La Voce del Maestro
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Kahlil Gibran
Khalil Gibran (1883–1931) was an essayist, novelist, and mystic poet. He wrote The Prophet, a collection of philosophical essays that went on to become one of the bestselling books of the twentieth century. Though he was born in Lebanon, he moved to Boston’s South End as a child and studied art with Auguste Rodin in Paris for two years before launching his literary career. Much of Gibran’s work contains themes of religion and Christianity as well as spiritual love.
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Anteprima del libro
La Voce del Maestro - Kahlil Gibran
306
Titolo originale: The Voice of the Master
Traduzione di Tommaso Pisanti
Prima edizione ebook: Gennaio 2012
© 1992, 2012 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-3853-7
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Gag srl
Kahlil Gibran
La Voce del Maestro
Cura e traduzione di Tommaso Pisanti
Newton Compton editori
Indice
Introduzione di Tommaso Pisanti
Nota biobibliografica
La Voce del Maestro
I. IL MAESTRO E IL DISCEPOLO
1. Il viaggio del Maestro a Venezia
2. La morte del Maestro
II. LE PAROLE DEL MAESTRO
1. La Vita
2. Le vittime della Legge dell’Uomo
3. Pensieri e Meditazioni
4. Il Primo Sguardo
5. Divinità dell’Uomo
6. Ragione e Conoscenza
7. La Musica
8. Saggezza
9. Amore ed Equità
10. Ulteriori detti del Maestro
11. L’Ascoltatore
12. Amore e Giovinezza
13. Saggezza e Io
14. Le due Città
15. Natura e Uomo
16. L’Incantatrice
17. Giovinezza e Speranza
18. Resurrezione
Introduzione
Dopo Il Profeta (1923), bestseller mondiale, come si sa, e prima del Giardino del Profeta (1933), il libanese emigrato in America, Gibran, pubblicò Sabbia e Schiuma (1926). Aforismi, massime, meditazioni. Tutti testi compositi, ibridi, in qualche modo anche kitsch, con quella fusione un po’ approssimativa di Oriente e Occidente, e tuttavia accattivanti, ancora oggi rilanciati, in questo nuovo e inquieto e un po’ paradossale interesse per la fenomenologia del religioso, del «sacro» che è andato conquistando il pubblico giovanile e meno giovanile, all’Ovest come, ora, all’Est, dopo tanti drammatici eventi, crolli e «rinascite». E a parte i testi scritti in inglese, ecco anche La Voce del Maestro, tradotto dall’arabo in inglese da Anthony R. Ferris (1958).
Una riproposta «profetica» proprio mentre l’Occidente faustiano, dinamico e frenetico, andava realizzando la «rivoluzione del linguaggio» (e dei costumi); un reinnesto di fonti biblico-apocalittiche e, insieme, mistico-musulmane (e indiane, fino a Tagore), un orientamento aforistico assertivo, «da nuovo manuale per laici», che catturava al tempo stesso, in un modo o nell’altro, anche alcune tensioni di misticismi occidentali (Blake, Novalis, Schelling e, perché no?, Nietzsche). Senza dire, s’intende, della tradizione d’esaltazione naturistico-predicatoria americana, da Emerson a Thoreau e allo stesso Whitman.
Perché per Gibran – è evidente – la poesia non era tanto e solo «letteratura», ma «messaggio», «impegno», reimmersione totale nell’essere, ritorno alle grandi maiuscole. Con tutti i rischi, ovviamente, delle forzature, delle fumosità oracolari, di qualche confusione, anche, mistificatoria.
Nato nel 1883 nel villaggio di Bsherri (o Bisharri), nel nord del Libano, emigrato nel 1894 negli Stati Uniti, a Boston, con madre, fratelli, zio e zie (il padre, semialcolizzato, non si mosse mai dal Libano), Gibran Kahlil Gibran (ma in America lasciò cadere il primo nome, quello paterno) era poi ritornato, a quattordici anni a Beirut, dove aveva frequentato un collegio cristiano maronita¹.
Poi, nel 1904, Gibran – rientrato a Boston – aveva conosciuto Mary Haskell, che fu per lui musa, ispiratrice e protettrice: l’incontro centrale nella sua vita. Sarà lei, anche, a curare la pubblicazione delle opere.
Gibran intrecciò anche una relazione con Emilie Michel, una giovane insegnante di origine francese. Qualche anno dopo, Gibran andò a Parigi, sempre per merito della Haskell, e nella «ville lumière» studiò pittura e approfondì Blake, Rousseau e Nietzsche. Fu allora che Rodin lo definì, generosamente, «un nuovo Blake». Ma Gibran ama atteggiarsi, è talvolta istrionico, si modella sulla propria immagine ideale, accentua gli aspetti di oscurità e misteriosità di cui ama circondarsi.
Inquieto, tormentato, conseguì dapprima una sua fama come pittore, trasferendosi intanto a New York. Poi, nel 1918, pubblica The Madman (Il Folle), il suo primo libro in inglese: «rivolta contro l’Occidente tramite lo spirito dell’Oriente». Contro l’immagine di un Occidente «decadente», spregiudicato, sradicato dai «valori», ormai «indegno del suo romanticismo».
Due anni dopo, The Forerunner (Il Precursore); e, nel 1923, The Prophet, il suo testo più significativo. New York gli si configurò ormai come Orfalese, la metropoli da esorcizzare attraverso un ritorno radicale alla dimensione profetico-visionaria, alla valutazione etico-meditativa, al coinvolgimento interioristico. Non un politico, non un sociologo, e neanche un poeta e un artista: occorre, ora, un «profeta».
I critici più attenti non furono, per la verità, mai pienamente convinti e videro, sostanzialmente, nel Profeta (e poi nelle successive opere) una sorta di pastiche, pur sottolineandone gli squarci di più agile ed incisiva «liricità visionaria». Ma il pubblico fu largamente conquistato da quegli strani poemetti, da quelle commistioni, da quei vortici di suggestione. E Gibran ne trasse fama e guadagni. Pubblicò ancora, lavorando intensamente, freneticamente; tormentosamente identificandosi egli stesso con Almustafa («il prediletto»), il suo profeta. «Nell’attimo in cui Gibran giunse a vedere il mondo come un’unità perfetta – sottolinea Mikhail Naimy nella sua biografia – e la vita come un’eterna armonia, tutti gli altri mondi in cui era vissuto in precedenza e che aveva considerato spaziosi e reali, gli divennero esigui e irreali»²
.
Ancora, un po’ fumoso. E l’irrequietezza di Gibran si nutre intanto di atteggiamenti sconcertanti, di forme esteriori, di solennità da guru, da ierofante. E la popolarità (fino al 1959 Il Profeta era stato venduto in un milione di copie) s’intreccia con quella così tipica, in America, dei seguaci di santoni e ambigui «maestri» e delle più varie sette ed esperienze più o meno misticheggianti.
È tutt’altro che facile, certo, seguire tutto ciò in una personalità così tesa e così vibrante e cangiante, al tempo stesso, come quella di Gibran. Egli tese, comunque, a identificare col suo profeta le sue stesse esperienze (e Almitra è Mary Haskell). Finché qualcuno scriverà sulla sua tomba, in arabo: «Qui giace il nostro profeta». Gibran era morto, nel 1931, di cirrosi epatica e di un principio di tubercolosi polmonare.
La poesia profetica sembrava ormai estinta, e la stessa poesia religiosa aveva imboccato le vie indicate dal nuovo linguaggio allusivo, moderno (Eliot stesso, Claudel, Rebora). Gibran rielabora direttamente le «fonti», si ripresenta con gli stessi sintagmi («In verità vi dico...»), con l’uso delle coordinate, con l’agitata densità del linguaggio, la violenza degli