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Divina Commedia: Paradiso
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Divina Commedia: Paradiso
E-book187 pagine2 ore

Divina Commedia: Paradiso

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Info su questo ebook

Il Paradiso della Divina Commedia di Dante Alighieri
LinguaItaliano
Data di uscita21 giu 2016
ISBN9786050462388
Divina Commedia: Paradiso
Autore

Dante Alighieri

Dante Alighieri was an Italian poet of the Middle Ages, best known for his masterpiece, the epic Divine Comedy, considered to be one of the greatest poetic works in literature. A native of Florence, Dante was deeply involved in his city-state’s politics and had political, as well as poetic, ambitions. He was exiled from Florence in 1301 for backing the losing faction in a dispute over the pope’s influence, and never saw Florence again. While in exile, Dante wrote the Comedy, the tale of the poet’s pilgrimage through Hell, Purgatory, and Paradise. To reach the largest possible audience for the work, Dante devised a version of Italian based largely on his own Tuscan dialect and incorporating Latin and parts of other regional dialects. In so doing, he demonstrated the vernacular’s fitness for artistic expression, and earned the title “Father of the Italian language.” Dante died in Ravenna in 1321, and his body remains there despite the fact that Florence erected a tomb for him in 1829.

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    Anteprima del libro

    Divina Commedia - Dante Alighieri

    Dante Alighieri

    Divina Commedia: Paradiso

    UUID: 4c8c45bc-3805-11e6-af64-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

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    Indice dei contenuti

    Paradiso

    Canto I

    Canto II

    Canto III

    Canto IV

    Canto V

    Canto VI

    Canto VII

    Canto VIII

    Canto IX

    Canto X

    Canto XI

    Canto XII

    Canto XIII

    Canto XIV

    Canto XV

    Canto XVI

    Canto XVII

    Canto XVIII

    Canto XIX

    Canto XX

    Canto XXI

    Canto XXII

    Canto XXIII

    Canto XXIV

    Canto XXV

    Canto XXVI

    Canto XXVII

    Canto XXVIII

    Canto XXIX

    Canto XXX

    Canto XXXI

    Canto XXXII

    Canto XXXIII

    Paradiso

    Canto I

    La gloria di colui che tutto move

    per l'universo penetra, e risplende

    in una parte più e meno altrove.

    Nel ciel che più de la sua luce prende

    fu' io, e vidi cose che ridire

    né sa né può chi di là sù discende;

    perché appressando sé al suo disire,

    nostro intelletto si profonda tanto,

    che dietro la memoria non può ire.

    Veramente quant' io del regno santo

    ne la mia mente potei far tesoro,

    sarà ora materia del mio canto.

    O buono Appollo, a l'ultimo lavoro

    fammi del tuo valor sì fatto vaso,

    come dimandi a dar l'amato alloro.

    Infino a qui l'un giogo di Parnaso

    assai mi fu; ma or con amendue

    m'è uopo intrar ne l'aringo rimaso.

    Entra nel petto mio, e spira tue

    sì come quando Marsïa traesti

    de la vagina de le membra sue.

    O divina virtù, se mi ti presti

    tanto che l'ombra del beato regno

    segnata nel mio capo io manifesti,

    vedra'mi al piè del tuo diletto legno

    venire, e coronarmi de le foglie

    che la materia e tu mi farai degno.

    Sì rade volte, padre, se ne coglie

    per trïunfare o cesare o poeta,

    colpa e vergogna de l'umane voglie,

    che parturir letizia in su la lieta

    delfica deïtà dovria la fronda

    peneia, quando alcun di sé asseta.

    Poca favilla gran fiamma seconda:

    forse di retro a me con miglior voci

    si pregherà perché Cirra risponda.

    Surge ai mortali per diverse foci

    la lucerna del mondo; ma da quella

    che quattro cerchi giugne con tre croci,

    con miglior corso e con migliore stella

    esce congiunta, e la mondana cera

    più a suo modo tempera e suggella.

    Fatto avea di là mane e di qua sera

    tal foce, e quasi tutto era là bianco

    quello emisperio, e l'altra parte nera,

    quando Beatrice in sul sinistro fianco

    vidi rivolta e riguardar nel sole:

    aguglia sì non li s'affisse unquanco.

    E sì come secondo raggio suole

    uscir del primo e risalire in suso,

    pur come pelegrin che tornar vuole,

    così de l'atto suo, per li occhi infuso

    ne l'imagine mia, il mio si fece,

    e fissi li occhi al sole oltre nostr' uso.

    Molto è licito là, che qui non lece

    a le nostre virtù, mercé del loco

    fatto per proprio de l'umana spece.

    Io nol soffersi molto, né sì poco,

    ch'io nol vedessi sfavillar dintorno,

    com' ferro che bogliente esce del foco;

    e di sùbito parve giorno a giorno

    essere aggiunto, come quei che puote

    avesse il ciel d'un altro sole addorno.

    Beatrice tutta ne l'etterne rote

    fissa con li occhi stava; e io in lei

    le luci fissi, di là sù rimote.

    Nel suo aspetto tal dentro mi fei,

    qual si fé Glauco nel gustar de l'erba

    che 'l fé consorto in mar de li altri dèi.

    Trasumanar significar per verba

    non si poria; però l'essemplo basti

    a cui esperïenza grazia serba.

    S'i' era sol di me quel che creasti

    novellamente, amor che 'l ciel governi,

    tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti.

    Quando la rota che tu sempiterni

    desiderato, a sé mi fece atteso

    con l'armonia che temperi e discerni,

    parvemi tanto allor del cielo acceso

    de la fiamma del sol, che pioggia o fiume

    lago non fece alcun tanto disteso.

    La novità del suono e 'l grande lume

    di lor cagion m'accesero un disio

    mai non sentito di cotanto acume.

    Ond' ella, che vedea me sì com' io,

    a quïetarmi l'animo commosso,

    pria ch'io a dimandar, la bocca aprio

    e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso

    col falso imaginar, sì che non vedi

    ciò che vedresti se l'avessi scosso.

    Tu non se' in terra, sì come tu credi;

    ma folgore, fuggendo il proprio sito,

    non corse come tu ch'ad esso riedi».

    S'io fui del primo dubbio disvestito

    per le sorrise parolette brevi,

    dentro ad un nuovo più fu' inretito

    e dissi: «Già contento requïevi

    di grande ammirazion; ma ora ammiro

    com' io trascenda questi corpi levi».

    Ond' ella, appresso d'un pïo sospiro,

    li occhi drizzò ver' me con quel sembiante

    che madre fa sovra figlio deliro,

    e cominciò: «Le cose tutte quante

    hanno ordine tra loro, e questo è forma

    che l'universo a Dio fa simigliante.

    Qui veggion l'alte creature l'orma

    de l'etterno valore, il qual è fine

    al quale è fatta la toccata norma.

    Ne l'ordine ch'io dico sono accline

    tutte nature, per diverse sorti,

    più al principio loro e men vicine;

    onde si muovono a diversi porti

    per lo gran mar de l'essere, e ciascuna

    con istinto a lei dato che la porti.

    Questi ne porta il foco inver' la luna;

    questi ne' cor mortali è permotore;

    questi la terra in sé stringe e aduna;

    né pur le creature che son fore

    d'intelligenza quest' arco saetta,

    ma quelle c'hanno intelletto e amore.

    La provedenza, che cotanto assetta,

    del suo lume fa 'l ciel sempre quïeto

    nel qual si volge quel c'ha maggior fretta;

    e ora lì, come a sito decreto,

    cen porta la virtù di quella corda

    che ciò che scocca drizza in segno lieto.

    Vero è che, come forma non s'accorda

    molte fïate a l'intenzion de l'arte,

    perch' a risponder la materia è sorda,

    così da questo corso si diparte

    talor la creatura, c'ha podere

    di piegar, così pinta, in altra parte;

    e sì come veder si può cadere

    foco di nube, sì l'impeto primo

    l'atterra torto da falso piacere.

    Non dei più ammirar, se bene stimo,

    lo tuo salir, se non come d'un rivo

    se d'alto monte scende giuso ad imo.

    Maraviglia sarebbe in te se, privo

    d'impedimento, giù ti fossi assiso,

    com' a terra quïete in foco vivo».

    Quinci rivolse inver' lo cielo il viso.

    Canto II

    O voi che siete in piccioletta barca,

    desiderosi d'ascoltar, seguiti

    dietro al mio legno che cantando varca,

    tornate a riveder li vostri liti:

    non vi mettete in pelago, ché forse,

    perdendo me, rimarreste smarriti.

    L'acqua ch'io prendo già mai non si corse;

    Minerva spira, e conducemi Appollo,

    e nove Muse mi dimostran l'Orse.

    Voialtri pochi che drizzaste il collo

    per tempo al pan de li angeli, del quale

    vivesi qui ma non sen vien satollo,

    metter potete ben per l'alto sale

    vostro navigio, servando mio solco

    dinanzi a l'acqua che ritorna equale.

    Que' glorïosi che passaro al Colco

    non s'ammiraron come voi farete,

    quando Iasón vider fatto bifolco.

    La concreata e perpetüa sete

    del deïforme regno cen portava

    veloci quasi come 'l ciel vedete.

    Beatrice in suso, e io in lei guardava;

    e forse in tanto in quanto un quadrel posa

    e vola e da la noce si dischiava,

    giunto mi vidi ove mirabil cosa

    mi torse il viso a sé; e però quella

    cui non potea mia cura essere ascosa,

    volta ver' me, sì lieta come bella,

    «Drizza la mente in Dio grata», mi disse,

    «che n'ha congiunti con la prima stella».

    Parev' a me che nube ne coprisse

    lucida, spessa, solida e pulita,

    quasi adamante che lo sol ferisse.

    Per entro sé l'etterna margarita

    ne ricevette, com' acqua recepe

    raggio di luce permanendo unita.

    S'io era corpo, e qui non si concepe

    com' una dimensione altra patio,

    ch'esser convien se corpo in corpo repe,

    accender ne dovria più il disio

    di veder quella essenza in che si vede

    come nostra natura e Dio s'unio.

    Lì si vedrà ciò che tenem per fede,

    non dimostrato, ma fia per sé noto

    a guisa del ver primo che l'uom crede.

    Io rispuosi: «Madonna, sì devoto

    com' esser posso più, ringrazio lui

    lo qual dal mortal mondo m'ha remoto.

    Ma ditemi: che son li segni bui

    di questo corpo, che là giuso in terra

    fan di Cain favoleggiare altrui?».

    Ella sorrise alquanto, e poi «S'elli erra

    l'oppinïon», mi disse, «d'i mortali

    dove chiave di senso non diserra,

    certo non ti dovrien punger li strali

    d'ammirazione omai, poi dietro ai sensi

    vedi che la ragione ha corte l'ali.

    Ma dimmi quel che tu da te ne pensi».

    E io: «Ciò che n'appar qua sù diverso

    credo che fanno i corpi rari e densi».

    Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso

    nel falso il creder tuo, se bene ascolti

    l'argomentar ch'io li farò avverso.

    La spera ottava vi dimostra molti

    lumi, li quali e nel quale e nel quanto

    notar si posson di diversi volti.

    Se raro e denso ciò facesser tanto,

    una sola virtù sarebbe in tutti,

    più e men distributa e altrettanto.

    Virtù diverse esser convegnon frutti

    di princìpi formali, e quei, for ch'uno,

    seguiterieno a tua ragion distrutti.

    Ancor, se raro fosse di quel bruno

    cagion che tu dimandi, o d'oltre in parte

    fora di sua materia sì digiuno

    esto pianeto, o, sì come comparte

    lo grasso e 'l magro un corpo, così questo

    nel suo volume cangerebbe carte.

    Se 'l primo fosse, fora manifesto

    ne l'eclissi del sol, per trasparere

    lo lume come in altro raro ingesto.

    Questo non è: però è da vedere

    de l'altro; e s'elli avvien ch'io l'altro cassi,

    falsificato fia lo tuo parere.

    S'elli è che questo raro non trapassi,

    esser conviene

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