Il coraggio dell’amore
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Anteprima del libro
Il coraggio dell’amore - Angelo Ambrosino
Albatros
Nuove Voci
Ebook
© 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma
www.gruppoalbatrosilfilo.it
ISBN 978-88-567-7925-7
I edizione elettronica agosto 2016
A mio figlio Raimondo
Angelo Ambrosino
Questa pubblicazione nasce dalla forza del dolore e dell’amore, vissuti nel tragico momento che mi ha portato via mio figlio e che si trasforma, oggi, in energia al servizio dei deboli e dei sofferenti.
Ringrazio la scrittrice-poetessa Anna Aita che, con disponibilità e affetto, dopo aver ascoltato la mia dolorosa vicenda, ha voluto raccontarla per iscritto in questo testo affinché sia resa di pubblica conoscenza.
Il presente lavoro è una necessaria testimonianza di vita perché mai più accada che un figlio debba morire, in tenera età, per inefficienza sanitaria e che alcuno abbia a soffrire l’allucinante via crucis
da me vissuta.
Angelo Ambrosino
Introduzione
Una storia coinvolgente quella che sto leggendo, Il coraggio dell’amore. Conosco lo stile della scrittrice Anna Aita fino in fondo: lineare, preciso, altamente speculare, arricchito dalla sua attitudine alla comprensione, al dialogo, alla comunicazione sentita e appassionata. Il riflesso della sua anima che analizza e trasmette le emozioni che vive nel suo cuore con accorato bisogno di liberarsi e di partecipare gli impulsi emotivi che la coinvolgono.
Una storia vera vissuta dal protagonista Angelo Ambrosino nelle sue peripezie, prima lontano da casa poi nell’ambito della sua famiglia, da Milano a Napoli, esposto a continue traversie belle e cattive, anche se il destino si accanisce poi su di lui togliendogli quel figlio Dino che tanto amava e che credeva in lui, nella sua luminosa carriera di studioso per la sua vita e il suo futuro. Il destino, il caso, così dirà il protagonista. Se non fossi stato licenziato e se fossi vissuto con la mia famiglia a Milano, come era mio desiderio, ciò non sarebbe accaduto: la morte tragica del suo adorato figlio Dino.
Ma procediamo con ordine per dare un assetto organico a questo mio scritto.
Angelo Ambrosino, tecnico disegnatore, nel 1990 viene trasferito da Napoli a Milano dall’Azienda per la quale lavora. Dopo la prima accoglienza e una discreta sistemazione in un residence di periferia, sorgono in seguito malintesi e dinieghi. Notato che il lavoro che svolge a Milano avrebbe potuto eseguirlo anche a Napoli tranquillamente, perché il suo lavoro di allora veniva svolto da un collega per poi essere spedito a Milano, lo fa presente alla direzione e in risposta, anziché trovare comprensione, vedere esauditi i suoi giusti risentimenti, viene licenziato in tronco per proteste. Di fronte a tale ingiustizia, si sistema alla meglio sotto una tenda accanto all’Azienda, mettendo in atto lo sciopero della fame.
Dopo una ventina di giorni, in condizioni disperate e vulnerabili per la sua salute, con crudeltà mentale di alcuni individui, gli viene incendiata la tenda con il rischio di rimanere soffocato. Dopo inutili tentativi di essere riascoltato dalla direzione aziendale, sfinito, dimagrito, al limite del collasso, viene ricoverato in ospedale. Ripresosi anche per l’amore dei suoi familiari accorsi al suo letto alla notizia del ricovero, fa ritorno a Napoli. Spera di ottenere la pensione dovutagli, ma anche lì trova difficoltà burocratiche che Ambrosino denuncia per le continue inadempienze senza un risultato doveroso e si abbandona allo sconforto. Rivive tutto ciò che gli era capitato stando seduto su di una panca nel corridoio dell’ospedale dove è ricoverato il figlio Dino, investito da un’auto in una domenica di giugno del 1995, pensoso, avvilito, preoccupato per la sua sorte. E alla fine di giugno il responso. Il ragazzo entra in coma e abbandona questa vita insieme alla rabbia, alla speranza di un povero papà disperato e affranto. Si consuma così una tragedia nella tragedia di un padre disperato, sconfitto anche per quanto gli era accaduto tempo addietro.
Una storia commovente, piena di pathos, di recriminazioni, di malasanità, di inadeguatezze strutturali, di ignobile ignoranza e crudeltà mentale, ben narrata dalla nota scrittrice Anna Aita, giornalista d’avanguardia, di altissimo senso morale e intellettuale, di enorme amore e di squisita sensibilità umana e sociale.
Salvatore Veltre
Anna Aita
Anna Aita è nata e vissuta in un ambiente di musica e poesia. Suo padre era pianista, lo zio paterno, Enzo, tenore del San Carlo, mentre il nonno materno, Antonio Cinque, un poeta che nella sua breve vita (morì a soli 27 anni), aveva fondato il giornale La Piccola Fonte
, ospitando valide firme del tempo.
Pur nutrendo ardore poetico da giovanissima, soltanto nel 1993 a pubblicato la sua prima opera in versi, "Riflessi dell’anima" , che ha avuto una lusinghiera accoglienza per critica e premi acquisiti.
Nel ’96 ha pubblicato "Sul filo della memoria", una raccolta di racconti in cui la spiritualità dell’Autrice e la sua esigenza di comunicazione riescono a stabilire un colloquio con il lettore: le immagini, le figure e i particolari tutti danno una visione cromatica e icastica di grande intensità.
Oltre a numerosi premi, Anna Aita ha ottenuto la nomina di Cavaliere della Repubblica Italiana, la medaglia d’argento del Presidente della Repubblica, la coroncina d’argento e l’alloro d’oro dell’Accademia Pontzen, e vari titoli accademici.
Giornalista pubblicista, volontaria ospedaliera da 27 anni, è responsabile del settore letterario dell’Associazione Culturale Megaris di Napoli.
Recensita positivamente da importanti critici, la sua firma compare su molti giornali letterari in tutta Italia.
Altre opere, da lei pubblicate, sono: Soltanto una carezza (poesie), Trasparenze (quaderno di poesie ottenuto in premio con votazione nazionale), In tre andando verso (poesie), Così la vita (poesie), Sintesi e commento di alcune opere di Carmine Manzi (monografia), Don Giustino tra storia e poesia (biografia), La lettera smarrita (romanzo storico), La lunga notte (romanzo storico in collaborazione con Aldo De Gioia), Domenico Defelice un poeta aperto al mondo e all’amore (monografia), Quando a Napoli non c’erano le stelle (romanzo storico in collaborazione con Aldo De Gioia), Aldo De Gioia- Quando la storia diventa poesia (monografia), Salvatore Veltre- Voce della cultura e della vita (monografia).
In ogni essere umano vi è un luogo in cui custodire e scandire i ritmi dell’anima, le percezioni dello spirito. La natura carezza con voci e suoni la musica del Poeta, quindi lo spazio legittimo di quest’ultimo, nel caso specifico di Anna Aita, diviene teologia, ossia il momento più alto della ragione umana.
La sua scrittura è caratterizzata da limpidezza stilistica; pagine splendide, diario di vita, preludio a tutto ciò che è partecipazione, causa e intuizione dell’essere attraverso la vera medicina umana e cristiana che è l’amore.
In qualità di operatore culturale ho avuto modo di conoscere approfonditamente la produzione poetica e in prosa di questa apprezzabile Autrice che si muove in uno spazio illimitato dove l’essenza della vita non è che respiro di fiori di campo semplici, efficaci, teneri e dal profumo eterno.
Gianni Ianuale
Presentazione
Il caso Ambrosino ha fatto, a suo tempo, parlare molto nella nostra città perché le sue clamorose rivendicazioni sui diritti del cittadino erano e sono pienamente condivisibili da tutti.
In particolare quelle relative alla malasanità che, per essere un problema annoso, incide sulla condizione e la salute di ciascuno di noi. La questione può essere risolta soltanto a livello delle Istituzioni locali e governative. Di conseguenza può il sacrificio di un uomo solo, sprezzante delle conseguenze personali, risvegliare l’apatia o la negligenza di chi ne ha il dovere e la responsabilità per raggiungere un minimo risultato?
Ambrosino, nella disperazione per la perdita del figlio a causa delle carenze sanitarie del servizio pubblico, ha ostinatamente cercato di attivare il problema. Egli ha sperato nella partecipazione dell’opinione pubblica. C’è stata? Certo è che l’Ambrosino è rimasto sempre solo a lottare per una giusta e sacrosanta causa sociale e umana. Ma la società sembra essersi assuefatta alle deficienze della cosa pubblica, augurandosi, anzi, di non dover andare incontro al peggio.
Una rassegnata impotenza.
Ecco perché, almeno nell’ambito personale di ognuno, non si può essere insensibili al coraggio e alla volontà testarda dell’Ambrosino, siano pur essi motivati dalla intima disperazione insanabile di un padre che ha perso banalmente un figlio. Egli ha portato avanti la sua lotta nel tempo, incurante delle traversie mortificanti affrontate.
Anna Aita ha ritenuto utile ed opportuno raccogliere il suo interessante racconto in forma organica in questo libro, affinché il lettore possa meditare sui mali, non pochi, della nostra società attuale.
Il libro si avvale di un discorso piano, agile, scorrevole, lucido e persuasivo. I fatti vengono narrati nella loro cruda semplicità dando pagine che si lasciano leggere con piacere ed attrazione in virtù di una narrativa viva e concreta senza fronzoli e infingimenti. Non vi sono esposizioni noiose ma realistiche e convincenti. Nella sua obiettività e realtà storica può anche offrire deduzioni e atteggiamenti critici, ma è certo di un interesse sommamente umano.
Quello che maggiormente colpisce è l’amore e l’accuratezza nella descrizione dei singoli eventi, a rendere ogni pagina di una vivezza particolare.
La dimensione socio-politica del problema è notevole come è notevole la sfiducia nelle istituzioni preposte, sofferenti di apatia e negligenza; sfiducia che è diventata quasi assuefazione ad una crisi di identità.
Dal caso singolo, oggetto della presente narrazione, emerge un’informazione omogeneizzata alla cultura di massa nell’assimilare problematiche ed esperienze affidate alla lettura di un libro.
Ma non è soltanto il tema trattato che distingue il lavoro dell’Aita, bensì anche la sua personalità di scrittrice, il timbro del discorso, le movenze interne del dettato che rappresenta la matrice come elemento distintivo e la forza che caratterizza la fluidità nella narrazione.
Tutto merito della sua grande sensibilità che si traduce in arte. Il novecento letterario può ben arricchirsi con Anna Aita, poetessa e scrittrice, di una presenza culturale di rilevante interesse; una personalità artistico-intellettuale molto composita con i suoi sentimenti dell’amore e del tempo.
In lei ritroviamo contemporaneamente le orme del passato e la propensione al futuro del positivismo-liberalismo che si riaffaccia alle soglie del nuovo secolo con l’eterna filosofia della vita: un grande bisogno di umanesimo.
Guido Cecchi
Prefazione
Né una denuncia sulla malasanità, né una biografia; potremmo definire il volume dell’Aita una garbata ed elegante descrizione della sofferenza umana rappresentata con profonda sensibilità poetica e raffinato garbo letterario. La tragedia umana di Angelo ci lascia un’indelebile cicatrice etica che ci deve spingere a riflettere a fondo sul significato del nostro vivere cristiano. Emerge, infatti, tutta la contraddittorietà, l’ipocrisia, l’immaturità, il cinismo della società attuale nella quale il diritto a esistere e a vivere è troppo spesso soffocato dal bisogno dell’avere e del sopravvivere. Questa visione epicurea radical-edonistica non può condurre alla felicità: avere e amore si escludono a vicenda. L’attuale condizione anomica della nostra società richiede un lavoro introspettivo tenace, profondo, cristiano di riformulazione di quei valori e norme che oggi ci vengono propinati. L’esempio di Angelo ci richiama colpevolmente a questa riflessione: un Uomo solo e lasciato solo, con il coraggio dell’Amore e della Fede, muove mura di indifferenza ed omertà; la forza di quell’amore senza scopo, quello in cui tutto ciò che importa è l’atto dell’amore in sé, dove dunque a svolgere il ruolo decisivo è l’Essere, non già il consumare. Amare e comunicare rappresentano la ricetta per la cura al nostro malessere che ci consentirà di costruire quel processo di Solidarietà tra gli uomini indispensabile per migliorare le attuali condizioni di vita.
Un sentito ringraziamento all’autrice Anna Aita e al protagonista Angelo Ambrosino per il prezioso contributo offerto.
Emilio Fina,
Primario Psichiatra Docente Universitario
di psicopatologia e criminologia
PARTE PRIMA
UNA TENDA A SANTA LUCIA
Capitolo I
"I fiori dei campi sono figli della benevolenza
del sole e dell’amore della natura;
e i figli degli uomini sono i fiori
dell’amore e della comprensione."
Khalil Gibran
Era una domenica di giugno del 1995 quando fui informato che Dino era rimasto vittima di un incidente. La persona al telefono, che aveva assistito alla tragica scena, mi tranquillizzò sullo stato di salute del ragazzo. Pur essendo stato investito frontalmente da un autista spericolato, che si era prodotto in un sorpasso in terza fila, spiegò, non aveva nulla di preoccupante. Era stato gentile, quel signore, prodigo di particolari e rassicurante. Apprezzai molto la sua cortesia, ma avevo bisogno di vedere con i miei occhi, di parlare con mio figlio immediatamente.
Mentre raccattavo portafogli, chiavi dell’auto e quant’altro mi pareva necessario in un momento di grande confusione mentale, sollecitavo mia moglie a seguirmi. Con il terrore negli occhi, rimase seduta, silenziosa, continuando a scuotere il capo in segno di diniego. Non potevo rimanere lì a convincerla. Attraversai di corsa il corridoio affidandola alle cure di mia figlia.
«Vi darò notizie!» urlai dalla tromba delle scale. Guidavo in una condizione di allucinata follia. Scansavo auto, moto, passanti, semafori rossi, mentre la mente si perdeva in un garbuglio di immagini. Vedevo mio figlio esanime in un lettino d’ospedale, vedevo sangue, presunte ferite, lacrime, occhi aperti, occhi imploranti, occhi chiusi in una sequela di visioni che si sovrapponevano. E su tutto la paura. Una paura più forte della ragione.
A brevi tratti pensavo a mia moglie Rosa, alla sua incapacità di reazione. Era stata sempre così. Perché, per una volta tanto, in un simile frangente, non aveva preso il coraggio a due mani per accorrere da suo figlio che aveva certamente bisogno di lei?
Parcheggiata l’auto, come meglio potei, imboccai il vialetto che portava ai reparti dell’ospedale S. Paolo e presi, deciso, la direzione del Pronto Soccorso. Mio figlio non c’era. Vagai disperato per sale d’attesa, reparti, corsie; chiesi, indagai, ritornai cento volte sui miei passi; di Dino non v’era traccia. Ero smarrito. Le forze cedevano all’agitazione e alla paura; nonostante continuassi a muovermi e ad informarmi, ero come pietrificato. Non avrei mai potuto immaginare che mentre mi affannavo a reperire un nome, mai passato nell’ospedale, mio figlio giaceva sul marciapiede, privo di assistenza, in attesa di un’ambulanza che non arrivava.
Passò ancora un’ora prima che potessi avere, tra le mie, le mani tremanti del mio ragazzo, nei cui occhi dilagava il terrore. Lo baciai, lo carezzai dolcemente, cercai di acquietarlo con il calore protettivo del mio sorriso, delle mie parole perché mi si affidasse, perché tornasse tranquillo. Carezze così dolci dalle mie mani non le conoscerà mai nessuno; era troppo disperato l’amore che accompagnava i miei gesti. Placai presto il suo pianto.
Entrai con mio figlio in una stanza del Pronto Soccorso, dove cedetti all’ansia dell’attesa e al dolore per la vista della mia disperata creatura. Svenni. Mi ripresi in fretta: Dino aveva bisogno di me. Ricominciai a carezzarlo. Mi porse l’orologio, quello stesso che, ancora oggi, scandisce il tempo sul mio polso.
Erano, ormai, le 22 e 30 e nel Presidio non esisteva un medico ortopedico che potesse soccorrere mio figlio; non era possibile praticare una radiografia, né tantomeno una TAC: l’ora non era quella giusta! Il tempo passava. La preoccupazione, il dolore, il senso di impotenza aumentavano con lo scorrere di un’inutile scansione che non offriva nulla, nulla di nulla, perché si trovasse per mio figlio una via di risoluzione. E cresceva, in parallelo, la rabbia per tanta inettitudine. La superficialità di quegli uomini in camice mi sgomentava; il loro sguardo assente e indifferente mi costringeva, pur nella nebbia del dolore, a riflettere: mancava amore in quel posto, mancava solidarietà; non v’era traccia di compartecipazione, di sensibilità. Ero circondato da statue di marmo, robot programmati dal cuore di latta. Un disgraziato che necessitava di aiuto era completamente solo, solo con se stesso!
Fummo costretti a trasferire mio figlio al CTO. Qui, sistemato alla meglio su di una barella malandata, caricato su un ascensore obsoleto, si arrivò ai piani superiori, dove fu eseguita una radiografia. La diagnosi arrivò immediata: rottura di femore e perone. Respirai di sollievo; nulla di grave, dunque. Necessitò sistemare la gamba in trazione per praticare, nel tempo, un intervento che lo avrebbe rimesso in sesto.
In corridoio, seguii le fasi di quell’operazione attraverso le urla strazianti di mio figlio. Fu un tempo lunghissimo durante il quale dovetti misurarmi con la misera umanità, con l’incapacità di poter fare alcunché per aiutare la mia creatura. Non so se il mio dolore fosse paragonabile al suo; so soltanto che soffrii maledettamente.
Finalmente, ritornò il silenzio oltre la porta chiusa. Per qualche attimo trattenni il respiro, l’orecchio teso ad ascoltare, poi compresi e respirai di sollievo: il mio ragazzo, dopo aver tanto patito, si era addormentato. Lo vidi uscire su di una lettiga, le labbra pallide, il volto tirato dal patimento. Poggiai la mia mano sulla sua, abbandonata sul lenzuolo. Lo