Ischia la Scheria dell’Odissea
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Anteprima del libro
Ischia la Scheria dell’Odissea - Raffaele Castagna
"Titolo : Ischia la Scheria dell’Odissea
Autore : Raffaele Castagna
ISBN | 9788891172419
Prima edizione digitale: 2014
© Tutti i diritti riservati all’Autore
Youcanprint Self-Publishing
Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)
www.youcanprint.it"
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Presentazione
Le avventure di Ulisse e il suo ritorno in patria
Conclusa la guerra di Troia, gli eroi greci intrapresero la via del ritorno, ma ciascuno seguì un itinerario diverso ed approdò in tempi brevi o molto lunghi nella propria terra: si parla anche di colonie fondate lungo il percorso seguito dai vari gruppi. Queste vicende avrebbero formato argomento di vari canti detti Nostoi (ritorni), che per lo più sono andati perduti. Brevi indicazioni si trovano nei mitografi dell’età ellenistica.
Il Nostos (Ritorno) più famoso che conosciamo è quello di Odisseo (Ulisse), la cui serie di avventure ci è stata tramandata da Omero nel suo poema, l’Odissea.
Esse si possono così riassumere:
a) Partito con le sue dodici navi da Troia, Ulisse veniva anzitutto sbattuto sulle coste della Tracia, ed ivi presso Ismaro, città dei Ciconi, venne a battaglia con costoro e distrusse la loro città, ma poi, sorpreso di notte, ebbe uccisi 72 dei suoi uomini.
b) Partitosi di lì, stava girando il promontorio Malèa, quando una tempesta lo colse e spinse in alto mare. Dopo nove giorni di navigazione in balìa dei venti, approdò alla terra dei Lotofagi (mangiatori di loto) nella Libia. Tre dei suoi compagni, mandati a esplorare il paese, gustarono anch’essi del loto, e n’ebbero impressione così piacevole, che non volevano più tornare in patria. Ulisse dovette ricorrere alla violenza per farli ancora imbarcare, e salpò.
c) Seguono avventure nell’estremo occidente, in luoghi non ben determinati e da non potersi se non molto difficilmente identificare. La prima è l’incontro col Ciclope Polifemo. Erano i Ciclopi un popolo di giganti in un’isola del mare occidentale, che abitavano sparsi su pei monti curando le loro grosse greggi; erano detti Ciclopi perché avevano un solo occhio in mezzo alla fronte, e conforme alla loro natura selvaggia erano anche cannibali. Ulisse sbarcato nell’isola con dodici compagni capitò nella caverna di Polifemo, figlio di Poseidone. Ivi passò un brutto momento; tornato Polifemo e chiusa con un masso l’entrata della caverna, si mangiò due dei compagni d’Ulisse, e il domani altri due. Ulisse ricorse alla scaltrezza; avendo seco per buona fortuna portato del buon vino donatogli in Ismaro dal sacerdote di Apollo Marone, riuscì a ubbriacare il Ciclope; e quando fu bene addormentato, infocata la punta a un palo, con quello pestò l’unico occhio del gigante e l’accecò. Il giorno dopo gli riuscì di fuggire coi compagni, uscendo questi dalla spelonca confusi colle pecore, ed egli avviticchiandosi al vello d’un ariete di sotto il ventre. Il Ciclope tardi s’accorse del tiro fattogli, e dové contentarsi di invocar da suo padre Poseidone la vendetta contro Ulisse.
d) Dalla terra dei Ciclopi Ulisse giunse all’Eolia, l’isola favolosa dove Eolo, re dei venti, teneva questi racchiusi in un antro per scatenarli quando ne riceveva ordine da qualche dio. Eolo accolse Ulisse con cortesia, e quando si congedò gli fece un dono assai prezioso, cioè gli diede un otre in cui erano racchiusi tutti i venti violenti; custodendo quest’otre, egli sarebbe pervenuto facilmente alla sua patria. E difatti già erano le navi di Ulisse vicino ad Itaca, già si sognava la fine di tante traversie, quando i compagni di Ulisse, in un momento ch’egli dormiva, per curiosità slacciarono l’otre; d’un tratto ne uscirono i più gagliardi venti, e le navi sbattute dalla tempesta furono di nuovo trasportate in occidente.
e) Allora Ulisse capitò nel paese dei Lestrigoni, giganti e antropofagi. Costoro abitavano una terra dove le notti erano così chiare che chi poteva far a meno del sonno avrebbe potuto guadagnare doppia mercede giornaliera. Con una sola nave riuscì Ulisse a fuggire da questo paese; le altre s’erano fracassate tra gli scogli.
f) Dopo, pervenne nell’isola di Eéa, dove abitava la bella maga Circe, figlia di Elios e sorella di Eeta. Costei soleva trasformare in bestie i forestieri che capitavano nell’isola. Ulisse, avendo mandato metà della sua gente con Euriloco al palazzo della maga, non li vide tornare perché erano stati mutati in porci; il solo Euriloco, che non aveva bevuto la magica bevanda, sfuggì a questo destino e venne a dar la notizia ad Ulisse. Questi allora mosse da solo, e, aiutato da Ermes il quale gli diede un’erba che lo proteggeva da ogni magia, indusse Circe a ridare ai compagni la forma umana. Tuttavia rimase ancora un anno intero nell’isola, vivendo in allegrezza e festa. Infine sollecitato dai compagni, Ulisse si decise alla partenza; Circe lo consigliò a navigare ancora verso occidente, di là dell’Oceano, per potere presso i boschi di Persefone, nel vestibolo dell’inferno, interrogare l’anima di Tiresia e sapere in che modo potesse riuscire a toccare la patria terra.
g) Seguendo questo consiglio s’avvia Ulisse ad occidente e giunge al paese dei Cimmerii. Ivi, offerti i dovuti sacrifici e fatti i prescritti scongiuri, gli compariscono su dalle caligini profonde dell’Ade l’ombra di Tiresia e molte altre di eroi ed eroine, fra cui anche sua madre Anticlea, che gli dà le desiderate notizie del padre Laerte, della moglie Penelope e del figlio Telemaco. Tiresia gli rivela lo sdegno di Poseidone contro di lui, ma lo assicura dicendo che raggiungerà la patria purché nella Trinacria siano rispettate le mandre di Elios.
h) Tornando di là, Ulisse fece una seconda visita a Circe la quale gli diede avvisi e consigli per il rimanente viaggio. Poco appresso toccò l’sola delle Sirene, le ingannevoli Muse del mare, che allettando con dolce canto i naviganti li invitavano a sbarcare, poi li finivano miseramente; personificazione evidente dei pericoli di un mare in apparenza calmo e seducente. Ulisse tappò le orecchie dei suoi compagni con la cera; egli stesso si fece legare all’albero maestro e così sfuggirono tutti al pericolo. Men liscia la passarono nello stretto siciliano, tra i due mostri detti Scilla e Cariddi. Poiché mentre si scansavano dal terribile vortice di Cariddi, avvicinatisi troppo all’altro mostro che con sei lunghi colli e bocche abitava nella sua tenebrosa inaccessibile caverna, sei fra i rematori di Ulisse furono miseramente afferrati e ingoiati.
i) Scampato a questo pericolo, Ulisse pervenne all’isola Trinacria o delle tre punte (la Sicilia?), dove sbarcò veramente a malincuore, solo per condiscendere al desiderio dei compagni. Pareva presentisse il pericolo; infatti, trattenuto ivi dai venti contrari, i compagni di Ulisse spinti dalla fame diedero di piglio ad alcuni capi dell’armento di Elios, sebbene Ulisse ne li avesse severamente proibiti. Terribile fu la vendetta degli offesi Dei; appena s’erano messi in mare, un fulmine di Zeus sconquassò la nave e la sprofondò nelle onde; annegarono tutti salvo Ulisse che, afferrata una trave, galleggiò sbattuto dall’onde per nove giorni sino all’isola di Ogigia.
l) Era questa isola solitaria abitata da Calipso, figlia di Atlante. Costei accolse il naufrago con grande benevolenza; se ne invaghì; voleva farlo suo sposo e indurlo a non abbandonare mai più quella terra. Ma troppo poteva in Ulisse l’amor della diletta patria e della sua Penelope perché cedesse a queste lusinghe. Neanche la promessa di renderlo immortale valse a smuoverlo. Sette anni se ne stette il povero Ulisse nell’isola, e ogni giorno sedeva sospirando e lagrimando alla riva e guardava coll’animo pieno di desiderio nella direzione d’Itaca. Alfine gli dei si mossero a compassione di tanto dolore, e Zeus mandò per mezzo di Ermes ordine a Calipso di lasciar partire l’eroe. Egli felice partiva su una zattera da lui costruita abbandonandosi un’altra volta all’infido elemento.
m) Da sedici giorni navigava sbattuto dall’onde, il decimosettimo scorge nella lontana nebbia il profilo dell’isola di Scheria, ma mentre pieno di speranza s’affannava per giungere a quella volta, ecco passa Posidone di ritorno dall’Etiopia e lo scorge, e pieno di sdegno contro di lui gli sconquassa ancora tutta la zattera e lo abbandona nell’acqua. Sarebbe stata la fine per lui se la buona Ino Leucotea, mossa a compassione, non lo avesse confortato e avvolto d’un velo non gli avesse dato la forza di resistere a nuoto. Dopo due giorni e due notti, alfine raggiunse il lido di Scheria. Ivi incontra Nausicaa, figlia di Alcinoo re dei Feaci; la quale lo conduce a palazzo e lo raccomanda al padre. Ulisse riceve amichevoli accoglienze; si istituiscono giochi in segno di festa; egli racconta le sue avventure; infine una nave dei Feaci riconduce l’avventuroso eroe all’isola d’Itaca. Correva il ventesimo anno dacché egli aveva lasciato la patria per recarsi a Troia; e dormiva egli in quel momento che i Feaci lo sbarcarono e lo deposero con tutti i suoi tesori sulla riva.
Si è sempre cercato di identificare i luoghi indicati nel racconto. I Greci dell’età classica e postclassica identificavano l’isola dei Feaci, Scheria, con Corcira (Corfù), mentre localizzavano Scilla e Cariddi sulle due sponde dello stretto di Messina. Nell’angolo nord-orientale della Sicilia era posto l’episodio dei buoi del Sole; nell’arcipelago delle Lipari (Eolie) il regno di Eolo, il signore dei venti; le Sirene nei tre isolotti che fiancheggiavano la penisola di Sorrento dalla parte meridionale (Li Galli); presso il lago Averno il paese dei morti; al Circeo la dimora di Circe. Non sono però mancate nelle varie epoche identificazioni diverse sui luoghi citati e su altri.
Questo lavoro del francese Philippe Champault, che ora presentiamo in versione italiana, parte da una ricerca e da uno studio particolari basati, come l’autore precisa, sulla storia, sulla geografia e sulla sociologia, e propone tutta una serie di identificazioni che non concordano spesso con le tradizioni classiche e soprattutto con quanto sostiene Victor Bérard in Les Phéniciens et l’Odyssée.
Ci sembra naturale mettere in evidenza in questa occasione come il contrasto più notevole si rispecchi nell’identificazione del paese dei Feaci, la Scheria generalmente riconosciuta nell’isola di Corcira o Corfù, ma qui posta nell’isola d’Ischia attraverso una lunga serie di considerazioni passate al vaglio sia del testo omerico, sia dell’osservazione diretta dei luoghi di Ischia e degli eventi che nei secoli hanno caratterizzato la sua esistenza. Non per niente questa parte occupa più della metà dell’opera.
Lo scrittore francese con scrupolosa meticolosità osserva e analizza i vari siti dell’isola, per arrivare soprattutto alla dimostrazione di un suo assunto "Ischia = Scheria" e inoltre, in linea generale, ad una diversa identificazione dei vari luoghi toccati da Ulisse nelle sue ben note peregrinazioni.
Allo scrittore francese sono intitolate due stradine nella zona di Ischia Ponte presso la località detta Mandra.
Raffaele Castagna
Philippe Champault
Phéniciens et Grecs en Italie d’après l’Odyssée
Etude géographique, historique et sociale
par une méthode nouvelle
Paris 1906
Traduzione di Raffaele Castagna
col titolo Ischia la Scheria di Omero
In copertina (di questa edizione) particolare del Cratere del naufragio (Pitecusa)
Prefazione
Il Nostos (Ritorno)
Il Nostos (Ritorno) di Omero, questa parte dell’Odissea consacrata alle avventure di Ulisse, è un documento di grande importanza dal punto di vista geografico, storico e sociologico.
Poema nazionale della colonia, metà fenicia e metà greca, formatasi a Ischia dalla fusione dei Feaci e dei Calcidesi, offre a chi sa interrogarlo tre pagine di storia ugualmente interessanti, ugualmente ignorate finora.
Esso dice che i Fenici, partiti da Tebe, hanno occupato prima il sito di Cuma, molto anteriormente alla guerra di Troia, e hanno fondato in seguito Scheria nell’isola d’Ischia, divenendo, sotto il nome di Feaci, i dominatori del mar Tirreno.
Successivamente ci fa assistere, in questa stessa isola d’Ischia, all’arrivo, allo sviluppo e al declino di una colonia greca partita da Calcide e da Eretria, nota anche agli storici.
Infine è la sua propria storia che racconta il vecchio poema, con un episodio della vita errante del suo autore, il divino Omero.
In un secondo ordine di idee, il Nostos (Ritorno) descrive l’organizzazione sociale delle colonie fenicie in Occidente, mostrandola interamente collegata alla vita di spedizioni commerciali e di avventure nei pericoli del mare.
In terzo luogo, con queste misteriose peregrinazioni di Ulisse riportate sulla carta, esso rivela la geografia del mar Tirreno e dei suoi dintorni, quale l’avevano fatta i Fenici, in generale, e soprattutto quelli d’Ischia, cioè i Feaci.
Ecco quello che abbiamo visto nel Nostos e ciò che si potrà vedere con noi, nello scorrere queste pagine.
Certamente noi siamo ben lontani dalle conclusioni della critica moderna che fa dell’opera di Omero un intreccio fantasioso di descrizioni inventate a piacere, dietro il quale ogni realtà scompare e si perde.
Siamo molto lontani anche dal recente lavoro di V. Bérard, Les Phéniciens et l’Odyssée (I Fenici e l’Odissea). Troppo timido nella sua fede al testo, malgrado le sue affermazioni di omerismo oltranzista, l’eminente professore è rimasto quasi sempre prigioniero delle localizzazioni classiche. Tranne in tre punti, la mia ricostruzione della geografia del Nostos differisce completamente dalla sua.
Bérard peraltro considera poco ciò che riguarda la storia, così come tace del tutto su ciò che concerne la sociologia.
In ogni modo, prima di essere stato letto, mi ritrovo annoverato tra quegli spiriti troppo ingegnosi che vedono nei documenti ciò che essi stessi vi mettono. Chiedo che mi si legga prima, e ne risulterà che la mia versatilità è consistita soprattutto nell’analizzare le indicazioni del testo, nel valutarle ad una ad una, e nell’assegnare a ciascuna di esse, senza fantasia, il loro più giusto valore.
Non vi è alcun dubbio che sia possibile - bisogna senz’altro ammettere - arrivare, mediante alcune infedeltà alla natura e ai testi, a costruire, come Bérard, una geografia ingegnosa. Ma che facendosi schiavo delle parole si arrivi a una ricostruzione geografica, poi ad una ricostruzione sociologica ed infine ad una ricostruzione storica; che in queste i dettagli si coordinino e si incastrino; che le medesime non solamente si giustappongano, ma si compenetrino e si fondino in un insieme manifestamente elaborato dalla vita; che infine l’organismo sociale, così ottenuto, si armonizzi con tutto ciò che sappiamo d’altra parte sui luoghi, sugli uomini e sui tempi; che tutto ciò, dico, scaturisca dalla lettura di un testo e non sia pertanto, presso l’autore e il suo interprete, che un gioco di fantasia, tanto varrebbe credere, secondo un verso famoso:
che questo orologio esiste e non c’è bisogno affatto di orologiaio!
L’autorità documentaria dell’opera omerica scaturisce per me da lunghe ricerche cominciate quindici anni fa. Avevo allora studiato l’Iliade e l’Odissea dal punto di vista delle istituzioni sociali, e ciò con un metodo analitico basato sui lavori di Le Play e dell’abate di Tourville. L’alto valore sociologico che avevo riscontrato nelle indicazioni omeriche mi aveva convinto della loro valenza, non meno grande, dal punto di vista della storia e della geografia.
Da questi antichi studi già si fa strada in me la convinzione che Scheria si trovi in una regione vulcanica e nel mar Tirreno. Avevo allora prospettato l’ipotesi di Ischia; ipotesi che l’insufficienza delle argomentazioni del Bérard in favore di Corfù mi ha spinto a riprendere e oggi la considero dimostrata.
Il resto ne è seguito naturalmente, nel corso di un viaggio nei principali luoghi qui descritti e di tre anni trascorsi interamente nella società del cantore ionico.
Châtillon-sur-Loire (Loiret)
20 giugno 1905
Fenici e Greci in Italia
La questione dei Feaci
Le tre parti dell’Odissea - Il ruolo importante dei Feaci nel Nostos (Ritorno) - I Feaci ignorati dalla storia e dalla geografia: esseri leggendari per i moderni, abitanti di Corfù per gli antichi e Victor Bérard - Il metodo di questo nuovo studio.
Tra i numerosi problemi che ci ha lasciato l’antichità omerica uno si presenta molto interessante e proprio adatto a stimolare e deludere al tempo stesso la curiosità: la questione dei Feaci, popolo misterioso che tanta parte occupa nell’Odissea.
Oggi questo problema è molto trascurato. Avendolo rivoltato in tutti i sensi, alcuni lo hanno dichiarato insolubile, altri di minima importanza. Convinto al contrario che la ricerca sarà feconda e luminosa, l’ho ripreso a studiare e valutare nei suoi vari aspetti e, per una via inesplorata finora, spero di arrivare a risolverlo in una maniera nuova e definitiva.
Ricordiamo innanzitutto in che cosa consiste il problema, che in realtà è il rebus principale dell’Odissea.
Il poema delle avventure di Ulisse, figlio di Laerte, l’Odissea, può dividersi in tre grandi parti:
- Nella prima, la Telemachia, la reggia di Ulisse a Itaca, rimasta priva del suo principe da 20 anni, è occupata da una moltitudine di giovani signori che divorano i beni dell’assente o del defunto, facendo gozzoviglia a sue spese, con il pretesto di convincere Penelope a scegliersi un nuovo sposo. In una assemblea il figlio di Ulisse, Telemaco, riferisce vanamente che intende essere il capo nella sua casa e che tutti i pretendenti devono andar via; non riesce neanche ad avere a suo favore la partecipazione del popolo. Egli fa allora una solenne dichiarazione di vendetta. Poi parte per il Peloponneso e si reca presso i vecchi amici del padre, per averne notizie e senza dubbio anche per riscuotere utili simpatie. Ma ne ritorna senza alcun risultato.
- Nella seconda parte, il Ritorno di Ulisse, Calipso, figlia di Atlante, che da anni lo trattiene prigioniero nella sua isola, riceve da Zeus, capo degli dei, l’ordine di lasciarlo partire. Il Laerziade si imbarca, solo, su una zattera che ha costruito da sé stesso, è colpito da una tempesta e arriva come naufrago nel paese dei Feaci, dove è accolto da Nausicaa, figlia di Alcinoo. Il re e la sua sposa Arete gli fanno festa con i più nobili tra i Feaci. Egli racconta a loro le numerose prove cui ha dovuto far fronte dopo la partenza da Troia, le peregrinazioni nel corso di tre anni attraverso il mar Tirreno, e la prigionia di sette anni presso Calipso. Ottiene di essere ricondotto a Itaca e finalmente riesce a rimettere piede sul suolo della sua patria.
- Nella terza parte, il Massacro dei pretendenti, Ulisse si fa riconoscere da Eumeo, suo vecchio servitore, e dal figlio Telemaco; travestito da mendicante, entra nel palazzo per preparare la vendetta. In poco tempo massacra gli intrusi che occupano la sua dimora. Eroicamente preannunciata da un adolescente, la vendetta è eroicamente compiuta da un uomo solo.
Noi ci occupiamo qui soltanto della seconda parte e cioè del Ritorno che potrebbe bene d’altra parte essere stato, in origine, anche un’opera distinta e separata.
Una cosa ci colpisce nel Ritorno già dalla prima lettura: è il ruolo importante che hanno i Feaci. Soprattutto materialmente. Un preambolo necessario prepara l’arrivo di Ulisse sulle loro coste (V, 1-277); una conclusione molto breve fa seguito alla sua partenza (XII, 187-220). Tutto il resto si svolge presso di essi (V, 278-493; VI, 1-331; VII, 1-347; VIII, 1-586; XI, 333-376; XIII, 1-186), o meglio è presentato a mezzo di lunghi racconti che fa l’eroe (IX, 1-566; X, 1-574; XI, 1-332, 377-640; XII, 1-453). In breve il Ritorno è il poema di Ulisse presso i Feaci.
Questo riferimento ai Feaci costituisce già un fatto degno di nota e molto significativo, e cioè che il poeta li abbia considerato uditori del figlio di Laerte. Con un ingegnoso artificio egli offre loro sia l’inizio sia l’omaggio di una buona parte della sua opera, e precisamente della parte che altrimenti sarebbe a loro estranea. Nello stesso tempo li mette bene in luce agli occhi dei Greci, i quali sono, per così dire, informati delle avventure dell’eroe nazionale unicamente tramite la loro intermediazione.
Il ruolo dei Feaci è naturalmente più importante in quella parte del Ritorno, la cui azione si svolge nel loro paese e nella loro città: da uditori essi diventano attori e attori principali. Talvolta è soprattutto ad essi che si interessa il poeta, lasciando in secondo piano l’eroe. Inoltre la sorte del Laerziade è nelle loro mani: la sua vita ed il suo ritorno a Itaca dipendono soltanto da essi, e noi ci domandiamo con inquietudine se questa circostanza non porti a sottrarre a lui la gioia tanto desiderata di rivedere i comignoli della sua patria
.
Ma ciò non è tutto; e siamo presto spinti a pensare che la parte morale occupata dai Feaci nel pensiero del poeta sia più grande ancora di quella materiale che hanno nell’opera. In verità essi costituiscono un popolo assai piccolo e non possiedono che una città, Scheria la deliziosa. Ma Omero vuole quasi farne una razza superiore; e manifesta questo sentimento in vari modi. A ben intendere, i Feaci sono felici al pari degli dei; le loro navi volano sul mare rapide come il pensiero; i loro marinai sono i primi navigatori del mondo; i loro danzatori e acrobati sono artisti straordinari, anzi di più, sono i migliori; si tratta di ammirazione a getto continuo e di lodi più o meno sincere, forse, ma che arrivano spesso fino all’iperbole.
Di fronte all’importanza così manifesta di questo popolo agli occhi di Omero, di fronte all’atteggiamento di meraviglia che il poeta assume nei suoi riguardi, noi siamo convinti, prima di ogni verifica, che esso occupi un posto notevole nella storia e che il suo nome si scriva a lettere d’oro nell’atlante del mondo antico. Inoltre il Ritorno fornisce numerose indicazioni dei predecessori, del paese e della città: questi dettagli sembrano precisi e circostanziati sicché non dovrebbe essere difficile individuarli sulla carta.
Ecco precisamente dove sorge il problema: questo popolo è del tutto ignorato dagli storici e non meno sconosciuto è ai geografi. Non ha lasciato alcuna traccia né nel tempo né nello spazio. Il suo ricordo è nell’aria: non vive che nel nostro poema.
Di qui a supporre che i Feaci non siano mai esistiti e rappresentino una pura immaginazione di Omero non v’era che una circostanza per i critici moderni, i quali non hanno esitato ad impossessarsene.
Questo motivo determinante l’hanno soprattutto colto nell’ammirazione troppo esaltante del poeta. Essi hanno dimenticato, con eccessiva leggerezza mi sembra, che in ogni tempo e in ogni paese l’adulazione è stata normale verso quelli, re o popoli, da cui ci si attende molto. Invece di domandarsi, come faremo più avanti, se il poeta non provi il bisogno di guadagnarsi, per sé stesso e la sua razza, le buone grazie di coloro che esalta, e se le sue iperboli non siano semplicemente lusinghe diplomatiche, hanno gridato all’impossibile, all’irreale, all’idea di fare del meraviglioso fantastico. Senza dubbio, se noi supponessimo distrutti e ignorassimo tutti i documenti storici del nostro secolo XVII, e se da questo naufragio letterario si fossero salvati soltanto i poeti cortigiani del Re Sole, i nostri critici, per essere coerenti con se stessi, dichiarerebbero che Luigi XIV è inverosimile e non è giammai esistito.
I dettagli che Omero ci dà sui Feaci, dice pressappoco uno di essi, nessuno si è mai sognato di prenderli sul serio. Io ammetterei volentieri che dei marinai della Ionia abbiano potuto riportare dai loro viaggi il ricordo di un’isola lontana molto ridente, molto fertile, popolata di buoni marinai, e che questi racconti, trasformati dall’immaginazione popolare, abbiano potuto diventare una leggenda meravigliosa ed è appunto in questa misura che è lecito domandarsi se siano esistiti i Feaci e una terra dei Feaci.
Per altri, che fanno un passo avanti, Scheria è una contrada del tutto favolosa, qualcosa come il nostro Paese della Cuccagna o un puro capriccio di immaginazione come l’isola dell’Utopia di Tommaso Moro, o la terra dei Nullafacenti dei cantori germanici.
I mitografi vanno ancora più oltre, come era logico attendersi: «Welcker ha da tempo dimostrato - riporta Decharme - il carattere mitico dei Feaci. Quando noi facciamo magnifiche ecatombi, dice Alcinoo a Ulisse, gli dei vengono ad assidersi alla nostra tavola e prendono parte alla nostra festa. Noi siamo in effetti molto vicini agli dei, come i Ciclopi e le selvagge tribù dei Giganti. I Giganti, seguendo la tradizione dell’Odissea, hanno avuto per loro re Eurimedonte (colui la cui potenza si estende per ampio tratto), nome che serve spesso da epiteto di Poseidone. Una figlia di Eurimedonte, Périboia (il fragore rimbombante delle onde), si era unita a Poseidone e nacque Nausitoo (l’uomo dai vascelli rapidi), primo re dei Feaci. Queste genealogie non ci permettono quasi di dubitare che siffatti esseri meravigliosi siano delle personificazioni del mare e delle sue violente tempeste».
La conseguenza di tutto ciò è che ai nostri giorni uno studioso di Omero che si rispetti e voglia sembrare informato deve spingersi ad esaminare nuovamente la questione; essa è sotto giudizio da molto tempo. Inoltre le peregrinazioni di Ulisse non sono meglio trattate; a questi lunghi racconti di viaggi che occupano la metà del Ritorno è inteso che non si riconoscerà alcun valore geografico.
I Greci avevano fatto meno sforzi di immaginazione. Convinti che i Feaci fossero stati degli esseri di carne e ossa, vedevano in essi antichi abitanti dell’isola di Corcira, oggi Corfù, la più settentrionale delle isole ionie, presso le coste albanesi. Questa ipotesi sembra rispondere ad alcuni dati del testo e, malgrado l’incredulità di Eratostene, Aristarco e Didimo, ha fatto fortuna nell’antichità. Messa da parte ogni considerazione critica, la Grecia aveva creduto di ritrovare nei dintorni delle sue principali colonie italiane tutta la serie di luoghi visitati da Ulisse.
È la soluzione tradizionale con modifiche secondarie, qua e là, che adotta Victor Bérard in un’opera recente, I Fenici e l’Odissea.
Da parte mia, facendo tabula rasa delle opinioni proposte finora, ho voluto riprendere il problema dalla base.
Lavorando sul Ritorno visto nel suo contesto totale, ho innanzitutto analizzato le numerose indicazioni del testo al riguardo dei luoghi, dei popoli e delle istituzioni sociali. Dopo averle chiarite o completate a mezzo della geografia, della storia, della sociologia e delle scienze annesse, le ho classificate e messe a confronto.
Questo lavoro doveva necessariamente arrivare ad una conclusione:
- Nel caso di dettagli incoerenti, impossibili da conciliare, alcuni anche intrinsecamente inaccettabili, il valore documentario del Ritorno sarebbe da ritenere quasi nullo; non solamente la narrazione del poema sarebbe puramente immaginaria, ciò che nessuno contesta; ma anche i luoghi descritti, gli uomini che li popolano, i costumi attribuiti a questa gente risulterebbero più o meno fantasiosi.
- Se, al contrario, noi giungessimo a soluzioni ammissibili in se stesse, collegabili poi l’une alle altre in una unità armonica, costituendo i luoghi dei gruppi topografici o commerciali, rispondendo gli uomini alle condizioni dei luoghi e ai dati della storia, giustificandosi le istituzioni sociali attraverso le relazioni degli uomini con i tempi e i luoghi, ecc., allora il valore documentario del poema non si porrebbe in discussione; opera di immaginazione soltanto nella sua tessitura, il Ritorno sarebbe soprattutto un’opera di osservazione.
È la seconda alternativa che si è realizzata di tutto punto; il credito condizionale accordato provvisoriamente al testo si trova dunque giustificato; ed aggiungo qui una soluzione nello stesso tempo triplice e unica, di cui tutti i dettagli, armonici e concordanti, sono tratti dal testo.
Il presente lavoro ha lo scopo di presentare questa soluzione del problema che domina tutta l’Odissea.
- Vedremo innanzitutto dove si colloca la terra dei Feaci.
- Studieremo in seguito i suoi abitanti, in parte Fenici, in parte Greci.
- Infine parleremo dei viaggi di Ulisse. Scheria e quasi tutti i luoghi visitati dall’eroe si ritroveranno nei mari italiani.
Prima parte - Scheria
I - La terra dei Feaci s’identifica con Ischia per la sua posizione e i suoi caratteri generali
Come la maggior parte dei luoghi visitati da Ulisse, Scheria potrebbe trovarsi nel mar Tirreno - Uno dei due itinerari, con partenza dall’isola di Calipso, conduce precisamente al centro di questo mare, verso Napoli - Scheria è un’isola: montagnosa, vulcanica, con fenomeni eruttivi nei tempi omerici (discorso di Alcinoo: etimologia di Scheria), di una certa grandezza, molto fertile; si trova nella regione di Cuma campana - Ischia presenta tutte le caratteristiche indicate - Scheria non può essere Corfù: la distanza da Scheria a Itaca non è nota, malgrado alcune apparenze - La distanza da Calipso a Corfù sarebbe in fondo accettabile - Ma il sito proposto da Bérard è reso impossibile dall’orientamento - Corfù non è vulcanica, non può chiamarsi La Nera, non offre sicurezza né isolamento - Commercianti fenici stabilitisi a Cuma non hanno potuto ripiegare su Corfù: impossibilità ricavate dal testo e dalla loro formazione.
Quando Ulisse giunge presso i Feaci, sono ormai dieci anni che ha lasciato le rive di Troia. Dopo aver felicemente traversato il mar Egeo, appena doppiato il capo Malèa a sud della Grecia, per risalire verso Itaca, Borea lo spinge violentemente verso sud ovest. Approda dapprima sulle coste della Libia, nel paese dei Lotofagi. Risalendo di là verso il nord, tocca successivamente l’isola dei Ciclopi, dove si collocano le avventure con Polifemo, l’isola di Eolo, padre dei venti, la terra dei Lestrigoni antropofagi, e l’isola di Eéa abitata dalla maga Circe; poi si porta presso i Cimmeri, nel paese dei Mani, e di qui torna nuovamente da Circe e, dopo averla lasciata, sfugge alle seduzioni delle Sirene, passa tra gli scogli di Cariddi e Scilla, tocca la Trinacria, ed è risospinto dalla tempesta a nord di Cariddi. Su un relitto procede fino all’isola lontana di Calipso; di qui