De rerum natura
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Anteprima del libro
De rerum natura - Tito Lucrezio Caro
DE RERUM NATURA
Tito Lucrezio Caro
Traduzione di Alessandro Marchetti
© 2018 Sinapsi Editore
LIBRO PRIMO
Argomento.
Il poeta comincia da una splendida invocazione a Venere; seguono: 1. la dedica del poema a Memmio, 2. l'esposizione del subbietto, 3. l'elogio d'Epicuro, 4. la confutazione delle obbiezioni generali che altri potrebbe fare contro la dottrina del filosofo greco e contro l'ardimento del poeta latino che si accinse a renderla nella sua lingua. Lucrezio entra poi in materia e pone a primo principio che l'essere non può uscir dal nulla, nè tornare al nulla. V'ha dunque corpuscoli primitivi, onde constano tutti i corpi, e ne' quali questi si risolvono; sebbene invisibili, è forza ammettere che esistano. Ma non potrebbero agire, muoversi e neppure esistere senza il vuoto. L'universo pertanto resulta da queste due cose: la materia e il vuoto. Tutto quello che non è nè l'uno nè l'altro n'è proprietà o accidente e non già una terza classe d'esseri che faccian parte da sè. I corpi primi, essendo la base delle opere della natura, debbon essere perfettamente solidi, indivisibili ed eterni. Onde ne viene che a torto Eraclito dà ai corpi per principio il fuoco, altri filosofi l'acqua, l'aria o la terra, ed Empedocle i quattro elementi. Nè per l'omeomeria di Anassagora si spiega meglio la formazione degli esseri. Il gran tutto, indistruttibile nei suoi principi, è infinito nella sua massa; non v'ha dunque centro a cui tendano i corpi gravi; la dottrina degli Antipodi è dunque una follia.
Alma figlia di Giove, inclita madre
Del gran germe d'Enea, Venere bella,
Degli uomini piacere e degli dèi:
Tu che sotto i girevoli e lucenti
Segni del cielo il mar profondo e tutta
D'animai d'ogni specie orni la terra,
Che per sè fôra un vasto orror solingo:
Te dea fuggono i venti: al primo arrivo
Tuo svaniscon le nubi: a te germoglia
Erbe e fiori odorosi il suolo industre:
Tu rassereni i giorni foschi, e rendi
Con dolce sguardo il mar chiaro e tranquillo,
E splender fai di maggior lume il cielo.
Qualor deposto il freddo ispido manto
L'anno ringiovanisce, e la soave
Aura feconda di Favonio spira,
Tosto tra fronde e fronde i vaghi augelli,
Feriti il cor da' tuoi pungenti dardi,
Cantan festosi il tuo ritorno, o diva;
Liete scorron saltando i grassi paschi
Le fiere e gonfi di nuov'acque i fiumi
Varcano a nuoto e i rapidi torrenti:
Tal da' teneri tuoi vezzi lascivi
Dolcemente allettato ogni animale
Desïoso ti segue ovunque il guidi.
Insomma tu per mari e monti e fiumi,
Pe' boschi ombrosi e per gli aperti campi,
Di piacevole amore i petti accendi,
E così fai che si conservi 'l mondo.
Or; se tu sol della natura il freno
Reggi a tua voglia, e senza te non vede
Del dì la luce desïata e bella
Nè lieta e amabil fassi alcuna cosa;
Te, dea, te bramo per compagna all'opra,
In cui di scriver tento in nuovi carmi
Di natura i segreti e le cagioni
Al gran Memmo Gemello a te sì caro
In ogni tempo e d'ogni laude ornato.
Tu dunque, o diva, ogni mio detto aspergi
D'eterna grazia; e fa' cessare intanto
E per mare e per terra il fiero Marte,
Tu che sola puoi farlo. Egli sovente
D'amorosa ferita il cuor trafitto
Umil si posa nel divin tuo grembo.
Or; mentr'ei pasce il desïoso sguardo
Di tua beltà ch'ogni beltade avanza,
E che l'anima sua da te sol pende;
Deh porgi a lui, vezzosa dea, deh porgi
A lui soavi preghi, e fa' ch'ei renda
Al popol suo la desïata pace.
Chè se la patria nostra è da nemiche
Armi agitata, io più seguir non posso
Con animo quïeto il preso stile,
Nè può di Memmo il generoso figlio
Negar sè stesso alla comun salute.
Tu, gran prole di Memmo, ora mi porgi
Grate ed attente orecchie, e ti prepara,
Lungi da te cacciando ogni altra cura,
Alle vere ragioni, e non volere
I miei doni sprezzar pria che gl'intenda.
Io narrerotti in che maniera il cielo
Con moto alterno ognor si volga e giri;
Degli dèi la natura, e delle cose
Gli alti principii; e come nasca il tutto,
Come poi si nutrichi, e come cresca,
Ed in che finalmente ei si risolva.
E ciò da noi nell'avvenir dirassi
Primo corpo o materia o primo seme
O corpo genitale, essendo quello
Onde prima si forma ogni altro corpo.
Chè d'uopo è pur che 'n somma eterna pace
Vivan gli dèi per lor natura e lungi
Stian dal governo delle cose umane,
Scevri d'ogni dolor d'ogni periglio,
Ricchi sol di lor stessi, e di lor fuori
Di nulla bisognosi, e che nè merto
Nostro gli alletti o colpa accenda ad ira.
Giacea l'umana vita oppressa e stanca
Sotto religïon grave e severa,
Che mostrando dal ciel l'altero capo
Spaventevole in vista e minacciante
Ne soprastava. Un uom d'Atene il primo
Fu, che d'ergerle incontra ebbe ardimento
Gli occhi ancor che mortali e le s'oppose
Questi non paventò nè ciel tonante
Nè tremoto che 'l mondo empia d'orrore
Nè fama degli dèi nè fulmin torto:
Ma, qual acciar su dura alpina cote
Quanto s'agita più tanto più splende,
Tal dell'animo suo mai sempre invitto
Nelle difficoltà crebbe il desio
Di spezzar pria d'ogni altro i saldi chiostri
E l'ampie porte di natura aprirne.
Così vins'egli, e con l'eccelsa mente
Varcando oltre a' confin del nostro mondo
Fu bastante a capir spazio infinito.
Quindi sicuramente egli n'insegna
Ciò che nasca o non nasca, ed in qual modo
Ciò che racchiude l'universo in seno
Ha poter limitato e termin certo.
E, la religion co' piè calcata,
L'alta vittoria sua c'erge alle stelle.
Nè creder già che scelerate ed empie
Sian le cose ch'io parlo; anzi sovente
L'altrui religion ne' tempi antichi
Cose produsse scelerate ed empie.
Questa il fior degli eroi scelti per duci
Dell'oste argiva in Aulide indusse
Di Dïana a macchiar l'ara innocente
Col sangue d'Ifigènia; allor che, cinto
Di bianca fascia il bel virgineo crine,
Vid'ella a sè davanti in mesto volto
Il padre, e a lui vicini i sacerdoti
Celar l'aspra bipenne, e 'l popol tutto
Stillar per gli occhi in larga vena il pianto
Sol per pietà di lei che muta e mesta
Teneva a terra le ginocchia inchine.
Nè giovò punto all'innocente e casta
Povera verginella in tempo tale
Ch'a nome della patria il prence avesse
All'esercito greco un re donato:
Chè tolta dalle man del suo consorte
Fu condotta all'altar tutta tremante;
Non perchè, terminato il sacrifizio,
Legata fosse col soave nodo
D'un illustre imeneo; ma per cadere
Nel tempo stesso delle proprie nozze
A' piè del genitore, ostia dolente
Per dar felice e fortunato evento
All'armata navale. Error sì grave
Persüader la religion poteo.
Tu stesso, dall'orribili minacce
De' poeti atterrito, ai detti nostri
Di negar tenterai la fè dovuta.
Ed oh quanti potrei fingerti anch'io
Sogni e chimere, a sovvertir bastanti
Del viver tuo la pace e col timore
Il sereno turbar della tua mente.
Ed a ragion, che se prescritto il fine
Vedesse l'uomo alle miserie sue,
Ben resister potrebbe alle minacce
Delle religïoni e de' poeti:
Ma come mai resister può, s'ei teme
Dopo la morte aspri tormenti eterni,
Perchè dell'alma è a lui l'essenza ignota?
S'ella sia nata od a chi nasce infusa,
E se morendo il corpo anch'ella muoia?
Se le tenebre dense e se le vaste
Paludi vegga del tremendo inferno,
O s'entri ad informare altri animali
Per divino voler? Siccome il nostro
Ennio cantò, che pria d'ogn'altro colse
In riva d'Elicona eterni allori,
Onde intrecciossi una ghirlanda al crine
Fra l'italiche genti illustre e chiara.
Bench'ei ne' dotti versi affermi ancora
Che sulle sponde d'Acheronte s'erge
Un tempio sacro agl'infernali dèi,
Ove non l'alme o i corpi nostri stanno
Ma certi simulacri in ammirande
Guise pallidi in volto; e quivi narra
D'aver visto l'immagine d'Omero
piangere amaramente e di natura
Raccontargli i segreti e le cagioni.
Dunque non pur de' più sublimi effetti
Cercar le cause e dichiarar conviensi
Della luna e del sole i movimenti,
Ma come possan generarsi in terra
Tutte le cose, e con ragion sagace
Principalmente investigar dell'alma
E dell'animo uman l'occulta essenza,
E ciò che sia quel che, vegliando infermi
E sepolti nel sonno, in guisa n'empie
D'alto terror, che di veder presente
Parne e d'udir chi già per morte in nude
Ossa è converso e poca terra asconde.
E so ben io qual malagevol opra
Sia l'illustrar de' Greci in tóschi carmi
L'oscure invenzïoni; e quanto spesso
Nuove parole converrammi usare,
Non per la povertà della mia lingua
Ch'alla greca non cede e più d'ogn'altra
Piena è di proprie e di leggiadre voci.
Ma per la novità di quei concetti
Ch'esprimer tento e che null'altro espresse.
Pur nondimen la tua virtude è tale
E lo sperato mio dolce conforto
Della nostr'amistà, ch'ognor mi sprona
A soffrir volentieri ogni fatica
E m'induce a vegliar le notti intere,
Sol per veder con quai parole io possa
Portare innanzi alla tua mente un lume
Ond'ella vegga ogni cagione occulta.
Or sì vano terror, sì cieche tenebre
Schiarir bisogna e via cacciar dall'animo
Non co' be' rai del sol, non già co' lucidi
Dardi del giorno a saettar poc'abili
Fuorchè l'ombre notturne e i sogni pallidi,
Ma co 'l mirar della natura e intendere
L'occulte cause e la velata imagine.
Tu, se di conseguir ciò brami, ascoltami.
Sappi che nulla per divin volere
Può dal nulla crearsi: onde il timore
Che quindi il cor d'ogni mortale ingombra
Vano è del tutto: e, se tu vedi ognora
Formarsi molte cose in terra e 'n cielo
Nè d'esse intendi le cagioni, e pensi
Per ciò che Dio le faccia, erri e deliri.
Sia dunque mio principio il dimostrarti
Che nulla mai si può crear dal nulla:
Quindi assai meglio intenderemo il resto,
E come possa generarsi il tutto
Senz'opra degli dèi. Or, se dal nulla
Si creasser le cose, esse di seme
Non avrian d'uopo; e si vedrian produrre
Uomini ed animai nel sen dell'acque,
Nel grembo della terra uccelli e pesci.
E nel vano dell'aria armenti e greggi:
Pe' luoghi culti e per gl'inculti il parto
D'ogni fera selvaggia incerto fôra;
Nè sempre ne darian gl'istessi frutti
Gli alberi, ma diversi, anzi ciascuno
D'ogni specie a produrgli atto sarebbe
Poichè come potrian da certa madre
Nascer le cose, ove assegnati i propri
Semi non fosser da natura a tutte?
Ma or, perchè ciascuna è da principii
Certi creata, indi ha il natale ed esce
Lieta a godere i dolci rai del giorno
Ov'è la sua materia e i corpi primi.
E quindi nascer d'ogni cosa il tutto
Non può, perchè fra loro alcune certe
Cose han l'interna facoltà distinta.
In oltre: ond'è che primavera adorna
Sempre è d'erbe e di fior? che di mature
Biade all'estiv'arsura ondeggia il campo?
E che sol, quando Febo occupa i segni
O di libra o di scorpio, allor la vite
Suda il dolce liquor che inebria i sensi?
Se non perchè a' lor tempi alcuni certi
Semi in un concorrendo atti a produrre
Son ciò che nasce, allor che le stagioni
Opportune il richieggono, e la terra
Di vigor genital piena e di succo
Puote all'aure innalzar sicuramente
Le molli erbette e l'altre cose tenere?
Che, se pur generate esser dal nulla
Potessero, apparir dovrian repente
In contrarie stagioni e spazio incerto:
Non vi essendo alcun seme che impedito
Dall'unïon feconda esser potesse
O per ghiaccio o per sol ne' tempi avversi.
Nè, per crescer, le cose avrian mestiere
Di spazio alcuno in cui si unisca il seme,
S'elle fosser del nulla atte a nutrirsi:
Ma nati appena i pargoletti infanti
Diverrebbero adulti, e in un momento
Si vedrebber le piante inverso il cielo
Erger da terra le robuste braccia:
Il che mai non succede; anzi ogni cosa
Cresce, come conviensi, a poco a poco,
E crescendo conserva e rende eterna
La propria specie. Or tu confessa adunque
Che della sua materia e del suo seme
Nasce, si nutre e divien grande il tutto.
S'arroge a ciò, che non daría la terra
Il dovuto alimento ai lieti parti,
Se non cadesse a fecondarle il seno
Dal ciel l'umida pioggia, e senza cibo
Propagar non potrebber gli animali
La propria specie e conservar la vita.
Ond'è ben verisimile che molte
Cose molti fra lor corpi comuni
Abbian, come le voci han gli elementi,
Anzi che sia senza principio alcuna.
In somma: ond'è che non formò natura
Uomini tanto grandi e sì robusti,
Che potesser co' piè del mar profondo
Varcar l'acque sonanti e con la mano
Sveller dall'imo lor l'alte montagne
E viver molt'etadi e molti secoli?
Se non perchè prescritta è la materia
Onde ogni cosa si produce ed onde
Composto è ciò che nasce? Or ecco dunque
Che nulla mai si può crear dal nulla,
Mentre di seme ha di mestiere il tutto
Per uscire a goder l'aura vitale.
Al fin: perchè veggiamo i culti luoghi
Degl'inculti più fertili, e per l'opra
Di rozze mani industrïose i loro
Frutti produr molto più vaghi all'occhio,
Più soavi al palato e di più sano
Nodrimento allo stomaco; e' n'è pure
Chiaro che d'ogni cosa in grembo i semi
Stanno alla terra e che da noi promossi
Sono a nuovo natal, mentre, rompendo
Col curvo aratro e con la vanga il suolo,
Volghiam sossopra le feconde zolle,
Domandole or col rastro or con la marra:
Chè, se questo non fosse, ogni fatica
Sarebbe indarno sparsa, e per sè stesso
Produrrebbe il terren cose migliori.
Sappi oltre a ciò che si risolve il tutto
Ne' suoi principii, e che non può natura
Alcuna cosa annichilar giammai.
Chè, se affatto mortali e di caduchi
Semi fosser conteste, all'improvviso
Tutte a gli occhi involarnesi e perire
Dovrian le cose, ove mestier di forza
Non fôra in partorir discordia e lite
Fra le lor parti e l'unïon disciorne.
Ma, perchè seme eterno il tutto forma,
Quindi è che nulla mai perir si vede
Pria che forza il percuota e negl'interni
Vôti spazi penètri e lo dissolva.
In oltre: ciò che lunga età corrompe
Se s'annichila in tutto, ond'è che Venere
Rimena della vita al dolce lume
Generalmente ogni animale? ed onde
Cibo gli porge la 'ngegnosa terra
Onde si nutra, si conservi e cresca?
Onde le fonti, onde i torrenti e i fiumi
Portan l'ampio tributo al vasto mare?
Onde alle fisse, onde all'erranti stelle
Somministra alimento il ciel profondo?
Poichè già l'infinita età trascorsa
Ogni corpo mortale a pien dovrebbe
Col vorace suo dente aver distrutto.
Ma, se pur fu nella trascorsa etade
Seme che basti a riprodurre al mondo
Tutto ciò che perisce, eterno è certo.
Nulla può dunque mai ridursi al nulla.
In somma: a dissipar sarìa bastante
Tutte le cose una medesma forza,
Se materia immortal non le tenesse
Più e men collegate: un tocco solo
Bastevole cagion della lor morte
Esser potria, ch'ove d'eterno corpo
Nulla non fosse, ogni più leve impulso
Sciôr ne dovrebbe la testura in tutto.
Ma, perchè vari de' principii sono
I nodi ed è la lor materia eterna,
Salve restan le cose infino a tanto
Che forza le percuota atta a disciorre
Di ciascuna di loro il proprio laccio.
Nulla può dunque mai ridursi a nulla;
Ma ne' primi suoi corpi il tutto riede.
Tosto che finalmente il padre Giove
Versa nel grembo alla gran madre Idea
L'umida pioggia, essa perisce al certo:
Ma ne sorgon le biade e se n'adorna
Ogni albero di fior, di frondi e frutti.
Quindi si pasce poi l'umano germe,
Quindi ogni altro animale. E lieta quindi
Di vezzosi fanciulli ogni cittade
Fiorir si mira, e le fronzute selve
Piene di nuovi innamorati augelli
Cantan soavi armonïose note.
Quindi pe' lieti paschi i grassi armenti
Posan le membra affaticate e stanche,
E dalle piene mamme in bianche stille
Gronda sovente il nutritivo umore,
Onde i nuovi lor parti ebri e lascivi
Con non ben fermo piè scherzan per l'erbe.
Dunque affatto non muor ciò che ne sembra
Morir quaggiù, se la natura industre
Sempre dell'un l'altro ristora; e mai
Nascer non puote alcuna cosa al mondo,
Se non se prima ne perisce un'altra.
Or; poi che chiaramente io t'ho dimostro
Che nulla mai si può crear dal nulla
Nè mai cosa creata annichilarsi,
Acciò tu non pertanto i detti miei
Non creda error, perchè non puoi cogli occhi
Delle cose veder gli alti principii;
Pensa oltre a ciò quant'altri corpi sono
Invisibili al mondo, e pur deggiamo
Confessar ch'e' vi sono a viva forza.
Pria: se vento gagliardo il mare sferza
Con incredibil vïolenza ignota,
Le smisurate navi urta e fracassa;
Or ne porta sull'ali atre tempeste,
Or via le scaccia e ne fa chiaro il giorno;
Talor pe' campi infurïato scorre
Con turbo orrendo, e le gran piante atterra;
Talor col soffio impetuoso svelle
Le selve annose in su gli eccelsi monti:
Così gorgoglia l'Ocean cruccioso,
Geme, freme, s'infuria e 'l ciel minaccia.
Son dunque i venti un invisibil corpo,
Che la terra che 'l mar che 'l ciel profondo
Trae seco a forza e ne fa strage e scempio;
Nè in altra guisa il suo furor distende,
Che suol repente in ampio letto accolta
La molle acqua cader gonfia e spumante,
Che non pur delle selve i tronchi busti
Ma ne porta sul dorso i boschi interi;
Nè pôn soffrir i ben fondati ponti
La repentina forza; il fiume abbatte
Ogni eccelso edifizio e sotto l'acque
Gran sassi avvolge, onde ruina a terra
Ciò ch'al rapido corso ardisce opporsi.
Così dunque del vento il soffio irato,
Se qual torrente infurïato scorre
Verso qualunque parte, innanzi caccia
Ciò ch'egli incontra e lo diveglie e schianta;
Or con vortice torto alto il rapisce,
E con rapido turbo il ruota e porta.
È dunque il vento un invisibil corpo,
Se nell'opre e nel moto i fiumi imita
Che son composti di visibil corpo.
Giùngonne anco alle nari odor diversi,
Che tra via nondimen l'occhio non vede:
Il caldo il gelo il canto il suon le voci
Non pôn mirarsi, e pur son corpo anch'elleno
Poichè svegliano il senso e lo commuovono:
E null'altro che il corpo è tocco o tocca.
Le vesti al fin nel marin lido appese
Umide fansi, e le medesme poi
Tornan asciutte a' rai del sole esposte:
Ma nè come l'umore ivi si fermi,
Nè com'ei fugga dal calor cacciato
Alcun non vede. Egli si sparge adunque
In tante e tante parti e sì minute,
Ch'a poterle mirare occhio non basta.
Anzi: portate per molt'anni in dito
S'assottiglian l'anella; a goccia a goccia
L'acqua d'alto cadendo i sassi incava;
L'adunco ferro del ritorto aratro
Rompendo i campi occultamente scema;
Consuman per le strade i piè del volgo
Le durissime lastre; e, per lo spesso
Toccar di chi saluta e di chi passa,
Le figure di bronzo entro alle porte
De' templi sculte la lor forma pèrdono.
E ben tai cose sminuir veggiamo;
Ma di veder ciò che ne caschi ogn'ora
La natura ne toglie invidïosa.
In somma: ciò che la natura e 'l tempo
Donano a poco a poco a quel che cresce
Non possono gli occhi rimirar contenti,
Nè quel che per l'età langue o vien meno,
Nè quel che rode con l'edace sale
Ogni momento il mar dai duri scogli.
Dunque è pur di mestier che la natura
D'invisibili corpi il tutto formi.
Ma non creder però che l'universo
Sia pieno affatto. In ogni cosa il vôto
Misto è co' corpi. E questo in molte cose
D'util ti fia; acciò tu meglio intenda
Tutto ciò ch'io ragiono, e senza errore
E senza dubbio interamente creda
Alle parole mie fide e veraci.
Spazio è dunque nel mondo intatto e vôto
E privo d'ogni corpo, e luogo ha nome
Poichè, se ciò non fosse, eternamente
Starian ferme le cose, essendo offizio
Di tutti i corpi l'impedire il moto:
Muoversi dunque mai nulla potrebbe,
Ove nulla cedesse e desse luogo.
Ma noi miriam co' gli occhi propri ognora
Nella terra nel mar nel ciel sublime
Muoversi molte cose in molti modi
Per molte cause; che, se vôto alcuno
Spazio non fosse, d'ogni moto prive
Sarìan non sol ma nè pur nate al mondo;
Poichè stivati i primi semi affatto
Goduto avriano una perpetua quiete.
In oltre: ancor che molte cose e molte
Sembrin dure del tutto agli occhi nostri,
Son poi di corpo assai poroso e raro.
Quindi è che penetrar miri dall'acque
I tufi, i sassi e le spelonche, e quindi
Piangon le selci in copïose stille.
Per tutto il corpo si diffonde il cibo
Degli animai; crescon le piante e fanno
Nella propria stagione il fiore e 'l frutto,
Sol perchè preso il nutrimento loro
Sin dall'infime barbe egli si sparge
Tutto per tutto il tronco e tutti i rami.
Passan le voci entro le chiuse mura:
E scorre spesso un duro gel per l'ossa.
Il che non avverrebbe in modo alcuno,
Se non fosser nel mondo i vôti spazi
Ov'ogni corpo penetrar potesse.
Al fine: ond'è che di due cose eguali
Di mole una sovente ha maggior pondo?
Che s'un fiocco di lana in sè chiudesse
Tanto di corpo quanto il piombo e l'oro,
Egli altrettanto anco pesar dovrebbe;
Chè proprio è sol di tutt'i corpi il premere
In giù le cose, ed al contrario il vôto
Di sua natura è senza peso alcuno.
Dunque, se di due cose eguali in mole
L'una più lieve fia, chiaro ne insegna
D'aver manco di corpo e più di vôto:
Ma, s'è più grave, pel contrario mostra
D'aver manco di vôto e più di corpo.
Che sia dunque fra' corpi il vôto sparso,
Benchè mal noto a' nostri sensi infermi,
Per l'addotte ragioni è chiaro e certo.
Nè qui vogl'io che devïar dal vero
Ti possa mai quel che sognaro alcuni;
E perciò quant'io parlo ascolta e nota.
Dicon che 'l mare allo squammoso armento
Apre l'umide vie, perch'egli a tergo
Spazio si lascia ove concorran l'onde;
E che in guisa simìle ogni altra cosa
Mover si puote e cangiar sito e luogo.
Ma falso è ciò: ch'ove potranno alfine
I pesci andar, se non dà luogo il mare?
E dove al fin, se non dan luogo i pesci,
Il mar n'andrà, benchè cedente e molle?
Forz'è dunque o privar di moto i corpi,
O fra le cose mescolar il vôto
Che sia cagion de' movimenti loro.
S'al fin due piastre di lucente acciaio
Si combaciano insieme, indi in un tratto
L'una dall'altra si solleva, è d'uopo
Che vôto resti l'interposto spazio:
Poichè, quantunque d'ogn'intorno accorra
L'aere per occuparlo, in un sol punto
Ciò far non può, ma che riempia è forza
I luoghi più vicini e poscia gli altri.
E, se per avventura alcun pensasse
Che si distinguan l'un dall'altro i corpi
Perchè l'aere frapposto si condensi,
Erra; chè il vôto il qual non era innanzi
Fassi per certo e si riempie dopo
Benchè velocemente, in qualche tempo;
Nè l'aere in guisa tal può condensarsi,
Nè, quand'anco potesse, ei non potrebbe
Sè stesso in sè raccôrre e in un ridurre
Senz'alcun vôto le disperse parti.
Dunque indugia, se vuoi; forz'è ch'al fine
Esser confessi tra le cose il vôto.
Posso oltre a ciò molte ragioni addurti
Nulla men concludenti, onde tu presti
Alle parole mie fede maggiore:
Ma tanto basti al tuo sottile ingegno,
Per ben capir sicuramente il resto.
Chè, se scopron sovente i bracchi al fiuto
Le lepri i cervi e l'altre fere in caccia