Il Giocatore (Игрок)
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Anteprima del libro
Il Giocatore (Игрок) - Fëdor Michajlovič Dostoevskij
IL GIOCATORE
Фёдор Михайлович Достоевский, Игрок
Originally published in English
ISBN 978-88-97572-59-6
Collana: EVERGREEN
© 2014 KITABU S.r.l.s.
Via Cesare Cesariano 7 - 20154 Milano
Ti ringraziamo per aver scelto di leggere un libro Kitabu.
Ti auguriamo una buona lettura.
Progetto e realizzazione grafica: Rino Ruscio
CAPITOLO I.
Finalmente ritornavo dopo un'assenza di due settimane. Già da tre giorni i nostri si trovavano a Roulettenburg. Pensavo di essere atteso con chi sa quale ansia, e invece mi sbagliavo. Il generale mi accolse con una disinvoltura eccessiva, mi parlò squadrandomi dall'alto in basso e mi mandò da sua sorella. Era evidente che da qualche parte erano riusciti a procurarsi del denaro. Ebbi addirittura l'impressione che il generale mi guardasse con un certo imbarazzo. Màrja Filìppovna, indaffaratissima, mi liquidò con poche parole; prese, però, il denaro, lo contò e ascoltò il mio rapporto. A pranzo erano attesi Mezentzòv, il francesino e un inglese; come sempre, quando c'era denaro, subito inviti a pranzo:
secondo l'uso moscovita. Polina Aleksàndrovna, vedendomi, mi chiese come mai fossi rimasto assente tanto a lungo. Ma non aspettò nemmeno la risposta e se ne andò. Si capisce, l'aveva fatto apposta. Però dovevo parlarle a ogni costo. Molte cose si erano accumulate.
Mi era stata assegnata una piccola stanza, al quarto piano dell'albergo: si sa qui che io appartengo al seguito del generale
. Da ogni cosa si capisce che essi sono riusciti a dare nell'occhio. Qui il generale è creduto un ricchissimo magnate russo. Ancora prima di pranzo, ha fatto in tempo, tra gli altri incarichi, a darmi due biglietti da mille franchi da cambiare, la qual cosa feci alla segreteria dell'albergo. Ora ci riterranno dei milionari, almeno per una settimana. Volevo prendere Misha e Nàdja e portarli a fare una passeggiata, ma sulla scala mi chiamarono per conto del generale: si degnava di informarsi su dove avrei portato i bambini. Quest'uomo non può assolutamente guardarmi negli occhi: vorrebbe farlo, ma io, ogni volta, gli rispondo con uno sguardo così fisso, vorrei dire irriverente, che egli sembra confondersi. Con un discorso tronfio, legando alla meglio una frase dopo l'altra e, alla fine, impappinandosi completamente, mi fece capire che dovevo passeggiare con i bambini lontano dal Casinò, nel parco. E, irritandosi, concluse bruscamente:
Se no, a voi salta magari in mente di portarli al Casinò, alla roulette. Mi dovete scusare,
aggiunse, ma so che siete ancora un po' sventato e capace, Dio sa, di mettervi a giocare. In ogni caso, anche se io non sono il vostro mentore e non ho alcuna intenzione di assumere una simile parte, ho tuttavia il diritto di pretendere che voi, per così dire, non mi compromettiate...
Ma sapete che non ho denaro,
risposi in tutta calma, e, per perderlo, bisogna averlo.
Lo avrete immediatamente
rispose il generale, arrossendo leggermente; poi, rovistato nel suo scrittoio, consultò un libriccino e risultò che mi doveva circa centoventi rubli.
Per poter fare questi conti
riprese, serve cambiare i denari in talleri. Prendete per ora cento talleri, cifra tonda; il resto, naturalmente, non andrà perduto.
Presi il denaro in silenzio.
Per favore, non offendetevi per quanto vi ho detto, siete così permaloso... Se vi ho fatto un'osservazione, l'ho fatto, per così dire, allo scopo di mettervi in guardia e, certamente, con un certo diritto...
Ritornando a casa con i bambini per il pranzo, incontrai un'intera cavalcata: erano i nostri che andavano a visitare non so quali rovine... Due splendide carrozze e dei cavalli superbi!
Mademoiselle Blanche era in carrozza con Màrja Filìppovna e Polina; il francesino, l'inglese e il nostro generale andavano a cavallo. I passanti si fermavano a guardarli: l'effetto era raggiunto... ma il generale finirà male! Ho fatto il conto che, aggiungendo ai quattromila franchi che ho portato io quelli che evidentemente sono riusciti a procurarsi, avranno in tutto sette o ottomila franchi; troppo pochi per mademoiselle Blanche.
Mademoiselle Blanche sta anche lei nel nostro albergo, insieme con la madre; e ci sta anche, non so bene dove, il nostro francesino.
I camerieri lo chiamano monsieur le comte
, la madre di Blanche viene chiamata madame la comtesse
, e magari lo sono veramente comte
e comtesse
.
Sapevo già che monsieur le comte
non mi avrebbe riconosciuto quando ci saremmo trovati a tavola per il pranzo. Il generale, naturalmente, non pensò a presentarci o, almeno, a presentare me a lui; ma monsieur le comte
è stato in Russia e sa benissimo che persona poco importante sia quello che essi chiamano outchitel
[1]. Egli, d'altra parte, mi conosce molto bene. Ma, se devo essere sincero, anche a pranzo sono capitato senza essere invitato: sembra che il generale si fosse dimenticato di dare disposizioni al riguardo, se no senza dubbio mi avrebbero mandato a pranzare alla table d'hôte
. Mi presentai così, di mia iniziativa, tanto che il generale mi gettò un'occhiata poco soddisfatta. La buona Màrja Filìppovna mi indicò subito un posto, ma l'incontro con mister Astley mi tolse d'impiccio e, senza volerlo, feci la figura di appartenere alla loro società.
Avevo incontrato questo strano inglese per la prima volta in Prussia, in treno, dove sedevamo l'uno di fronte all'altro, quando ero in viaggio per raggiungere i nostri; poi mi ero imbattuto in lui entrando in Francia e, infine, in Svizzera; poi un paio di volte nel corso di quelle due settimane, ed ecco che ora lo avevo incontrato inaspettatamente a Roulettenburg. Non mi è mai capitato in tutta la vita di conoscere un uomo più timido, timido fino alla stupidità e lui, naturalmente, se ne rende conto perché stupido non lo è affatto. Del resto, è molto simpatico e tranquillo. Ero riuscito a farlo parlare durante il nostro primo incontro in Prussia. Mi disse che nell'estate era andato al Capo Nord e che aveva una gran voglia di visitare la fiera di Niginij-Nòvgorod.
Non so come abbia conosciuto il generale: mi sembra che sia innamoratissimo di Polina. Quando lei è entrata, il viso di lui si è fatto di bracie. Era molto contento che a tavola gli sedessi vicino, e mi sembra che mi consideri già come suo intimo amico.
A tavola il francesino si dava molte arie: è superbo e sprezzante con tutti. E a Mosca, mi ricordo, non faceva che bolle di sapone.
Parlò senza posa di finanze e di politica russa. Il generale, ogni tanto, osava contraddirlo ma con molta discrezione, unicamente quel tanto che bastava per non mettere a repentaglio la propria importanza.
Io ero in uno strano stato d'animo; si capisce, prima ancora di essere a metà del pranzo mi ero già posto la solita domanda di tutti i giorni: Perché continuo a frequentare questo generale e non l'ho piantato da un pezzo?
Di tanto in tanto guardavo Polina Aleksàndrovna, ma lei non badava assolutamente a me. Finii con l'irritarmi e decisi di diventare insolente.
E cominciai così che a un tratto, senza nessun motivo e senza essere interpellato, mi intromisi nella conversazione altrui.
Avevo voglia, soprattutto, di attaccarmi con il francesino. Mi rivolsi al generale e di colpo, a voce alta e mi sembra anche interrompendolo, osservai che quell'estate era diventato quasi impossibile per i russi mangiare alle tables d'hôte
. Il generale mi gettò uno sguardo stupito.
Se siete uno che appena si rispetti
continuai, immancabilmente vi sentirete insultare e dovrete sopportare le più umilianti mortificazioni. A Parigi, sul Reno, e persino in Svizzera, ci sono alle
tables d'hôte tanti di quei polaccuzzi e francesini che simpatizzano tra loro che non è possibile dire una parola, se siete russo.
Dissi questo in francese. Il generale mi guardò, incerto se andare in collera o solo meravigliarsi che io mi fossi lasciato andare fino a quel punto.
Vuol dire allora che da qualche parte qualcuno vi ha dato una lezione
disse il francesino, con incurante disprezzo.
Io, a Parigi, prima ho attaccato lite con un polacco,
gli risposi, poi con un ufficiale francese che aveva preso le parti del polacco. Ma poi una parte dei francesi cominciò a spalleggiare me quando raccontai loro che volevo sputare nel caffè di un monsignore.
Sputare?
chiese il generale con espressione incredula e guardandosi in giro. Il francesino, mi fissava con diffidenza.
Proprio così
risposi. Poiché per due giorni fui convinto che avrei dovuto fare un salto a Roma per le nostre faccende, mi recai negli uffici dell'ambasciata del Santo Padre a Parigi per far vistare il mio passaporto. Là mi ricevette un abatino sui cinquant'anni, secco e dalla fisionomia gelida che, dopo avermi ascoltato con cortesia ma con straordinaria freddezza, mi pregò di aspettare. Nonostante avessi fretta, naturalmente mi sedetti ad aspettare, tirai fuori l'
Opinion Nationale e cominciai a leggere alcune tremende invettive contro la Russia. Intanto avevo udito che qualcuno, dalla stanza vicina, era entrato dal monsignore e vidi il mio abate inchinarsi. Mi rivolsi a lui con la preghiera di prima: in tono ancora più asciutto, mi pregò nuovamente di attendere. Dopo un po' entrò un altro sconosciuto ma per affari, un austriaco; gli diedero subito ascolto e lo accompagnarono di sopra. Allora cominciai a irritarmi, mi alzai mi avvicinai all'abate e gli dissi in tono deciso che, visto che il monsignore riceveva, poteva sbrigare anche me. D'improvviso l'abate si spostò in preda a un insolito stupore. Non poteva assolutamente capire come mai un russo qualunque avesse l'ardire di paragonarsi ai visitatori di monsignore. Con tono insolente, come se provasse un vero piacere nel potermi offendere, mi squadrò dalla testa ai piedi, esclamando:
Possibile che voi pensiate che monsignore lasci il suo caffè per voi? Allora presi a gridare, ma ancora più forte di lui:
Sappiate che nel caffè del vostro monsignore io ci sputo! Se non la fate immediatamente finita con il mio passaporto, andrò io stesso da lui...
Come! proprio mentre c'è da lui un cardinale! urlò l'abatino, allontandosi da me con orrore: poi si precipitò alla porta e incrociò le braccia facendo vedere che sarebbe morto piuttosto di lasciarmi passare. Allora gli risposi che io ero un eretico e un barbaro,
que je suis herétique et barbare", e che di tutti quei vescovi, arcivescovi, cardinali, monsignori eccetera eccetera, me ne infischiavo altamente. In una parola, gli feci capire che non avrei ceduto. L'abate mi lanciò un'occhiata piena di odio sconfinato, mi strappò di mano il passaporto e lo portò di sopra.
Dopo un minuto era già vistato. Eccolo, signori, volete vederlo?" Tirai fuori di tasca il passaporto e mostrai il visto di Roma.
Voi però...
cominciò il generale...
Vi ha salvato il fatto che vi siete dichiarato eretico e barbaro
osservò ridendo il francesino. Cela n'était pas si bête!
[2] Così dunque si devono trattare i nostri russi? Loro se ne stanno qui tranquilli, non osano nemmeno fiatare e sono magari anche pronti a negare di essere russi. Per lo meno, a Parigi, nel mio albergo, avevano cominciato a trattarmi con molto più riguardo da quando avevo raccontato a tutti la mia lite con l'abate. Un grosso
pan [3] polacco, il più ostile verso di me alla
table d'hôte, era passato in seconda linea. I francesi sopportarono addirittura che io raccontassi di aver visto due anni prima un uomo contro il quale un cacciatore francese aveva sparato nel '12, soltanto per scaricare il fucile. Quell'uomo era allora un ragazzino di soli dieci anni e la sua famiglia non aveva fatto in tempo a fuggire da Mosca.
Questo non è possibile!
esclamò infuriato il francesino. Un soldato francese non spara contro un ragazzo!
Però la cosa è successa
ribattei io. Me l'ha raccontata un rispettabile capitano a riposo, e io stesso ho visto sulla sua guancia la cicatrice lasciata dal proiettile.
Il francesino si mise a parlare in fretta e senza più smetterla.
Il generale stava già per spalleggiarlo, ma io gli raccomandai di leggere, per esempio, qualche brano dalle Memorie
del generale Perovskij, che nel '12 era stato prigioniero dei francesi. Infine, Màrja Filìppovna si mise a parlare di non so più che cosa per cambiare discorso. Il generale era molto scontento di me, perché io e il francese avevamo già iniziato ad alzare la voce. Ma a mister Astley mi sembrò che fosse molto piaciuta la mia discussione con il francese; alzandosi da tavola mi invitò a bere un bicchiere di vino. La sera mi riuscì, com'era da aspettarsi, di poter parlare per un quarto d'ora con Polina Aleksàndrovna. La nostra conversazione avvenne durante la passeggiata. Tutti erano andati nel parco, verso il Casinò. Polina si era seduta su una panchina, di fronte alla fontana, e aveva lasciato che Nàdenka andasse a giocare non lontano con altri bambini. Anch'io avevo lasciato andare Misha alla fontana e cosi rimanemmo finalmente soli.
Si capisce che iniziammo a parlare di affari. Polina andò addirittura in collera quando le consegnai in tutto settecento gulden
. Era sicura che gliene avrei portati da Parigi, in pegno dei suoi brillanti, almeno duemila e anche di più.
Ho bisogno di denaro, a ogni costo
mi disse, e occorre trovarlo. Se no, sono perduta.
Cominciai a interrogarla su quello che era successo durante la mia assenza.
Nient'altro che questo: abbiamo ricevuto da Pietroburgo due notizie, la prima che la nonna stava molto male e, dopo due giorni, che sembrava fosse già morta. Queste notizie ci sono arrivate da Timoféj Petrovitch
aggiunse Polina, e lui è un uomo molto preciso. Aspettiamo ora la notizia definitiva.
Così, qui, sono tutti in attesa?
chiesi.
Naturalmente, tutto e tutti; da sei mesi sperano soltanto in questo.
Anche voi ci sperate?
domandai.
Ma il fatto è che io non le sono affatto parente, poiché sono solo la figliastra del generale. Ma so con certezza che si ricorderà di me nel testamento.
Credo che anche a voi toccherà moltissimo
risposi confermando.
Si, mi voleva bene; ma perché voi lo credete?
Ditemi,
le risposi con un'altra domanda, il nostro marchese è anche lui dentro a tutti i segreti di famiglia?
Ma voi perché ve ne interessate?
chiese Polina, lanciandomi uno sguardo duro e severo.
Sfido io! Se non mi sbaglio, il generale è già riuscito a farsi prestar denaro da lui.
L'avete indovinata!
"Credete che gli avrebbe dato del denaro, se non avesse saputo della nonna? Avete notato che lui, a tavola, per ben tre volte, parlando della nonna l'ha chiamata 'babùlenka,' la 'baboulinka' [4]? Che razza di rapporti confidenziali e amichevoli!
Sì, avete ragione. Non appena saprà che mi toccherà qualcosa per testamento, subito chiederà la mia mano. Era questo che volevate sapere?
Solo adesso chiederà la vostra mano? Credevo che l'avesse fatto da un pezzo...
Sapete benissimo che non è così!" esclamò con rabbia Polina.
Dove avete incontrato questo inglese?
aggiunse, dopo un minuto di silenzio.
Ero certo che ora avreste chiesto di lui.
E le raccontai dei miei precedenti incontri con mister Astley.
E' timido e si accende facilmente: naturalmente, sarà già innamorato di voi!
Sì, è innamorato di me
rispose Polina.
Ed è, senza dubbio, dieci volte più ricco del francese. Ma il francese possiede poi veramente qualche cosa? Non c'è alcun dubbio al riguardo?
Non c'è alcun dubbio. Possiede non so quale 'château'. Ancora ieri il generale ne parlava con sicurezza. Ebbene, siete soddisfatto?
Io, al vostro posto, sposerei senz'altro l'inglese.
Perché?
chiese Polina.
Il francese è più bello, ma più vile; l'inglese è, soprattutto, onesto, e poi dieci volte più ricco
risposi seccamente.
Si, però il francese è marchese e è più intelligente
ribatté lei con la massima calma.
Ma è proprio vero?
continuai, con il tono di prima.
Verissimo!
A Polina le mie domande dispiacevano tremendamente, e mi accorgevo che voleva farmi irritare con il tono e la stranezza delle sue risposte; e glielo dissi subito.
Sapete, mi diverte proprio vedere come vi infuriate. Non fosse altro che per il fatto che vi permetto di rivolgermi simili domande e di fare simili congetture, dovete pagarmela.
Mi ritengo in pieno diritto di farvi qualsiasi domanda,
le risposi con tutta calma, precisamente perché sono pronto a pagarle come volete, e la mia vita adesso non la stimo proprio niente.
Polina scoppiò a ridere.
L'ultima volta, sullo Schlangenberg, mi avete detto che eravate pronto, alla mia prima parola, a buttarvi giù a capofitto e mi sembra che là ci sia un salto di circa mille piedi. Un bel giorno pronuncierò questa parola solo per vedere come pagherete, e siate pur certo che non cambierò idea. Voi mi siete odioso proprio perché vi ho concesso tante libertà e ancora più odioso perché mi siete necessario. Ma, fino a che mi siete necessario, bisogna che vi tenga da conto.
Fece per alzarsi. Parlava con voce irritata. Negli ultimi tempi concludeva sempre i suoi colloqui con me con irritazione e astio, sì, con vero astio!
Mi permettete di chiedervi che cos'è questa mademoiselle Blanche?
chiesi, non volendo lasciarla andare via senza una spiegazione.
Lo sapete benissimo che cos'è mademoiselle Blanche. Niente di nuovo si è aggiunto da allora. Mademoiselle Blanche diventerà senza dubbio generalessa, naturalmente se le voci sulla morte della nonna verranno confermate, poiché mademoiselle Blanche, sua madre e il marchese, 'cousin' di terzo grado, sanno benissimo che noi siamo rovinati.
E il generale è proprio innamorato?
"Ma ora non si tratta di questo. Ascoltate e tenete bene in mente:
prendete questi settecento fiorini, andate a giocare, e vincete alla roulette quanto più potete; ho bisogno di denaro, a ogni costo." Detto questo, chiamò Nàdenka e andò verso il Casinò dove si riunì a tutta la nostra compagnia. Io girai a sinistra per il primo sentiero che mi capitò, soprappensiero e meravigliato.
Quell'ordine di andare alla roulette mi aveva fatto l'effetto di un pugno in testa. Cosa strana: avevo di che riflettere e, invece, mi sprofondai nell'analisi dei miei sentimenti per Polina. In verità in quelle due settimane di assenza mi ero sentito meglio di adesso, giorno del mio ritorno, anche se durante il viaggio avevo sofferto di una tremenda nostalgia di lei, mi ero agitato come un ossesso e persino in sogno l'avevo continuamente davanti a me. Una volta (successe in Svizzera), addormentatomi in treno, mi ero messo, sembra, a parlare ad alta voce con Polina, facendo ridere tutti i miei compagni di viaggio. E ancora una volta, adesso, mi chiesi se la amavo. E ancora una volta non seppi rispondere, cioè, per meglio dire, per la centesima volta risposi a me stesso che la odiavo. Sì, lei mi era odiosa. C'erano dei momenti (e precisamente ogni volta che concludevamo i nostri colloqui) che avrei dato metà della mia vita per strozzarla. Giuro che se fosse stato possibile affondare lentamente nel suo petto un acuminato coltello, credo che lo avrei afferrato con gioia. E nello stesso tempo giuro, su tutto quanto ho di più sacro, che se sullo Schlangenberg, la vetta di moda, lei mi avesse detto: Buttatevi giù!
l'avrei fatto immediatamente e persino con voluttà. Lo sapevo. In un modo o nell'altro, la cosa doveva decidersi. Tutto questo lei lo capisce perfettamente, e il pensiero che io sia convinto sinceramente e profondamente della sua inaccessibilità per me, dell'impossibilità di realizzare le mie fantasie, questo pensiero, sono convinto, le procura un godimento straordinario; in caso contrario come potrebbe lei, tanto intelligente e prudente, essere con me in rapporti così sinceri e familiari? Mi sembra che fino ad ora mi abbia considerato come quell'antica imperatrice che si spogliava davanti al suo schiavo, non ritenendolo un uomo. Sì, molte volte non mi ha considerato un uomo...
Comunque avevo avuto da lei un incarico: vincere alla roulette a qualunque costo. Non avevo tempo di pensare: perché bisogna vincere con tanta urgenza e quali nuove considerazioni saranno nate in quel cervello eternamente in azione per i suoi calcoli?
Oltre a questo era evidente che in quelle due settimane si era accumulato un sacco di fatti nuovi dei quali non avevo ancora idea. Bisognava indovinare tutto, vedere bene in fondo a ogni cosa e il più presto possibile. Ma per il momento non avevo tempo:
dovevo vincere alla roulette.
CAPITOLO II.
Confesso che la cosa mi riusciva spiacevole; nonostante avessi ormai deciso di giocare, non volevo assolutamente farlo per gli altri. La cosa, anzi, mi sconcertava non poco, ed entrai nelle sale da giuoco con una sensazione molto fastidiosa. Fin dalla prima occhiata, niente là dentro mi piacque. Non posso soffrire la servilità dei feuilletons
dei giornali di tutto il mondo, e soprattutto quella dei nostri giornali russi, nei quali quasi ogni primavera gli articolisti trattano due argomenti: innanzi tutto la straordinaria grandiosità e lo sfarzo delle sale da giuoco delle città sul Reno dove c'è la roulette, e in secondo luogo i mucchi d'oro che, a sentire loro, giacerebbero sui tavoli. E sì che non sono pagati per questo: scrivono queste cose così, con una disinteressata compiacenza. Nessuna grandiosità e nessuno sfarzo in queste sudicie sale; e, quanto all'oro, non solo non giace a mucchi sui tavoli, ma è tanto se lo si vede qualche volta comparire. Naturalmente può accadere nel corso della stagione che capiti qualche tipo originale, o un inglese o un qualche asiatico, un turco, come quest'estate, che di colpo perda o guadagni moltissimo; gli altri giocatori puntano piccole somme e, mediamente, sui tavoli si trova sempre poco denaro.
Appena entrai nella sala da giuoco (era la prima volta nella mia vita) rimasi ancora un po' di tempo senza decidermi a giocare. E per di più la folla mi spingeva. Ma anche se fossi stato solo, anche allora, penso, me ne sarei andato subito e non avrei cominciato a giocare. Confesso che il cuore mi batteva forte e che avevo perso tutto il mio sangue freddo; sapevo con certezza, e da molto tempo lo avevo deciso, che da Roulettenburg non me ne sarei andato così, semplicemente; nel mio destino sarebbe sopravvenuto qualcosa di radicale e di definitivo. Così deve essere e così sarà. Per quanto sia ridicolo che io mi aspetti tanto dalla roulette, mi sembra ancora più ridicola l'opinione comune, accettata da tutti, che è assurdo e stupido aspettarsi qualcosa dal gioco. Perché il gioco dovrebbe essere peggiore di qualsiasi altro mezzo per far quattrini come, per esempio, del commercio?
Vero è che, su cento, uno solo vince, ma a me che importa?
Comunque decisi, per prima cosa, di osservare tutto attentamente e di non cominciare, per quella sera, niente di serio. Quella sera, se doveva succedere qualcosa, sarebbe successa come imprevisto, per caso; così avevo deciso. Inoltre era necessario che imparassi il gioco poiché, nonostante le mille descrizioni della roulette che io avevo sempre letto con avido interesse, non avevo capito assolutamente niente del suo meccanismo fino a che non avevo visto io stesso.
Innanzi tutto, ogni cosa mi sembrò così lurida, moralmente brutta e lurida! E non parlo di quelle facce avide e inquiete che a decine, anzi a centinaia, affollano i tavoli da giuoco. Non vedo proprio niente di sudicio in quel desiderio di guadagnare più presto e di più; e ho sempre ritenuto sciocco il pensiero di un moralista sazio e ben provvisto che, alla giustificazione di un tale che si fanno solo piccole puntate
rispose: Tanto peggio perché il guadagno è misero
. Come se guadagno misero e guadagno consistente non fossero la stessa cosa. E' solo questione di proporzione. Quello che per Rotschild è una miseria, per me è una ricchezza; e, in quanto al fatto del guadagno e della vincita, gli uomini non solo alla roulette, ma dappertutto e sempre, non fanno che strapparsi o vincersi l'un l'altro qualche cosa. Che, in generale, lucro e guadagno siano sporchi, è un'altra faccenda, ma non è qui il caso di risolverla. Dal momento che anch'io ero dominato al massimo dal desiderio di vincere, così quell'interesse e quell'interessata bruttura, mi erano, se volete, entrando nella sala, in certo qual modo più familiari e più vicini. Una delle cose più simpatiche è quando due persone non fanno tra loro complimenti, ma agiscono in tutta franchezza e con il cuore in mano. E perché, allora, ingannare se stessi? E' l'occupazione più insulsa e più imprudente che ci sia! Particolarmente odiosa, fin dal primo sguardo, in tutta quell'accozzaglia di gente da roulette, era quell'aria di rispetto per la propria occupazione, quella serietà e direi quasi riverenza con cui tutti stavano intorno ai tavoli. Ecco perché qui si fa una netta distinzione tra il gioco detto di mauvais genre
e quello permesso alla gente come si deve. Esistono due giuochi: uno da gentiluomo e l'altro plebeo, interessato, il giuoco, insomma, che fa qualsiasi canaglia. Qui la distinzione è molto rigida, ma com'è vile, in fondo, questa distinzione! Il gentiluomo, per esempio, può puntare cinque o dieci luigi, raramente di più; del resto, può anche puntare un migliaio di franchi, se è molto ricco, ma, in sostanza, per il gioco in se stesso, solo per divertimento, solo per osservare il meccanismo della vincita o della perdita; ma non deve affatto interessarsi alla vincita in sé. Se vince può, per esempio, ridere forte, può fare a qualcuno di quelli che gli stanno intorno una sua osservazione, può persino fare un'altra puntata e raddoppiare ancora, ma soltanto per curiosità, per osservare le chances
, per fare dei calcoli e mai per il volgare desiderio di vincere. In una parola, tutti quei tavoli da giuoco, le roulettes e il trente et quarante
, deve considerarli solo come un passatempo, organizzato esclusivamente per il suo diletto.
Il profitto e il trucco sui quali è fondato e organizzato il banco, egli non deve neanche sospettarli. E sarebbe addirittura assai bello, per esempio, che gli sembrasse che tutti gli altri giocatori, tutta quella gentucola che trema per un gulden
, fossero dei ricconi e dei gentiluomini suoi pari e che giocassero unicamente per distrazione e per passatempo. Una simile assoluta ignoranza della realtà e quell'ingenuo modo di considerare gli uomini sarebbero certo estremamente aristocratici. Ho visto come molte mammine spingevano avanti innocenti e raffinate misses
di quindici o sedici anni, loro figliole, e come, fornitele di alcune monete d'oro, insegnavano loro come giocare. La signorina, sia che vincesse, sia che perdesse, immancabilmente sorrideva e si allontanava molto soddisfatta. Il nostro generale si era accostato al tavolo con aria grave e dignitosa; un servitore si era precipitato a porgergli una sedia, ma egli non gli aveva badato; con grande lentezza estrasse il borsellino, con altrettanta lentezza ne tirò fuori trecento franchi d'oro, li puntò sul nero e vinse. Non ritirò la vincita e la lasciò sul tavolo. Usci di nuovo il nero; anche questa volta non prese il denaro e, quando la terza volta venne fuori il rosso, aveva perso di colpo milleduecento franchi. Si allontanò con un sorriso, senza perdere niente della sua dignità. Sono convinto che si sentiva il cuore stretto e che, se la posta fosse stata due o tre volte più grossa, non avrebbe saputo restare indifferente e si sarebbe palesata la sua emozione.
Del resto, in mia presenza, un francese guadagnò e poi perdette una trentina di migliaia di franchi allegramente e senza dimostrare nessun turbamento. Il vero gentiluomo, anche se perdesse tutte le sue sostanze, non deve agitarsi. I denari devono essere a tal punto più in basso della sua qualità di gentiluomo da non mettere in conto che egli se ne dia pensiero. E' naturale che sarebbe molto aristocratico non notare affatto tutto il sudiciume di quella marmaglia e di quell'ambiente. A volte, però, non è meno aristocratico il procedimento inverso, di osservare, cioè di guardare e anzi di scrutare a fondo, sia pure attraverso l'occhialino, tutta quella marmaglia; ma soltanto considerando quella folla e quel sudiciume come uno svago di tipo particolare, come uno spettacolo organizzato per il divertimento dei gentiluomini. Potete anche voi farvi pressare in mezzo a questa folla, ma guardarvi intorno con l'assoluta convinzione di essere semplicemente un osservatore e di non appartenervi per niente. Del resto, osservare con troppa insistenza, non è molto conveniente:
neppure questo è da gentiluomo, perché, in ogni caso, lo spettacolo non merita una grande e troppo intensa osservazione. E, in genere, sono pochi gli spettacoli degni di un'attenta osservazione da parte di un gentiluomo! Comunque a me personalmente è sembrato che tutto ciò meritasse un'attentissima osservazione, specialmente per chi sia venuto non solo per osservare, ma sinceramente e coscienziosamente si annoveri tra quella canaglia. Per quanto si riferisce alle mie intime convinzioni morali, esse naturalmente non trovano posto nelle mie attuali considerazioni. Sia pure così: lo dico per liberarmi di coscienza. Ma una cosa voglio notare: che, in questi ultimi tempi, mi è sembrato terribilmente odioso rapportare le mie azioni e i miei pensieri a un qualsiasi metro morale... Ben altro mi dominava...
La gentaglia gioca veramente in maniera assai sporca. Non sono nemmeno molto alieno dal pensare che qui al tavolo da gioco accadano molte delle più comuni ruberie. I croupiers
che, seduti alle estremità del tavolo, controllano le puntate e pagano le vincite, hanno un lavoro tremendo. Ma che razza di canaglie sono pure loro! Per la maggior parte sono francesi. Del resto, io qui osservo e noto non certo per descrivere la roulette; cerco di ambientarmi per me stesso, per sapere come regolarmi nel futuro.
Ho osservato, per esempio, che non c'è niente di più comune di una mano ignota che si allunghi improvvisamente da dietro il tavolo e vi prenda ciò che avete guadagnato. Comincia una discussione, spesso si alza la voce ma vedete un po' se siete capace di dimostrare, trovando dei testimoni, che la puntata è vostra!
All'inizio tutto questo era per me arabo; indovinavo e distinguevo solo, alla bell'e meglio, che le puntate venivano messe sui numeri, sul pari o sul dispari, e sui colori. Del denaro di Polina Aleksàndrovna decisi di rischiare, per quella sera, soltanto cento gulden
. Il pensiero che mi preparavo a giocare non per me mi sconcertava. La sensazione era incredibilmente sgradevole e provai il desiderio di liberarmene al più presto. Mi sembrava sempre che, cominciando a giocare per Polina, avrei compromesso la mia personale buona sorte. E possibile che non ci si possa avvicinare a un tavolo da giuoco senza essere subito contagiato dalla superstizione? Cominciai con il tirare fuori cinque federici d'oro [5], cioè cinquanta gulden
e li puntai sul