Maestra del mio quor
Di Silvia Sanna
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Maestra del mio quor - Silvia Sanna
muri.
PREFAZIONE
Perché chiamo i miei alunni nani
Chiamo così i miei alunni perché i nani sono grandi anime ospitate da piccoli corpi (tranne un’eccezione che porta tacchi, cerone e attualmente lavora come badante in un ospizio per non finire in galera). I miei bambini sono grandi anime custodite in un corpicino di un metro e un ciuffo. Talvolta, invece, in un corpo troppo grande per loro: vedi per esempio la mia alunna della IIA, Nana Palodellaluce. Ha sette anni, ed è più alta di me. Ci vuole poco, lo so, è una precisazione alquanto infelice.
Il mio, quindi, non è sarcasmo nei confronti di chi è affetto da nanismo o dei miei cuccioli. A questo punto dovrei scrivere un altro paragrafo per chiarire che, chiamandoli cuccioli
, non li sto definendo animali nel senso vero e proprio del termine. Certo, se vedeste Nano Peldicarota mangiare il brodo affondando direttamente la faccia nel piatto e succhiando, forse anche a voi verrebbe la tentazione di microchipparlo. Ma non essendo questo un libriccino di pediatria, nanismo o veterinaria, veniamo al dunque.
Io ve lo dico subito: non sono nessuno per disquisire d’insegnamento o gettare le basi di una nuova pedagogia. Ma corre voce che la ministra dell’Istruzione che mi ha rispedito a casa, sia laureata in Giurisprudenza. Certo: non sarò gnocca come lei, ma i compiti in classe di pedagogia li ho sempre copiati dalla prima della classe, mica dall’ultima. E soprattutto: io in un’aula scolastica ci sono entrata in carne, ossa e registro, non tramite proiezioni Doxa. E la laurea l’ho presa meritatamente. Con calma, molta calma. Troppa calma, ma meritatamente. Conquistare una laurea triennale in sei anni significa ponderare, ripassare e far sedimentare bene le conoscenze acquisite. Sono stati sei anni formativi di studi e bisbocce, tra organizzazione di convegni su Pasolini, cineforum sulla diversità, presentazioni di libri, ma anche cose serie: come gli infiniti tornei di biliardino al circolo Aggabachela, interrotti solo da sedicenti poliziotti che portavano via in manette rivoluzionari in piena partita. Sono stati anni tranquilli, insomma, tra giornalini universitari e premi letterari in cui il vincitore era sempre uno scrittore barbaricino, il presidente di giuria sempre Vittorio Sgarbi e il premio per noi giovani giurati era cercare di affogare Sgarbi in piscina, fare una foto di gruppo col bandito Mesina, ospite d’onore della serata, e bere champagne a scrocco nel ristorante più figo della Costa Smeralda. Sono stati anni di sformazione interrotti in modo quasi doloroso da una banale pergamena impiastricciata di ceralacca e vergata dal Magnifico Rettore: pezzo di carta che non ho mai ritirato, perché la marca da bollo è una tassa universitaria aggiuntiva ingiusta. Quando sono stata proclamata dottoressa in lettere moderne nell’aula magna gremita di parenti, amici e professori, il mio relatore è sceso dalla predellina, ha cercato i miei genitori, ha chiesto loro se fossero proprio i miei genitori, e ha aggiunto: «Mi dispiace, vi sono vicino». Poi è venuto al bar con noi come un parente stretto, a brindare col vermentino di Sorso per essersi liberato di me, mi ha regalato un libro importante di Ascanio Celestini, uno schiaffo a mano piena davanti ad amici e parenti e una premonizione: «Farai grandi cose». Ecco. Io non so per grandi cose
che cosa intendesse, ma l’idea di fare la giardiniera di bambini, aiutando quei piccoli semini umani a diventare alberi robusti, beh, mi è sempre sembrata una grande cosa.
Dopo anni di studio – né matto né disperato – quindi, credevo di poter finalmente concretizzare l’aspirazione di una vita. Ma non avevo fatto i conti con una nazione – quella in cui vivo – che alle letterate preferisce le letterine.¹
In questo libro cercherò di riassumere la mia prima (e probabilmente ultima) esperienza scolastica precaria (molto precaria). Questa volta però non da alunna, ma da maestra: sarà un’avventura fatta di risate, lacrime, caccole e qualche schizzo di sangue. Allacciate le cinture, indossate casco, scarpe antinfortunistiche e giubbotto antiproiettile, afferrate tre chili di caramelle mou ed entrate in aula con me.
IL PRIMO GIORNO DI SCUOLA DELLA MAESTRA
Puoi imparare un sacco di cose dai bambini.
Quanta pazienza hai, per esempio.
Franklin P. Jones
Chi sono io? Il saltimbanco dell’animaccia mia
Solitamente non rispondo al telefono in orari anomali, perché non ho bisogno di pentole né tariffe telefoniche allettanti, tanto meno di recuperare anni scolastici in un istituto privato. Le detesto, le signorine che telefonano a casa per riversare su di me la loro logorrea pubblicitaria. Le detesto perché io sono comprensiva, e ascolto tutta la pappardella, poi alla fine dico gentilmente che non sono interessata e auguro loro un buon lavoro. Ma qualche volta le signorine, prima di interrompere la chiamata, mi mandano a cagare. «Rileggiti il libro di Michela» mi consigliano gli amici «e vedi che se non ti fai intenerire, è meglio anche per loro». Lo potrei recitare a memoria Il mondo deve sapere di Michela Murgia, ma l’altra parte del mondo (quella delle telefoniste) dev’essere venuta a sapere che da questa parte c’è una cretina che ascolta i loro monologhi sino alla fine. Libro o no.
Io, comunque, le detesto a ogni ora del giorno le signorine che mi telefonano e mi mandano a quel paese perché auguro loro un buon lavoro, anche se è risaputo che sia un lavoro infame.
Le detesto soprattutto alle 9 del mattino.
Soprattutto due giorni dopo la mia laurea.
109.
Ho preso questo voto. Io che da quando ero matricola dicevo: «Pensa allo sfigato che alla laurea prende 109, poveraccio, che umiliazione. Io mi alzerei e urlerei alla commissione: Non lo voglio! Piuttosto datemi un 108!
».
Dicevo proprio così.
E invece ho incassato e inghiottito il rospo in silenzio, ché tanto in certe occasioni basta un abbraccio a farti felice.
[Ma soprattutto i regali dei parenti.]
Alle 9 del mattino, due giorni dopo la laurea, il telefono di casa mia suonava.
E suonava…
Suonava…
Suonava.
Finché non sono sgusciata dalle coperte con una palpebra incollata alla pupilla e il tono di voce alla The Walking Dead², spinta da un’unica forza: scaricare la tensione accumulata per la laurea sulla sciagurata venditrice di turno.
E invece era lui: il Lavoro.
Quello che io non cercavo e dal quale, anzi, in quel periodo rifuggivo.
Ma ormai ho capito che per la maledettissima legge di Gavina La Cugurra³ se tu non cerchi il lavoro, è il lavoro che cerca te. Se il lavoro ti trova e tu non volevi essere trovato, puoi sempre darti malato. È l’Italia, baby.
«È la scuola» mi dice con voce squillante. E lei è una segretaria, non una venditrice di pentole. Peccato: avevo deciso di imparare a cucinare.
«Si tratta di una supplenza d’inglese alle elementari» m’informa l’urlatrice telefonica. Prima di entrare nella graduatoria del personale Ata, era sicuramente la segretaria dell’Amplifon.⁴
Supplenza.
Elementari.
Inglese.
Posto che in inglese non sono mai stata una cima.
Posto che non sono una cima neanche in altezza e i miei alunni mi sovrasteranno di almeno 20 centimetri.
Posto che quindi i bidelli mi scambieranno per una bambina scappata dalla quinta e chiameranno a rapporto i miei genitori.
Posto che durante le prime lezioni possiamo anche cantare canzoncine idiote facendo triccheballacche con le manine, ma che già dalla seconda settimana i bambini mi manderanno lettere minatorie per farmi smettere.
Posto che la scuola si trova in un paesino incastonato tra le montagne sarde e per raggiungerlo dovrò svegliarmi alle 5.30 di mattina, prendere due autobus all’andata, due al ritorno e rientrare a casa solo nel tardo pomeriggio.
Poste tutte queste condizioni assurde e inaccettabili, in ottemperanza alla mia proverbiale coerenza, ho accettato l’incarico.
Ora si tratta solo di aspettare che diano uno sguardo al mio curriculum.
Ci sarà da ridere.
Per loro, dico, dopo che leggeranno il mio curriculum.
Da domani, dunque, si inizia a studiare l’inglese all together⁵ e a inventare cose da fare in classe, per riempire un intero anno scolastico.
Il nano che è in me
Io credo di essere una brava persona (a parte gli scippi alle vecchiette il 28 di ogni mese. E i genitori nel freezer. E la sorella nel forno).
Tutto mi si può dire, ma non che io non sia una brava persona.
Con molta fantasia.
E se essere una brava persona con molta fantasia è il presupposto per essere anche una brava maestra, beh, allora diventerò anche quello.
Per ora non lo sono.
Così è, se vi pare.
Perché io non uso la borsa di pelle da insegnante