Sopravvissuti
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La sua specialità è sfruttare le proprie doti di inganno per ottenere quello che non sarebbe possibile, o legale, ottenere.
Una sera fredda e piovosa, viene avvicinato da un personaggio misterioso, che gli propone un incarico relativamente facile per un professionista con le sue capacità; nonostante i sospetti, Sebastian accetta e, senza rendersene conto, intraprende un viaggio sconvolgente in un mondo di ombre, dove le uniche leggi sono la vendetta, l’odio e la morte.
Mentre gli omicidi misteriosi aumentano, fino a minacciarlo direttamente, Sebastian affonda sempre più in un meccanismo spaventoso, governato da una forza letale, i cui obiettivi di distruzione e le capacità di realizzarli non sembrano avere confini né ostacoli.
Confidando solo sul proprio ingegno, Sebastian dovrà decidere fin dove spingersi e soprattutto quale prezzo sia disposto a pagare pur di conoscere la verità, con la consapevolezza che persino il suo sacrificio estremo potrebbe essere vano.
"La penna dimenticata dall’avvocato finì sulla scrivania dopo un perfetto lancio da un metro di distanza.
Non avrei mai immaginato che quell’oggetto di plastica avrebbe salvato milioni di vite umane.
E segnato la mia condanna a morte."
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Recensioni su Sopravvissuti
1 valutazione1 recensione
- Valutazione: 5 su 5 stelle5/5Un libro interessante per i collegamenti storici e scritto in modo da creare la giusta suspence che ti costringe a finirlo entro un paio di giorni.
Anteprima del libro
Sopravvissuti - Filippo Colizza
Muraro)
Prologo
Oscar Wilde non c’entra nulla.
E ancora meno la sua creatura più famosa, Dorian Gray. Non è mai entrato nei miei pensieri prima, perché è lì a restituirmi l’immagine del mio volto?
La sua presenza è fuori luogo.
Ma lo è l’intero ambiente in cui sono immerso. Una stanza buia, o perlomeno questa è la mia percezione; tutto quanto è talmente scuro che non riesco a valutare le dimensioni geometriche del luogo in cui mi trovo.
Non vedo le pareti, il soffitto, anche il pavimento scompare nel buio assoluto.
In effetti, non riesco a vedere nemmeno il mio corpo.
Avvicino una mano davanti agli occhi, la destra; la accosto fino a toccarmi il viso, sento il polpastrello dell’indice sulla punta del naso, ma non riesco comunque a vederla.
Eppure, il resto dei miei sensi funziona.
O forse no?
Mi concentro a caccia di qualche rumore, un fruscio, una debole raschiatura, uno scricchiolio: nulla.
Buio assoluto e silenzio assoluto.
Ma il mio respiro lo sento. Se mi concentro riesco a percepire il delicato flusso dell’aria che attraversa le mie vie aeree.
O forse è il frutto della mia immaginazione.
Deglutisco.
Sì, questo lo sento chiaramente. La saliva che scende attraverso la gola produce un rumore inconfondibile; di solito non ci si fa caso, ma mettendoci un minimo di attenzione si riesce a sentirlo addirittura nelle persone con cui si sta parlando. È uno degli indicatori del nervosismo, il segno che qualcuno ha qualcosa da nascondere.
O che sta mentendo.
Considerazioni del tutto inutili.
Mi trovo in un luogo senza spazio e senza tempo, con gli occhi che non riescono a penetrare la realtà che mi circonda.
Potrei essere cieco, e sono sicuro che questo mi getterebbe nella disperazione. Ma non lo sono, non vedo perché non c’è luce, una spiegazione del tutto razionale.
E anche questa affermazione non è poi del tutto corretta.
Una cosa riesco a vederla molto chiaramente. È il quadro di fronte a me, l’unico oggetto illuminato da un cono di luce originato da chissà dove.
Vedo il quadro, ma il resto della stanza sembra poter assorbire la luce in un buco nero.
Mi avvicino di qualche metro, quasi fluttuando nell’aria; sto camminando, sento le mie gambe muoversi alternando i passi, ma le piante dei miei piedi esercitano una pressione minima sul pavimento. Ho l’impressione di muovermi in presenza di gravità ridotta, come se fossi sul fondo di una piscina.
Il ritratto all’interno del quadro è decisamente familiare, mi assomiglia come una goccia d’acqua.
È solo più vecchio di almeno una quarantina d’anni. Può essere mio padre, ma non ha senso; mio padre è morto giovane, aveva poco meno di cinquant’anni, l’uomo ritratto nel quadro dimostra non meno di settant’anni, forse ottanta.
No, quell’uomo sono io al doppio della mia età.
Stessi lineamenti generali, stessa tonalità dell’iride, una strana mescolanza tra il grigio ed il verde, quasi cangiante con la luce del giorno; lo stesso viso, solo solcato da molte più rughe. Con un minimo di soddisfazione realizzo che il ritratto ha ancora i capelli; certo, non sono più il castano chiaro a cui sono abituato, sono di un bianco candido quasi puro, la fronte più alta, leggermente stempiato, ma in fondo i capelli sono tutti lì.
Un gradevole moto confortante mi sale dallo stomaco, lo accolgo con una smorfia vagamente simile ad un sorriso. Non so in che luogo mi trovo, ma il ritratto di fronte ai miei occhi è la dimostrazione che sarei vissuto almeno per altri quattro decenni. Ed avrei conservato quasi tutti i miei capelli.
È una deduzione irrazionale, ma non lo è tutto quanto in quel luogo?
«Chi sei?», mi azzardo a domandare al ritratto.
Non risponde, è un dipinto d’altronde, e l’espressione seria del volto rimane imprigionata nelle pennellate di colore.
Con la mente mi ritorna una frase dell’opera di Wilde, qualcosa che avevo letto una vita fa e che avevo seppellito nei meandri più reconditi della mia mente.
Trasferire il proprio temperamento in un'altra persona come se fosse un fluido sottile o uno strano profumo.
Realizzo che il cono di luce aumenta di intensità in maniera graduale. Rimango ipnotizzato, con gli occhi fissi in quelli del vecchio, così immobili eppure così vitali.
Chi sta trasferendo il proprio temperamento in quel momento? Da chi parte il fluido sottile, chi è travolto da uno strano profumo, chi dei due sta perdendo il controllo della propria persona, quasi posseduto dalla presenza dirompente dell’altro?
Il bagliore diventa insostenibile.
Sbatto le palpebre più volte, non voglio distogliere lo sguardo, anche se gli occhi cominciano a farmi male.
Inizio a lacrimare, mi passo il dorso della mano sulle palpebre, ma ad ogni istante il ritratto sembra dissolversi in un bianco accecante.
Chiudo gli occhi con violenza, cerco di mettere le mani a protezione, ma qualcosa me lo impedisce.
Lotto con forza, ma ogni tentativo di movimento sembra di colpo privo di ogni possibilità di successo. Ruoto la testa a destra e a sinistra, cercando di combattere l’improvvisa ondata di panico, sebbene sappia già nel mio intimo di non avere alcuna speranza.
Una cupa sensazione di disperazione mi avvolge in un sudario nero, facendomi lacrimare dagli angoli degli occhi sbarrati. Sento un liquido scendermi dal naso, un muco molto liquido, tento di trattenerlo, ma lo sento scivolare sul mio labbro superiore per finire sul lato destro del viso.
Impossibile. La gravità avrebbe dovuto farmelo finire in bocca.
Il pensiero razionale mi conforta.
Sono coricato, lentamente sto riprendendo coscienza.
Meglio così.
Sento il tessuto ruvido di una garza tamponarmi gli angoli degli occhi e lungo la guancia. È un tocco morbido, delicato, quasi alieno rispetto alla violenza del sogno appena vissuto.
Apro gli occhi, terrorizzato dalla luce abbacinante.
Con mio grande stupore è solo un neon che diffonde una luce fredda e per nulla confortevole. Non l’avrei mai messa in casa.
Cerco di guardarmi intorno.
E infatti non sono a casa mia.
A parte l’alloggiamento dei neon, il soffitto è liscio e bianco, con la significativa eccezione di un aeratore posto al centro. Concentrandomi, sono in grado di sentire il fruscio che il flusso d’aria provoca attraverso le lamelle della grata, anche se non riesco a percepirlo sulla pelle. Eppure, non è distante dal letto su cui sono steso, come se l’aria venisse aspirata anziché diffusa dall’aeratore.
Abbasso lo sguardo sulla parete ai piedi del letto. C’è una porta grigia, forse di metallo; la maniglia è un semplice pomello lucido, manca la toppa della chiave. A destra del montante è presente un piccolo tastierino numerico, a sinistra l’interruttore della luce.
Sposto la testa a sinistra, la parete è completamente spoglia, a parte il poster a grandezza naturale del sistema circolatorio nell’uomo.
Un ospedale.
Mi chiedo con un minimo di spirito critico per quale ragione debbano appendere simili immagini sulle pareti degli ospedali.
Ma veramente credono che ad un paziente ricoverato possa interessare come è fatto il sistema circolatorio umano? O quello linfatico? O quello nervoso?
Mi volto a destra.
La parete è quasi interamente occupata da una enorme finestra in vetro affacciata su una seconda stanza, anch’essa illuminata a giorno con la stessa luce fredda del neon in cima al letto.
Ma non è quello l’elemento che attira la mia attenzione, né le due persone al di là del vetro o la loro espressione seria e preoccupata.
Quello che mi lascia a bocca aperta è la figura che sta parlando attraverso l’interfono che mette in comunicazione le due stanze. Sembra un astronauta, chiuso nella sua tuta protettiva con uno strano apparecchio sulle spalle.
Un respiratore autonomo.
La figura si volta e attraverso la protezione in plexiglas posta di fronte al suo viso, mi sorride con dolcezza.
E quegli occhi azzurri spazzano in un istante lo strano disorientamento che mi aveva lasciato il sogno, facendomi piombare nella realtà. A dispetto del viso sorridente, si tratta di una realtà tragica.
«Come ti senti, Sebastian?»
«La testa» rispondo ciondolandola sul cuscino «mi sta scoppiando, mi sembra di aver passato la tortura della cintura», aggiungo, abbozzando un sorriso.
«E sarebbe?»
«Non la conosci? Prendi un nastro di cuoio, lo bagni...» La fatica quasi mi soffoca. «Lascia perdere… un’altra volta.»
«Sì, forse è meglio, pensa a riposarti, adesso.»
Non riesco a replicare, sconvolto da un attacco di tosse che mi priva del respiro.
Il mio soccorritore mi aiuta e tampona le escrezioni con un fazzoletto imbevuto di disinfettante.
Mi corico esausto sul letto, con gli occhi in fiamme per le convulsioni.
Riprendo lentamente il respiro regolare, mentre lo stesso tocco delicato e ruvido della garza mi tampona le lacrime dalle tempie.
Apro gli occhi e per un istante cerco di lasciarmi alle spalle le sofferenze che sembravano aver artigliato tutto il mio corpo.
«Come sto, Gaia?»
Esita prima di rispondere. O almeno quella è la mia prima impressione.
«Stai migliorando, il tuo corpo sta rispondendo bene ai trattamenti.»
La guardo negli occhi per un paio di secondi.
«Stai mentendo, Gaia, e lo sai che sono in grado di capirlo senza troppe difficoltà. Tu, peraltro, sei un disastro a mentire.»
I pochi secondi di silenzio che seguono sono più rivelatori di qualsiasi parola.
Sollevo un braccio con uno sforzo impensabile per un banale movimento volontario e indico il batuffolo con cui mi aveva appena tamponato il viso.
«Sto lacrimando sangue, quando tossisco sputo grumi nerastri e tu… e tu indossi una tuta di protezione biologica che altrimenti non avresti.»
Gaia mi accarezza la fronte con la mano guantata, concedendomi un sorriso comprensivo.
«Mi dispiace, Sebastian, non puoi immaginare quanto.»
«Non ce la farò, vero?»
Si limita a scuotere la testa.
«Stiamo facendo il possibile, ma non ci sono molte possibilità.»
Sospiro profondamente, nonostante il dolore lancinante al petto.
Forse, alla fine, non sarei vissuto fino all’età del ritratto, con tutti i miei capelli in testa.
«È finita?», domando, come se volessi sentire anche una sola volta quello che Gaia si sta rifiutando di dirmi esplicitamente.
Magari mi piacerebbe una risposta che getti un minimo di speranza, per quanto insignificante.
Ma evidentemente non c’è spazio neanche per quello.
O forse Gaia non ci crede.
«Sì, stai morendo.»
Lo dice mentre una lacrima le scende lungo la guancia destra, almeno la sua non è rosso sangue, ma trasparente e limpida come i suoi occhi.
Capitolo I
Adoravo farlo, era un’abitudine che avevo imparato qualche anno prima quando ancora non mi ero messo in proprio. Mi dava l’impressione di immergermi in una realtà virtuale separata nel tempo e nello spazio dalla confusione dei viali del centro di Roma.
Eppure non dovevo percorrere distanze infinite né viaggiare nel tempo.
Mi bastava dirottare il tragitto per quei microscopici vicoli che si divincolano alle spalle di Via del Corso, insinuandosi tra il Pantheon, Palazzo Madama e Piazza Navona, senza mai toccarli; lungo quelle piccole strisce di asfalto, non più larghe di un paio di metri, gli incontri erano rari ed il cammino era accompagnato dal giallo ocra dei lampioni e da un silenzio ovattato.
Quando spirava la tramontana mi dava l’impressione di trovarmi tra i piccoli viali di un paesino alpino, mancava solo la neve; in estate, li associavo ad una cittadina arroccata sulla riva del mare in un’isola greca.
E invece, l’immensità della città mi circondava per un raggio di una quindicina di chilometri, milioni di case e migliaia di monumenti su duemila anni di storia, tagliati in due dalle anse del Tevere.
Quella sera la passeggiata non fu molto piacevole. Una pioggerellina fine ma persistente bagnava la città dalla prima mattinata e non sembrava avere alcuna intenzione di smettere. Almeno non per il tempo necessario a raggiungere il mio ufficio e riprendermi la macchina.
Accelerai il passo, con il capo chino sotto il cappuccio della felpa grigia. Non era stata la scelta più intelligente che potessi fare, ma ero avverso agli ombrelli, non potevo fare a meno di dimenticarli ovunque andassi. E mi sembrava ridicolo indossare un impermeabile, scimmiottando lo stereotipo dell’investigatore.
Certo che una felpa di cotone ed un paio di jeans non avevano alcuna speranza di passare indenni attraverso la pioggia che scendeva in quel momento sulla città. Avevo commesso un errore, ma il danno oramai era stato fatto, sarei arrivato in ufficio inzuppato di acqua.
Giunsi sulla sponda orientale del Tevere, proteggendomi sotto le chiome imponenti dei platani che costeggiavano le rive del fiume. Avevano ancora le foglie, nonostante l’autunno inoltrato. Ma si trattava anche della prima settimana in cui la temperatura era scesa in maniera significativa, per il resto aveva continuato a fare caldo, in alcune occasioni in modo insopportabile.
Mi balenò per la testa il pensiero della raccomandazione che si insegna ai bambini fin da piccoli.
Piove? E allora mai ripararsi sotto gli alberi, attirano i fulmini.
Alzai gli occhi per un istante, lasciando che le gocce mi colpissero direttamente il viso. All’altezza del ponte di Castel Sant’Angelo svoltai a sinistra e attraversai il fiume.
La solitudine circostante mi sorprese: non ero abituato a trovarla per Roma, anzi, dovevo andare a cercarmela tra i vicoli meno frequentati del centro. Ma quella sera persino i Lungotevere erano deserti, a parte il transito occasionale di qualche macchina.
Dieci minuti e mezzo chilometro dopo, alle spalle di Castel Sant’Angelo, mi inoltrai nel verde del quartiere Prati e raggiunsi la macchina parcheggiata in divieto di sosta.
Mi avvicinai rassegnato a trovare la sgradita sorpresa di una contravvenzione sul parabrezza; da lontano cercai di mettere a fuoco le spazzole del tergicristallo, trattenendo il fiato per un istante. Abbozzai un breve sorriso, quella volta l’avevo scampata, piccole vittorie di giornata che potevano regalare brevi soddisfazioni.
Il lampo dei fari mi segnalò l’apertura a distanza; ebbi il tempo di gettare lo sguardo verso il portone del condominio dall’altra parte della strada, prima di entrare. Intravidi una figura nella penombra della via, debolmente illuminata da un lampione. Un uomo distinto, protetto da un ombrello nero, incrociò per un istante i miei occhi e si avvicinò a passo svelto nella mia direzione.
Rimasi fuori dalla macchina in attesa, aspettando che lo sconosciuto si avvicinasse.
«Signor Sartori?», mi domandò quando fu ad una decina di metri dalla mia auto.
«Chi lo desidera?», risposi sulla difensiva.
L’asimmetria informativa mi aveva sempre messo a disagio, mi inquietava che un viso mai incontrato prima conoscesse il mio nome e la mia auto. Poteva sempre essere un potenziale cliente, ma l’orario e le informazioni in suo possesso mi misero in allerta.
«Mi chiamo Pavan, Darko Pavan. Avrei la necessità di usufruire dei suoi servizi…»
Appunto, un cliente.
«Di cosa si tratta?», domandai, chiudendo l’auto con il telecomando.
L’uomo inarcò le sopracciglia e mise una mano fuori dalla protezione dell’ombrello.
«Ha ragione, mi segua, entriamo nel mio ufficio.»
Mi anticipò verso il portone, dimostrando di conoscere il luogo della sede; non che fosse un segreto assoluto, ma non mi piaceva pubblicizzare troppo la mia attività e, contrariamente a molti miei colleghi, fuori dal portone non era presente alcuna targa. Né tantomeno figuravo tra le attività commerciali elencate nelle pagine gialle.
Con passo rapido lo raggiunsi.
Infilai la chiave nella toppa e lo feci entrare nell’androne.
«Prego, la anticipo e vado ad aprire l’ufficio», dissi omettendo appositamente la scala ed il piano in cui si trovava.
Volevo metterlo alla prova, vedere fino a che punto si fosse informato sul mio conto.
Un minuto dopo era di fronte all’ingresso.
Feci finta di nulla e mascherai il mio stupore.
«Si accomodi in sala riunioni», lo invitai ad entrare, scortandolo nel locale di rappresentanza della sede. «La raggiungo subito.»
Era un piccolo appartamento, una sessantina di metri quadri, per più della metà occupati dal salone adibito a sala riunioni; la mia stanza personale, un’altra di dimensioni analoghe ed un bagno completavano l’ufficio. Non trasmetteva certo un’immagine di magnificenza ai clienti, ma non era quello l’obiettivo; era funzionale e mi permetteva di mantenere un profilo limitato.
O forse era meglio dire un profilo oscuro, più confacente alla tipologia di servizi che offrivo.
Entrai nella mia stanza e mi tolsi la felpa inzuppata, rimanendo in maglietta. Digitai la composizione veloce sul cellulare e lo incastrai tra la spalla e l’orecchio, mentre cercavo qualcosa da mettermi addosso.
All’altro capo del telefono, una voce secca mi rispose al primo squillo.
«Sì.»
«Angie, ho un cliente qui in studio, dove sei?»
«A casa. Problemi?»
«No… non ancora. Ma sa molto su di me e la cosa mi infastidisce.»
«Ti raggiungo subito», disse prima di chiudere la comunicazione. Sapevo che in meno di cinque minuti sarebbe arrivata sotto l’ufficio, dove avrebbe atteso una mia chiamata.
Tornai nella sala riunioni e mi accomodai dall’altra parte del tavolo, di fronte al mio interlocutore.
Alla luce del lampadario a soffitto, l’uomo dimostrava una quarantina d’anni, era magro, con il volto scavato; i suoi occhi neri erano penetranti, mi guardavano fisso e sembravano voler scavare solchi nella mia mente.
«Signor Sartori, la ringrazio di avermi ricevuto senza preavviso ad un orario così… inopportuno», spezzò il silenzio l’uomo.
Feci un breve sorriso di circostanza.
«Non importa», dissi con un gesto di indifferenza. «Prima di cominciare, però, vorrei vedere un suo documento, se possibile.»
Lo chiedevo a tutti i miei clienti, mai però, nei primi minuti dell’incontro; furono le circostanze anomale a spingermi in tal senso.
«Non c’è problema», rispose l’uomo porgendomi la patente di guida. Guardai il documento rapidamente e lo restituii.
«Bene, signor Pavan, mi dica.»
Mi sorrise, quasi volesse infondere un’atmosfera rilassata.
«Verrò subito al punto, evitando di farle perdere tempo. Io sono un avvocato, esercito nel campo del diritto civile.»
Feci un breve cenno di assenso.
«La cliente che rappresento mi ha indicato il suo nome come la persona adatta a cui rivolgermi.»
«In quali circostanze mi ha conosciuto?», domandai incuriosito.
«Non posso entrare troppo nei dettagli, in ogni caso le posso dire che la sua reputazione è giunta alle orecchie della mia cliente tramite una conoscenza comune, una persona rimasta molto soddisfatta del livello dei suoi servizi.»
Annuii pensieroso. Era inutile scervellarmi e cercare di individuare la fonte dell’informazione. Avevo avuto centinaia di clienti, senza ulteriori dettagli non sarei andato molto lontano. Accantonai la questione, ci avrei pensato in un secondo momento.
«Bene, quindi immagino che saprà anche le condizioni a cui accetto un lavoro…»
«Sì, la mia cliente è perfettamente consapevole delle sue condizioni e le accetta tutte in maniera incondizionata, tranne una.»
Aggrottai la fronte in attesa.
«La mia cliente vuole rimanere anonima, questa è una condizione non discutibile né negoziabile.»
Rimasi pensieroso per qualche secondo.
Andava contro i miei principi: lavorare su incarico di un delegato, senza sapere il vero cliente alle sue spalle, comportava una breccia nella rete di sicurezza che di norma mi costruivo; non potevo sapere a priori in quali guai sarei finito, e conoscere colui che in qualche maniera mi ci aveva spinto, aiutava a proteggere la mia attività.
Era una sorta di contrappeso, se finivo in qualcosa di illegale, conoscevo l’identità del mandante. Il quale, a sua volta, era del tutto ignaro delle procedure che avevo messo in atto nei suoi confronti.
«Vedremo, dipenderà dalla natura dell’incarico. Poi deciderò se accettare o meno.»
«Molto bene, sono certo che arriveremo ad un compromesso. Lei conosce l’associazione chiamata MeT?»
Il nome non mi disse nulla.
«No. Di cosa si tratta?»
«È un’organizzazione che si occupa di raccogliere materiale di rilevante interesse storico, per preservare la memoria collettiva degli eventi del secolo scorso; il suo nome è la contrazione della denominazione completa, Memorie del Tempo. Non è molto diversa da una biblioteca, una sorta di grande archivio al cui interno vengono custoditi documenti e testimonianze del nostro passato più recente. Il MeT ha varie sedi ed è sovvenzionato da finanziamenti pubblici e donazioni private; questo gli consente di avere alle proprie dipendenze un personale che cura l’archivio e la gestione dei documenti, oltre al suo restauro e alla conservazione. L’associazione è aperta al pubblico, anzi, cerca di attirare a sé i ricercatori e gli storici aprendo i propri archivi e mettendo a disposizione di chiunque lo richieda il tesoro che conserva.»
Continuai a guardare l’uomo, memorizzando le informazioni di quella premessa.
«Alcune settimane fa, la mia cliente ha ingaggiato un gruppo di ricercatori universitari, commissionando un lavoro di analisi storica presso la sede romana dell’associazione. Nel corso dei lavori, la squadra è risalita ad un documento di enorme interesse per la mia cliente, il cui accesso però era riservato.»
Era arrivato al punto.
«I ricercatori non hanno avuto modo di visionare il documento?»
L’avvocato annuì, prima di spiegarsi.
«Sembra che il MeT abbia alcuni documenti classificati, la cui consultazione è riservata solo ai ricercatori accreditati presso determinate Università. Il gruppo di ricerca della mia cliente non rientrava in questi parametri e per questo gli è stato negato l’accesso. Da quello che siamo riusciti a capire, gli archivi sono di massima aperti alla libera consultazione del pubblico; è sufficiente accreditarsi presso l’organizzazione, lasciare i propri dati e richiedere i documenti ai dipendenti, proprio come una biblioteca. Gran parte dei ricercatori e degli studenti si comporta in questa maniera. Poi esiste una piccola sezione degli archivi che contiene documenti riservati, la cui consultazione è invece limitata ad enti specifici previa presentazione di un’apposita richiesta; la domanda viene valutata e non è detto che venga rilasciato il nulla osta.»
«E il documento che interessa alla sua cliente appartiene a questa categoria.»
L’avvocato annuì di nuovo.
«Esattamente.»
«E la sua cliente vorrebbe che io trovi il modo per recuperarlo.»
«Sì.»
«Una copia, il contenuto, la descrizione del contenuto… che cosa vuole in particolare?»
«L’originale», mi rispose l’uomo con un tono grave.
«Sottrarre un documento da un archivio, privato o pubblico che sia, rappresenta un reato, signor Pavan, spero se ne renda conto.»
«La mia cliente ne è consapevole, la pagherà dieci volte la sua normale parcella.»
Feci fatica a mascherare il mio sbigottimento. Non che fossi un tipo avido, né attratto in maniera morbosa al denaro, ma si trattava di una di quelle offerte che sarebbe stato difficile rifiutare. La considerazione mi fece venire in mente una scena storica del Padrino, solo che in questo caso senza la testa del puledro nel letto.
Cercai di mantenere imperscrutabili i miei pensieri, la proposta era sì allettante ma comportava dei rischi; e non era tanto quello di commettere un reato, in fondo ero abituato a camminare in bilico tra il legale e l’illegale e sapevo mettere in campo le precauzioni per difendermi. Mi dava piuttosto molto fastidio non sapere il nome della cliente.
Per il resto era un lavoretto abbastanza facile.
«Senta, avvocato, l’incarico è complesso e comporta alcuni rischi, soprattutto perché dovrò sottrarre un documento da una proprietà privata. Inoltre, la sua cliente vuole rimanere anonima e questo è contrario ai miei principi. Vorrei avere un paio di giorni per pensarci, prima di prendere una decisione.»
«Temo che questo non sia possibile, signor Sartori. La mia cliente ha dato chiare istruzioni di chiudere con lei entro questa sera, altrimenti mi ha autorizzato a rivolgermi a qualcun altro. La scelta prioritaria ricade su di lei, viste le credenziali che l’accompagnano; ma in fondo non è l’unico sul mercato a proporre questo genere di servizi.»
Sospirai, cercando di mostrarmi infastidito dalle condizioni imposte, anche se in realtà avevo già deciso.
Solo non volevo dargliela vinta.
«Comunque, la mia cliente capisce perfettamente la sua riluttanza ed è disposta a pagarla in anticipo», proseguì l’avvocato estraendo dalla propria valigetta una busta da lettere bianca.
La mise sul tavolo e la allungò lentamente nella mia direzione.
«Sono cinquantamila euro, signor Sartori. La mia cliente si è detta disposta a riconoscerne altrettanti qualora riuscisse a portare a termine l’incarico entro una settimana… sempre che dovesse decidere di accettare.»
Mi guardò con uno sguardo mefistofelico, sapeva di avermi più che convinto. La sua espressione mi irritò, era quella tipica di chi sa di avere il controllo della trattativa.
Lo guardai per un breve istante, prima di annuire.
«Ok, riferisca alla sua cliente che accetto l’incarico.»
L’avvocato Pavan si aprì in un sorriso radioso, ebbi la netta sensazione che questo successo avrebbe portato ottimi benefici al suo patrimonio.
«Molto bene, signor Sartori.»
Si sfilò una penna dalla giacca e appuntò un telefono sulla busta da lettere; poco sotto scrisse un codice di sei cifre.
«Mi contatti appena avrà in mano il documento, il numero che le ho scritto è il riferimento con cui è conservato negli archivi del MeT. Quando ci sentiremo, le darò indicazioni per la consegna», disse alzandosi dalla sedia.
Feci altrettanto e gli strinsi la mano che mi stava porgendo.
«Attenderò una sua chiamata e la ringrazio per aver accettato. Non si disturbi, conosco la strada.»
Si avviò verso l’uscita senza aggiungere altro.
Presi il cellulare e composi la chiamata rapida, Angelica mi rispose subito.
«Sono qui sotto.»
«Sta scendendo, non perderlo, mi raccomando.»
Chiusi la comunicazione e indugiai qualche secondo con lo sguardo sulla busta bianca, memorizzando i due numeri appuntati sopra.
Afferrai la busta, la aprii e ne controllai rapidamente il contenuto; erano tutte banconote da cinquecento euro, a occhio e croce, un centinaio.
Tornai nel mio ufficio e depositai il denaro nella piccola cassaforte alle spalle della scrivania. Ero soddisfatto, il lavoro sarebbe stato una sciocchezza. E in passato avevo commesso di peggio.
La penna dimenticata dall’avvocato finì sulla scrivania dopo un perfetto lancio da un metro di distanza.
Non avrei mai immaginato che quell’oggetto di plastica avrebbe salvato milioni di vite umane.
E segnato la mia condanna a morte.
Capitolo II
Un quarto d’ora dopo l’uscita del mio cliente, Angelica salì in ufficio ed entrò nella mia stanza senza bussare.
Lo faceva sempre, del tutto insensibile alla privacy altrui; d’altra parte non aveva nemmeno il buon senso di aspettare quando andavo in bagno. Se doveva dirmi qualcosa, apriva la porta e mi parlava, indifferente al fatto che stessi urinando in quel momento.
Mi faceva impazzire.
E a dir la verità, in quelle occasioni, mi imbarazzava molto.
Anche se, dopo tanti anni passati insieme, cercavo di non farci ormai più caso.
Sollevai lo sguardo dallo schermo del mio portatile, avevo già cominciato a raccogliere informazioni sul MeT.
«Fatto?»
«Sì, tutto a posto. Ho una ventina di scatti, alcuni sono venuti perfetti. Li scarico e li metto sul server.»
«Ok, grazie, ci vediamo domani.»
Tornai a concentrarmi sul computer, ma mi bloccai, vedendo la mia collaboratrice inchiodata sull’uscio dello studio.
«Dimmi.»
Sapevo che le frullava qualcosa per la testa, non mi avrebbe lasciato lavorare se prima non avesse espresso le sue considerazioni.
«Quell’uomo non è un avvocato.»
Sorrisi alla perentorietà delle sue parole.
«E tu ne sei così sicura perché…?»
«Un avvocato non si muove in quella maniera.»
«Ah no? E come si muove?», le domandai divertito dalla sua sicurezza.
«Si muove… si muove diversamente.»
«Angie… per favore, sii un po’ più chiara.»
Sollevò le spalle, scuotendo la testa per qualche istante.
«Non saprei spiegarti… ok, senti, fidati di me. Appena uscito dal portone ha controllato il territorio circostante, e lo ha fatto con l’efficienza di un cacciatore. C’è stato un momento in cui si è fissato nella mia direzione, ero distante una cinquantina di metri, nascosta nell’ombra, eppure ho avuto la netta sensazione che mi fissasse… mi stava guardando dritto nell’obiettivo, capisci? Ti assicuro, quello sguardo mi ha messo a disagio.»
«E poi?»
«E poi si è voltato e se ne è andato. A piedi.»
«Dai Angie, non esagerare, magari hai male interpretato il suo comportamento.»
Non mi rispose, si limitò a guardarmi con un’espressione feroce.
«Ok, ok, starò attento. E cercherò