Lasciare libero lo scarrozzo
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Info su questo ebook
Malintesi, interpretazioni, fatti e misfatti di questo libro sono raccontati da punti di vista differenti espressi da una molteplicità di io narranti. Ogni personaggio, però, si percepisce come protagonista unico e, come nella vita reale e volendosi differenziare, si specchia in qualcun altro per costruire una propria identità o le identità che meglio si adattino alle situazioni che vive.
Il mondo tacito della vita quotidiana si svela con fatica nella vasta mole delle sue rappresentazioni, dei conflitti che lo agitano, delle malcelate contraddizioni ma, anche, con la varietà delle inevitabili armonie e inaspettate assonanze che lo accompagnano.
C’è un filo sufficientemente nascosto che lega fra loro i dodici episodi/capitoli, a dispetto della loro apparente ed esibita eterogeneità. Per lasciare al lettore il piacere di scoprirlo o la libertà di ignorarlo, questo legame è stato sottaciuto di proposito.
Più a sud verso la Sicilia, Tota nostra, Sizilianische Weltanschauungen sono i titoli più conosciuti fra le opere di Salvatore Giordano.
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Anteprima del libro
Lasciare libero lo scarrozzo - Salvatore Giordano
Salvatore Giordano
Lasciare libero lo scarrozzo
lego / narrativa
© 2011 – per la versione e.book:
Nulla die di Massimiliano Giordano Via Libero Grassi, 10 - 94015 Piazza Armerina (En)
su gentile concessione di Firera & Liuzzo Publishing
www.nulladie.altervista.org
www.nulladie.wordpress.com
ISBN: 978-88-97364-18-4
Realizzazione digitale, foto di copertina e progetto grafico: Massimiliano Giordano
© 2009 – Prima edizione a stampa con il titolo Sizilianische Weltanschauungen. Visioni del mondo dall'isola del sole: Firera & Liuzzo Group Via Boezio, 6 - 00193 Roma con il marchio Carlo Amore - www.fireraliuzzo.com
L'editore e l'autore ringraziano Firera & Liuzzo Publishing per la gentile concessione all'edizione dell'Opera in versione e.book.
I fatti e i personaggi di quest'opera sono frutto di fantasia. Pertanto ogni somiglianza con nomi, luoghi e avvenimenti reali è da ritenersi del tutto casuale.
Più che una dedica, un omaggio
Con Martina e Thomas, coppia di svizzeri trapiantati in Sicilia, una sera a cena ho intavolato una improvvisata discussione intorno alla nozione di Weltanschauung. Pur condividendo entrambi il significato etimologico e filologico della parola espressa nella loro stessa lingua, ciascuno dei due vi attribuiva un senso diverso. Il concetto che ho io della visione del mondo
– come, con poca fantasia, abitualmente traduciamo il termine tedesco in italiano – si accordava in parte alle osservazioni di Martina e, per una parte non meno importante ne divergeva. La stessa cosa mi capitava nei confronti delle convinzioni che Thomas esprimeva, manifestandoci il suo disaccordo.
La conversazione scivolò poi, comme il faut in una occasione conviviale, sulla sapiente combinazione di Chardonnay, Grillo e Cabernet che stavamo gustando per accompagnare – nella maniera più degna – il sugo al nero di seppia, la pasta con le sarde e le altre pietanze della variopinta gastronomia siciliana.
Tutti, man mano che apparivano le portate di pesce fresco, ci dimenticammo delle diverse Weltanschauungen, eppure quella serata trascorsa in allegria mi ispirò – all’insaputa dei miei ignari ospiti – la stesura e il primo titolo di questo libro.
Scrivendolo ho appreso tante cose interessanti: ancora non ho capito, però, com’è possibile che a Thomas non piaccia la cassata. Tanto più che gradisce la malvasia e non disprezza lo zibibbo.
Altra sera, altra cena, altra scena.
La sensazione è di déjà vu, ma la discussione si svolge in un tono differente. Stavolta io sono loro ospite e la stagione è fredda. La legna che arde nel focolare non produce scoppiettii di sorta, tanto l’hanno essiccata alla perfezione: il fuoco emana calore, bagliori e profumo di caramelle all’eucaliptolo miste all’aroma del torrone con le mandorle tostate nel miele.
Sulla tavola imbandita sono tante le specialità della cucina svizzera: il pezzo forte – il motivo preso a pretesto per la nostra riunione – è la fonduta alla zurighese. I miei due amici sono convinti che per gustare al meglio la sinfonia dei sapori di questo energico piatto alpino
sia necessario quello che chiamano l’accompagnamento musicale di uno strumento solista: concordano che debba essere un robusto strumento mediterraneo dal timbro forte. Per Thomas, il giusto complemento è un rosso ben stagionato dal sapore deciso come solo il Syrah dell’entroterra siciliano può essere. Martina, invece, preferisce la musicalità di un ancor più vigoroso rosso siciliano e sostiene che l’accompagnamento ideale lo fornisca solo il Nero d’Avola, energico e fruttato e che, se è stagione, «va meglio il novello».
Pacifici per indole, più che neutrali, questi cari amici svizzeri apparecchiano approntando due caraffe, in modo da lasciare ai commensali la libertà di scegliere il vino che preferiscono.
Non appena li informo che sono stati loro a ispirarmi il titolo e la stesura di questo libro, si sorprendono e si scherniscono, ciascuno a modo suo.
Per l’occasione, Thomas si lascia sfuggire una promessa: stavolta assaggerà la cassata che ho portato.
PARTE PRIMA: CÀLATI JUNCU…
Zì Fortunello
Ho conosciuto Zì Fortunello quando era già più vecchio della cucca che veglia di notte — e qualche volta, insonne com’è, anche di giorno — sul campanile del suo paese.
Mi aveva mandato da lui (si dice inviato) l’emittente per la quale lavoro per vedere se potevo ricavarne un servizio di ‘colore’. Doveva essere per forza singolare, si diceva tra noi, uno che alla sua età gestiva una bottega da orafo in un paesucolo — poco più d’un borgo — al centro della Sicilia meno barocca che si possa immaginare; una bottega con un indiscutibile primato: riceveva un mese sì e l’altro pure la visita dei rapinatori. A «visitare» il laboratorio dell’anziano orafo — noi che lavoriamo nell’informazione siamo maestri nel rendere più sopportabili le notizie e non solo con gli eufemismi — erano dei «microcriminali», giovani delinquenti comuni, provenienti dalla stessa città della mia stazione radiofonica. La loro trasferta in quel paese, giusto un’incursione di qualche quarto d’ora, aveva un solo fine: rapinare il povero Zì Fortunello. Questo suo disgraziato paese è vicino al mio e perciò, per me che lo conosco bene, personifica ogni sconcezza, il vecchiume; niente a che vedere col mio bel paesello moderno, sereno, vitale e — soprattutto — senza delinquenza. Altro che governativo «pacchetto sicurezza»! Abbiamo la fortuna che tra il luogotenente Nicodemo Arabico, comandante della locale stazione dei carabinieri, e don Sasà Vangavillano — mmì! — c’è un rispetto e un’intesa che dà garanzia di serenità a tutti noi gente per bene. Come ad assicurarci un sovrappiù di protezione, a mo’ di tutela supplementare per noi, per i nostri beni e per le nostre beneamate famiglie, abbiamo avuto la prudenza — calati juncu ca passa la chjna! — di eleggere come sindaco un autonomista che è cumpari a San Giuvanni con don Sasà e pure con don Totò il presidente
. Quel Totò autonomista non è, ma, in compenso, ha fama di persona d’onore. Questo sì che è savoir vivre! Siamo in una botte di ferro noi…
Conobbi Zì Fortunello quella mattina che andai a fare un sopralluogo alla sua oreficeria, giusto per dare un’occhiata senza che il fonico fosse presente. Così, prima di recarmi in redazione, decisi di passare per la piazza lercia di quel paese più sporco di un mucchio di letame. Da buon giornalista, più avvoltoio che segugio, volevo formarmi un’idea sull’orafo e sul suo negozio — che in realtà immaginavo come una botteguccia —, prima d’impostare il servizio radiofonico. E meno male che non avevo tecnici o testimoni con me, sennò avissi fattu na figura nivura: Zì Fortunello per cretino mi pigliò e per scemo mi lassò. Roba da rimetterci la faccia. Di servizio manco a parlarne: hai voglia a dirgli che non c’erano telecamere, che si poteva omettere il nome del paese, tacere l’indirizzo e, se proprio voleva, restare pure anonimo. «E — pezzu di bbabbu — che notizia duni allura?», mi domandò.
Mizzica, ci ebbi a ’dari ragiuni!
Che ragione mischinazzu ne aveva da vendere e non solo sul fatto che se gli avessi fatto quella pubblicità, «tutti i bbabbi ccu na pistuledda avissiru saputu unni jri a farisi na passijata quannu avivanu bbisognu d’arricampari na picca di grana».
Me ne andai con la coda fra le gambe e non dissi nulla in redazione; ogni volta che in radio giungeva la notizia di una nuova rapina rimandavo il servizio alla prossima. Tanto di scuse la cronaca ne offriva e ne offre a bizzeffe giorno per giorno.
Senza un perché, dopo qualche tempo, volli recarmi a render di nuovo visita al vecchio orefice scontroso. Quando attraversai per la seconda volta la striminzita piazza — che nell’angolo più in ombra ospitava quella bottega, strana per un orefice, priva com’era di luci sulla strada, senza un’insegna né quello specchietto per le allodole che normalmente, con i loro luccicori, sono le vetrine dei gioiellieri — tutto il paese mi parve se non più accogliente, meno sgraziato del solito. Erano scomparsi i mucchi di cartacce che traboccavano dai cestini per i rifiuti posti ai lati dell’ingresso della friggitoria, mentre il garzone del panettiere stava ramazzando il marciapiede con uno scrupolo certosino; se solo avesse raccolto la spazzatura accumulata, il suo lavoro sarebbe stato perfetto, ma, al contrario, pur mettendo una cura esagerata nel ripulire la banchina — ahimé! —, buttava il tutto di sotto sul piano della strada.
Si preoccupava, però, di spingere la sporcizia quanto più in là possibile, lontano dal marciapiede. Feci per passare dietro al ragazzo, ma questi me lo impedì cedendomi il passo e arrestando il suo lavoro al mio passaggio. Mi parve pur sempre un gesto di cortesia. Con animo meglio disposto rispetto alla prima volta, mi diressi verso la bottega orafa: la vetrina con le veneziane mi accolse incurante dei miei tentennamenti e mi sembrò pure meno spoglia di quanto non la ricordassi. Mancava l’insegna, ma era inequivocabile il genere di commercio che doveva svolgersi dietro la porta protetta da pesanti grate di ferro: ogni aspetto di quell’insieme di particolari lasciava immaginare decoro, opulenza e, soprattutto, discrezione.
Giunto che fui sull’uscio, cambiai idea: finsi alla bell’e meglio di esser lì per caso ma ben intenzionato a tirar diritto.
Avevo ormai rinunciato a suonare il vistoso campanello, ma il vecchio orafo si trovava in quel momento proprio dietro la porta d’ingresso e, avendomi riconosciuto, mi fece cenno di aspettare un momento con un suo caratteristico gesto della mano. Lo vidi correre con passi brevi e saltellanti dietro il bancone e alzare il braccio verso una pulsantiera elettrica. Sentii lo scatto della serratura che mi apriva la porta. Quel suono secco m’impedì di muovermi. Non mi restò che spingermi dentro.
Entrai da Zì Fortunello che mi sorrise beffardo, mentre mi domandava smorfioso se mi volessi piazzare là con lo scopo di documentare con