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De rerum natura
De rerum natura
De rerum natura
E-book396 pagine4 ore

De rerum natura

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Info su questo ebook

Il De rerum natura, poema filosofico in esametri composto da Lucrezio nel I secolo d.C, è un unicum nella storia della letteratura e del pensiero antico. Si compone di tre coppie di libri che hanno per argomento la fisica, la natura e il cosmo. È al contempo un'opera letteraria ricca d'immagini evocative, invenzioni linguistiche, picchi lirici e passaggi avvincenti quali la celeberrima fenomenologia dell'amore e la vivida descrizione della peste di Atene. Si tratta al contempo di un viaggio iniziatico attraverso gli insegnamenti del maestro Epicuro. Solo conoscendo i principi che regolano la natura e l'uomo, infatti, il saggio potrà raggiungere l'unico traguardo davvero ambito: la prospettiva di prezioso distacco da cui contemplare le cose, libero dai travagli di ogni giorno, con la gioia e il sollievo dell'uomo salvo sulla riva che fissa lo sguardo sul mare in tempesta.
Edizione integrale dotata di indice navigabile.
LinguaItaliano
Data di uscita19 nov 2018
ISBN9788829554140
De rerum natura

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    Anteprima del libro

    De rerum natura - Tito Lucrezio Caro

    DE RERUM NATURA

    Tito Lucrezio Caro

    Traduzione di Alessandro Marchetti

    © 2018 Sinapsi Editore

    LIBRO PRIMO

    Argomento.

    Il poeta comincia da una splendida invocazione a Venere; seguono: 1. la dedica del poema a Memmio, 2. l'esposizione del subbietto, 3. l'elogio d'Epicuro, 4. la confutazione delle obbiezioni generali che altri potrebbe fare contro la dottrina del filosofo greco e contro l'ardimento del poeta latino che si accinse a renderla nella sua lingua. Lucrezio entra poi in materia e pone a primo principio che l'essere non può uscir dal nulla, nè tornare al nulla. V'ha dunque corpuscoli primitivi, onde constano tutti i corpi, e ne' quali questi si risolvono; sebbene invisibili, è forza ammettere che esistano. Ma non potrebbero agire, muoversi e neppure esistere senza il vuoto. L'universo pertanto resulta da queste due cose: la materia e il vuoto. Tutto quello che non è nè l'uno nè l'altro n'è proprietà o accidente e non già una terza classe d'esseri che faccian parte da sè. I corpi primi, essendo la base delle opere della natura, debbon essere perfettamente solidi, indivisibili ed eterni. Onde ne viene che a torto Eraclito dà ai corpi per principio il fuoco, altri filosofi l'acqua, l'aria o la terra, ed Empedocle i quattro elementi. Nè per l'omeomeria di Anassagora si spiega meglio la formazione degli esseri. Il gran tutto, indistruttibile nei suoi principi, è infinito nella sua massa; non v'ha dunque centro a cui tendano i corpi gravi; la dottrina degli Antipodi è dunque una follia.

    Alma figlia di Giove, inclita madre

    Del gran germe d'Enea, Venere bella,

    Degli uomini piacere e degli dèi:

    Tu che sotto i girevoli e lucenti

    Segni del cielo il mar profondo e tutta

    D'animai d'ogni specie orni la terra,

    Che per sè fôra un vasto orror solingo:

    Te dea fuggono i venti: al primo arrivo

    Tuo svaniscon le nubi: a te germoglia

    Erbe e fiori odorosi il suolo industre:

    Tu rassereni i giorni foschi, e rendi

    Con dolce sguardo il mar chiaro e tranquillo,

    E splender fai di maggior lume il cielo.

    Qualor deposto il freddo ispido manto

    L'anno ringiovanisce, e la soave

    Aura feconda di Favonio spira,

    Tosto tra fronde e fronde i vaghi augelli,

    Feriti il cor da' tuoi pungenti dardi,

    Cantan festosi il tuo ritorno, o diva;

    Liete scorron saltando i grassi paschi

    Le fiere e gonfi di nuov'acque i fiumi

    Varcano a nuoto e i rapidi torrenti:

    Tal da' teneri tuoi vezzi lascivi

    Dolcemente allettato ogni animale

    Desïoso ti segue ovunque il guidi.

    Insomma tu per mari e monti e fiumi,

    Pe' boschi ombrosi e per gli aperti campi,

    Di piacevole amore i petti accendi,

    E così fai che si conservi 'l mondo.

    Or; se tu sol della natura il freno

    Reggi a tua voglia, e senza te non vede

    Del dì la luce desïata e bella

    Nè lieta e amabil fassi alcuna cosa;

    Te, dea, te bramo per compagna all'opra,

    In cui di scriver tento in nuovi carmi

    Di natura i segreti e le cagioni

    Al gran Memmo Gemello a te sì caro

    In ogni tempo e d'ogni laude ornato.

    Tu dunque, o diva, ogni mio detto aspergi

    D'eterna grazia; e fa' cessare intanto

    E per mare e per terra il fiero Marte,

    Tu che sola puoi farlo. Egli sovente

    D'amorosa ferita il cuor trafitto

    Umil si posa nel divin tuo grembo.

    Or; mentr'ei pasce il desïoso sguardo

    Di tua beltà ch'ogni beltade avanza,

    E che l'anima sua da te sol pende;

    Deh porgi a lui, vezzosa dea, deh porgi

    A lui soavi preghi, e fa' ch'ei renda

    Al popol suo la desïata pace.

    Chè se la patria nostra è da nemiche

    Armi agitata, io più seguir non posso

    Con animo quïeto il preso stile,

    Nè può di Memmo il generoso figlio

    Negar sè stesso alla comun salute.

    Tu, gran prole di Memmo, ora mi porgi

    Grate ed attente orecchie, e ti prepara,

    Lungi da te cacciando ogni altra cura,

    Alle vere ragioni, e non volere

    I miei doni sprezzar pria che gl'intenda.

    Io narrerotti in che maniera il cielo

    Con moto alterno ognor si volga e giri;

    Degli dèi la natura, e delle cose

    Gli alti principii; e come nasca il tutto,

    Come poi si nutrichi, e come cresca,

    Ed in che finalmente ei si risolva.

    E ciò da noi nell'avvenir dirassi

    Primo corpo o materia o primo seme

    O corpo genitale, essendo quello

    Onde prima si forma ogni altro corpo.

    Chè d'uopo è pur che 'n somma eterna pace

    Vivan gli dèi per lor natura e lungi

    Stian dal governo delle cose umane,

    Scevri d'ogni dolor d'ogni periglio,

    Ricchi sol di lor stessi, e di lor fuori

    Di nulla bisognosi, e che nè merto

    Nostro gli alletti o colpa accenda ad ira.

    Giacea l'umana vita oppressa e stanca

    Sotto religïon grave e severa,

    Che mostrando dal ciel l'altero capo

    Spaventevole in vista e minacciante

    Ne soprastava. Un uom d'Atene il primo

    Fu, che d'ergerle incontra ebbe ardimento

    Gli occhi ancor che mortali e le s'oppose

    Questi non paventò nè ciel tonante

    Nè tremoto che 'l mondo empia d'orrore

    Nè fama degli dèi nè fulmin torto:

    Ma, qual acciar su dura alpina cote

    Quanto s'agita più tanto più splende,

    Tal dell'animo suo mai sempre invitto

    Nelle difficoltà crebbe il desio

    Di spezzar pria d'ogni altro i saldi chiostri

    E l'ampie porte di natura aprirne.

    Così vins'egli, e con l'eccelsa mente

    Varcando oltre a' confin del nostro mondo

    Fu bastante a capir spazio infinito.

    Quindi sicuramente egli n'insegna

    Ciò che nasca o non nasca, ed in qual modo

    Ciò che racchiude l'universo in seno

    Ha poter limitato e termin certo.

    E, la religion co' piè calcata,

    L'alta vittoria sua c'erge alle stelle.

    Nè creder già che scelerate ed empie

    Sian le cose ch'io parlo; anzi sovente

    L'altrui religion ne' tempi antichi

    Cose produsse scelerate ed empie.

    Questa il fior degli eroi scelti per duci

    Dell'oste argiva in Aulide indusse

    Di Dïana a macchiar l'ara innocente

    Col sangue d'Ifigènia; allor che, cinto

    Di bianca fascia il bel virgineo crine,

    Vid'ella a sè davanti in mesto volto

    Il padre, e a lui vicini i sacerdoti

    Celar l'aspra bipenne, e 'l popol tutto

    Stillar per gli occhi in larga vena il pianto

    Sol per pietà di lei che muta e mesta

    Teneva a terra le ginocchia inchine.

    Nè giovò punto all'innocente e casta

    Povera verginella in tempo tale

    Ch'a nome della patria il prence avesse

    All'esercito greco un re donato:

    Chè tolta dalle man del suo consorte

    Fu condotta all'altar tutta tremante;

    Non perchè, terminato il sacrifizio,

    Legata fosse col soave nodo

    D'un illustre imeneo; ma per cadere

    Nel tempo stesso delle proprie nozze

    A' piè del genitore, ostia dolente

    Per dar felice e fortunato evento

    All'armata navale. Error sì grave

    Persüader la religion poteo.

    Tu stesso, dall'orribili minacce

    De' poeti atterrito, ai detti nostri

    Di negar tenterai la fè dovuta.

    Ed oh quanti potrei fingerti anch'io

    Sogni e chimere, a sovvertir bastanti

    Del viver tuo la pace e col timore

    Il sereno turbar della tua mente.

    Ed a ragion, che se prescritto il fine

    Vedesse l'uomo alle miserie sue,

    Ben resister potrebbe alle minacce

    Delle religïoni e de' poeti:

    Ma come mai resister può, s'ei teme

    Dopo la morte aspri tormenti eterni,

    Perchè dell'alma è a lui l'essenza ignota?

    S'ella sia nata od a chi nasce infusa,

    E se morendo il corpo anch'ella muoia?

    Se le tenebre dense e se le vaste

    Paludi vegga del tremendo inferno,

    O s'entri ad informare altri animali

    Per divino voler? Siccome il nostro

    Ennio cantò, che pria d'ogn'altro colse

    In riva d'Elicona eterni allori,

    Onde intrecciossi una ghirlanda al crine

    Fra l'italiche genti illustre e chiara.

    Bench'ei ne' dotti versi affermi ancora

    Che sulle sponde d'Acheronte s'erge

    Un tempio sacro agl'infernali dèi,

    Ove non l'alme o i corpi nostri stanno

    Ma certi simulacri in ammirande

    Guise pallidi in volto; e quivi narra

    D'aver visto l'immagine d'Omero

    piangere amaramente e di natura

    Raccontargli i segreti e le cagioni.

    Dunque non pur de' più sublimi effetti

    Cercar le cause e dichiarar conviensi

    Della luna e del sole i movimenti,

    Ma come possan generarsi in terra

    Tutte le cose, e con ragion sagace

    Principalmente investigar dell'alma

    E dell'animo uman l'occulta essenza,

    E ciò che sia quel che, vegliando infermi

    E sepolti nel sonno, in guisa n'empie

    D'alto terror, che di veder presente

    Parne e d'udir chi già per morte in nude

    Ossa è converso e poca terra asconde.

    E so ben io qual malagevol opra

    Sia l'illustrar de' Greci in tóschi carmi

    L'oscure invenzïoni; e quanto spesso

    Nuove parole converrammi usare,

    Non per la povertà della mia lingua

    Ch'alla greca non cede e più d'ogn'altra

    Piena è di proprie e di leggiadre voci.

    Ma per la novità di quei concetti

    Ch'esprimer tento e che null'altro espresse.

    Pur nondimen la tua virtude è tale

    E lo sperato mio dolce conforto

    Della nostr'amistà, ch'ognor mi sprona

    A soffrir volentieri ogni fatica

    E m'induce a vegliar le notti intere,

    Sol per veder con quai parole io possa

    Portare innanzi alla tua mente un lume

    Ond'ella vegga ogni cagione occulta.

    Or sì vano terror, sì cieche tenebre

    Schiarir bisogna e via cacciar dall'animo

    Non co' be' rai del sol, non già co' lucidi

    Dardi del giorno a saettar poc'abili

    Fuorchè l'ombre notturne e i sogni pallidi,

    Ma co 'l mirar della natura e intendere

    L'occulte cause e la velata imagine.

    Tu, se di conseguir ciò brami, ascoltami.

    Sappi che nulla per divin volere

    Può dal nulla crearsi: onde il timore

    Che quindi il cor d'ogni mortale ingombra

    Vano è del tutto: e, se tu vedi ognora

    Formarsi molte cose in terra e 'n cielo

    Nè d'esse intendi le cagioni, e pensi

    Per ciò che Dio le faccia, erri e deliri.

    Sia dunque mio principio il dimostrarti

    Che nulla mai si può crear dal nulla:

    Quindi assai meglio intenderemo il resto,

    E come possa generarsi il tutto

    Senz'opra degli dèi. Or, se dal nulla

    Si creasser le cose, esse di seme

    Non avrian d'uopo; e si vedrian produrre

    Uomini ed animai nel sen dell'acque,

    Nel grembo della terra uccelli e pesci.

    E nel vano dell'aria armenti e greggi:

    Pe' luoghi culti e per gl'inculti il parto

    D'ogni fera selvaggia incerto fôra;

    Nè sempre ne darian gl'istessi frutti

    Gli alberi, ma diversi, anzi ciascuno

    D'ogni specie a produrgli atto sarebbe

    Poichè come potrian da certa madre

    Nascer le cose, ove assegnati i propri

    Semi non fosser da natura a tutte?

    Ma or, perchè ciascuna è da principii

    Certi creata, indi ha il natale ed esce

    Lieta a godere i dolci rai del giorno

    Ov'è la sua materia e i corpi primi.

    E quindi nascer d'ogni cosa il tutto

    Non può, perchè fra loro alcune certe

    Cose han l'interna facoltà distinta.

    In oltre: ond'è che primavera adorna

    Sempre è d'erbe e di fior? che di mature

    Biade all'estiv'arsura ondeggia il campo?

    E che sol, quando Febo occupa i segni

    O di libra o di scorpio, allor la vite

    Suda il dolce liquor che inebria i sensi?

    Se non perchè a' lor tempi alcuni certi

    Semi in un concorrendo atti a produrre

    Son ciò che nasce, allor che le stagioni

    Opportune il richieggono, e la terra

    Di vigor genital piena e di succo

    Puote all'aure innalzar sicuramente

    Le molli erbette e l'altre cose tenere?

    Che, se pur generate esser dal nulla

    Potessero, apparir dovrian repente

    In contrarie stagioni e spazio incerto:

    Non vi essendo alcun seme che impedito

    Dall'unïon feconda esser potesse

    O per ghiaccio o per sol ne' tempi avversi.

    Nè, per crescer, le cose avrian mestiere

    Di spazio alcuno in cui si unisca il seme,

    S'elle fosser del nulla atte a nutrirsi:

    Ma nati appena i pargoletti infanti

    Diverrebbero adulti, e in un momento

    Si vedrebber le piante inverso il cielo

    Erger da terra le robuste braccia:

    Il che mai non succede; anzi ogni cosa

    Cresce, come conviensi, a poco a poco,

    E crescendo conserva e rende eterna

    La propria specie. Or tu confessa adunque

    Che della sua materia e del suo seme

    Nasce, si nutre e divien grande il tutto.

    S'arroge a ciò, che non daría la terra

    Il dovuto alimento ai lieti parti,

    Se non cadesse a fecondarle il seno

    Dal ciel l'umida pioggia, e senza cibo

    Propagar non potrebber gli animali

    La propria specie e conservar la vita.

    Ond'è ben verisimile che molte

    Cose molti fra lor corpi comuni

    Abbian, come le voci han gli elementi,

    Anzi che sia senza principio alcuna.

    In somma: ond'è che non formò natura

    Uomini tanto grandi e sì robusti,

    Che potesser co' piè del mar profondo

    Varcar l'acque sonanti e con la mano

    Sveller dall'imo lor l'alte montagne

    E viver molt'etadi e molti secoli?

    Se non perchè prescritta è la materia

    Onde ogni cosa si produce ed onde

    Composto è ciò che nasce? Or ecco dunque

    Che nulla mai si può crear dal nulla,

    Mentre di seme ha di mestiere il tutto

    Per uscire a goder l'aura vitale.

    Al fin: perchè veggiamo i culti luoghi

    Degl'inculti più fertili, e per l'opra

    Di rozze mani industrïose i loro

    Frutti produr molto più vaghi all'occhio,

    Più soavi al palato e di più sano

    Nodrimento allo stomaco; e' n'è pure

    Chiaro che d'ogni cosa in grembo i semi

    Stanno alla terra e che da noi promossi

    Sono a nuovo natal, mentre, rompendo

    Col curvo aratro e con la vanga il suolo,

    Volghiam sossopra le feconde zolle,

    Domandole or col rastro or con la marra:

    Chè, se questo non fosse, ogni fatica

    Sarebbe indarno sparsa, e per sè stesso

    Produrrebbe il terren cose migliori.

    Sappi oltre a ciò che si risolve il tutto

    Ne' suoi principii, e che non può natura

    Alcuna cosa annichilar giammai.

    Chè, se affatto mortali e di caduchi

    Semi fosser conteste, all'improvviso

    Tutte a gli occhi involarnesi e perire

    Dovrian le cose, ove mestier di forza

    Non fôra in partorir discordia e lite

    Fra le lor parti e l'unïon disciorne.

    Ma, perchè seme eterno il tutto forma,

    Quindi è che nulla mai perir si vede

    Pria che forza il percuota e negl'interni

    Vôti spazi penètri e lo dissolva.

    In oltre: ciò che lunga età corrompe

    Se s'annichila in tutto, ond'è che Venere

    Rimena della vita al dolce lume

    Generalmente ogni animale? ed onde

    Cibo gli porge la 'ngegnosa terra

    Onde si nutra, si conservi e cresca?

    Onde le fonti, onde i torrenti e i fiumi

    Portan l'ampio tributo al vasto mare?

    Onde alle fisse, onde all'erranti stelle

    Somministra alimento il ciel profondo?

    Poichè già l'infinita età trascorsa

    Ogni corpo mortale a pien dovrebbe

    Col vorace suo dente aver distrutto.

    Ma, se pur fu nella trascorsa etade

    Seme che basti a riprodurre al mondo

    Tutto ciò che perisce, eterno è certo.

    Nulla può dunque mai ridursi al nulla.

    In somma: a dissipar sarìa bastante

    Tutte le cose una medesma forza,

    Se materia immortal non le tenesse

    Più e men collegate: un tocco solo

    Bastevole cagion della lor morte

    Esser potria, ch'ove d'eterno corpo

    Nulla non fosse, ogni più leve impulso

    Sciôr ne dovrebbe la testura in tutto.

    Ma, perchè vari de' principii sono

    I nodi ed è la lor materia eterna,

    Salve restan le cose infino a tanto

    Che forza le percuota atta a disciorre

    Di ciascuna di loro il proprio laccio.

    Nulla può dunque mai ridursi a nulla;

    Ma ne' primi suoi corpi il tutto riede.

    Tosto che finalmente il padre Giove

    Versa nel grembo alla gran madre Idea

    L'umida pioggia, essa perisce al certo:

    Ma ne sorgon le biade e se n'adorna

    Ogni albero di fior, di frondi e frutti.

    Quindi si pasce poi l'umano germe,

    Quindi ogni altro animale. E lieta quindi

    Di vezzosi fanciulli ogni cittade

    Fiorir si mira, e le fronzute selve

    Piene di nuovi innamorati augelli

    Cantan soavi armonïose note.

    Quindi pe' lieti paschi i grassi armenti

    Posan le membra affaticate e stanche,

    E dalle piene mamme in bianche stille

    Gronda sovente il nutritivo umore,

    Onde i nuovi lor parti ebri e lascivi

    Con non ben fermo piè scherzan per l'erbe.

    Dunque affatto non muor ciò che ne sembra

    Morir quaggiù, se la natura industre

    Sempre dell'un l'altro ristora; e mai

    Nascer non puote alcuna cosa al mondo,

    Se non se prima ne perisce un'altra.

    Or; poi che chiaramente io t'ho dimostro

    Che nulla mai si può crear dal nulla

    Nè mai cosa creata annichilarsi,

    Acciò tu non pertanto i detti miei

    Non creda error, perchè non puoi cogli occhi

    Delle cose veder gli alti principii;

    Pensa oltre a ciò quant'altri corpi sono

    Invisibili al mondo, e pur deggiamo

    Confessar ch'e' vi sono a viva forza.

    Pria: se vento gagliardo il mare sferza

    Con incredibil vïolenza ignota,

    Le smisurate navi urta e fracassa;

    Or ne porta sull'ali atre tempeste,

    Or via le scaccia e ne fa chiaro il giorno;

    Talor pe' campi infurïato scorre

    Con turbo orrendo, e le gran piante atterra;

    Talor col soffio impetuoso svelle

    Le selve annose in su gli eccelsi monti:

    Così gorgoglia l'Ocean cruccioso,

    Geme, freme, s'infuria e 'l ciel minaccia.

    Son dunque i venti un invisibil corpo,

    Che la terra che 'l mar che 'l ciel profondo

    Trae seco a forza e ne fa strage e scempio;

    Nè in altra guisa il suo furor distende,

    Che suol repente in ampio letto accolta

    La molle acqua cader gonfia e spumante,

    Che non pur delle selve i tronchi busti

    Ma ne porta sul dorso i boschi interi;

    Nè pôn soffrir i ben fondati ponti

    La repentina forza; il fiume abbatte

    Ogni eccelso edifizio e sotto l'acque

    Gran sassi avvolge, onde ruina a terra

    Ciò ch'al rapido corso ardisce opporsi.

    Così dunque del vento il soffio irato,

    Se qual torrente infurïato scorre

    Verso qualunque parte, innanzi caccia

    Ciò ch'egli incontra e lo diveglie e schianta;

    Or con vortice torto alto il rapisce,

    E con rapido turbo il ruota e porta.

    È dunque il vento un invisibil corpo,

    Se nell'opre e nel moto i fiumi imita

    Che son composti di visibil corpo.

    Giùngonne anco alle nari odor diversi,

    Che tra via nondimen l'occhio non vede:

    Il caldo il gelo il canto il suon le voci

    Non pôn mirarsi, e pur son corpo anch'elleno

    Poichè svegliano il senso e lo commuovono:

    E null'altro che il corpo è tocco o tocca.

    Le vesti al fin nel marin lido appese

    Umide fansi, e le medesme poi

    Tornan asciutte a' rai del sole esposte:

    Ma nè come l'umore ivi si fermi,

    Nè com'ei fugga dal calor cacciato

    Alcun non vede. Egli si sparge adunque

    In tante e tante parti e sì minute,

    Ch'a poterle mirare occhio non basta.

    Anzi: portate per molt'anni in dito

    S'assottiglian l'anella; a goccia a goccia

    L'acqua d'alto cadendo i sassi incava;

    L'adunco ferro del ritorto aratro

    Rompendo i campi occultamente scema;

    Consuman per le strade i piè del volgo

    Le durissime lastre; e, per lo spesso

    Toccar di chi saluta e di chi passa,

    Le figure di bronzo entro alle porte

    De' templi sculte la lor forma pèrdono.

    E ben tai cose sminuir veggiamo;

    Ma di veder ciò che ne caschi ogn'ora

    La natura ne toglie invidïosa.

    In somma: ciò che la natura e 'l tempo

    Donano a poco a poco a quel che cresce

    Non possono gli occhi rimirar contenti,

    Nè quel che per l'età langue o vien meno,

    Nè quel che rode con l'edace sale

    Ogni momento il mar dai duri scogli.

    Dunque è pur di mestier che la natura

    D'invisibili corpi il tutto formi.

    Ma non creder però che l'universo

    Sia pieno affatto. In ogni cosa il vôto

    Misto è co' corpi. E questo in molte cose

    D'util ti fia; acciò tu meglio intenda

    Tutto ciò ch'io ragiono, e senza errore

    E senza dubbio interamente creda

    Alle parole mie fide e veraci.

    Spazio è dunque nel mondo intatto e vôto

    E privo d'ogni corpo, e luogo ha nome

    Poichè, se ciò non fosse, eternamente

    Starian ferme le cose, essendo offizio

    Di tutti i corpi l'impedire il moto:

    Muoversi dunque mai nulla potrebbe,

    Ove nulla cedesse e desse luogo.

    Ma noi miriam co' gli occhi propri ognora

    Nella terra nel mar nel ciel sublime

    Muoversi molte cose in molti modi

    Per molte cause; che, se vôto alcuno

    Spazio non fosse, d'ogni moto prive

    Sarìan non sol ma nè pur nate al mondo;

    Poichè stivati i primi semi affatto

    Goduto avriano una perpetua quiete.

    In oltre: ancor che molte cose e molte

    Sembrin dure del tutto agli occhi nostri,

    Son poi di corpo assai poroso e raro.

    Quindi è che penetrar miri dall'acque

    I tufi, i sassi e le spelonche, e quindi

    Piangon le selci in copïose stille.

    Per tutto il corpo si diffonde il cibo

    Degli animai; crescon le piante e fanno

    Nella propria stagione il fiore e 'l frutto,

    Sol perchè preso il nutrimento loro

    Sin dall'infime barbe egli si sparge

    Tutto per tutto il tronco e tutti i rami.

    Passan le voci entro le chiuse mura:

    E scorre spesso un duro gel per l'ossa.

    Il che non avverrebbe in modo alcuno,

    Se non fosser nel mondo i vôti spazi

    Ov'ogni corpo penetrar potesse.

    Al fine: ond'è che di due cose eguali

    Di mole una sovente ha maggior pondo?

    Che s'un fiocco di lana in sè chiudesse

    Tanto di corpo quanto il piombo e l'oro,

    Egli altrettanto anco pesar dovrebbe;

    Chè proprio è sol di tutt'i corpi il premere

    In giù le cose, ed al contrario il vôto

    Di sua natura è senza peso alcuno.

    Dunque, se di due cose eguali in mole

    L'una più lieve fia, chiaro ne insegna

    D'aver manco di corpo e più di vôto:

    Ma, s'è più grave, pel contrario mostra

    D'aver manco di vôto e più di corpo.

    Che sia dunque fra' corpi il vôto sparso,

    Benchè mal noto a' nostri sensi infermi,

    Per l'addotte ragioni è chiaro e certo.

    Nè qui vogl'io che devïar dal vero

    Ti possa mai quel che sognaro alcuni;

    E perciò quant'io parlo ascolta e nota.

    Dicon che 'l mare allo squammoso armento

    Apre l'umide vie, perch'egli a tergo

    Spazio si lascia ove concorran l'onde;

    E che in guisa simìle ogni altra cosa

    Mover si puote e cangiar sito e luogo.

    Ma falso è ciò: ch'ove potranno alfine

    I pesci andar, se non dà luogo il mare?

    E dove al fin, se non dan luogo i pesci,

    Il mar n'andrà, benchè cedente e molle?

    Forz'è dunque o privar di moto i corpi,

    O fra le cose mescolar il vôto

    Che sia cagion de' movimenti loro.

    S'al fin due piastre di lucente acciaio

    Si combaciano insieme, indi in un tratto

    L'una dall'altra si solleva, è d'uopo

    Che vôto resti l'interposto spazio:

    Poichè, quantunque d'ogn'intorno accorra

    L'aere per occuparlo, in un sol punto

    Ciò far non può, ma che riempia è forza

    I luoghi più vicini e poscia gli altri.

    E, se per avventura alcun pensasse

    Che si distinguan l'un dall'altro i corpi

    Perchè l'aere frapposto si condensi,

    Erra; chè il vôto il qual non era innanzi

    Fassi per certo e si riempie dopo

    Benchè velocemente, in qualche tempo;

    Nè l'aere in guisa tal può condensarsi,

    Nè, quand'anco potesse, ei non potrebbe

    Sè stesso in sè raccôrre e in un ridurre

    Senz'alcun vôto le disperse parti.

    Dunque indugia, se vuoi; forz'è ch'al fine

    Esser confessi tra le cose il vôto.

    Posso oltre a ciò molte ragioni addurti

    Nulla men concludenti, onde tu presti

    Alle parole mie fede maggiore:

    Ma tanto basti al tuo sottile ingegno,

    Per ben capir sicuramente il resto.

    Chè, se scopron sovente i bracchi al fiuto

    Le lepri i cervi e l'altre fere in caccia

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