Abandon - Fragile come la terra
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Anteprima del libro
Abandon - Fragile come la terra - Elena D'Angelo
Elena D’Angelo
Abandon
Fragile come la terra
Elena D’Angelo
Abandon – Fragile come la terra
Editrice GDS
Via Pozzo 34
20069 Vaprio d’Adda-Mi
Tel 0290970439
www.gdsedizioni.it
www.gdsbookstore.it
Ogni riferimento descritto nel seguente romanzo a cose, luoghi o persone sono da ritenersi del tutto casuali.
TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI
A te, che ti sei sempre presa cura di me, a te che sei la mia roccia, trattieni le mie tempeste e sostieni i miei sogni col tuo semplice e infinito amore.
A te, che sei e sempre sarai in me.
Stava fuggendo da un mondo che l'aveva tradita, privata di ogni sicurezza.
Con la mente colma di dubbi, era riuscita a cogliere l'unica certezza che il suo cuore era in grado di abbracciare.
Avrebbe cominciato tutto da capo, avrebbe cancellato con un colpo di spazzola tutto quanto l'aveva immobilizzata.
Avrebbe cercato un nuovo inizio, il suo nuovo inizio.
Così era cominciato il viaggio che avrebbe scritto nuove pagine nel diario consunto e impoverito dell'animo di Alex.
Capitolo 1
In una mattinata stranamente velata di umidità, il sole sembrava attendere il mio risveglio per farsi spazio e risplendere in tutta la sua forza. L'inverno aveva da poco iniziato la sua corsa, ma il gelo già imprigionava dentro i suoi freddi artigli ogni cosa, anche la mia vitalità. Come da consuetudine negli ultimi mesi, anche quella mattina ero rimasta rannicchiata sotto le confortanti coperte di flanella, che mia madre ogni mattino stendeva con tanta cura e che inesorabilmente ogni notte venivano arruffate dai miei sonni agitati.
Con gli occhi ancora socchiusi, la mente cercava un’àncora a cui reggersi per rimanere nel rassicurante limbo che separava l’incontrollato e burrascoso inconscio dall’oramai apatica e triste realtà. Quei brevi istanti di semi-veglia mi permettevano di veleggiare in acque serene, dove ero io a tenere le redini del destino, creando un mondo in cui potevo essere di nuovo felice, insieme ai miei cari e ai miei amici di una vita, dove c’era ancora spazio per l’amore e per un finale raggiante.
Ma non appena la razionalità iniziava a riprendere il controllo, svegliando ogni particella della mia coscienza ferita, la cruda realtà prendeva il sopravvento, cancellando in un solo attimo tutta la mia lavagna dei desideri. Era allora che l’agonia ricominciava a soffocare la mia anima, già frustrata per l’impotenza nel cambiare la realtà così com’era stata disegnata da un fato a me ostile.
Aprivo gli occhi e dinanzi a me trovavo la mia solita camera, con il mio letto alla francese in stile provenzale, come tutto l’arredamento che lo arricchiva, scelto da mia madre prima ancora che nascessi. Tutto richiamava il design tipicamente francese che l’aveva tanto colpita durante il suo viaggio di nozze a Parigi e in Provenza, e probabilmente la sua scelta era stata dettata dal desiderio di replicare negli oggetti, tra i quali fossi cresciuta, la stessa atmosfera che aveva fatto da cornice all’amore che aveva vissuto in quel periodo. Dalla madia all’armadio fino alla scrivania di fronte alla finestra, da cui ogni mattina, appena scesa dal letto, mi apprestavo a trascorrere lunghi attimi in cui scrutare l’orizzonte. Chissà cosa avrebbe pensato quella giovane donna, appena sposata e già incinta, se avesse potuto vedere cosa ci avrebbe riservato il destino. Sicuramente non avrebbe mai immaginato che la vita reale si fosse rivelata così diversa da come se l’era aspettata.
Ripensavo ogni giorno, chiusa nella mia rassicurante prigione, a cosa sarebbe potuto cambiare se solo avessimo agito in modo diverso, se solo, in un momento indefinito della nostra esistenza, avessimo fatto scelte diverse, che, seppur apparentemente poco importanti, ci avrebbero condotto a destini opposti. Riflettevo su ogni più piccolo dettaglio delle esistenze che avevamo condotto e delle conseguenze che ne erano scaturite, mentre con lo sguardo scrutavo in lontananza il verde rigoglioso di Central Park e le vite che lo attraversavano. Persone che ora più che mai sentivo diverse da me, ignare della sofferenza che un solo indefinito attimo può generare.
Una volta ero come loro, felice di poter scoprire cosa la vita mi riservasse. Prima che la tragedia piombasse come un macigno sulla nostra famiglia, attraversavo quel parco ogni giorno per andare all’università, poco distante da casa, e come ogni mattina, prima di entrare in aula, mi fermavo al chiosco per bere un caffè e fare due chiacchiere. Sembrava essere passato un secolo, e invece erano trascorsi solo alcuni mesi. La mia adorata città ora non era altro che un crocevia di esistenze dalle quali desideravo solo stare alla lontana. E pensare che i miei genitori avevano scelto con cura il quartiere dove andare a vivere appena sposati, volevano che i propri figli avessero la possibilità di giocare immersi nel verde respirando l’aria fresca del parco. Quand’ero ancora piccola, mia madre amava raccontarmi di come, appena sposati, lei e mio padre adorassero trascorrere interi weekend seduti sull’erba, leggendo un libro e fantasticando sulla famiglia che avrebbero costruito assieme, magari non troppo numerosa ma sicuramente felice grazie all’amore con cui loro l’avrebbero costantemente nutrita. E in effetti i loro sogni si erano avverati, dapprima trovando l’appartamento che tanto desideravano e poi costruendo giorno dopo giorno una famiglia che amavano più della loro stessa vita. Questo almeno fino a quell’orribile mattinata.
Il ricordo di quella giornata era ancora confuso, nonostante la mia mente continuasse ostinata a vagare tra gli istanti interminabili che l’avevano resa la peggiore della mia vita. Cercavo di ripercorrere gli eventi che si erano succeduti, a cominciare dalla chiamata che ci aveva interrotti subito dopo la colazione, già pronti per cominciare la nostra routine quotidiana. Ma quella mattina l’auto di mio padre era rimasta parcheggiata sotto casa e le nostre vite erano state intrappolate tra le sue mura, nella straziante attesa di nuove comunicazioni sull’accaduto. E forse erano ancora incastrate all’interno di quell’appartamento, sopraffatte dal dolore per la realtà che le aspettava fuori dalla porta di casa.
Lawri, mio fratello minore, era scomparso durante una gita scolastica in primavera, poco prima del mio agognato diploma. Le insegnanti, che avevano accompagnato i bambini nella gita a Washington, non erano riuscite a spiegarsi com’era potuto accadere. Lawri era andato a letto la sera prima con il suo compagno di avventure, Marc, nel piccolo hotel decentrato, e come sempre in quelle occasioni, dopo qualche risata e qualche racconto spaventoso per testare il coraggio dei presenti, i due erano crollati sui propri cuscini e si erano addormentati. Ma al mattino Lawri non c'era più. Il letto vuoto, il cuscino per terra, la valigia aperta e disordinatamente sfatta. Di Lawri non c'era più traccia. Non nella camera, né nella hall, non per le strade né sul pullman. Tutto sembrava lasciar intendere a una fuga, ma dove poteva andare un bambino di dieci anni nel bel mezzo della notte, per di più senza soldi. Il borsello, in cui la mamma aveva con cura diviso le banconote, numerando in un foglietto il numero di pezzi da 10 e 20 dollari per aiutare mio fratello nella gestione di quel suo primo piccolo tesoro, era rimasto nascosto nel borsone. Tutto poi nel carattere mite ed educato di Lawri rendeva assurdamente illogica la sua scomparsa.
La polizia aveva avviato ricerche per mesi, ma senza risultato. Finché un giorno ci era stato comunicato che, non essendoci piste né alcuna impronta estranea o traccia di rapimento nella camera dove Lawri aveva trascorso la sua ultima notte, non avrebbero potuto far altro che interrompere le ricerche, almeno fino a nuovi indizi. Era stato come se mi sparassero un colpo dritto ai polmoni. Ricordavo ancora la sensazione di vuoto, come se qualcosa aspirasse tutta l'aria che il petto poteva contenere, lasciandomi priva della capacità di respirare.
Da allora, da quella interminabile quanto devastante giornata, nulla aveva più acquisito un senso ai miei occhi. Non c'era nessun proposito, nessuna idea, nessuna novità che mi spingesse ad alzarmi ed iniziare una nuova giornata. Soprattutto da quando la consapevolezza che non avrei più sentito dalla stanza accanto le fragorose risate di mio fratello aveva creato per sempre una piccola ma tanto profonda ferita nel cuore. Inizialmente non riuscivo ad accettare il fatto che tutti, compresi i miei genitori, avessero deciso di abbandonare mio fratello. Non potevo neppure pensare all’idea che lui non fosse più parte di questo mondo, per quanto non facesse più parte del mio. Volevo credere che, nonostante di lui non ci fosse più traccia, la sua anima fosse sempre viva e vivace, come lo era stata quando era con noi.
Ma il susseguirsi irrefrenabile dei mesi e delle stagioni aveva pian piano affievolito anche la mia perseveranza nell’aver fede che un giorno Lawri sarebbe ricomparso nelle nostre vite. Non ricordo neppure quando accadde di preciso, né dove mi trovassi. So solo che un attimo prima il dolore straziava il mio cuore, impedendogli di accettare la realtà, un attimo dopo l’avvilente consapevolezza che nulla avrei potuto fare per riavere mio fratello aveva avvolto la mia anima in un manto di tetra passività. Il torpore dell’indolenza e dell’indifferenza aveva distrutto quell’ultimo pezzetto di cuore che mi teneva ancora legata a mio fratello.
Capitolo 2
Alex alzati, la colazione è pronta! Papà è andato a prendere i cornetti al pastificio qui sotto apposta per te
. La voce cristallina di mia mamma, in piedi, appoggiata alla porta appena accostata, mi destò dal turbinio di pensieri che il risveglio aveva già messo in moto. Quella donna, alta poco più di me e ancora giovanile nel suo modo colorato di vestirsi, quasi sempre in tuta, aveva una forza d’animo che a tratti invidiavo e a tratti detestavo, per il solo fatto di ricordarmi che avevo rinunciato a vivere come una ragazza di ventun anni dovrebbe fare. A volte non riuscivo a tollerare l’energia che ostentava davanti a me, consapevole di quanto le costasse dare un senso alle mie di giornate oltre che alle sue. Avrei desiderato vedere la sua fragilità e condividere con lei la mia latente sofferenza, per sapere di non essere rimasta l’unica a non riuscire a voltare pagina.
Ma mia madre sembrava investire tutte le sue energie nel cercare di destare anche solo in parte il mio cuore infranto. Mi fissava appuntamenti dal parrucchiere che poi puntualmente cancellavo, mi iscriveva alle sue lezioni di yoga che poi boicottavo lamentando dolori, che in realtà opprimevano la mia anima più che le mie ossa.
D’altronde entrambi i miei genitori non si erano dati per vinti, forse più per me che per loro stessi. Spinti da una forza e da un coraggio che io non riuscivo ancora ad accettare, avevano deciso che avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di non perdere anche il mio sorriso, a loro dire, una volta eccentrico e ironico. Non avevano abbandonato la loro confortante routine: ogni mattina si recavano nella loro piccola ma accogliente agenzia di viaggi e, dopo il lavoro, si sfogavano un po' nella palestra vicino casa. Solamente la domenica per loro rappresentava un giorno difficile, perché libero per riflettere, riposarsi e trascorrere intere giornate in famiglia. Non che non fossero felici di passare del tempo con me, semplicemente lo stare in casa senza particolari impegni li destabilizzava e li costringeva a pensare alla perdita che ogni giorno di più ingombrava quell'appartamento.
Dal canto mio, non facevo molto per rendere la nostra convivenza migliore. Non era cattiveria la mia, ma solo incapacità di adattarmi a quella nuova vita a tre. Preferivo rimanere chiusa in camera a studiare e talvolta a scrivere quello che mi passava per la testa. Spesso mi ritrovavo a comporre poesie dal sapore antico, immaginando principi e principesse in lotta per difendere il loro amore. Ma quando poi arrivava il momento di scontrarmi con la realtà, l'unica cosa che riuscivo a fare era scappare via da casa e rintanarmi nel mio piccolo e ben nascosto rifugio a Central Park. Su una delle tante collinette avevo scovato uno spazio circondato da piante sempreverdi, che ben riusciva a celare i miei tanti momenti passati lì a sognare ad occhi aperti. Con l'arrivo dell'inverno però le fredde e uggiose giornate tipiche di Gennaio avevano reso più difficile le mie frequenti fughe ed ero stata costretta a rimediare nascondendomi a casa del mio amico d'infanzia, Michael.
Lui mi conosceva bene, insieme avevamo condiviso gioie e purtroppo dolori. Non c'era bisogno di parlare, Michael sapeva sempre cosa mi passava per la testa. Era come se ci trovassimo in una dimensione dove un solo sguardo bastava per comunicare. Sapeva capire quando volevo starmene in silenzio a riflettere o quando invece avevo bisogno della sua sferzata di allegria.
Tutti gli altri amici, dopo mesi di tentativi mal riusciti di farmi sentire la loro vicinanza dopo la scomparsa di Lawri, avevano abbandonato ogni speranza e pian piano le loro voci si erano spente nel nulla come la fiamma di tante candele. Solo Michael non aveva desistito e, come ogni bravo amico sa fare, mi aveva circondata di un affetto comprensivo ma mai accondiscendente o penoso. Semplicemente sapeva come prendermi. Conosceva ogni dettaglio del mio carattere, i tanti difetti e i pochi pregi. O almeno così mi piaceva pensare.
Alex, allora vuoi alzarti o no?
Riprovò insistente mia madre, già intenta a dare un senso alla mia giornata. Aveva i capelli rosso fuoco come i miei, raccolti in uno chignon, e ai piedi indossava le sue sneakers preferite. Evidentemente aveva furia di farmi alzare dal letto per cominciare la sua corsa mattutina, prima di entrare in agenzia.
Ma che ore sono?
Mi lagnai, portando le lenzuola sopra gli occhi, ancora desiderosi di godersi l’oscurità.
Tesoro, sono le 7. Stamani non voglio sentire storie, devi andare all’università! Forza, piccola, non farti pregare anche stamattina
. Mia madre sembrava supplicarmi come una bambina eccitata per l’agognata gita alle giostre.
Arrivo mamma...solo un attimo!
. Gridai, mentre mia madre era già corsa in bagno a finire di sistemarsi. Chissà da chi avevo preso, non certo da lei e dalla sua vanità. Spinsi via bruscamente le lenzuola, decisa a far trasparire quanto più potevo la mia irritazione per quel risveglio così irruento. Indossati i pantaloni della tuta e la felpa ormai stropicciata dai tanti giorni passati in casa sdraiata sul divano, mi apprestai ad accendere il cellulare per mandare un messaggio di richiesta di aiuto a Michael, quando catturò la mia attenzione il tintinnio delle campanelline che arredavano le finestre di camera, un dono di mia nonna, contro gli spiriti diceva lei.
Mi voltai di scatto, rapita da uno strano presentimento, e mi accorsi che le porte che davano sul piccolo balcone erano aperte. Eppure ero convinta di averle tenute chiuse durante la notte. Probabilmente mia madre era sgattaiolata di soppiatto in camera mentre dormivo e aveva deciso di far entrare un po' d'aria nuova. Mi apprestai a richiuderle, quando con la coda dell'occhio scorsi un bocciolo di calendula sulla scrivania. Il fiore era poggiato sopra un foglio di carta lavorata color crema.
Spinta dalla curiosità, con il dito immotivatamente tremante scostai delicatamente il fiore e con occhi sgranati lessi la scritta che a chiare lettere e con una stravagante ma elegante grafia recitava:
So dove puoi trovare ciò che stai cercando
Un fremito profondo quanto palpabile mi percosse. Poche parole riuscirono a turbarmi come mai nessuna frase aveva fatto, almeno fino alla scomparsa di mio fratello. Tenevo stretto in mano quel foglio, quasi avessi il timore che scomparisse da un momento all’altro, così come si era materializzato in camera mia. Mi guardai attorno, quasi cercando un indizio che mi facesse comprendere chi lo avesse portato. Ma la camera era esattamente come l’avevo lasciata la notte precedente. E mia madre e mio padre non erano così folli da lasciare un messaggio che sapevano quanto mi avrebbe scosso, rischiando di farmi ripiombare nel baratro della sofferenza.
Quelle parole erano un messaggio rivolto a quella parte di me che tentavo ardentemente ogni giorno di soffocare: quell’Alexandra agguerrita che non voleva darsi per vinta, che non voleva accettare la scomparsa di suo fratello. Ma non era possibile che si riferisse proprio a lui, tutti avevano perso le speranze, sin da quando, nei primi mesi che seguirono la tragedia, le segnalazioni si erano rivelate dei buchi nell’acqua o addirittura false testimonianze, volte solo a regalare un minuto di fama ai loro messaggeri. Il susseguirsi di quegli inutili avvistamenti si ripercuoteva inesorabilmente sul dolore della mia famiglia, lasciando ogni volta un solco più profondo tra noi e la speranza di ritrovare Lawri.
Eppure questo messaggio era diverso. Era qualcosa diretto proprio a me. E anche se nulla faceva riferimento a mio fratello, io sapevo. Sì, sapevo che ciò che stavo cercando più di ogni altra cosa al mondo, più della mia stessa felicità, fosse Lawri, il mio tenero scricciolo disordinato.
Stordita dal contenuto del messaggio, quasi una piccola fiammella si fosse accesa nell'animo e finalmente dopo tanti mesi mi sentissi nuovamente viva, cominciai a riesaminare freneticamente il supporto che lo conteneva. La carta era adornata da tanti piccoli simboli, quasi fossero geroglifici appartenenti a una scrittura antica e sconosciuta. L'annusai e un profumo gradevole di muschio bianco inebriò le mie narici. Iniziai a pensare a tutte le variabili possibili, chi poteva averlo portato e soprattutto come. Non poteva essere stato Michael; per quanto gli volessi bene, sapevo che non sarebbe mai stato capace di farmi una tale sorpresa, soprattutto non avrebbe mai toccato un tasto così dolente come la scomparsa di mio fratello.
Se fosse stato uno scherzo non avrei potuto sopportarlo e lui lo sapeva bene. Eppure chi altri poteva essere. Tutti i nostri amici e parenti avevano smesso di parlarne, talvolta evitando l’argomento quasi fosse un tabu. Solo con Michael riuscivo ancora ad aprirmi, riversando su di lui tutto il mio malessere e le mie pene. Ma non potevo neppure pensare all’eventualità che fosse stato lui ad architettare quello scherzo. Era troppo sensibile per anche solo immaginare una tale vigliaccata. E poi come avrebbe fatto a portarlo fin lì, in camera mia.
Ma allora chi? Come e perché?
Che diamine succede?!
, urlai, non riuscendo a comprendere.
Una rabbia improvvisa, a me sconosciuta, s’impadronì del mio braccio e senza che la mente avesse il tempo di tranquillizzare il mio cuore, caduto inesorabilmente a pezzi, scaraventai a terra tutto ciò che ingombrava la scrivania, compresi il foglio ed il fiore.
Alex! Che ti è preso? Stai bene bambina mia?
Mia madre, appena ripiombata in camera, probabilmente spaventata dal baccano che avevo provocato, continuava a fissarmi, incapace di dare un senso a quel mio improvviso attacco d’ira. Era talmente abituata alla mia apatica routine da non comprendere cosa avesse potuto ridestare improvvisamente sua figlia. Si guardava attorno spaesata dalla confusione che avevo creato. D’altro canto io non riuscivo a distogliere lo sguardo da quel fiore. Non riuscivo a liberare la mente da quel messaggio, quasi ad essere scaraventato per terra fosse il mio cuore e ora non sapessi più come ricomporlo.
Alex, tesoro, va tutto bene
. Mi rincuorò mia mamma, esitante. Tranquilla non è successo nulla. Ora rimettiamo tutto a posto. Dimmi solo cosa ti ha fatto arrabbiare così tanto
. Le mani di mia madre stringevano con forza il mio corpo tremante, quasi volessero scaldarlo dal gelo che lo aveva avvolto. Con la pazienza che solo una mamma può avere, attese attimi, eterni minuti, prima che riuscissi a svegliarmi da quel limbo d’inquietudine che mi aveva catturata. Non potevo rivelarle la ragione della mia improvvisa follia. Non l'avrei trascinata ancora in quel dramma.
Mamma, scusa, non volevo
. Trattenni a stento le lacrime. Ora metto tutto a posto. È stato solo uno scatto d'ira, qualcuno mi ha mandato un messaggio che non avrebbe dovuto inviare e ho perso le staffe
. In effetti la scusa era plausibile dato che tra le tante cose gettate a terra c'era anche il mio vecchio ma affidabile smartphone. Avrei fatto qualsiasi cosa per sminuire quel gesto di pura pazzia che non credevo potesse appartenermi. Ma lo sguardo affranto di mia madre non cedeva ai miei tentativi. In cuor mio sapevo che con quello stupido comportamento l'avevo rigettata in un pozzo buio di preoccupazione, che solo il mio sorriso avrebbe potuto rendere meno profondo.
Mamma, davvero, non preoccuparti. Sicuramente è stato uno scemo che ha trovato chissà come il mio numero e ha voluto fare il simpatico...a modo suo…Tanto non ricapiterà più. Il cellulare è bello che andato e io non ho poi così bisogno di comprarne un altro. Magari cambio anche numero, già che ci sono
. Esordii, tentando un sorriso alquanto forzato. Non sapevo più come giustificare la situazione assurda in cui mi ero cacciata a causa di quel messaggio.
Va bene, tesoro. I ragazzi a volte sanno essere così poco sensibili, ma tu non farci caso. Per fortuna hai Michael, quel giovanotto sì che è un bravo ragazzo!
Sospirò. Prima di venire di là a fare colazione, però metti tutto a posto ok? Un po’ di tempo senza cellulare in effetti non ha mai fatto male a nessuno
. Replicò titubante mia mamma, uscendo dalla camera, non prima di avermi rivolto un ultimo sguardo. Probabilmente in quel momento si stava chiedendo che cosa ne avessi fatto della sua amata figlia, non riuscendo più a riconoscermi né a comprendermi.
Appena la porta si chiuse nuovamente alle mie spalle, mi misi subito a mettere tutto in ordine, accatastando da una parte tutti i fogli degli appunti delle lezioni all’università, senza preoccuparmi troppo di rimetterli nel loro ordine originario. Michael mi avrebbe sicuramente aiutato, lui era un allievo modello e in quegli ultimi mesi era stato solo grazie a lui e alle sue estenuanti lezioni di ripetizione se ero riuscita a passare un paio di esami. Quando però la mano sfiorò involontariamente il bocciolo di calendula, che giaceva per terra oramai aperto, una scossa di energia mi travolse e iniziai a provare un senso di profonda tristezza.
Un pensiero si ripropose testardo nella mia testa: come aveva fatto ad arrivare fin lì e perché proprio quel fiore? Chiunque lo avesse scelto doveva avere un motivo per accompagnarlo a quel foglio di carta. Forse anche il fiore trasmetteva un messaggio. Senza soffermarmi troppo sull'idea, decisa a scoprirne di più, corsi alla scrivania, dove il computer era rimasto acceso dalla sera precedente, avviai il browser di ricerca e digitai sulla tastiera la parola calendula
. Come sospettavo, quel fiore aveva un significato ben più profondo della sua semplice bellezza. Il blog che avevo trovato su internet era chiaro al riguardo. La calendula era il fiore del dolore e della mancanza. Un messaggio coerente con la scritta che il pezzo di carta, che lo accompagnava, portava con sé.
Colta da un improvviso panico per la situazione surreale che si era venuta a creare, chiusi la pagina web e spensi di corsa il computer. Non avevo alcuna intenzione di farmi vincere dalla paranoia, e tutta quella faccenda sembrava quasi creata dal mio subconscio, apposta per farmi ripiombare nel vortice inarrestabile della sofferenza. E io non avevo la forza per combatterla. Decisi di dimenticare la questione. Non mi sarei avventurata oltre in quell'assurda storia. Gettai nel cestino il messaggio e scaraventai fuori dalla finestra il bocciolo, senza badare alla direzione in cui il vento lo aveva spinto con il suo alito freddo.
Capitolo 3
Mamma esco, non aspettarmi per pranzo. Sono con Michael
.
Senza indugiare avevo acciuffato in un sol gesto cappello, sciarpa e cappotto e mi ero lanciata fuori dal portone di casa, scendendo le scale due alla volta. Quella mattina proprio non riuscivo a rimanere in casa. I polmoni non resistevano più, avevano un disperato bisogno dell’aria fresca e libera dai macigni del risentimento e del dolore che aleggiavano inesorabilmente a casa mia.
Non potevo farne una colpa ai miei genitori. Loro facevano di tutto per rendere sereni i giorni che mi allontanavano sempre di più dalla speranza di rivedere mio fratello. Ma il loro ostentare quella falsa tranquillità strideva con le rughe profonde che la sofferenza aveva scavato sui loro volti.
L’unica cosa che poteva darmi sollievo era la nitida verità dell’amicizia che mi legava a Michael. Lui rappresentava l’àncora che mi permetteva di rimanere a galla in quella tempesta che si scatenava ogni qualvolta mi scontravo con l’insistente quanto tacita richiesta dei miei di superare il risentimento che provavo verso tutti coloro che avevano rinunciato a cercare mio fratello. Solo Michael sapeva come riportarmi alle sponde quiete dell’autenticità. Con lui potevo parlare della mia incapacità di andare avanti, della sensazione che provavo ogni giorno di avere stretta alla caviglia una catena che mi tenesse legata a un macigno tanto grande da impedirmi di fare un solo passo verso il limite che separava la speranza dall’arrendevolezza. Lui sapeva, con la sua genuina sensibilità, comprendere il mio disagio e supportarmi, senza forzarmi a cambiare ciò che provavo.
Trascorrevo interi pomeriggi a casa di Micheal, a studiare o a guardare film e talvolta capitava che neppure ci rivolgessimo tante parole. A me bastava uscire di casa e rifugiarmi tra le confortanti mura di casa sua. Tutto nell’appartamento piccolo ma tanto intimo dei genitori di Michael, dal canticchiare della madre in cucina mentre stirava, alle lamentele del padre contro gli arbitri di qualche partita alla tv, ogni cosa richiamava una routine che a un occhio esterno sarebbe parsa noiosa. A me invece trasmetteva una bellissima e appagante sensazione di serenità. E Michael e i suoi genitori erano tanto sensibili da capirlo e da permettermi di adagiarmi, ogni qualvolta lo desiderassi, in quella calda coperta di quiete che casa loro rappresentava per me. Al punto da invitarmi ogni sera a cena da loro e ad allarmarsi se non mi vedevano girare per casa qualche raro pomeriggio in cui mia madre mi costringeva a passare del tempo con lei, in giro per la città.
Adoravo mia mamma, ma il pensiero di deluderla, per la mia incapacità di essere la figlia di cui aveva bisogno, mi rendeva davvero difficile starle accanto più di un’ora. Era come se ogni mio gesto rendesse inutile tutti gli sforzi che lei aveva fatto per andare avanti nella sua vita. Sapevo che il dolore che provavo non poteva minimamente essere paragonato al suo di madre, ma i miei tempi di reazione evidentemente non coincidevano coi suoi.
Appena chiuso alle mie spalle il portone di casa, percorsi, come ogni giorno, il breve tratto di strada che separava casa mia dalla stazione più vicina e mi addentrai, infreddolita, nel labirinto maleodorante della metropolitana, attendendo la corsa che in pochi minuti mi avrebbe portata proprio vicino casa di Michael. Quel mattino era più freddo del solito e fui costretta a nascondere il volto tra la calda pelliccia del collo del mio cappotto, cercando di riscaldare con il respiro il naso ghiacciato. Le mani però non davano alcun segno di voler riprendere calore. Mi maledissi per non aver come al solito prestato attenzione quand’ero uscita. Sarebbe bastato ricordarmi di prendere i guanti