza di un giudice della corte d'appello federale, anche sussurrando? Solo Jaydee Sanchez. Ci avesse provato un altro, con ogni probabilità Mattie l'avrebbe licenziato, ma solo dopo avergli strappato quegli occhietti scintillanti. Jaydee Sanchez, però, non era un impiegato qualsiasi. E lei non era un giudice qualsiasi.
Jaydee lasciò cadere il giornale sulla scrivania di lei, che borbottò un grazie in risposta.
«Avresti un futuro come imperatore del porno, Jaydee, se tu non fossi un avvocato.»
«Devo ancora superare l'esame» le ricordò lui «e quella del porno non è una carriera che ho escluso. È più dignitosa di quella legale e deve pagare meglio, ma ahimè, così svanirebbe il mio seggio alla Corte Suprema.»
Mattie guardò il suo viso impassibile. «Ci hai provato? Il cinema porno?»
«Ho provato perfino come modello» disse lui, come se questo spiegasse tutto.
Un dolore nella parte bassa della schiena spinse Mattie a mettersi eretta. O era stata curva troppo a lungo, o i trentotto anni cominciavano a farsi sentire. Trasalì, massaggiandosi il punto indolenzito.
La sua espressione disse a Jaydee di non aprire bocca, benché lei non avesse idea di che cosa stesse per dire. Se qualcosa lo preoccupava, erano le sue inclinazioni sessuali, non la sua età e neppure l'infermità che l'affliggeva. Soprattutto, lui si lamentava del suo guardaroba. Troppo cachi.
«Se ricordo bene, volevi che ti prestassi il mio giubbotto antiproiettile per il provino» disse, ricordando l'incursione di lui nel mondo della moda nell'area di Bay. L'aveva sorpresa perché Jaydee era notoriamente un tipo elegante e indossava sempre camicie polo sotto il blazer, proprio come quel giorno.
«Volevo semplicemente vedere te senza quell'affare addosso.» Il sorriso gli scavò due fossette sulle guance scure. Tolse il coperchio al bicchiere di plastica del caffè e bevve un sorso con aria compiaciuta.
«Non hai precisamente bisogno di qualcosa che ti stimoli ancora di più.» Mattie gli aveva sempre invidiato quella capacità di trarre piacere là dove lo trovava. Il dono di Jaydee, lo chiamava. Ma quel giorno riusciva solo a infastidirla. Aveva trascorso un'altra notte in bianco, alle prese con i problemi del caso di sequestro di minore di cui si stava occupando. Di solito, come giudice di corte distrettuale non trattava casi penali. Tre anni prima era stata nominata al nono circuito della corte d'appello, dove i casi erano presieduti da una commissione di più di tre giudici, ma di recente era stata assegnata alla corte distrettuale a causa di una grave carenza di magistrati.
Quel caso, in particolare, si era dimostrato ostico fin dall'inizio. Lei aveva dovuto fare la spola fra il suo ufficio del nono circuito e quello temporaneo presso il tribunale distrettuale, avendo così un accesso solo limitato alla biblioteca e al materiale di ricerca, e con sé aveva potuto portare solo due assistenti, il che significava lavorare con il personale dimezzato. Inoltre, i casi che trattavano abusi la inquietavano per motivi personali, e in un primo momento si era chiesta se sarebbe riuscita a mostrarsi equa e imparziale. Ora si preoccupava di non essersi spinta troppo oltre nel tentativo di essere giusta.
L'imputato ventunenne aveva rapito il fratellino di sei dall'abitazione del padre violento, per portarlo in una casa sicura oltre il confine canadese, dove gli aveva promesso di raggiungerlo presto. La casa era stata perquisita dall'FBI il giorno seguente e il bambino era stato restituito ai genitori.
Il contesto del caso era vasto e preoccupante. I genitori erano ricchi e con buoni contatti politici, e l'imputato non era riuscito a far togliere loro l'affido. Alla fine, pieno di frustrazione, aveva aggredito il padre e da questi era stato denunciato. Aveva scontato i novanta giorni della condanna, ma a quel punto il Child Protective Service non lo considerava più un difensore adeguato del fratello, e il bambino era stato rimandato a casa dove era rimasto fino a che l'altro non lo aveva rapito.
Ora il bambino era in custodia protettiva e reagiva bene, ma toccava al tribunale decidere la sorte di Ronald Langston, il sequestratore. Quando la polizia lo aveva interrogato, aveva fatto ammissioni che avrebbero potuto essere interpretate come una confessione. Mattie aveva il potere di non considerare quelle dichiarazioni, ma aveva voluto mostrarsi rigorosamente imparziale permettendo tutte le prove ammissibili, così le aveva accolte. In realtà, non aveva mai creduto che Langston sarebbe stato condannato, ma ora, considerando l'andamento del processo, non ne era più così sicura.
«Lì c'è il tuo prezioso giornale.»
Mattie alzò gli occhi su Jaydee, che indicava con gli occhi la copia del San Francisco Chronicle posata sulla sua scrivania. «Lo leggi per gli annunci personali, vero?» Lui le scoccò un'occhiata saputa. «Scommetto che vai dritta alla sezione PPS.»
«PPS?»
«Persone dello Stesso Sesso. Non fingere di non sapere di cosa sto parlando, signorina.»
Mattie non si preoccupò di lanciargli l'occhiata incendiaria che meritava. Non sarebbe servito a nulla. La loro amicizia era vecchia di anni e per certi versi erano più vicini di due fratelli. Lei gli aveva fatto da mentore in ogni aspetto della legge, ma a causa del loro rapporto, così unico, era stata particolarmente attenta a trasmettergli ciò che era importante per chi lavorava a fianco a fianco con un magistrato. Fuori di quell'ufficio, lui la trattava con deferenza e rispetto, ma lì dentro era un'altra faccenda. Di solito era incorreggibile, proprio come quel giorno.
Jaydee aveva deciso che era lesbica quando lei lavorava ancora come pubblico ministero e lui era stato il suo testimone principale contro uno spacciatore che riforniva buona parte dei giovani ispanici della contea di Orange. Mattie aveva cominciato a portare il giubbotto di Kevlar dietro consiglio della polizia locale, ma non era stato quell'indumento a sconcertare Jaydee. Era la sua durezza. Lui era il prodotto della cultura della bande, e non era abituato a una donna leader. Ciononostante, non era stata Mattie a costringerlo a testimoniare; si era offerto lui per ragioni personali. Aveva tredici anni quando aveva rischiato la vita per aiutare a consegnare alla giustizia lo spacciatore che la sua testimonianza aveva spedito all'ergastolo. Così era entrato nella vita di Mattie. Lei aveva beneficiato enormemente del loro rapporto, ma Jaydee aveva perduto. Tutto. I complici dello spacciatore avevano trovato e ucciso i suoi unici parenti, gli anziani nonni che lo avevano cresciuto.
Lo shock e il dolore di Mattie erano stati grandi quasi come quelli di lui. Jaydee era troppo orgoglioso per permetterle di confortarlo apertamente, ma lei aveva trovato altri modi. Era diventata la sua famiglia, e l'aveva riportato con sé nella zona di Bay dove era cresciuta. Gli aveva trovato un impiego, e dato che lei lavorava molto, lo aveva affidato a una famiglia adottiva adeguata. Era stata felice quando lui aveva scelto giurisprudenza. Per quanto la concerneva, Jaydee Sanchez poteva prenderla in giro per il giubbotto di Kevlar o l'orologio da sub tutte le volte che voleva. E poi, lui non era l'unico a chiedersi quale fosse l'orientamento sessuale di Mattie Smith, nota come il pitbull di cinquantadue chili, con occhi azzurri cobalto e un bel paio di palle. Lei lo considerava un ulteriore vantaggio. Se il mistero della sua sessualità serviva a distrarre i suoi avversari il tempo sufficiente per consentirle di segnare dei punti, ebbene, che si interrogassero pure.
«Possiamo parlare del caso Langston?» disse. «Mi sta facendo impazzire.»
«Brutta faccenda.» Jaydee tirò fuori un taccuino legale dalla ventiquattrore rigonfia. «L'avvocato d'ufficio è un inetto, il pubblico ministero brillante. Insieme, stanno dipingendo quel ragazzo come il mostro di Alien.»
Mattie non avrebbe potuto essere più d'accordo. A un certo punto, il pubblico ministero si era avvicinato al banco della giuria, per poi voltarsi a guardare Langston, un ragazzo grande e grosso con la testa rasata e una cicatrice frastagliata sul viso, testimonianza della lotta con il padre. «Riuscite a immaginare» aveva detto il pubblico ministero ai giurati «come dev'essersi sentito quel bambino quando è stato strappato dal suo letto in piena notte? Come vi sentireste voi se veniste rapiti da quest'uomo?»
Mattie aveva dovuto soffocare una disperazione del tutto inappropriata al suo ruolo di magistrato. Se sotto la paura e l'atteggiamento difensivo di Langston si nascondeva un cuore tenero, non era facile vederlo.
«Il pubblico ministero sta cercando di spiegare tutto con un rancore fra Langston e il padre» riprese Jaydee «e sta facendo un buon lavoro. Vuole che la giuria creda che si sono palleggiati il bambino come se fosse un pallone da baseball.»
Naturalmente, durante la testimonianza, il padre aveva negato gli abusi e dichiarato che il figlio maggiore lo odiava perché lui aveva modificato il testamento, e che non si sarebbe fermato davanti a nulla pur di fargliela pagare. Sostenne addirittura che l'intento originale di Ronald era stato di rapire il fratello per chiedere un riscatto. Il pubblico ministero gli aveva dato corda, una strategia eccellente.
«Per come la vedo io, Langston non ha alcuna possibilità di avere un processo equo» disse ancora Jaydee. «Ma diavolo, sono qui per salvarti la giornata. Vuoi sentire le mie idee su come rimediare?»
«Non credo, Jaydee. Proprio no.»
«Mattie, quel ragazzo affonderà e, con tutto il rispetto, a impiccarlo sarà la testimonianza che tu hai accolto. La sua unica possibilità è un processo di appello, e non lo otterrà a meno che non si verifichi un errore in questo procedimento. Qualcuno deve fare un paso falso, e grosso.»
«Non è possibile predisporre un errore legale, Jaydee, e certo non sarò io a cominciare.»
Il ginocchio fece un clic sospetto quando Mattie tornò a inginocchiarsi per frugare tra i fascicoli. Si sentiva a pezzi. Il piccolo handicap era frutto di un incidente giovanile che in lei suscitava un dolore più psicologico che fisico. Era paradossale che avesse creduto di aver accantonato il passato con più cura di quanta ne avesse posta nel chiudere quella scatola, ma il caso Langston l'aveva costretta a riaprire entrambi.
«Dunque Langston andrà in carcere, forse per tutta la vita, per aver cercato di fare il bravo fratello?»
Mattie sospirò. Jaydee non poteva sapere quanto quel caso la lacerasse, altrimenti non l'avrebbe esortata a usare i suoi poteri in modo discutibile. Lo guardò di sbieco. «Credi che potremmo far andare avanti il processo finché non avremo il verdetto della giuria? È per questo che esiste il nostro sistema penale.»
«A meno che le carte non vengano disposte ad arte senza alcuna responsabilità da parte sua.»
«Eccolo!» Mattie estrasse il fascicolo dalla scatola. «Il popolo contro Randolph.»
«Tutto quello che ci serve è un unico errore reversibile» insistette Jaydee. «Conflitto d'interesse, o magari impropria presentazione di documenti in sede pre-processuale. Probabilmente il padre dell'accusato gioca a golf con il procuratore generale. Che diavolo, forse basterebbe perfino l'assistenza legale inadeguata.»
«Non posso, Jaydee. Etica professionale.»
Il taccuino di lui volò sulla scrivania. «L'unica cosa etica da fare è dare a quel ragazzo un processo equo. Dov'è il tuo senso di giustizia, donna?»
Mattie gli scoccò un'occhiata ammonitrice e si rimise in piedi, dimentica della schiena. «Un momento fa, la mia femminilità era in dubbio, o mi sbaglio?»
«Non lo sarebbe, se tu smettessi di portare quel giubbotto.» Negli occhi del ragazzo c'era un bagliore malizioso. Ma d'altra parte, c'era sempre.
«Fila» disse Mattie. «Ho bisogno di passare un po' di tempo da sola con Nostra Signora Giustizia.» Toccò la statua di marmo posata sulla scrivania. Era diventato uno dei suoi rituali, prima di un'udienza difficile, sedersi in silenzio accanto a quel simbolo. Non per pregare, meditare o chiedere aiuto. Solo per restare immobile e assorbire appieno l'importanza del compito che la aspettava.
Quel giorno, forse avrebbe addirittura pregato.
Sapeva che Jaydee non stava mettendo in dubbio le sue convinzioni. Semplicemente, non capiva che quel caso per lei era personale, e che aveva fatto l'impossibile per agire con cautela. Di solito, era alla sua totale incapacità di essere politicamente corretta che lui obiettava. Mattie non esitava davanti all'ambiguità morale. La prendeva e la rendeva perfino più ambigua. Confondeva le cose in cerca della verità... anche quando la verità non era quello che la gente voleva. La gente voleva una giustificazione per le proprie convinzioni, e poco importava quanto tendenziose fossero. Voleva che lei la aiutasse a restare aggrappata alle menzogne, mentre Mattie lo rendeva difficile.
Jaydee non smetteva mai di ammonirla sui pericoli del farsi dei nemici. Per molti versi, era più conservatore di lei, e per molti versi, più saggio. Ma non era un giudice. Non doveva preoccuparsi di quando i limiti della legge si scontravano con i limiti del suo potere.
«Allora, hai addosso qualcosa di interessante sotto la toga, oggi?» chiese Jaydee.
Mattie sbottonò la toga nera e accennò un piccolo inchino, mostrandogli che non indossava il famigerato giubbotto. «Così va bene?» chiese. La gonna color cachi e la camicetta di foggia maschile che aveva pescato dall'armadio erano capi d'alta moda, se paragonati a quelli che indossava abitualmente sotto la toga... pantaloni cachi e una T-shirt.
Lui rise. «Quando è previsto il cambiamento di sesso?»
«Sarai il primo a saperlo. Nel frattempo, non sbattere la porta quando esci.»
Ma Jaydee non sembrava ancora disposto ad andarsene. «Sul serio» insistette. «Perché tanta mascolinità? A che scopo?»
«Funziona.»
«Tiene lontani gli uomini.»
«No, realizza i miei obiettivi. Io sono una ragazza cattiva. La gente non si avvicina. Be', a parte te.»
Si sedette alla scrivania, pronta per mettersi a lavorare. Aveva un fascicolo da rivedere, ma i suoi pensieri continuavano a tornare alla prima volta in cui Jaydee aveva ritenuto necessario interrogarla sulle sue preferenze sessuali. Lei aveva appena avviato lo studio legale, e lo aveva assunto perché lavorasse come fattorino dopo l'orario di scuola. Lui all'epoca aveva quindici anni.
«Sei gay, vero?» le aveva chiesto una sera, fermandosi nel suo ufficio per augurarle la buonanotte. «Una lesbica? Devi esserlo.»
«Perché?»
«Perché non ti ho mai visto le gambe e non mi hai mai fatto un'avance.»
«Ti do un consiglio» aveva risposto Mattie. «Non trattenere il fiato in attesa dell'una o dell'altra cosa.»
Ora, percepì la sua presenza e quando alzò gli occhi trasalì nel vederlo accanto a lei, che la guardava. Quella vicinanza le strappò una piccola esclamazione.
Jaydee si chinò a sfiorarle la fossetta sul mento. «Una bocca molto graziosa» disse con voce estremamente dolce. «Perché non la usi per qualcosa che non sia semplicemente mangiare?»
Una bocca graziosa. Mattie rabbrividì nel sentire quelle parole. Lottò per alzarsi in piedi, guardandolo come se fosse improvvisamente impazzito. «Fuori di qui, Jaydee» sibilò. «Fuori di qui subito... e non toccarmi mai più in quel modo.»
«Ehi, vostro onore, non intendevo fare niente di male.»
Mattie gli voltò le spalle, troppo arrabbiata per rischiare un'altra parola. Le pulsavano le tempie, ma lo sentì uscire, e solo quando la porta sbatté dietro di lui, si permise di rilassare le spalle. Contemplò il suo riflesso nella finestra. Non assomigliava minimamente a un uomo, a dispetto di quello che diceva Jaydee. Le spalle quadrate suggerivano forza, ma era piccola e snella. Bruciava energia anche stando ferma. A dispetto di tutta la sua durezza, era trasparente come il vetro. Quando i fuochi venivano spenti ed emergevano le ombre, il suo viso assumeva un'espressione fragile, disperata, proprio come in quel momento.
Si vestiva deliberatamente in quel modo severo. Niente accessori. Niente trucco. La camicetta e la gonna sarebbero state alla moda e sexy, se abbinate a un paio di tacchi a spillo e alla massa di capelli di Britney Spears. Ma Mattie aveva fermato i riccioli che le arrivavano alle spalle con una semplice fascia. Non esattamente l'ultima moda, e di certo non faceva risaltare gli occhi azzurri e gli zigomi pronunciati. Boomerang, li aveva definiti una volta un'insegnante. Mattie Smith aveva angoli che tagliavano, e li usava.
Ma Dio, se era sola. Quando si concedeva di pensare a quel vuoto, era quasi più di quanto potesse sopportare. Aveva mentito a Jaydee. A tutti. Non si vestiva in quel modo solo per raggiungere i suoi obiettivi. Lo faceva per tenere lontana la gente, per tenere lontani gli uomini che le sfioravano le labbra...
3
Rowe Academy for Girls
Autunno 1981
«Che bocca graziosa» disse l'uomo con la sua voce rauca. «È trasandata, sì, ma potrebbe essere divertente. I ragazzacci, sa.»
La donna che aveva organizzato il colloquio spinse la ragazza verso la luce, perché lui la vedesse meglio. L'uniforme di lei, una gonna scozzese a pieghe, abbinata a una camicia bianca e a una sciarpa blu navy con monogramma, le fasciava il corpo dinoccolato. Uno dei calzettoni blu era sceso fino alla caviglia. Una ciocca vagante di capelli scuri era incollata alla sua guancia umida, ma a dominare il viso erano gli occhi azzurri, cauti e dolenti.
Sarebbe stato fin troppo facile definirla sciatta. Selvatica sarebbe stato un termine molto più adeguato, e forse proprio quella qualità era la fonte del suo strano fascino angoloso. Il suo atteggiamento era quasi imbronciato, ma nasceva chiaramente dalla paura che ribolliva sotto la superficie.
La punta della sua lingua saettò a inumidire le labbra. Non stava cercando di essere seducente; aveva la bocca secca e appiccicosa. Non riusciva neppure a sorridere.
«Sembra molto giovane» osservò l'uomo.
«È molto intelligente» ribatté la donna. «È la nostra migliore tiratrice con l'arco, ma temo di dover aggiungere che legge anche la mano.»
«Legge la mano? Una delle tue ragazze?» La voce di lui echeggiò nell'aula vuota.
La donna si ravviò i capelli, infilando ciocche scure e ribelli nella treccia annidata sulla sua nuca come un serpente lucente. «Questa è diversa. Le ho dedicato molto tempo, ma sembra immune al mio tocco civilizzatore.»
«Tocchi alla My Fair Lady?»
La donna sospirò. «Immagino di sì.»
La quattordicenne di cui parlavano represse uno sguardo di sfida. Le era stato detto di sorridere e di flirtare con l'uomo, ma la luce era così vivida che non riusciva a vederlo, neppure serrando gli occhi. Un atteggiamento che avrebbe pagato. La signorina Rowe detestava che le sue ragazze si comportassero in modo ordinario, anche se questo era ciò che erano. Ma lei non era come le altre studentesse, che venivano da famiglie ricche. Lei veniva dai sobborghi, dal nulla. Era una delle allieve che beneficiavano della borsa di studio Grace.
«Come si chiama?» chiese l'uomo.
«Matilda. Un nome dolce, non trovi? È molto vivace. Deliziosa, a suo modo.»
La ragazza si accigliò. Deliziosa? Era un orrore allampanato, invece, e nessuno lo sapeva meglio di lei. Se era lì, era per errore. Non era possibile che un uomo la volesse. Matilda, l'asociale? La secchiona? Perché era stata scelta per quell'indegnità? La scuola aveva solo quattro ragazze che godevano della borsa di studio, e le altre tre non avrebbero creduto neppure per un momento che lui avrebbe finito per scegliere Mattie Smith. Loro erano belle e avevano già il seno. Lei aveva perfino spiegazzato i vestiti, nella speranza che lui la giudicasse grossolana.
L'uomo estrasse qualcosa dalla tasca del cappotto, una lunga fascia che lisciò con le dita.
«Niente bende» lo ammonì la signorina Rowe. «È terrorizzata da certe restrizioni. Al buio non vedrà comunque nulla.»
Il cuore di Mattie prese a battere forte, dolorosamente, mentre la fascia tornava nella tasca. Cosa avrebbe fatto se lui le avesse coperto gli occhi con quell'affare, accecandola?
Uccidilo, pensò. Doveva aggredirlo con il coltello che aveva rubato in cucina e nascosto nel calzettone. Se avesse avuto il suo arco, gli avrebbe trapassato il cuore con una freccia.
«Come facciamo a essere sicuri che non parlerà?» chiese lui alla direttrice, che finse di mettere il broncio.
«Mi sottovaluta, signore. Non sarà un problema, glielo assicuro. Queste ragazze sanno qual è la posta in gioco. Sono state fortunate a essere ammesse a una scuola come questa, non è vero, Matilda?»
Mattie riuscì ad annuire.
«Sembra molto giovane» ripeté lui, come se quel particolare lo disturbasse. Si avvicinò, ma Mattie riuscì a vedere solo la manica scura del cappotto e la mano pallida che si avvicinava al suo viso.
L'istinto la spinse a indietreggiare, ma non poteva distogliere lo sguardo. Lui aveva mani grassocce e dita corte. Una mano a spatola indicava aggressività, una natura da leader. Lei notava le mani. Era un riflesso automatico. Poi qualcosa di lucente la distrasse. I gemelli. Quello che vide era in onice, con incastonata una stella d'oro.
«Questa» bisbigliò lui «è una delle boccucce più deliziose che abbia mai visto.»
Le sfiorò le labbra, trasmettendole uno spasimo doloroso. Le venne voglia di vomitare. Da quel momento le riuscì difficile udirlo, ma lui mormorò qualcosa sul baciarla, e lei sentì una mano premerle contro la schiena.
La direttrice la stava spingendo verso di lui. Quando Matilda resistette, unghie affilate le penetrarono nella pelle.
«Matilda?» disse lui. «Qualcosa non va?»
Ora era troppo vicino. Lei percepì nel suo alito odore di caffè e un altro che le diede di nuovo la nausea. Lui puzzava come gli uomini che andavano a trovare sua madre. Lela Smith leggeva la mano, e riceveva i clienti nella camera da letto dell'appartamentino che divideva con la figlia. Mattie allora era troppo giovane per capire esattamente che cosa succedesse in quella stanza, ma sentiva le risate, i sussurri e gli odori primitivi dell'eccitazione animale.
Terrorizzata all'idea di vomitare, girò la testa. Non aveva famigliarità con gli stratagemmi femminili, o avrebbe colto l'opportunità per fingere di svenire. Una delle altre l'avrebbe fatto di certo, ma loro non erano stupide ragazzine goffe e maldestre. Un piano disperato le balenò in mente mentre cercava di non cadere.
«Non c'è nulla che non vada» disse, lasciando che lui le sfiorasse il viso. Stava per baciarla, e sapeva che la signorina Rowe lo avrebbe permesso, che addirittura sarebbe rimasta a guardare.
La luce le feriva gli occhi e le impediva di vederlo. Meglio così, comprese, o non sarebbe stata in grado di arrivare fino in fondo. Lui le sollevò il mento con un dito, attirandola verso di sé.
La signorina Rowe la spinse, esortandola a farsi avanti.
«Matilda dalla bocca graziosa» mormorò l'uomo.
Un brivido le corse lungo la schiena per l'orrore di quello che stava per accadere. Lui si chinò a baciarla, lei sputò. E non pavidamente. Chiamò a raccolta tutta la saliva che la bocca secca le permetteva, e sputò con ferocia.
L'uomo gridò e la signorina Rowe entrò in azione. Pizzicò la carne di Mattie con tanta forza da graffiarle la pelle, e lei indietreggiò con un grido di dolore.
L'uomo sprofondò nuovamente nell'ombra, e la direttrice spinse Mattie da parte per avvicinarsi. «Sono terribilmente spiacente.» Alzò le mani in un gesto implorante. «Proprio non capisco cosa le sia preso. La prego di scusarmi un momento mentre scambio due parole con lei.»
Mattie non sentì la risposta dell'uomo. Non che avesse importanza. Lui non avrebbe potuto salvarla neppure se avesse voluto. Nessuno poteva farlo. Una volta che lui avesse lasciato quella gotica mostruosità di scuola, lei sarebbe stata torturata al punto che mai più avrebbe osato sfidare la direttrice.
Mattie aveva in bocca qualcosa che bruciava come una fiamma. Quando cercò di sputarlo, si rese conto che era la sua stessa lingua. Era infiammata e stranamente gonfia. Sentì il sapore del sangue, ma non osò ingoiare. Sarebbe sicuramente soffocata.
Quella fu la prima, terrificante consapevolezza mentre lottava per riprendere i sensi. La seconda fu peggiore. Era avvolta nel buio e intrappolata in uno spazio così angusto che sentiva il proprio respiro sul viso. La barriera che la sovrastava non distava più di dieci centimetri dalla sua bocca.
Era una bara? Era stata sepolta viva?
Il terrore l'afferrò, disintegrando l'autocontrollo. Doveva uscire di lì o sarebbe morta! Aveva le mani imprigionate lungo i fianchi e le ginocchia toccavano dolorosamente le pareti. Non aveva neppure la possibilità di liberarsi scalciando.
Una luce vivida e improvvisa la fece trasalire. Illuminò la sua prigione e quello che poté vedere le disse che si trattava più di un buco che di una bara. Ma da dove veniva la luce?
Calmati, si disse. Resta sdraiata e guarda. Ascolta. A ogni respiro si sentiva invadere dal panico. In qualche modo doveva trovare un punto tranquillo dentro di sé, per sprofondarvi dentro e restare immobile. Non aveva altra possibilità di sopravvivere. Quello era l'incubo che l'aveva, e l'avrebbe, tormentata per sempre. Tutti avevano un sogno di morte; l'aveva scoperto durante le lezioni di antropologia sociale. Erano sogni che scaturivano dalle foreste primordiali, dalle paludi, dai timori più arcani. Quello era l'incubo di Mattie. Ma come faceva la signorina Rowe a saperlo?
La tua bocca non è più graziosa, vero Matilda?
La luce lampeggiò di nuovo e un picchiettare leggero attirò la sua attenzione. Le ricordò un rubinetto che perdeva, ma ogni goccia sembrava alimentare una doccia sfrigolante di scintille. Nel giro di pochi secondi la cavità si riempì dei crepitii mortali dell'elettricità, e di un odore in cui lei lesse il pericolo, il tanfo di capelli bruciati.
Improvvisamente Matilda comprese. Era in una qualche cavità, forse nel solaio dell'appartamento della direttrice, e fuori pioveva. In qualche punto vicino alla sua testa c'era un cavo scoperto, probabilmente immerso in una pozza d'acqua. Le scintille le avevano già bruciacchiato i capelli. Se avesse toccato il cavo, se fosse diventata un conduttore, sarebbe morta fulminata.
Era questo che la signorina Rowe voleva?
Un sospiro angosciato le sfuggì dalle labbra. Tremava in tutto il corpo. Quel luogo era una sala di tortura medievale. Non osava muoversi. Come avrebbe fatto a uscire di lì?
Si sforzò di ricordare cosa era accaduto prima di perdere conoscenza. La signorina Rowe l'aveva portata nel salottino del suo appartamento e le aveva offerto una tazza di tè. Per calmarla, aveva detto. Aveva insistito perché lo bevesse prima di parlare. Da quel momento Mattie non ricordava più nulla, se non che il tè era troppo dolce, come se fosse stato aggiunto del miele per nascondere un altro sapore. Cosa ci aveva messo la direttrice? Acido? Liscivia? L'uno o l'altra l'avrebbero certamente uccisa, se ne avesse bevuto. Ma forse la morte sarebbe arrivata lentamente. Mattie non sapeva molto di quelle cose. Forse stava già morendo. Alla signorina Rowe piaceva preparare miscele d'erbe, alcune velenose, ma in gran parte rimedi omeopatici. Forse aveva aggiunto al tè un sonnifero, e mentre lei era priva di conoscenza, le aveva versato sulla lingua una sostanza caustica. Le sembrava di essersi scottata con acqua bollente, e non se la sentiva di scartare una simile ipotesi. La signorina Rowe era il male.
Mattie aveva sentito parlare di ragazze arrivate alla scuola grazie a una borsa di studio e che in seguito erano scomparse, ma fino a quel momento non aveva mai creduto a quelle voci. Forse c'erano altre ragazze lì nel buco. Ragazze morte. L'accademia era un antico castello in stile vittoriano con parecchie ali. Aveva gallerie e torri, e solo un terzo dei suoi edifici era utilizzato. C'erano posti in abbondanza per nascondere cadaveri, soprattutto cadaveri smembrati.
Non sarebbe morta in quel modo. Avrebbe lottato.
Cercò di muovere le gambe, ma la paura, se non altro, l'aveva avvelenata. Una strana letargia si impadronì di lei. Si sentiva le palpebre pesanti, e avrebbe voluto cedere, ma sapeva di dover restare sveglia. In caso contrario, avrebbe potuto toccare accidentalmente il cavo. Quel po' d'aria che c'era si era fatta calda e spessa.
Il suo respiro d'angoscia soffocò un altro suono, un lontano clic-tap-clic. Sembravano passi. Stava arrivando qualcuno? La signorina Rowe, comprese. Chi altri poteva essere? La direttrice veniva a controllare se era già morta.
4
Tribunale distrettuale federale
San Francisco
Estate 2005
Il martelletto sussultò nella sua mano quando Mattie lo calò, esigendo ordine. Presiedere un processo con la giuria le risultava strano, anche se erano passati solo pochi anni da quando lo faceva regolarmente. Aveva lavorato presso la corte distrettuale prima di passare a quella d'appello, e si era seduta su quello stesso scranno in quella stessa stanza.
Forse non era imponente come le aule dello storico tribunale dove si riuniva il nono circuito, ma ovunque splendevano mogano e ottone, e si respirava l'atmosfera di un potere antico. Quella mattina, mentre attendevano la sentenza per Ronald Langston, quell'aura di potere e ineluttabilità risultava sconcertante perfino per lei.
Si rivolse al portavoce della giuria, un uomo snello con i capelli grigi e occhiali dalla montatura di metallo in bilico sulla punta del naso.
«Avete raggiunto un verdetto unanime?»
«Sì, Vostro Onore.»
«La prego di consegnarlo allo sceriffo.»
Mattie lanciò un'occhiata all'imputato. Ne percepiva il turbamento perfino a distanza, ma poteva solo immaginare l'ansia che provava nel trovarsi in balia degli uomini e delle donne che sedevano nel recinto della giuria. Con un po' di fortuna, lei non l'avrebbe mai sperimentata.
Il destino di Ronald si sarebbe deciso quella mattina, e il corso della sua vita sarebbe stato determinato da poche parole. Mattie sperava che fossero le parole giuste, ma in quanto giudice era obbligata a soffocare passioni e pregiudizi, e questo significava mantenere le emozioni sotto controllo, poco importava quanto fossero intense. Aveva fatto del suo meglio per non influenzare i giurati, oltre ad assicurarsi che avessero compreso ciò che avevano ascoltato e che a guidarli fossero i fatti e la legge. Si era inoltre accertata che fossero pienamente coscienti delle conseguenze della loro decisione.
Lo sceriffo le tese il foglio. Lei lo prese con mani ferme, ma il suo cuore sprofondò nello scorrerlo. Glielo restituì, e mentre lui si accostava alla giuria disse ad alta voce: «Il portavoce può leggere il verdetto».
L'uomo si schiarì la gola.
«Quanto al capo d'accusa di sequestro, la giuria, formata da persone iscritte nelle liste dei giudici popolari, dichiara l'imputato colpevole. Quanto all'imputazione di aver messo in pericolo la vita di un minore, dichiara l'imputato colpevole.»
Mattie allungò la mano verso il martelletto, ma le sue dita si rifiutavano di rispondere. Si sentiva come se avesse preso un colpo che le riverberava lungo la schiena. Aveva temuto quel verdetto, ma non si era concessa di credere che potesse accadere davvero. Ora però doveva riprendersi. I suoi doveri non erano finiti. Doveva stabilire la data della definizione della sentenza e concludere l'udienza. Ma ciò che temeva di più era la prospettiva di guardare di nuovo Ronald Langston in faccia. Non voleva farlo, non voleva vedere quello sguardo di animale in trappola nei suoi occhi.
Mattie non si preoccupò neppure di fare il giro della scrivania e raggiungere la sedia. Lasciò cadere il fascicolo e la cartella di pelle sul giornale ancora intonso, vagamente consapevole di non avere il tempo per il rituale mattutino. Domani però era un altro giorno. Avrebbe letto il San Francisco Chronicle bevendo una tazza di tè caldo addolcito con miele. E Ronald Langston avrebbe mangiato qualcosa di simile alla pappa d'avena nella sua cella.
Togliti la toga, si disse, ma riuscì solo ad abbassare la cerniera. La porta si aprì alle sue spalle. Jaydee scuoteva la testa, come stordito.
«Non guardarmi in quel modo» disse Mattie. «Per quanto non desiderassi vedere Langston in prigione, non potevo deliberatamente portare quell'idiota del pubblico ministero a commettere un