La fonte di Vahalon
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Anteprima del libro
La fonte di Vahalon - Raffaele Della Corte
Ringraziamenti
La fonte di Vahalon
Libro primo
Raffaele Della Corte
Romanzo Fantasy
Seconda edizione
Rivisitata e ampliata
L’autore:
Raffaele Della Corte nasce il 26 gennaio 1984 in una piccola cittadina in provincia di Caserta (Campania), dove vive un’infanzia felice in compagnia dei suoi fratelli. All’età di dieci anni, si trasferisce con tutta la famiglia in Emilia Romagna, nella tranquilla città di Carpi, dove tuttora vive e lavora. Cresciuto sognando le avventure del film La storia infinita
, si appassiona, fin da subito, al mondo Fantasy. Diventa un vero sognatore dalla lungimirante immaginazione, grande stimatore di autori come Tolkien, Jules Verne, Wilbur Smith, Asimov e Stephen King. Quest’ultimo diventa il suo scrittore preferito, di cui colleziona e legge ogni capolavoro. Ispirato dalla saga Fantasy-Western-Horror La torre nera
, comincia a scrivere storie intricate e piccoli racconti.
Questo libro è frutto dell’immaginazione dell’autore, pertanto tutti i diritti sono di sua esclusiva proprietà.
Nessuno, e in nessun modo, potrà utilizzare l’opera o parte di essa senza l’autorizzazione scritta dell’autore.
Per informazioni contattare: [email protected]
oppure collegarsi alla pagina ufficiale di Facebook.
Prima edizione: Gennaio 2015
Seconda edizione: Settembre 2015
Editing e correzione bozze a cura di Luisa Lanari, a cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti :
www.stra-ordinariafollia.luisalanari.it
www.luisalanari.it
email: [email protected] – [email protected]
Volevo inoltre esprimere tutta la mia gratitudine nei confronti di Stefano Contini e Simona Alari che, con pazienza e dedizione, hanno curato la parte grafica della copertina.
Introduzione dell’autore
Credo che molti di voi abbiano visto, almeno una volta, il film La storia infinita
; io sono cresciuto sognando di vivere quella storia, credo di averlo visto decine e decine di volte. Probabilmente alcuni di voi mi capiranno, ero letteralmente incantato dal mondo di Fantàsia, da piccolo sognavo di volare con Falkor (il mitico cane volante dalla risata prorompente), mi angosciavo al fianco di Bastian e soffrivo insieme ad Atreyu. Era semplicemente bellissimo… d’altronde ero solamente un bambino, e in quanto tale, mi entusiasmavo con poco.
Da grande, finalmente, mi sono deciso ad acquistare per la prima volta il libro di Michel Ende, e per tutto il tempo della lettura sono tornato fanciullo, ho rivissuto quei felicissimi momenti della mia infanzia. Ero pienamente soddisfatto e, con l’impeto del momento, mi sono messo alla ricerca di una nuova storia che potesse attirare la mia curiosità, ho cominciato a leggere di tutto, senza un’idea precisa: Asimov, Wilbur Smith, Valerio Massimo Manfredi, Ken Follet, Dan Brown, Grisham e tanti altri. Leggevo e cambiavo con la stessa ossessiva voracità. Tanto per essere chiaro, non sto dicendo che quelli sopra citati siano pessimi scrittori, Asimov e Wilbur Smith sono tuttora tra i miei autori preferiti, ma cercavo lo scrittore che mi catturasse.
Quando ho preso in mano i libri di Tolkien la mia speranza si è riaccesa, le avventure dei due Hobbit più famosi, Bilbo prima e Frodo dopo, mi hanno letteralmente affascinato; poi, anche quella storia è terminata e ho ripreso la ricerca. Mi sono buttato sul classico e, con mio notevole stupore, ho trovato un grande appagamento nelle storie dell’intramontabile Jules Verne, uno scrittore decisamente senza tempo, il mio libro preferito è, senza dubbio, Viaggio al centro della terra
ma ho trovato piacevole ogni sua singola scrittura.
Quasi per caso, un giorno di molti anni fa, ho vinto un libro di Stephen King: Cell
. Un libro che a molti amanti del genere non è piaciuto; beh, posso dirvi che l’ho trovato bellissimo, l’ho letto tutto d’un fiato e, da quel momento, ho cominciato ad acquistare e leggere ogni suo scritto. Stephen King è diventato l’autore che tanto cercavo.
Normalmente uno scrittore aspetta l’ispirazione e, quando questa arriva, tutti i suoi pensieri vengono riversati su un foglio bianco, oppure dietro lo schermo di un computer.
Perlomeno questo è quello che ho sempre pensato. Tante volte mentre leggevo Stephen King, mi sono chiesto dove e in quale momento un genio di questo calibro abbia potuto partorire opere come IT
, Shining
, Il miglio verde
, L’ombra dello scorpione
, The dome
, o una biblica storia di oltre 3000 pagine, dove racconta il viaggio di quel magnetico pistolero che non distoglie mai lo sguardo dalla sua meta: La Torre Nera
. Sarebbe inutile elencarvi tutti i miei preferiti perché, a mio avviso, ha scritto decine e decine di autentici capolavori, ma il connubio Fantasy-Western-Horror de La Torre Nera
rimane assolutamente senza eguali.
Ho letto e riletto molte volte questa storia fantastica e, quando ho scoperto che l’autore ha impiegato oltre un trentennio per scrivere gli otto volumi che la compongono, sono rimasto letteralmente stupito. Qualche anno fa, ho letto di una signora anziana, oramai ottantenne, che pregava King di raccontarle il finale de La Torre Nera
, perché probabilmente non avrebbe vissuto abbastanza da attendere la fine della storia; un altro suo estimatore, oramai nel braccio della morte, chiedeva la medesima cosa, promettendo di portare quel segreto nella tomba con sé. Questo aneddoto mi ha fatto molto riflettere ma, soprattutto, mi ha portato a scrivere questo libro.
Nel mio caso, l’ispirazione è sempre arrivata nel sonno. La maggior parte delle persone non ricorda, o dimentica velocemente, i propri sogni.
Io ricordo perfettamente molti dei miei sogni, spesso ho nella mente così tanti particolari da poterci scrivere una storia. Mi è capitato di raccontarne qualcuna ad amici e, a volte, mi sono sentito rispondere: «Interessante, scrivici un libro!», ovviamente non l’ho mai preso sul serio, per me era soltanto un gioco.
Come dicevo, quasi per gioco ho cominciato a buttare giù qualche pagina, per lo più linee guida o piccoli racconti, poi arrivava un nuovo sogno e lasciavo quello vecchio per scrivere qualcos’altro.
Insomma, per tanto tempo ho sprecato pagine, storie iniziate e mai finite.
Il mio pensiero era: Se King ci ha messo oltre trent’anni, perché io non posso riprendere le mie storie quando avrò l’ispirazione, magari tra qualche mese o addirittura tra qualche anno?
. Tutto questo mi dava fiducia e, soprattutto, mi ispirava positività.
Con il passare degli anni, ho cominciato a leggere anche altri generi. Per pura curiosità e, con non poche difficoltà, mi sono dedicato a qualche intricata lettura che spiegasse le fondamenta dei sogni umani; premetto che non è proprio il mio genere, ma ho cercato di carpire cosa ci fosse alla base di tutto ciò. Nonostante tutti i pensieri filosofici che ruotano intorno a questo mondo, posso riassumere il tutto con semplici parole. Normalmente, durante il sonno il cervello elabora una serie di informazioni ed emozioni. Nella maggior parte dei casi è una semplice alterazione di storie, suoni e colori che abbiamo vissuto o che vorremmo vivere nella vita reale, che vengono modificate dal nostro cervello in base ai nostri desideri o paure. In parole povere, sogniamo quello che siamo, quello che percepiamo; insomma, i nostri sogni sono le proiezioni delle nostre emozioni.
Sappiate che questo è solo il mio pensiero e, giusto o sbagliato che vi possa sembrare, prendetelo per quello che è. Detto ciò, ho cominciato a credere che tutto quello che sognavo avesse un legame logico con quella che era la mia vita: un bel film che avevo visto e di cui non ricordavo la storia, un qualche libro che avevo letto, o una storia raccontata da qualche conoscente. In fondo, il nostro cervello è in grado di immagazzinare informazioni anche quando non ce ne rendiamo conto. Oramai era un dato di fatto e lo avevo accettato.
Incuriosito, ho cominciato a cercare su internet qualche dettaglio o qualche nome delle storie prodotte dalla parte onirica del mio cervello. Ero sicuro che mi sarebbe apparsa la trama di qualche film sconosciuto, o di qualche libro che potevo aver letto da giovane. Sorpreso, ho dovuto constatare che Google non mi ha fornito nessun dettaglio degno di nota.
Questo ultimo riscontro mi ha convinto che il tutto fosse frutto della mia immaginazione notturna
.
Ero deciso a mettere alcuni racconti nero su bianco: nella peggiore delle ipotesi avrei sprecato alcune ore della mia vita per scrivere una storia che nessuno avrebbe mai letto.
Come a tutti, anche a me mancava il tempo libero. Il lavoro, la casa, la famiglia e gli amici mi occupavano l’intera giornata; mi ripromettevo di farlo ma non trovavo mai il tempo.
Quando, nel giugno del 2014 ho avuto un incidente che mi ha obbligato a casa per oltre 80 giorni, mi sono reso conto che era l’occasione che stavo aspettando.
Non fraintendetemi, non voglio di certo affermare che qualcuno dall’alto dei cieli abbia percepito la mia situazione e mi abbia procurato il tempo (ovviamente sorvolando sul modo in cui possa averlo fatto), ma una volta ho visto un film, credo si chiamasse Un’impresa da Dio
, in cui ho ritrovato una conversazione che ha ampliato la mia percezione della realtà. In questa scena, la protagonista si ritrova a parlare con quello che dovrebbe rappresentare la parte terrena del Creatore e, davanti alla sfiducia della donna, l’uomo
le dice che, a chi chiede coraggio Dio non dona coraggio, ma la possibilità di dimostrare coraggio; a chi chiede pazienza, Dio non dona pazienza ma la possibilità di dimostrarla; e infine, a chi chiede una famiglia, Dio non dona una famiglia, ma la possibilità di amare. Non voglio addentrarmi troppo sul discorso religioso e, soprattutto, non sto cercando di convincervi di nulla, ma rileggete queste tre righe e rifletteteci con una mente aperta: non vi sembrano parole semplici ma potenti? A volte la gente dimentica del potere che possiede, si aspetta un aiuto o un segno, quando tutto quello che cerchiamo sta dentro di noi. Detto ciò, non credo che il destino abbia voluto dirmi che io sia o sarò mai uno scrittore di successo, anzi, probabilmente non lo diventerò mai; ma non è questo il punto, dico solamente che mi è stata data la possibilità di seguire un sogno, in questo modo perfino la convalescenza mi è sembrata meno drammatica di quello che realmente era.
Avevo una sola mano a disposizione e, seduto sui prati della residenza dei miei genitori, coccolato dal rumore del canale che vi scorreva davanti, ho finalmente messo per iscritto quello che da anni continuavo a sognare. Ho passato l’intera estate a scrivere e fantasticare con i miei personaggi.
Mi preme sfatare subito un classico da libreria: gli esseri alati di Vahalon non sono angeli, ma creature di pura fantasia.
Spero vivamente di riuscire a descrivere la mia storia, il mio mondo e i miei personaggi, così come li vedo nella mia mente; qualora non dovessi riuscirci, vi invito, mentre leggete, a immaginare ogni singolo particolare (e perché no, usare tutta la vostra fantasia), per creare nella mente il fantastico Regno di Vahalon. Chissà che, magari, risulti ancora più bello di come l’ho sognato io…
Questa è la prima vera storia che ho iniziato e, finalmente, terminato.
Concludo dicendo che mi è piaciuto veramente tanto scrivere di VAHALON e, senza nessuna pretesa , spero che a voi piaccia altrettanto leggerlo.
1 - Sogni a occhi aperti
Sdraiata a pancia in su, la piccola Kendra osservava quel cielo notturno che tante volte le era apparso in sogno. Un cielo che diventava nero lucido con sfumature ondulanti verde smeraldo, quando di giorno il sole aveva la meglio sul resto del cosmo, ed era bellissimo.
Non si stancava mai di osservarlo, la faceva sentire libera, viva. Più lo ammirava e più veniva attratta da quello splendore, tanto bello quanto lontano. Quelle scie smeraldo la ipnotizzavano a ogni movimento, passava intere ore sdraiata a pensare tutte le volte che poteva scappare da quella cella che era la sua vita.
Tutto sommato, era stata una bella serata: si erano impegnati tutti al massimo per renderla speciale, soltanto per lei.
Aveva partecipato persino il vecchio Moki. Lui di rado usciva dal suo capanno per partecipare agli eventi della Borgata, ma quello era un giorno speciale e le vecchie mura di quella sua antica dimora non si sarebbero certo amareggiate per la sua mancanza.
Come tutte le lune, la festa si era svolta nel patio, così chiamavano il prato circolare dietro il grande capanno di famiglia, dove enormi querce bianche facevano da perimetro. Oltre i grandi tronchi bianchi, un fitto bosco si estendeva a perdita d’occhio.
A poche decine di metri dal patio scorreva il Manoah, il grande e vecchio fiume che donava prosperità e salute all’intera Borgata, d’altronde avevano la fortuna di essere tra le famiglie più rispettate del posto. Egli offriva acqua limpida e cristallina ogni giorno e ottimo pesce sempre freschissimo.
Lungo le sue rive, una folta distesa di tavoli ricchi di ogni prelibatezza: pesce freschissimo tagliato in spesse porzioni e adagiato su grandi foglie di betulla, la sua carne rosa spiccava in mezzo a tutte quelle bontà; pane ben lievitato con condimenti di ogni genere, da quello alla vaniglia per placare i gusti dei più piccini, fino a quello con spezie piccantissime, per appagare i palati esigenti degli anziani, molte pagnotte erano ancora calde e il loro profumo inondava le narici da molti metri di distanza; le verdure abbondavano su ogni tavolo, alte ciotole marroni contenevano insalate umide e ben lavate; i piatti più bassi erano ricchi di sottili fette di profumato formaggio casereccio, ortaggi affettati e cotti alla perfezione. Ben disposte tra le cibarie, enormi brocche di terracotta, contenevano i più disparati sciroppi e infusi della Borgata. Ovviamente, anche se un po’ in disparte, non potevano mancare i grandi barili di legno tanto amati dai più anziani. I quattro fusti di legno di faggio erano accuratamente allineati nella parte esterna del patio e contenevano grandi quantità di distillato di ortica, o come preferivano chiamarlo quando erano brilli, il nettare divino.
Il centro del patio era sgombero per dar sfogo alle danze, che da lì a qualche ora, avrebbero fatto da intrattenimento.
L’aria era frizzante e si godeva una leggera brezza che rendeva l’atmosfera piacevole e festosa.
Gli addobbi non mancavano, venivano sprecati in grande quantità durante queste ricorrenze: colori sgargianti e festoni ricoprivano l’intera area; al centro del patio, un grande striscione riportava la scritta: La decima luna sia con te, Kendra
, le grandi lettere gialle risaltavano alla perfezione sul fondo rosso del fascione.
I tavoli, così come i supporti del festone principale, erano realizzati e scolpiti di uno splendido legno scuro con naturali venature chiare, i mastri operai erano dei veri maghi in questo genere di attività.
Per gran parte della giornata avevano mangiato, bevuto e danzato fino al calare del sole, era una Borgata ricca e ogni occasione era perfetta per esternarlo. Il rito della decima luna richiamava sempre una grande folla, non servivano inviti in quelle ricorrenze, ma tutti gli abitanti della Borgata erano i benvenuti, molti di essi erano passati almeno per un saluto o per assaggiare il buffet offerto dalla famiglia Bennet, alcuni avevano portato persino un dono di buon auspicio per la giovane Kendra.
I bambini erano incontenibili, avevano ballato e scorrazzato per l’intera serata, divertiti dalle musiche popolari suonate con gioia e fantasia, da Sahm e la sua banda: le loro grandi cornamusa e i loro tamburelli risuonavano nell’intera vallata. Il prato centrale brulicava di coloratissime strisce di carta, che i più piccoli avevano sparso ovunque, la stessa Kendra, ne portava ancora qualcuna incastrata tra i lunghi capelli scuri.
I più vecchi si erano intrattenuti giocando su una grande scacchiera di legno, muovendo dettagliatissime pedine sulla sua superficie poi, un boccale dopo l’altro, avevano abbandonato ogni pudore, ingordi come pochi avevano tracannato ogni barile di ortica. Come ogni volta, scorreva in abbondanza durante i festeggiamenti.
Le donne, dopo una timidezza iniziale, si erano lanciate in balli frenetici e, di tanto in tanto, qualche beone ubriaco cercava di parteciparvi con scarso successo, rovesciando alcuni tavoli o facendo cadere qualche boccale di ortica: era uno spasso vederli.
Il vecchio Moki aveva partecipato alla festa più per obbligo che per piacere, ma alla fine fu contento di averlo fatto, si era svagato e divertito, tutti sembravano felici quella sera e anche la piccola Kendra lo era. Quando gli ultimi invitati si ritirarono nelle loro dimore, il sole aveva fatto capolino da diverse ore e il menestrello, oramai stanco e leggermente alticcio, aveva smesso di strimpellare. Infine, la giovane si era ritirata nella sua stanza e si era sdraiata sul suo letto, con al fianco il fratellino Noki, che dormiva pesantemente, russando rumorosamente.
Un lieve richiamo trasportato dal vento la destò dai sui pensieri; terrorizzata, si mise immediatamente a sedere sul ramo dal quale osservava il cosmo, i peli ritti sulla nuca e il respiro strozzato nei polmoni, come una preda braccata dal suo inseguitore.
«Kendra, dove sei?!».
Era il suo fratellino Noki, quando si svegliava nel cuore della notte e non la vedeva nella sua branda, sapeva sempre dove scovarla.
Kendra scrutò l’oscurità, accertandosi che nessun altro fosse nei paraggi, e si affrettò a scendere da quella quercia che oramai era diventata il suo rifugio, da quel ramo dove il folto fogliame degli alberi si apriva, lanciando lo sguardo verso l’immenso.
«Noki, cavolo… che ci fai qui? E fai piano, per la miseria!» lo rimproverò la sorella.
Lui, intimidito dalla sua aggressività, si limitò a guardarla con occhi dispiaciuti, stava quasi per piangere.
«Quante volte ti ho detto di non venirmi a cercare?!» impaurita dalla sua superficialità.
«Scusa sorellina, ma io…» singhiozzava il piccolo.
«Non fa niente, lascia stare, torniamo a casa e andiamo a letto» lo tranquillizzò Kendra, sfoggiando un enorme sorriso che il piccolo Noki considerò un invito.
«Grazie sorellina, ti voglio bene… hai visto come sono diventato bravo nel ballo? È stata una festa bellissima!»
«Sì, sei stato bravissimo, e sono contenta che ti sia divertito, ma ora non fare rumore, lo sai che nessuno deve vederci…».
Come poteva arrabbiarsi con lui, in fondo era l’unico che la capiva, l’unico che condivideva con lei quel piccolo segreto. Lo amava e lo proteggeva a costo della sua vita, ma temeva per la sua imprudenza.
Attraversarono in silenzio il patio, illuminato parzialmente da alcune lampade a olio che erano rimaste accese.
Il disordine regnava in tutta l’area, i tavoli erano ancora apparecchiati con rimanenze di pane e liquidi versati in ogni dove, diverse brocche e boccali erano rovesciati, o direttamente sul prato. Molti festoni erano sparsi, volati via con il vento o, addirittura, strappati. Sul piccolo palco in legno dove Sahm aveva dato sfogo alle sue arti, era rimasto un piccolo tamburello sfondato e una decina di grossi boccali, molti ancora contenevano il distillato di ortica, si erano divertiti davvero tutti quella sera.
Intento a fantasticare, Noki inciampò in un vaso di terracotta cadendo letteralmente sulle ginocchia; lo sguardo di Kendra lo fulminò, lo aiutò a rialzarsi e si accostarono velocemente all’ombra del capanno.
Rientrarono nella loro stanza dalla piccola finestrella ad arco dalla quale Kendra era uscita, e si sdraiarono ognuno sul proprio giaciglio di fresche canne di cocco.
Noki si addormentò immediatamente, ma per Kendra quella notte il sonno non sarebbe arrivato, continuava a fantasticare, a sognare a occhi aperti… ma, soprattutto, continuava a non capire.
2 - Ricordi del passato
Le sue doti manuali erano, oramai da molte lune, famose ben oltre la Borgata, ma vederlo all’opera era sempre un incanto.
Come quasi ogni giorno, si era svegliato alle prime luci dell’alba. In quel laboratorio, un odore secco ma pungente regnava sovrano, le narici di chiunque vi metteva piede cominciavano a bruciare dopo pochi minuti, a causa della fermentazione in corso e degli intrugli che solo lui poteva sopportare, Moki oramai si era abituato.
Un laboratorio grande ma ben ordinato, un primo ambiente apparecchiato meticolosamente con tavoloni tutto intorno alle pareti, sopra di essi grandi ripiani pieni di ogni genere di attrezzatura, ampolle in resina trasparente, grandi e piccole, tonde o allungate, ciotole in legno di ogni forma e dimensione, mestoli, mortai e pestelli in grande quantità, coltelli in lucida pietra sempre ben affilati, un’unica grande apertura a forma di arco faceva entrare la luce all’interno.
Esattamente di fronte alla porta di ingresso, due enormi colonne in legno scuro facevano da sostegno a una grande apertura che delimitava il secondo ambiente, il magazzino o la sala della fermentazione. Osservandole attentamente si notava la maestria degli scultori, le incisioni partivano dal pavimento e si arrampicavano fino al soffitto: sinuose linee curve in rilievo che donavano lusso e complessità all’intera costruzione. Una leggera curvatura a soffitto le univa come un unico grande abbraccio.
I barili erano ben sistemati e catalogati, ognuno riportava una targhetta in legno con sopra incisa la varietà, due lunghe file coprivano l’intera parete di fronte all’ingresso, le più grandi appoggiate direttamente sul duro pavimento del magazzino, quelle più piccole ben impilate su una robusta mensola che correva lungo il muro sovrastando tutte le altre.
Aveva già riempito le botti con il sidro magico, quell’infuso di ortiche che tanto gli piaceva.
Quelle vuotate la sera precedente, immediatamente rabboccate con il nuovo intruglio in fase embrionale, erano necessari diversi giorni e molto lavoro per riuscire ad estrarre l’alcol da quelle abbondanti radici, il sistema era sempre lo stesso: acqua con zucchero per tutti e con l’aggiunta di peperoncino ben tritato per lui.
Ne esistevano molte varietà, le erbe non mancavano di certo nei prati e nei boschi, ovviamente quella preferita da quasi tutti gli anziani della Borgata era l’intruglio piccante. Quella alle bacche o alla vaniglia andava per la maggiore tra i maschi che avevano compiuto la decima luna.
Era oramai da alcuni minuti di fronte alla grande porta in legno massiccio e, nonostante avesse bussato ripetutamente, non aveva ricevuto nessuna risposta… il lussuoso capanno sembrava disabitato. La liscia targa appesa all’uscio riportava l’incisione M. Bennet
; mentre attendeva, fece scivolare le sue sottili dita lungo l’incavo della scritta, ripercorrendo per intero il cognome della sua famiglia.
Fece, quindi, il giro dell’abitazione, scavalcando con un solo balzo lo steccato in legno che correva parallelo alla strada, era giovane e agile e di certo non aveva paura di farlo.
Giunta in prossimità della finestra ad arco del laboratorio, sfoggiò un raggiante sorriso a mostrare tutti i denti e disse:
«Buon giorno nonnino!»
Fece sobbalzare il povero Moki, che rovesciò sul pavimento il contenuto del suo ultimo sidro.
«Kendra, mi hai spaventato… ma la porta proprio non ti piace, vero?!» rispose con uno sguardo accusatorio ma altrettanto divertito.
«Se tu non spegnessi le orecchie, quando vieni a giocare con le tue pozioni… come stai? Mi ha detto la mamma di passare da te, stamane».
«Sì, vieni dentro ma usa la porta questa volta», prima che Moki terminasse la frase, Kendra aveva già saltato oltre, atterrando con i piedi in mezzo a quella che sarebbe dovuta diventare una bevanda rinfrescante, una cura contro il mal di testa, o meglio ancora una cura per il dopo-sbronza, chi poteva saperlo? Chi veramente sapeva in cosa trasformava quegli intrugli il suo vecchio nonnino?
Le aperture a cupola di molte abitazioni non montavano altro che semplici scuri alle finestre, anche in inverno la temperatura era sopportabile e le intrusioni inaspettate non erano un pericolo reale.
La giovane fece un rapido movimento con la mano all’altezza del naso, come a sottolineare che non gradiva gli odori del suo laboratorio; Moki, sbuffando, invitò la ragazza a seguirlo nella stanza accanto.
Andarono a sedersi nel fresco soggiorno, una stanza poco arredata ma molto accogliente,