L'impensabile accadde
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Anteprima del libro
L'impensabile accadde - Alessandro Maggi
Copyright © 2013
Youcanprint Self-Publishing
Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)
www.youcanprint.it
Titolo | L’impensabile accadde
Autore | Alessandro Maggi
Immagine di copertina a cura dell’Autore
ISBN | 9788891109613
Prima edizione digitale 2013
Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.
Los Angeles 1996
Passeggiavo lungo la Queen Street, i negozi erano pieni di gente, le luci delle insegne sembravano flash colorati impazziti.
Entrai nel mio solito club, un locale fatto apposta per far passare, almeno per qualche ora, problemi ed ansie alle persone.
Birra a fiumi, whisky e miscugli bomba a volontà, il tutto servito da prosperose bellezze in bikini che surriscaldavano l’ambiente.
Tavolo da biliardo, flipper, juke-box e tanto di quel fumo che quasi non riuscivo a vedere chi mi stesse a fianco.
Mi diressi alla toilette, accesi una canna, solo ed esclusivamente marijuana, feci due bei tiri e via, mi ributtai nel bordello.
Non stavo certo passando uno dei momenti migliori della mia turbinosa vita.
Da quasi tre mesi ero in cura da uno psichiatra, un uomo davvero particolare e diverso dai soliti dottori convenzionali.
Ne avevo visti a decine in precedenza ma non mi trovai bene con nessuno di loro.
Il dover ricorrere all’aiuto di uno strizzacervelli non mi esaltava più di tanto, vista le mia pessima esperienza avuta durante l'adolescenza, ma ero arrivato ad un punto davvero critico della mia stabilità psicofisica e così mi rassegnai all'idea.
Non posso nascondere però che quelle sedute mi stavano aiutando molto.
Quel pomeriggio mi aspettava il decimo appuntamento.
Ad un certo punto sentii gridare il mio nome.
Mi voltai e vidi il mio amico Buddy venirmi incontro tutto trafelato.
«Buddy, sei proprio uno stronzo, è una settimana che ti sto cercando, dove cazzo sei sparito? Mi hai fatto prendere un bello spavento.»
Buddy (che secondo me deriva per via direttissima da un orango) mi abbracciò, stringendomi così forte da mozzarmi il fiato e mollandomi pacche pesantissime sulla schiena, mi raccontò la sua avventura :
«Kevin non ci puoi credere, ho conosciuto la donna della mia vita al locale di Sammy, è messicana, mi ha chiesto di accompagnarla a casa, ovviamente le ho detto di sì...solamente che casa sua era in Messico e così ci sono rimasto per una settimana!»
«Sono felice per te ciccione, ma non provarci più a sparire senza dirmi un cazzo. E adesso che fine ha fatto la chica?»
A quel punto la faccia di Buddy si contorse, gli venne un muso da cane bastonato, rispose a mezza bocca:
«E’ tornata con suo marito... quella stronza di un’approfittatrice»
Cercai di consolarlo
«Ok Buddy non preoccuparti, ci penso io a farti riprendere. Adesso vado al mio solito appuntamento, ci rivediamo qui tra un’oretta, aspettami e stai tranquillo»
Buddy è il mio migliore amico.
Ci siamo conosciuti dieci anni fa nella prigione di S. Anna, in California.
Avevo appena compiuto ventitre anni, era il 6 febbraio 1986, come regalo di compleanno rubai una rossa e fiammeggiante Ferrari GTO.
Peccato che il giro durò solo qualche isolato.
I piedipiatti mi beccarono mentre stavo tentando il record su strada cittadina.
L'inseguimento durò una decina di minuti, fino a che, la mia consumata esperienza da pilota non ebbe il sopravvento e così mi schiantai a più di sessanta miglia contro il muro di una villetta.
Il botto fu talmente violento da far tremare l'intera costruzione.
Marito e moglie uscirono di corsa dalla loro abitazione in preda al panico.
La donna fuggiva a gambe levate gridando «il terremoto, il terremoto…» mentre l’uomo ancora in pigiama e a piedi scalzi, le correva dietro urlando frasi incomprensibili.
Questa scena tragicomica e surreale precedette il mio svenimento.
Dovettero intervenire i vigili del fuoco per estrarmi da quello che era rimasto della fiammeggiante Ferrari .
Ripresi conoscenza, la mia fronte grondava sangue, ne sentivo il sapore metallico in bocca, mentre tutto il corpo era ormai preda di forti e lancinanti dolori.
Il mio viso assunse la fisionomia di un clown triste.
I poliziotti non vollero infierire ulteriormente: ero già troppo conciato per subire altri maltrattamenti.
Mi portarono al White Memorial Medical Centre dove i medici mi diedero venti punti di sutura per un taglio che partiva dalla testa fino alla fronte e mi ingessarono il braccio destro per una frattura scomposta.
Mio padre venne immediatamente in ospedale, entrò nella mia camera, piantonata da due piedipiatti e mi guardò con fare minaccioso.
Prontamente capii il da farsi e iniziai a gemere come un pivello.
«ahi…ahi…sto male…mi gira la testa…mi sento morire…»
Egli, che scemo non era, si avvicinò fino ad arrivarmi ad un palmo di naso per alitarmi il suo Jack Daniel’s invecchiato dodici anni sulla faccia :
« Se provi a fare il furbo con me ti spezzo anche l’altro braccio, ti ficco tutti i tubicini che hai addosso nel culo e ti faccio sbattere dentro per il resto dei tuoi giorni»
Feci finta di non capire, tenevo gli occhi chiusi, quasi volessi nascondermi da quella ferocia inaudita.
Mio padre in fondo, in fondo era buono.
Mia madre era morta quando avevo un anno.
Lui era impiegato presso un’azienda vicina a Washington. Non mi spiegò mai quale fosse il suo lavoro, forse se ne vergognava.
Lo vedevo pochissimo a causa dei suoi innumerevoli e misteriosi impegni, così decise di affidarmi a sua sorella, stronza zitella, repressa e bastarda.
Ricordo che mi chiudeva a chiave in camera perché diceva essere allergica al mio carattere, non che fossi uno stinco di santo, però ero pur sempre un bambino!
Mia zia e mio padre fecero di tutto per tenermi fuori dai guai.
Niente da fare, combinai comunque un casino dietro l'altro, acquisendo fin da quando ero piccoletto, una bella esperienza in fatto di collegi rieducativi, riformatori, carceri minorili e scuole militari.
In effetti, nel profondo della mia coscienza ero consapevole di avere un carattere merdoso, ma una forza superiore ed impalpabile mi impediva di modificarlo.
Uscito dall’ospedale fui processato per direttissima e condannato a trentasei mesi di reclusione, ovviamente senza condizionale poiché recidivo, da scontare nel carcere di S. Anna.
Mio padre si incazzò a tal punto che da quel giorno smise di preoccuparsi per me.
Ci sentimmo solo per via epistolare e per un breve periodo; sei mesi dopo la mia incarcerazione egli morì di cirrosi epatica, o forse dal dolore che gli avevo procurato, lasciandomi nel totale sconforto.
Mio padre, che tanto aveva fatto per farmi vivere un’esistenza onesta, rispettosa della legge e nei cui occhi leggevo l’amore che provava per me, unico figlio ed unica speranza, non c’era più. Avrei voluto rimediare, riscattarmi ai suoi occhi, ma ormai era troppo tardi.
Caddi in uno stato di depressione acuta, di sconforto, che solo il tempo riuscì ad alleviare.
L’ingresso al S. Anna fu davvero uno shock.
Ero abituato ai riformatori, alle botte dei guardiani, ai soprusi dei più forti, alla solitudine, alla sporcizia, alla sbobba, ma qui tutto era esasperato all’ennesima potenza.
Dopo aver esaurito tutte le pallose pratiche del caso, fui portato al cospetto del direttore, il Signor Colonnello Jonathan Smith, il quale mi invitò a non commettere infrazioni di sorta, pena: giorni, settimane o mesi d’isolamento.
Dopo di che fui condotto nel mio nuovo alloggio
.
All’interno vidi tre tipacci poco raccomandabili e in cuor mio sperai che non fosse la cella designatami.
Quando sentii la porta chiudersi alle mie spalle, con un rumore di ferraglie arrugginite, un brivido gelido percorse la mia schiena. Rimasi immobile, impietrito dalla paura, con in mano il mio sacchetto contenente spazzolino, dentifricio e divisa penitenziaria.
«Benvenuto moccioso del cazzo, prenditi la branda in alto e non rompere i coglioni…» mi disse subito uno dei tre.
Quell’accoglienza così " fraterna" non fece che acuire il mio terrore. Il tipo che mi accolse con tanto calore fraterno aveva una faccia che più che umana sembrava la fusione tra un rottwailer incazzato e King-Kong.
Aveva cicatrici e tatuaggi ovunque, il petto era pieno di peli con dei buchi che sembravano nidi di zecche e pulci; alto un metro e novanta sarà pesato centotrenta chili, i denti erano pochi, marci e sparsi a caso nella bocca.
Senza proferir parola obbedii all’istante e salii sul mio letto, tremavo.
Guardai la cella cercando di non farmi scorgere, quattro metri per quattro ed eravamo in quattro; pensai di giocarmi i numeri al lotto.
In qualche modo riuscivo sempre a sdrammatizzare le situazioni brutte che mi si presentavano, è una delle mie migliori qualità.
Gli altri due sembravano muti, anche loro grossi, tatuati e cattivi, non osavo incrociare il loro sguardo.
Il cesso era un buco nel cemento e constatai che quei tre scimmioni avevano una mira del cazzo.
C’era una marea di poster di donne nude , ma fu un altro tipo di immagine ad attrarre la mia attenzione: un cavaliere con la spada in mano e sullo sfondo un castello circondato da una magica nebbiolina.
Arrivò il secondino con la cena. Non avevo fame e diedi la mia parte a quello che sembrava il capo con la faccia da fauno.
Non mi ringraziò nemmeno, emise una specie di ruggito.
Conoscevo le regole del carcere, far vedere di essere un duro e farsi rispettare, ma quella teoria poteva valere con gli esseri umani non certo con loro.
Decisi di adottare la tattica del taciturno, non parlavo con nessuno, guardavo sempre in basso e mi facevo gli affari miei. In quell’ambiente bastava uno sguardo prolungato per far scattare una rissa.
Era trascorso un mese, mi trovavo nel cortile a scambiare qualche battuta con un ventenne di Los Angeles, un certo Luis, il quale era stato condannato dopo aver ammazzato un suo rivale per questioni di droga non pagata.
Mi aveva preso in simpatia. Giocavamo spesso insieme e tra noi si era creato un buon feeling.
Quel giorno stavamo facendo due chiacchiere quando si avvicinarono a noi tre vere facce da cazzo.
Uno di loro teneva la mano nella camicia, lasciando facilmente intuire che impugnasse qualcosa di pericoloso, Luis fiutò immediatamente il pericolo, si girò scattando come un felino chiedendo: «Qualche problema?»
Il biondino con i capelli a spazzola e la faccia bianca cadaverica rispose - «conoscevo Martin, era un mio amico, ho saputo che sei stato tu ad ammazzarlo… Ora prenditela con me....»
«Non so di che cazzo stai parlando» replicò Luis.
Non terminò la frase che il biondino tirò fuori la lama di un coltello e si avventò su di lui come una belva feroce.
Io istintivamente diedi un colpo a Luis, lo scaraventai per terra e nel frattempo diedi un calcio violentissimo sul ginocchio del biondino, sentii un rumore d’ossa scricchiolare ed un urlo terribile uscire dalla sua bocca.
Gli altri tre ci vennero addosso incazzati come bisce, Luis era già in piedi, tirò un destro sulla mascella di uno che cadde steso per terra, l’altro con la faccia meticcia mi sferrò una gomitata nello stomaco che mi svuotò l’aria dai polmoni; ero per terra senza fiato e cominciò a darmi una serie di calci in faccia, cercai di ripararmi con il braccio sano, ma quello stronzo era una furia…credevo di morire.
D’improvviso non sentii più nulla, guardai verso l’alto e vidi il rottwailer/king-kong mio compagno di cella, sollevare con una mano il meticcio, scaricandogli addosso una quantità esagerata di pugni .
Questo cadde a terra con stampato in faccia un sorriso da ebete e svenne.
Arrivarono i secondini, ci portarono via.
Io finii in infermeria dove mi curarono le ferite che avevo riportato in faccia, qualche punto qui, qualche punto là e poi dritto dal Direttore il quale, senza dire una parola, firmò un foglio e lo diede al secondino, c’era scritto: una settimana di cella di rigore.
Non vi racconto quella settimana: pippe , flessioni, pippe , flessioni e dormire.
Sono dimagrito di quattro chili...
Tornato nella mia cella vidi che c’era solo il gorillone, era seduto sul suo letto e stava leggendo un libro.
Entrai, lui non disse una parola, sistemai le mie cose, mi sciacquai la faccia e guardando verso lo specchio dissi con voce tremante: -« grazie . »
Trascorsero venti interminabili secondi…«La prossima volta lascerò che ti ammazzino…qui sopravvivi solo se ti fai i cazzi tuoi.»
Feci trascorrere qualche istante poi replicai: «Perché l’hai fatto allora…?»
sfogliò una pagina e disse «ti sei messo in mezzo ad un casino che non era il tuo ed hai salvato
il culo a quel Luis, rispetto chi ha coraggio e chi rischia per un amico»
«È più forte di me...» risposi.
Lui mi guardò dalla testa ai piedi e ribadì: «sei finito dentro per un furto d’auto. Sei un pivello, ma
hai un minimo di palle e per questo io ti parlo» accentuando l’ultima frase.
Immaginavo che si fosse informato sul mio conto.
«E tu perché sei dentro…scusa come ti chiami?» gli domandai.
«mi hanno incastrato, dovevo fare un lavoretto per un amico, semplice e veloce, qualcuno ha spifferato e mi hanno beccato. Io so chi è stato e ti assicuro, non mi scapperà. Mi chiamo Buddy Frieman»
Dal tono della sua voce percepii che doveva trattarsi di un buon uomo, forse diventato così duro e diffidente a causa delle troppe inchiappettate ricevute; doveva assumere l’aria da duro, bastardo, cattivo e spregiudicato, era una sorta di barriera protettrice che si era creato per non essere coinvolto emotivamente.
Probabilmente era più forte di lui.
Passarono cinque mesi durante i quali Buddy ed io iniziammo a conoscerci meglio.
Giorno dopo giorno le nostre conversazioni si allungavano sempre più, finché non beccai il suo punto debole: i libri.
Da uno così mi sarei aspettato ben altri interessi quali, ad esempio, baseball, fica e rapine.
Così una mattina andai in biblioteca e presi un libro che sin da piccolo mi affascinava: Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda.
Quando lo diedi a Buddy, inarcò le sue folte ciglia ed esclamò…
«Porca di quella puttana sfiancata, chi cazzo ti ha consigliato questo libro?» devo dire che aveva una fantasia pregevole nel dire parolacce.
Gli risposi: «E' una storia che mi ha sempre attratto. Quelle gesta eroiche e magiche, il sacro Graal, il coraggio, il senso dell’onore, l’amore, l’amicizia, il regno perfetto…tutto ciò ha nutrito i miei sogni più intimi.
Nel profondo avrei voluto vivere in quell’epoca storica e non in questo secolo merdoso, colmo d’ingiustizie, di violenza e di rabbia. Probabilmente lo scarto enorme tra la realtà e quello che avevo sempre desiderato mi ha portato al disagio esistenziale di oggi».
Era la prima volta che mi confidavo così apertamente.
Buddy ascoltò in religioso silenzio poi …
«Ho trentadue anni e da tre sono in questo schifo di gabbia. Mia madre faceva la cameriera in un 7eleven. Mio padre scarrozzava con il suo camion ed era più in viaggio che a casa. Mi hanno cresciuto senza farmi mancare nulla.
Quando mio padre morì in un incidente stradale io dovetti interrompere gli studi; mia madre cadde in depressione senza più riprendersi. Venne internata in un istituto psichiatrico, imbottita di farmaci.
Andavo a trovarla tutti i giorni, a volte neppure mi riconosceva.
Tentò più volte di suicidarsi finché al quinto tentativo, dopo tre anni di quell’inferno si è gettata dal quarto piano e l’ha fatta finita.»
Più raccontava e più lo vedevo agitarsi…
«Così a quindici anni sono rimasto orfano. Il fratello di mia madre mi ha adottato. Vivevo con lui, sua moglie e mio cugino Eddie di sedici anni. Mi trovavo bene con loro.
Mi cercai un lavoro e l’unica occupazione che recuperai fu ai Mercati Generali come operaio addetto al carico-scarico delle cassette di frutta e verdura.
Anche Eddie mi affiancò.
In quell’ambiente non era infrequente incontrare ex galeotti, mafiosi e criminali.
Divenimmo i