L'immobilità intrisa di vita
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Anteprima del libro
L'immobilità intrisa di vita - Graziano Ferracioli
L'immobilità intrisa di vita
di Graziano Ferracioli
Panda Edizioni
ISBN 9788893780650
© 2017 Panda Edizioni
www.pandaedizioni.it
Foto dell'autore: Maikel Bononi
Immagine di copertina: mishoo-123RF
Proprietà riservata. Nessuna parte del presente libro può essere riprodotta, memorizzata, fotocopiata o riprodotta altrimenti senza il consenso scritto dell'editore.
I fatti e i personaggi rappresentati nella seguente opera, nonché i nomi e i dialoghi ivi contenuti, sono unicamente frutto dell'immaginazione e della libera espressione artistica dell'Autore.
Ogni similitudine, riferimento o identificazione con fatti, persone, nomi o luoghi reali è puramente casuale e non intenzionale.
A mia madre, a mio padre,
e a tutte le persone che, lasciando questo mondo,
hanno ispirato il mio romanzo
«Gli uomini non hanno più il tempo di conoscere nulla. Comprano le cose già fatte dai venditori. Ma dato che non esistono venditori d'amici, gli uomini non hanno più amici. […] »
Antoine De Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe¹
Incipit
Niente, da nessuna parte. Non riuscivo proprio a trovarlo, l'archetto. E lui, il guardiano di legno, non mi aiutava di certo nelle ricerche. Sempre immobile e silenzioso, inespressivo. Lo conoscevo da una vita e l'accettavo così. Anzi, forse la prima volta mi aveva attratto proprio il suo silenzio, sapendo bene che sarebbe sempre stato pronto a romperlo, non appena l'avessi desiderato.
L'archetto sembrava sparito, smaterializzato, come pure gli spartiti. Il telefono squillava già da un po' ma non intendevo rispondere per non interrompere la mia ricerca. Frugavo dappertutto, guardando in cassetti che non venivano aperti da anni ma che sarebbe stato meglio non aprire affatto per non far affiorare cose sgradite e sentire il tipico odore di armadio chiuso. Niente, la cosa mi stava notevolmente irritando perché non poteva esser stato buttato. Avrei giurato di averlo visto in giro solo pochi giorni prima, ma dove?
Mi muovevo con ordine. Guardavo in ogni mobile, tiravo ogni maniglia, una dopo l'altra, sicuro che non mi sarebbe sfuggito alcun nascondiglio. Sbirciavo anche negli spazi troppo piccoli per ospitarlo, non so bene il perché, ma dava alla mia ricerca un senso di completezza. Quante cianfrusaglie che ruzzolavano giù, non appena aprivo l'anta di qua, quella di là, tutta roba di cui avrei dovuto sbarazzarmi e che l'archetto sfruttava per mimetizzarsi, per non farsi scovare. Il guardiano lo conosceva almeno quanto me, ma non avevo l'onore di ricevere da lui neanche il minimo suggerimento.
Risposi alla seconda chiamata, immediatamente successiva alla precedente. La voce non mi era nuova e il suo timbro particolare. Sapevo che si trattava di una persona a me nota, ma, in quel momento, ero con la mente così distante che non avrei riconosciuto nessuno, neanche me stesso allo specchio. Ah già, era da un po' che non ne guardavo uno, avrei dovuto riprendere a farlo, come tutte le persone normali mentre si pettinano o si fanno la barba. Ma, ormai da molto tempo, amavo la solitudine e la mia immagine riflessa poteva farmi pensare di avere qualcuno tra i piedi, magari non desiderato.
Era Nicola De Angelis al telefono che mi diceva di aver trovato qualcosa dandomi appuntamento al bar, dove ci eravamo conosciuti qualche giorno prima. Non si dilungò in inutili divagazioni, fu sintetico come sempre e parve essere anche di cattivo umore.
Non che il mio fosse migliore però la sua telefonata mi restituì serenità. Non mi aspettavo ci impiegasse così poco, tuttavia chissà quanti incarichi più complessi del mio doveva aver risolto nella sua carriera.
Non avrei mai detto che un giorno, come nei film, avrei dovuto affidarmi a un investigatore privato.
Accantonai mentalmente l'archetto anche se mi sembrava un mistero non trovarlo. Avrei cercato più a fondo al mio rientro, dato che De Angelis mi aveva proposto di vederci subito. Evidentemente era di fretta e questo spiegava le sue due telefonate consecutive.
Avevo accettato anche se mi innervosiva l'orario: alle sei di sera il bar sarebbe stato pieno di gente uscita dal lavoro, dall'ufficio, giovani fastidiosi con in mano un bicchiere e musica ad alto volume, di certo non quella a cui eravamo abituati il guardiano e io. Lui comunque non sarebbe venuto, avrei sbrigato questa cosa da solo, come sempre. Avrei finalmente saputo quello che ormai mi ossessionava da giorni e se fossi stato fortunato, o magari disposto a pagare di più, avrei anche scoperto il volto che continuavo a immaginare, ma senza riuscire a imbrigliarlo nella mia testa. Sì, quel viso che giorno dopo giorno si modificava con la fantasia assumendo sembianze improbabili, una miscela di persone conosciute e altre inventate da me.
Chiusi i cassetti rimasti aperti durante la telefonata e guardai intensamente il guardiano, come a rimproverarlo di non essersi mosso affatto. In fondo ciò che cercavo era un po' anche suo, ma lui aveva lasciato tutto il peso di questa ricerca sulle mie spalle. Faceva così, era incline a non prendere iniziative. Ero sempre io a farlo per entrambi.
In ogni situazione c'è chi trascina e chi viene trascinato e lui apparteneva decisamente alla seconda categoria. Solo quando le cose andavano bene ero certo che si trattava di un lavoro di squadra, il nostro. Ma quando, al contrario, qualcosa andava storto me la prendevo solo con me stesso. Non è mai colpa di chi non prende iniziative.
Misi il cappotto, sgualcito, avrei dovuto decidermi a comprarne uno nuovo, però gli ero affezionato. Grigio, con dei bottoni vistosi, mi stava alla perfezione, anche di lunghezza. È sempre stato un problema per me trovare capi d'abbigliamento che non avessero le maniche un tantino corte. Presi il cellulare nuovo che non avevo ancora acceso una volta e che probabilmente sarebbe rimasto sempre spento.
Scesi le scale dando un'occhiata alla cassetta della posta che era stracolma di pubblicità e, tra quella, mi sembrò di scorgere anche una busta. Non diedi importanza alla cosa, prima o poi mi sarei ricordato di attaccare la chiave della cassetta al mazzo che d'abitudine portavo con me, così da evitare di rifar le scale per tornare a prendere la posta. Tutta quella pubblicità di detersivi in offerta a intasare la fessura, l'avrei buttata subito, appena tornato.
L'emozione si faceva sentire, interferiva con la mia camminata dandomi l'impressione di zoppicare lievemente con la gamba destra. Di tanto in tanto mi dava problemi ma forse esternamente non si vedeva, come non si sarebbe notato il tremore alle mani, che nascondevo nelle tasche.
La fronte era sudata senza che mi sentissi accaldato. Diedi una sistemata ai capelli, soprattutto ai lati. Mi accorsi di aver dimenticato gli occhiali ma a dire il vero non li portavo quasi mai ultimamente, convincendomi che la mia vista era ancora buona nonostante l'età, sbagliando. Certo, il telefonino l'avevo preso con me sapendo bene che non l'avrei usato mentre gli occhiali che mi sarebbero tornati utili li avevo lasciati a casa. Tutto coerente con i pensieri che avevo nel cranio!
Sbucai fuori: c'era vento. Gli alberi oscillavano, facendo cadere con gratuita violenza le foglie che vista la stagione sarebbero comunque cadute, senza bisogno che ci si mettesse anche Eolo a molestarle.
Entrai nel bar, felice di rivedere Nicola De Angelis che con la sua telefonata aveva creato in me una grande aspettativa. Schivai alcuni gruppi di persone, come immaginavo di trovare, per poi chinarmi per non sbattere la testa contro i festoni di Halloween. Mi infastidiva il frastuono che c'era in quel piccolo locale, ma poi pensai potesse garantire una conversazione senza curiose orecchie indiscrete. Salutai Caterina che neanche mi rispose, indaffarata com'era con la birra. «Ma dai!» stava dicendo allo spillatore dato che non sembrava ne uscisse un granché. Era attorniata da ragazzi della sua età che la stuzzicavano, probabilmente indugiando con lo sguardo nella sua notevole scollatura. Lo ammetto, a volte lo facevo anch'io.
Lui mi aspettava al mio tavolo, quello dove ero solito far colazione ogni mattina e lo stesso al quale ci eravamo seduti il giorno in cui gli avevo affidato l'incarico. Pareva impaziente e non era il solo: anche se per motivi diversi, lo eravamo entrambi. Lui di togliersi dall'agenda quella stupida indagine e io di levarmi dalla testa la mia ossessione. Era curioso provare la sensazione di dover affrontare un incontro dove gli stati d'animo dei due partecipanti erano così lontani. Non si sa mai come comportarsi, se adeguarsi improvvisandosi simili o mantenere la propria personalità. Ci ho sempre provato ad allinearmi, ma in situazioni del genere ho sempre lasciato trasparire le mie emozioni.
Tirai la sedia verso di me per sedermi, indeciso se allungargli o meno la mano ma lui mi anticipò dicendo: «Ho scoperto qualcosa, non molto a dire il vero, ma credo possa bastare.»
Qualsiasi cosa mi poteva bastare. Abbassai lo guardo. Non sapevo se lasciarlo continuare o prendere io la parola, eravamo su piani molto distanti. Nicola si sistemò gli occhiali con l'indice della mano sinistra e dalla sua espressione pareva mettermi fretta. Ma io non ne avevo affatto in quel momento, non ne avevo mai avuta in tutta la vita. Erano state quelle recenti mattine ad avermi fatto innescare quella sensazione, quella cosa ingombrante che il tempo ti stia sempre per sfuggire. Che forse non ci si sente mai all'altezza dell'incarico che ogni giorno proprio lui ci dà: di impiegarlo al meglio. E le mattinate precedenti erano state davvero spietate nelle regole.
Mi guardai attorno per cercare la conferma che nessuno ci stesse osservando, mentre De Angelis rimaneva impassibile e forse addirittura annoiato. Nel bar c'erano solo ragazzi, in piedi, la maggior parte con un cellulare in una mano e un aperitivo nell'altra. Seduti eravamo soltanto noi due. Guardavo l'uomo seduto di fronte a me e trovavo affascinante la sua professione: scoprire cose su richiesta. Ma probabilmente non avrei mai avuto la tempra o la pazienza per farlo e, anche per questo, nella mia vita non avevo mai voluto cambiare lavoro. Perché lo adoravo e anche nei momenti di maggior sconforto ripetevo tra me e me che era un privilegio poter fare ciò che si desidera.
Squillò il suo telefonino e lui, con gesto di stizza, rispose un po' sgarbatamente. Più o meno come aveva fatto con me quando l'avevo contattato. I tratti del suo volto si irrigidirono e notai come iniziassero a comparirgli smorfie che trapelavano tensione. Il cerotto che aveva attaccato nel mezzo della fronte si stava staccando, rimanendo a metà penzolante. Mi dava l'impressione anche di essere scocciato, anzi, ne ero certo. Forse non amava il suo lavoro quanto amassi io il mio, prima di andarmene in pensione. Continuai a guardarlo con interesse perché effettivamente aveva qualcosa di stravagante nella combinazione di colori di giacca, camicia e cravatta. Tonalità pastello ma abbinate a caso, senza gusto.
Terminata la tortura, pose il cellulare sul tavolo, si scrisse un appunto e tirò fuori dal pacchetto una sigaretta. La mise in bocca e fece per cercare qualcosa nella giacca, forse l'accendino. Con lo sguardo gli mandai l'avvertimento che non si poteva fumare nel bar e che non era di certo una novità recente. Mi capì, forse era stato un semplice istinto il suo. Decisi che era il momento di venire a noi per cui mi avvicinai un po' col busto riducendo lo spazio siderale che ci divideva.
Schiarii la voce e gli chiesi: «Mi dica, cos'ha scoperto?»
1. Nove giorni prima
L'equilibrio tra ore di luce e di buio, la temperatura diurna soprattutto nel mese di ottobre, l'intenso colore del cielo e le ombre lunghe già a metà pomeriggio: l'autunno ha sempre esercitato su di me un certo fascino. Gli alberi impazziti che decidono di tingersi di rosso, giallo e arancio mi hanno sempre fatto pensare a chi, consapevole di doversi spogliare di un abito indossato da mesi, decida di volerlo abbellire, rendendolo stravagante e vantarsene per un po' prima di disfarsene e rimanere completamente nudo. Come se gli alberi considerassero questo richiamare l'attenzione, una forma elegante di egocentrismo, quanto meno dovuta.
Mi ha sempre divertito pensare come mai tutti gli anni decidano di spogliarsi quando inizia il freddo per poi rivestirsi non appena torni il caldo. Fanno esattamente il contrario di quanto siamo abituati noi e, probabilmente, qualcuno dovrebbe prendersi la briga di far loro presente che questo comportamento non è logico.
Quell'anno, ottobre fu particolarmente mite. Certe giornate della prima settimana del mese sembravano addirittura estive e questo mi incoraggiava a fare lunghe passeggiate per gustarmi lo spettacolo di alta moda immobile della natura.
Una mattina uscii come sempre verso le otto. Chiudendo la porta di casa, ero solito dare un'ultima occhiata al violoncello che se ne stava in piedi, silenzioso ormai da anni, proprio vicino l'ingresso. La custodia aperta mi faceva spesso immaginare un corpo esanime dentro una bara che da un momento all'altro qualcuno o qualcosa avrebbe forse chiuso per sempre. Ma lui non sembrava intimorito da questo, anzi, gli ultimi centimetri di visibilità che mi rimanevano mentre tiravo la porta verso di me, mi suggerivano che lui non se la passava affatto male. Il meritato riposo dopo anni di esecuzioni e di corde sfregate.
Uscendo a quell'ora, mi garantivo la tranquillità della colazione nel mio solito bar, senza la ressa di studenti e lavoratori che solitamente si era già dissolta al mio arrivo. Non era il problema di quel giorno, visto che si trattava di una domenica.
L'unica cosa che mi irritava della mia mezz'ora seduto al tavolino era la presenza della barista che sembrava aver imparato a memoria la filastrocca descrivendo le varie farciture delle paste e, una volta terminata, sfoderava un sorriso finto, perfetto per la pubblicità di un dentifricio! Mi chiedevo come potesse mantenere sempre quell'atteggiamento formale con un cliente di vecchia data come me... ma il caffè era delizioso e la scelta di tornarci ogni mattina mi era dettata dal fatto che era l'unico bar del paese a servire caffè all'americana. Non intendo il nostro espresso italiano con l'aggiunta di acqua calda e neanche quello solubile ma il caffè all'americana fatto con la macchinetta apposita, per essere precisi. Ci voleva un po' più di pazienza, ma tanto io di tempo ne avevo.
E poi quelle meravigliose tazze. Il caffè, per i miei gusti, dovrebbe essere sempre servito in una tazza rossa. Da parecchi anni ormai l'avevo quasi completamente sostituito all'espresso: durante i ripetuti viaggi con l'orchestra, specie nell'Europa centrale e del nord, avevo iniziato ad amarlo e a cercarlo anche in Italia.
Da dove ero solito sedermi a leggere qualche notizia di cronaca locale sorseggiando il mio caffè bollente, mi piaceva osservare fuori dalla vetrata del bar. Purtroppo l'insegna luminosa esterna recante la scritta APERTO, installata proprio all'altezza degli occhi, mi oscurava un po' la visuale, ma nonostante questo non pensavo mai di spostarmi e scegliere un altro tavolo.
Non ero il tipo che parlava molto, il mio carattere introverso mi limitava a brevi scambi di battute e anche quando qualcuno voleva instaurare un dialogo, finivo spesso per raffreddarmi al punto da non incoraggiare l'interlocutore a proseguire la conversazione.
Saranno state le otto e quarantacinque quando decisi che la colazione era finita: l'unico caffè bevuto poteva bastare e non c'era altro da leggere che non fossero le solite misere vicende di un paese di provincia. Lasciai il bar pagando alla cassa dove Caterina mi augurò una buona giornata come se stesse leggendo un copione, cercandolo in alto, tra i boccali di birra appesi.
Bastava attraversare la strada per trovarsi nel parco e andarci, non sempre ma spesso, mi faceva sentire bene. Si trattava di una routine che avevo fatto mia da quando ero in pensione, un po' per riempire le mie giornate e un po' perché avvicinarmi alla natura mi rasserenava.
Fino a quel momento non avrei mai potuto immaginare quello che mi sarebbe capitato di lì a poco. Entrare nel parco, quel giorno sarebbe stato magico, ma ancora pensavo fosse una mattina come tante.
Quella domenica di metà ottobre c'era molta gente e anche questo iniziò a procurarmi tensione.
Invecchiando mi rendevo sempre più consapevole della mia poca tolleranza verso i luoghi affollati, anche se il parco non è che si potesse considerare tale.
C'erano comunque parecchi bambini che giocavano, si rincorrevano, urlavano, si rotolavano per terra tra le foglie, richiamati puntualmente all'ordine dalle madri. Le poche panchine erano tutte occupate: era abbastanza insolito per una domenica mattina, a quell'ora, in quella stagione. Pensai che ci fosse un ritrovo, la partenza per una gita, una cosa del genere.
Le persone parlavano animatamente, a un volume esagerato per la distanza che vi era tra loro. Il nostro tipico stile mediterraneo che ho potuto verificare di persona essere diverso da