Una libera donna d'affari
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Una libera donna d'affari - Luca Martinelli
Luca Martinelli
UNA LIBERA DONNA D’AFFARI
Prima Edizione Ebook 2020 © Damster Edizioni, Modena
ISBN: 9788868104146
Immagine di copertina su licenza
Adobestock.com
Damster Edizioni è un marchio editoriale
Edizioni del Loggione S.r.l.
Via Piave, 60 - 41121 Modena
http://www.damster.it e-mail: [email protected]
Il nostro catalogo completo lo trovi su
www.librisumisura.it
Luca Martinelli
UNA LIBERA DONNA
D’AFFARI
Romanzo
INDICE
Personaggi principali:
1.
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3.
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10.
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27.
Note e Ringraziamenti
L’AUTORE
CATALOGO
Personaggi principali:
Giorgio Chilleri
maresciallo dei Carabinieri Reali
Carlo Valenti
brigadiere dei Carabinieri Reali
Luca Bellini
giornalista
Violetta Marconi
traduttrice commerciale
Paola Mariani
cameriera di Violetta Marconi
Teresa Adami
vecchia curiosa
Adele Cristiani
soprano
Donati
medico
Aurelio Pancrazi
maestro elementare
Carlesi
farmacista
1.
L’aria era frizzante, pizzicava le gote. O forse, a renderla più sensibile al freddo, era la sottile inquietudine che le procurava il silenzio della via deserta. Fosse quel che fosse, Paola Mariani sollevò un lembo dello scialle, se lo girò intorno al collo e accelerò il moto delle gambe.
Ora, con quella cadenza, con soli tre passi poteva attraversare il cerchio di luce giallastra che i lampioni a gas proiettavano sul selciato. Poi gliene servivano altri quattro per superare i tratti di strada buia e rimettere piede sulle pietre rischiarate da un nuovo occhio luminoso. In quei quattro passi mossi dentro l’oscurità il picchiettare dei suoi tacchi contro il basolato di via Santa Trinita, che il silenzio amplificava a dismisura, all’orecchio le risuonava sinistro, come il pulsare vagamente agitato del suo cuore. Non poteva dire di provare paura, questo no. Semmai avvertiva un senso di disagio… Sì, ecco, si sentiva a disagio. E per scacciare quella sgradevole sensazione che le faceva percepire più freddo di quanto non fosse nella realtà, per ripararsi meglio, incurvò le spalle e si fece più piccola dentro lo scialle.
Giunta in prossimità di piazza XX Settembre, le parve strano, anzi addirittura inconcepibile, di non aver ancora incrociato anima viva lungo il tragitto che già si era lasciata alle spalle. Ma, come per il freddo, anche quella percezione era falsata e ingigantita dal senso di disagio che ormai la possedeva tutta. Non lontano da lì, in via Carbonaia, aveva infatti intravisto due vecchi ubriaconi gesticolare dentro a una bettola lurida e quasi buia, un buco d’osteria che emanava tanfo di vino sia di giorno che di notte, con il sole e la tempesta, sette giorni su sette. Eppure, ora, quelle due presenze erano svanite completamente dalla sua mente.
Ma poi, d’un tratto, si rammentò che al teatro, quella sera, davano l’opera. I nobili e i borghesi, giovanotti compresi, e che amassero o aborrissero il canto non aveva importanza, erano ancora tutti seduti in platea o nei palchi del Metastasio. Nessuno di loro sarebbe mai mancato a uno dei rari appuntamenti mondani cittadini. E anche i poveracci, loro accalcati nel loggione, che con poche lire non potevano permettersi posti migliori, erano andati a godersi lo spettacolo. Sì, non poteva spiegarsi altrimenti, considerò tra sé e sé la frettolosa e inquieta Paola, l’assenza totale di passanti.
A quel pensiero, per un istante, si sentì rinfrancata.
Svoltata nel buio più fitto di via Cambioni, però, ripiombò subito nelle voragini del suo disagio. Anche perché, laggiù in fondo, proprio davanti a lei, in direzione di San Niccolò, udì l’eco inatteso di uno scalpiccio irregolare… Rallentò il passo e strizzò gli occhi, come un gatto. Per il tempo di un battito di ciglia percepì la presenza di un’ombra che, improvvisa e indistinguibile, scomparve in un baleno dietro l’angolo con via Cicognini. Rabbrividì.
Per fortuna, le mancavano solo gli ultimi cinque passi. Li percorse quasi correndo, con la chiave di casa già stretta nella mano. Ma, giunta davanti al portone, impietrì. Un nodo alla gola le tolse il fiato e una sequela inarrestabile di domande cominciò a rimbombarle nella testa: perché il portone è socchiuso? Perché la lanterna sulle scale è spenta? Chi era quell’ombra in fuga? Ed era da qui che fuggiva? Perché…
Un soffio cupo e prolungato, seguito da uno schiocco e da qualcosa che le sfrecciava in mezzo ai piedi, inaridì d’un colpo la fonte di tutti quegli interrogativi.
Un gatto, un maledetto gatto, imprecò in silenzio Paola, intercettando per un secondo la figura scura del felino che balzava verso l’altro lato della strada all’inseguimento di una preda. Doveva essere un topo. È di sicuro un topo schifoso, pensò Paola respirando affannosamente a occhi socchiusi.
— Finiremo divorati dai topi — sibilò tra i denti, sottovoce, dopo un istante.
Per scacciare il senso di disgusto e questa volta, sì, di paura, alla stregua di un cane gocciolante appena uscito dall’acqua, scrollò le spalle e la testa, s’infilò di slancio dentro l’atrio della casa, e si sbatté il portone dietro le spalle.
Immersa nel buio più totale, ma avendo precisa memoria della disposizione degli arredi e della struttura della casa, si spostò a sinistra e protese in avanti le mani. Quando i palmi incontrarono il solido legno di quercia della credenza, sospirò di sollievo. Tastò con tocchi leggeri il ripiano, in cerca della scatola dei fiammiferi e della bugia con la candela. Dopo alcuni attimi, al fioco e tranquillizzante chiarore della fiammella, si avviò lungo le scale che portavano al piccolo, vezzoso e confortevole appartamento di Violetta Marconi, la donna presso la quale prestava servizio come cameriera da quasi dieci anni.
Arrivata nel corridoio, appoggiò la bugia sulla stretta mensola dell’attaccapanni a muro e si avviò verso il salotto, dalla cui porta aperta giungeva un fascio di luce. La signora Violetta, valutò Paola soppesando il profondo silenzio che regnava nella casa, doveva essere immersa nella lettura. Era il suo passatempo del sabato. Nel giorno di libertà della cameriera, infatti, anche lei si prendeva una pausa dagli affari e si abbandonava ai sogni descritti nelle pagine dei romanzi.
Tuttavia, a questo punto della storia, vale la pena annotare che in città molti contestavano che il termine affari
fosse il più appropriato da accostare al nome di Violetta Marconi. Su di lei, infatti, si faceva un gran chiacchierare a suon di insinuazioni e maldicenze. Ma non era di certo a quelle dicerie che Paola pensava quando fece il suo ingresso nella stanza. Né le venne in mente di pensarci quando, fatti due passi in direzione del sofà, vide la padrona abbandonata in modo innaturale sui cuscini. Si avvicinò d’un altro passo e, con la coda dell’occhio, notò una chiazza di sangue sulla spalla destra della donna.
Si coprì il volto con le mani e iniziò a gridare.
2.
Gran Dio!... morir sì giovane…
Un’altra Violetta (non la donna sul palco, ma il personaggio da lei interpretato), ugualmente chiacchierata in società come quella in carne e ossa che abitava in via Cambioni, cantava e incantava il pubblico che gremiva la platea, i palchi e il loggione del Teatro Metastasio. Pareva quasi, nella sua voce acuta, ma calda e sublime, di udire il palpitar d’amore del suo cuore.
E con lei palpitava il pubblico che, travolto dalle emozioni, cominciò a trattenere il fiato.
L’epilogo era vicino. Mancava solo che Alfredo (anche qui il personaggio dell’opera, sia chiaro) intonasse Oh mio sospiro, oh palpito e poi La Traviata
sarebbe giunta all’ultima scena.
Ed ecco, infatti, terminato il canto di Alfredo, compiersi la tragedia. Ardente d’amore, Violetta si alzò di slancio, accennò due passi silenziosi e allargò le braccia per cingere l’amato. Ma, vinta dalla tisi, subito fu costretta a desistere e ad abbandonarsi di nuovo sul canapè, questa volta ormai senza più vita.
Un attimo di silenzio. Il tempo appena di emettere un sospiro di pietà, che se la rappresentazione colpisce al cuore non si può non parteggiare per l’eroina sfortunata, ed ecco l’apoteosi: un fragoroso scrosciar di applausi e un gran fiato di voci - in platea, nei palchi e nel loggione - che, eccitate, gridavano Bravi
.
3.
Nel salotto di Violetta, in via Cambioni, le grida di Paola non avevano nulla di festoso. Erano grida disperate, le sue. Ed erano stridule, lancinanti.
Non smise di sgolarsi nemmeno involandosi giù per le scale, e continuò a gridare anche per strada, mentre correva a perdifiato, incurante delle finestre che si aprivano al suo passaggio e dei richiami con i quali qualche comare chiedeva a gran voce cosa stava accadendo. No, Paola non si soffermava, non rispondeva; pensava solo a correre e strillare.
Fermò la sua volata solo quando giunse davanti alla stazione dei Carabinieri Reali, nella vicina via Ser Lapo Mazzei. Ma il suo lamento era talmente penetrante che il militare di piantone aprì il portone prima ancora che lei avesse bussato.
Di fronte al giovane in divisa, Paola, una venticinquenne scarmigliata e col volto terrorizzato che in quel momento pareva avesse l’età di sua madre, riuscì solo a farfugliare confusi spezzoni di frasi:
— La… La mia padrona… sangue… tanto sangue… la spalla…
Al carabiniere tanto bastò per capire che era successo qualcosa di grave. La guidò all’interno della caserma, la fece passare dentro una stanzetta tanto austera da rasentare il limite dello squallore, la fece accomodare su una seggiola impagliata e le portò un bicchiere d’acqua. Paola ingoiò a fatica, ma bere sembrò placarla.
— Mi ripeta quel che è successo, per favore — disse, in tono gentile, il militare.
E Paola, con la voce roca e affannata, riferì del portone trovato accostato, della luce insolitamente spenta sulle scale, della macchia di sangue sulla spalla della padrona, la quale, nonostante le sue grida, incredibilmente non si era mossa d’un millimetro dalla sua posizione innaturale.
— È morta. L’hanno ammazzata — concluse, scoppiando di nuovo in lacrime.
Il militare aspettò che passasse la crisi, prima di ricominciare con le domande:
— Chi è la vostra padrona? Dove abitate?
— Violetta, la mia signora è…
— La signora Violetta di via Cambioni? — la interruppe il carabiniere; e nel vedere per due volte il capo della donna chinarsi e sollevarsi in un gesto d’assenso, l’uomo non riuscì a trattenere quell’espressione tronfia che di solito vuol significare: "Non lo avevo forse