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I Guerrieri di un Dio Diverso
I Guerrieri di un Dio Diverso
I Guerrieri di un Dio Diverso
E-book362 pagine5 ore

I Guerrieri di un Dio Diverso

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Info su questo ebook

Una semplice storia che appartiene a un tempo lontano, quello in cui fu re il normanno Ruggero II Altavilla.
C'è un personaggio in questa storia che è l'antitesi di ogni forma di cultura, di credo, di sapere, di arte, contrario a ciò che è l'uomo, all'umanità stessa. La sua vicenda è la matrice di quest'avventura, di un viaggio per terre lontane in cui sei uomini sperano di ritrovare il bene sottratto. E il suo nome, Nocquino, potrebbe sembrare scontato, per un personaggio di tal fatta. Ma è un personaggio storico, realmente esistito, se è vero quello che il cronista delle crociate Guglielmo di Tiro riporta nella sua 'Storia delle gesta in Oltremare', in un passo di poche righe. Oltre quelle righe, tutto il resto è solo una possibile storia.
LinguaItaliano
Data di uscita28 giu 2014
ISBN9786050310399
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    Anteprima del libro

    I Guerrieri di un Dio Diverso - Michele Spagnoli

    Spagnoli

    @Copyright 2014 Michele Spagnoli

    Editore Narcissus

    Prima edizione in www. narcissus.me

    Dedicato a chi cerca un nobile amico

    INDICE

    Prefazione

    Capitolo 1: La leggenda di San Nomolitio

    Capitolo 2: I sudditi musulmani di un re cattolico.

    Capitolo 3: Cristiani di Terrasanta

    Capitolo 4: Una direzione nella steppa

    Capitolo 5: La gara

    Capitolo 6: La vendetta

    Capitolo 7: Khaled

    Capitolo 8: Per le vie di Damasco

    Capitolo 9: L'attesa dei Crociati

    Capitolo 10: Dio è con noi!

    Capitolo 11: La resa

    Capitolo 12: Gli Assassini

    Capitolo 13: L'Amico con cui disputare

    Capitolo 14: La fortezza dei cavalieri

    Glossario, note e riferimenti storici

    PREFAZIONE

    Gentile lettore,

    Questo romanzo è la continuazione, e spero non il completamento, di "L'amico islamico - La minaccia d'Oltremare", scaricabile gratuitamente su www.lulu.com.

    Chi vuole accingersi a leggere questa storia, senza prima dell'altra, può farlo, comunque, senza problemi.

    E' possibile una vera amicizia tra un fervente cattolico e un fervente musulmano, l'amicizia, come profonda conoscenza e reciproca accettazione, come si accetta l'amico d'infanzia nelle sue diversità di pensiero e di carattere, l'amico al cui fianco ci si batterebbe per l'affermazione di nobili ideali?

    Non si dà una risposta nascondendo le differenze e puntando solo alle caratteristiche e agli interessi comuni. Quanto, oggi, a volte si fa.

    Il romanzo è ambientato nel periodo in cui fu re il normanno Ruggero II Altavilla. Ho ritenuto che un'epoca lontana, presentata in chiave odierna, è più semplice e distaccata che l'attuale con tutti gli intricati, sottili e pericolosi meandri delle responsabilità, della politica e delle ragioni dei conflitti che la tormentano, e che mi porterebbero lontano dai miei scopi.

    C'è un uomo in questa storia, ce ne sono tanti e purtroppo ce ne saranno ancora, contrario a ogni forma di cultura, di credo, di sapere, di arte, contrario a ciò che è l'uomo, all'umanità. Quest'uomo è Nocquino, che nel romanzo è lo spirito nemico da cercare e da abbattere, e la cui vicenda è la matrice di tutta la storia che sto per raccontare a chi avrà la pazienza di leggere. E il nome Nocquino potrebbe sembrare, per un personaggio di tal fatta, scontato, o addirittura ridicolo.

    No, è un personaggio storico, realmente esistito, se è vero quello che il cronista delle crociate Guglielmo di Tiro riporta nella sua Storia delle gesta in Oltremare, in un passo di poche righe. Oltre queste righe, tutto il resto è di mia immaginazione.

    Alla fine ho aggiunto un piccolo glossario di spiegazione o chiarimento dei termini e delle frasi scritte in corsivo.

    Accadde un evento miserabile ai poveri Ascaloniti che partivano e discendevano in Egitto. Infatti, separandosi da loro gli uomini del re, che a loro tutela erano stati assegnati come guide del percorso, affinché nessuno li molestasse, un certo Nocquino di origini turche, valoroso in combattimento, ma perverso nel costume ed infedele, che stipendiato e partecipe alle loro fatiche aveva militato a lungo presso di loro, fingendosi associato alla partenza e alla discesa in Egitto, appena vide che essi erano stati lasciati dai condottieri, messa in disparte la fedeltà, a disprezzo dell'umanità, si scagliò contro di loro; e, dopo averli rapinati, separandosi li abbandonò errabondi e soli.

    Guglielmo di Tiro, libro XVII, cap 30.

    Capitolo 1

    La leggenda di San Nomolitio

    Si svegliò presto: era ancora buio, quello di un freddo febbraio. Veloce uscì con il desiderio nel cuore di rivedere la sua bella, di dirle «sei mia».

    «Voglio baciarla. Oggi la bacio, e poi vado al lavoro.»

    Trovò la bottega chiusa. Decise che sarebbe tornato dopo; si sarebbe affacciato solo per un istante alla sua fabbrica, avrebbe aperto le porte e aspettato l'arrivo dei soci Servio e Augusto.

    Arrivò al recinto, si avvicinò alla porta, fece per aprire, e sentì: «Ci si rivede Umfredo.»

    «Martino!»

    L'uomo fece un segno, arrivarono altri quattro che lo bloccarono e gli legarono le mani.

    «Verrai con noi! Mi è stato ordinato di riportarti in Gargano, al castello di Monte. E ti porterò a qualsiasi costo. Quindi, non dimenarti e rendi tutto più semplice.»

    «Martino, non verrò a Monte.»

    Il cavaliere guardò Umfredo con un sorriso di scherno e di sfida.

    «Come avete fatto a sapere di me?»

    «I sospetti sono pervenuti in Sicilia con le galee che tu modifichi: imbarcazioni troppo particolari, armi efficaci e originali ci hanno ricollegato alla tua macchina a Rieti. Io e qualcun altro abbiamo pensato di venire qui a confermare il nostro sospetto. Così sono arrivato con gli ammiragli. Ho chiesto di te ad Ottaviano, gli ho riferito che ti avrei portato via e l'ho minacciato, poiché si opponeva. Ho aspettato al cantiere, finché ti ho visto entrare e parlare con Ottaviano, e non sono intervenuto subito, perché il tuo interlocutore mi aveva pregato di lasciarti completare un'opera, che i tuoi amici consegneranno oggi, mentre tu verrai via.»

    Intanto erano arrivati altri cavalieri Normanni, guerrieri sotto il comando di Martino. A quel punto, Umfredo disse rassegnato: «Lasciatemi salutare i miei amici, prima.»

    Martino lo guardò, notò l'amarezza del giovane, e rispose: «Va bene, ma noi staremo con te. Non voglio rischiare che tu scappi ancora. Mi dispiace, Umfredo, devo eseguire gli ordini .» E comandò che fosse liberato.

    Tornò da Sara, trovò ancora tutto chiuso e silente. Stava albeggiando. Presto avrebbe aperto la porta e l'avrebbe abbracciata.

    «Umfredo, questa mattina si parte.» Lo avvisò Martino, inesorabile.

    «Intanto facciamo una puntata alla Casa degli Ospitalieri.»

    Aspettò finché arrivò Teodosio con altri amici che rimasero costernati di fronte a quella visione. Umfredo li rincuorò: «No, non starò via per molto. Tornerò presto, non possono trattenermi, altrimenti troverò un modo per fuggire e tornare. E se mi arrestano di nuovo, tornerò di nuovo, mille volte, per sempre.»

    Essi conoscevano bene l'orgoglio autentico dell'amico. Ma conoscevano anche il re e quello di cui era capace.

    «Vieni con noi, Umfredo.» E rivolto ai suoi sequestratori, Teodosio disse: «Seguiteci, solo per un saluto, solo per poco tempo.»

    Lo condussero da Arcibaldo. Bussarono, il servo si affacciò dalla loggetta, e corse ad aprire, senza avvisare il padrone, sicuro che sarebbero stati ricevuti come altre volte. Martino impedì a tutti di entrare, non voleva entrare con i suoi uomini nella casa di un valoroso cavaliere, suo pari, quindi pregò che tutto si svolgesse di fuori. Ma l'arrivo del padrone di casa gli troncò le parole in gola.

    «Sono venuto a salutarti, Arcibaldo.» Disse Umfredo.

    «Entrate pure, è permesso a tutti i cavalieri d'onore entrare in casa mia.» Rispose guardando Martino come uno di sua conoscenza. Quella frase risuonò per Martino come un monito, cioè un richiamo al suo onore e a quello che parimenti ad Umfredo avrebbe dovuto tributare. Martino annuì, come per rassicurarlo di entrambe le cose.

    Entrarono in una sala con pareti coperte da arazzi e tra questi lo stendardo dell'Ordine: nero con una croce bianca. In mezzo alla sala c'era una grande tavolo di marmo coperto in parte da una tovaglia nera avente al centro la croce bianca ad otto punte, simbolo degli Ospitalieri, e su questa un vaso decorato con quattro figure in rilievo: Gerusalemme, dalla parte opposta Amalfi, la croce opposta ad un'aquila.

    Il maestro di spada prese dal vaso una pergamena, penna e inchiostro, e scrisse in silenzio una lettera per tutti gli Ospitalieri, in qualsiasi parte della terra fossero, e per tutti coloro, Amalfitani e di altre nazioni, che si gloriavano amici dell'Ordine e della cristianità.

    Serbo nella massima considerazione e stima il mio amico Umfredo di Sagiola, guerriero Ospitaliere, delle cui doti di franchezza e fedeltà, io Arcibaldo, maestro di spada dell'Ordine di San Giovanni, mi faccio garante. Ricevete questo giovane come me in persona. Che la mano di Dio tenga forte il braccio degli Ospitalieri.

    Appone il segno inequivocabile della sua firma, Arcibaldus, con la prima lettera ruotata a mo' di elsa di spada.

    Si salutarono con un abbraccio. Tornò in fabbrica dove trovò Augusto, Servio e gli altri, e a tutti disse: «Sono già di ritorno, come sempre, amici.»

    Poi svelto da Sara. Entrò e vide Mauro che subito gli chiese: «Sapevo che stamattina ti saresti affacciato presto qui. Ti aspettavo.»

    «Dov'è?»

    «Mia sorella è stata prelevata ieri sera, poco dopo la tua dipartita, da un nobile, Massimiano, e dai suoi famigliari, diretti alla loro villa in campagna, per fare lì degli schizzi per degli affreschi che dipingerà quando farà più caldo. Starà via solo pochi giorni. Non ha potuto salutarti. Nemmeno sapevamo dove tu abiti. Hanno insistito ed è andata. D'altronde come ti ho detto tornerà subito.»

    «E' distante da qui?»

    «Abbastanza. E' verso la pianura; insomma nelle campagne. Io non so di preciso dove, ma verso Napoli.»

    «Costruisci tu queste ceramiche?» Chiese Martino a Mauro. «Questa mi piace e la compro.»

    «Sei andato a prendere proprio una coppa di legno, l'unico pezzo qui che non abbiamo fatto né io né mia sorella.»

    La pagò cinque follari, poi trascinò fuori Umfredo, dicendogli: «Andiamo! Tornerai subito. Te lo assicuro.»

    Una tappa alla sua casetta dove prese poche cose per il viaggio e infine passò per l'ospizio della cattedrale a prendere il cavallo nella stalla.

    Martino gli prese la spada dicendo: «Questa ti è sequestrata. Il re la rivuole.»

    Usciti dalla porta della città, diretti verso Atrani, Umfredo avvistò su un mulo, poco avanti, un uomo con tutto il portamento e le sembianze di Bernardo. L'amico rimase sorpreso a vedere quel corteo.

    «Bernardo, oggi faremo un po' di strada insieme.» Gli disse Umfredo, e continuò raccontandogli della triste dipartita.

    Sopraggiunta la sera, montarono le tende e accesero dei fuochi. Arrostirono della carne di montone che mangiarono con del pane bevendo acqua: Martino non lasciava bere vino ai suoi soldati durante una missione, o lungo un viaggio in cui potevano sempre essere sorpresi da ladri, assassini o nemici sparsi in ogni dove nel regno. Ma, poi, vista l'aria affranta di Umfredo e Bernardo, tirò fuori un fiasco da un sacchetto, e disse: «E' ottimo, l'ho comprato da un contadino che conosco. E' forte e giovane, come noi. Solo un sorso a testa, ci scalderà un poco; così proviamo anche questa coppa.»

    Prese la coppa, mescé il vino e la porse a Bernardo alla sua destra. Quegli l'afferrò, diede un bel sorso, poi la guardò e disse: «To', la coppa di Bansone!»

    «Come fai a conoscerla?» Chiese Umfredo, mentre l'afferrava.

    «Mio padre era amico di Bansone, ma tutti ad Amalfi conoscono la coppa di Bansone e la sua storia.»

    «Un povero padre tornato senza i figli, prigionieri in paesi lontani.»

    «Prigionieri? Questo è ciò che Bansone voleva forse credere e far credere, Umfredo. Tutta Amalfi rimase delusa di quei due che aveva così amato e rispettato. Se conosci la storia, il figlio effeminato avrebbe potuto fuggire dal palazzo a suo piacimento: non era sorvegliato e bastava che pigliasse uno dei cristalli. In verità, desiderava lascivo rimanere tra le braccia di quel principe perverso. E questo è ciò che tutti hanno evinto dai lamenti del padre e dalla sua storia che narrò aggiungendo sempre nel tempo altri particolari, ma mai spiegando perché veramente suo figlio non lo avesse seguito.»

    «Ascolta: ma dell'altro figlio, Damiano, prigioniero ed eunuco, cosa se ne sa?»

    «Poco, quasi niente. Bansone tornò dopo più di un anno nella città dove era costui, con la speranza che l'aiutasse a liberare Taddeo, e lì seppe che alcuni mesi prima dei servi traditori avevano derubato e ammazzato l'emiro. Alcuni erano stati presi e giustiziati, altri erano riusciti a dileguarsi; nessuno degli uomini messi a morte però corrispondeva alla descrizione di Damiano. Quindi si ritiene a tutt'oggi, che abbia abbandonato il padre per andare a godersi le tante ricchezze in una terra lontana. Chi lo avrebbe mai creduto. Di che subdola falsità è capace l'uomo, di quali sofferenze è capace pur di riuscire nell'inganno.»

    Intanto, la coppa aveva fatto il giro disinteressato degli astanti guerrieri. Umfredo la ripigliò e la osservò: «Vi è sopra inciso una strofa. E' la regola che Bansone avrebbe dovuto seguire per riscattare il figlio.»

    «Infatti, Bansone si arrovellò su quella strofa, senza trovare mai una soluzione: poteva portare solo una giovine pittrice, ma per salire bisognava anche di un'eccellente cantante. Il verso è chiaro: solo nel dipingere doveva mostrare bravura.» Aggiunse Bernardo.

    Umfredo guardò perplesso l'amico, poi osservò di nuovo in silenzio la coppa, l'avvicinò agli occhi, la capovolse, la ruotò e infine chiese: «Bansone non ha mai cercato un maestro di canto che impartisse lezioni a Sara?»

    «Be' circa. Ma tu questo come fai a saperlo? Bansone, ammalato, prima di morire chiese a mio padre, ormai unico amico rimastogli, di trovare un bravo maestro di canto per Sara e di andare con lei a liberare Taddeo: cosa che sappiamo solo io e mio padre. Mio padre l'ha sempre ritenuta una farneticazione in punto di morte. Tutta la strofa, poi, è stata sempre ritenuta da tutti una scusa del figlio, come ho detto, divenuto depravato, desideroso solo di rimanere nella lascivia. Così, mio padre non ha mai messo nessuno a parte di questo, perché la povera ragazza sarebbe stata costretta ad un vano e pericoloso viaggio, se qualche cornacchia di un parente ingrato l'avesse obbligata a tale dovere per impadronirsi della poca eredità rimasta.»

    Umfredo allora obiettò: «No, Bernardo. Taddeo non era un depravato, ma aveva finto perché innamorato di Sara. Amore, presumo, negatogli dal padre. Quindi in realtà voleva che la fanciulla fosse portata da lui.»

    A quelle parole vedendo tutti i presenti attoniti e per niente convinti, continuò: «Se noti quest'oggetto non è altro che la scultura di un uccello che piegando le ali all'insù forma un recipiente, cioè la coppa, e le zampe ne sono il sostegno. Quest'uccello è nient'altro che un usignolo e «sopra questo» nel verso si riferisce all'usignolo cioè alla virtù di questo animale: il canto. Quindi la fanciulla doveva avere due qualità: estro d'arte e la predisposizione al canto che un maestro doveva solo affinare: chi non altri se non Sara. Bansone risolse l'enigma, ma troppo tardi per la sua vita.»

    Di fronte a quella spiegazione ogni mormorio cessò, come di fronte a cosa chiara e illustrata che non ha bisogno di altre parole, e dunque si addormentarono.

    Quando la strada di Bernardo si distaccò, il cammino proseguì più triste, ma ugualmente sollecito. Presto arrivarono ad Ergizio, dove riposarono una notte in uno degli ospizi per pellegrini. Erano alle falde del monte Gargano e, seguendo la via francigena fino a Monte Sant'Angelo, sarebbero passati per Sagiola. Umfredo non prese sonno: era da molti anni, dodici e forse di più, che non tornava al piccolo villaggio natio: il cuore fremeva e un'emozione forte lo teneva sospeso come uno che aspetta un incontro importante: avrebbe rivisto la sua casa, quelle dei suoi amici e i vecchi campi, forse tornati come una volta come nei suoi sogni, magari avrebbe rivisto qualcuno che conosceva, magari la madre. Sognava ad occhi aperti.

    Erano sul procinto di ripartire, che un cavaliere normanno arrivò con l'ordine di proseguire per Siponto e di attendere lì nuovi ordini. Ed il sognò sfumò.

    Tutta la città era in subbuglio. Vi era un muoversi concitato di gente per le vie, che accorreva al seguito di una processione: le preghiere dei clerici e dei fedeli erano accompagnate da un'aria di afflizione insolita che si definiva sui volti e nei passi sommessi dietro la statua di San Nomolitio. Chi, sopraggiunto in quell'istante, vedeva sulla via principale il lungo corteo di amici, parenti, visi conosciuti, fratelli concittadini, non resisteva all'aggregarvisi e prendeva senza indugio il suo mesto posto nella fila, chi invalido non poteva parteciparvi, posato sul margine della strada, protendeva le mani tremanti proferendo preghiere piene di lacrime all'incedere del santo, chi straniero, conturbato da tale scena, si ammutoliva e restava fermo negli atti poiché parole e gesti valevano oltraggio al comune dolore se non fossero quelle di una preghiera o quelli dei passi al seguito: tutti erano uguali in quella devozione, poveri e ricchi, sani e malati. Solo un gruppo di guerrieri si distingueva, avanzando inquieti con espressione adirata, colpiti nell'orgoglio.

    Umfredo riconobbe l'amico Gabriele circondato dai famigliari, si lanciò svelto nella mischia e gli si pose accanto, seguito da Martino e dagli altri: sguardi rapidi e contenti furono unici saluti tra loro. Gabriele lo tirò per il braccio, come per ripetere l'invito a stargli accanto.

    La processione si fermò alla spiaggia, dov'era allestito un altare di legno.

    L'arcivescovo stando obliquo alla riva, così da vedere e il mare e la folla, pronunciò parole infuocate: «O uomini di Siponto, lo scorno subito verrà lavato. L'onta ricevuta dai fetidi profanatori non rimarrà invendicata. Siponto di concerto col re, che è qui nel suo castello a Monte, ha già in forze una spedizione che ci riporterà indietro la santa reliquia, cuore e spirito vitale di noi tutti. Essa presto tornerà da noi a domare le acque del mare, a proteggere noi pescatori, pellegrini e marinai tutti.»

    Finita la cerimonia, Gabriele e i famigliari raccontarono i tristi avvenimenti precorsi.

    Dieci giorni prima era sbarcata una nave di Saraceni a chiedere aiuto per aver perso parte dell'equipaggio e tutti i viveri durante una tempesta; avevano però denaro ed erano disposti a comprare tutto l'occorrente. «Astagfir», dicevano, cioè «misericordia» in nome di Dio, quel Dio padre di Abramo che è padre comune a loro e ai cristiani. L'arcivescovo concesse l'aiuto, a patto che l'indomani avessero lasciato la città.

    Di notte quei falsi poveri marinai, si erano trasformati in feroci guerrieri: armati di spade, penetrati in silenzio nella chiesa di San Nomolitio avevano rubato arredi, oggetti preziosi, ori e argento, ma la cosa più vile fu l'avere sottratto la reliquia del santo: un osso del piede, che per loro infedeli era di nessun valore e vantaggio; defraudando, invece, in tal modo tutti i Sipontini del bene più importante e vitale.

    Dopo avere devastato l'interno della chiesa, di nascosto si erano ritirati sulla nave e all'alba erano già lontani.

    Tutti si lamentarono per essere stati imbrogliati e derisi: i guerrieri si struggevano rabbiosi perché nessuno di loro li aveva notati e fermati, gabbati come ingenui bambini.

    Umfredo chiese chi fosse San Nomolitio e il padre di Gabriele gli narrò la leggenda.

    San Nomolitio, era il santo protettore dei Sipontini, da tempi remoti. Proveniva dall'Asia Minore e, dopo un lungo peregrinare per il mondo, pervenne a Siponto. Aveva predicato a tutti i popoli delle terre attraversate le buone regole del Vangelo. Della sua vita si sapeva poco: si diceva che a Siponto avesse compiuto miracoli e guarigioni, ma la memoria di questi si era perduta nel tempo. Dopo la morte, fu ritenuto beato e venne sepolto su uno sperone di roccia, una sottile lingua di terra che si protendeva nel mare e ancora resisteva alla furia del mare.

    Da allora passarono molti anni.

    Successe una volta che alcuni pellegrini sipontini fossero di ritorno dalla Terrasanta, e già in vista della costa. Arrivò per prima, superandoli da presso, la veloce galea di un ricco mercante con a bordo gente di nobile stirpe. Quei signori sbarcati annunciarono l'imminente approdo dei pellegrini. Si sparse rapida la voce e subito accorsero in spiaggia parenti e amici ad osservare di lontano la nave, ad aspettare lì i loro cari frementi di riabbracciarli, bramosi dei loro racconti e dell'avventura. Alcuni dei nobili dalla galea si recarono in spiaggia e riferirono alla folla di aver salutato i loro cari e di averli visti sul loro legno stanchi, ma felici.

    L'attesa si prolungò a causa di una debole corrente che rallentò la nave, così alcuni decisero intanto di avvicinarsi ai pontili, e magari ripararsi dietro i magazzini per il vento che diveniva vieppiù fastidioso. Notarono che la nave veniva risospinta lontano, al largo, dove la tempesta spingeva in alto le onde e ingrossava tutto il mare. Una mesta inquietudine strinse i loro cuori, memori di tante tragedie raccontate, testimoni di altre: le povere navi dei pellegrini, molto diverse dalla robuste e ben costruite dei ricchi, erano spesso bastimenti alla fine della loro vita che già avevano subito innumerevoli riparazioni, fatte spesso con poca arte e con nessun altro criterio che non fosse quello del risparmio; così ordinate, paramezzale, chiglia e fasciame talmente marci e pieni di bruma facevano ancora finta di essere parte attiva della struttura.

    E di questo i poveri erano a conoscenza.

    Le voci di quella povera gente si trasformarono in preghiere, e con il sopraggiungere dell'oscurità queste in pianto, tanto sulla nave quanto a terra.

    A tratti, fulmini e bagliori improvvisi mostravano la nave, minuta, all'orizzonte; a tratti sembrava scomparire del tutto, poi riappariva sull'alto di un'onda, in seguito si riabbassava nascondendosi dietro un'altra più grossa e più scura; talché gli animi, pendenti dall'incerto altalenare della nave, erano scossi da colpi di speranza e di gioia rapidamente seguiti e soffocati dal terrore che cresceva negli infiniti istanti prima di rivederla.

    Altri compaesani accorsero alla spiaggia, ma molti constatata la situazione tornarono a casa proferendo parole di cordoglio per i parenti dei pellegrini, alcuni cercavano di portare via i più deboli.

    Nella chiesetta nei pressi del porto il sacerdote Agostino era rimasto a pregare solo, fin quando stanco e vinto dal sonno si abbandonò riverso sotto l'altare. Ebbe una visione del beato Nomolitio che gli ordinava di prendere i suoi resti, posarli sulla «barchetta sacra» e spingere questa in mare. Si svegliò e, madido di sudore, tremante, ricollegò la visione alla sciagura imminente. Corse alla spiaggia dove era quella gente disperata, disposta a tutto. Con un gruppo di uomini si recò a scavare sul promontorio dove la leggenda narrava che il beato fosse seppellito. Dopo alcune ore e diverse vane buche, bagnati da onde rabbiose che si levavano alte sulla roccia e la colpivano infrangendosi pericolose, trovarono infine, increduli ma contenti, un osso del piede, certamente l'ultimo resto non consunto del corpo.

    Lesti lo avvoltolarono in una stoffa, con corde assicurarono il fascio su una barca, e spinsero questa in mare. La barca si allontanò di un tratto e poi tornò al punto di partenza.

    Allora Agostino si ricordò delle parole dette dal beato Nomolitio riguardanti una «barca sacra», così benedisse la barca e la rinviarono in mare: stesso risultato.

    Una donna molto anziana, madre di uno dei pellegrini e vedova di un marinaio, si ricordò di una particolare barchetta in una piazza. Era la miniatura in legno di una nave mercantile costruita con dovizia di particolari e passione forse da un marinaio o da uno che amasse il mare e le navi, molto tempo addietro. Era stata posta sotto lo sguardo di un Gesù affrescato in una nicchia ricavata sul muro esterno di una casa nobiliare, nell'angolo tra la parete affacciata sulla piazza e quella su una stretta via che vi confluiva. Ben visibile invitava tutti i passanti ad una preghiera per i compaesani naviganti. Col passare degli anni, i colori e i contorni del dipinto si sbiadirono tanto che, divenuta infine la figura del Cristo irriconoscibile e quasi scomparsa, la barchetta era caduta senza significato nell'indifferenza di tutti. Come se ciò non bastasse, la casa fu comprata da un negoziante che eresse sopra la porta che dava sulla piazza una tettoia per tenervi mercato, la quale finiva proprio sotto la nicchia e in parte la copriva. Divenuta invisibile fin sul limitare della piazza stessa, solo qualche vecchio navigante la notava di lontano, passando per la stradina di fronte, memore dei giovanili momenti di accorate preghiere prima della partenza.

    Quando gli uomini e Agostino tornarono in spiaggia con la barchetta tra le mani, ormai la nave dei pellegrini era affondata, sparita da tempo tra le acque.

    Ciò nonostante, come promesso in sogno al beato, Agostino appese un lume al piccolo albero maestro della barchetta, legò la reliquia al piccolo ponte, e la posò delicatamente sull'acqua dicendo: «Vai beato Nomolitio, porta il saluto e l'affetto ai nostri cari, accompagnali con la tua luce in paradiso: ora essi hanno smesso di soffrire e di avere paura.» Sola si avventurò con la sua piccola luce tra le onde e le tenebre, e poi disparve. La folla si allontanò.

    La spiaggia rimase silenziosa e deserta: vortici di vento sollevavano in alto strane figure di sabbia, sibilanti e gementi: erano le anime stesse dei pellegrini morti che piangevano il dolore dei loro cari rimasti più soli, o le stesse grida di pena e di strazio, così intense che persistevano ancora sul lido rapite dal vento. Oppure niente di tutto questo.

    Non passò un'ora che un ragazzo, rimasto in spiaggia, corse fino a casa di Agostino, gridando con forza: «La nave, la nave!»

    I pellegrini avevano affidato le ultime preghiere a Dio in ginocchio sul ponte, quando videro una piccola luce diretta verso di loro che squarciava le tenebre e solcava tranquilla la buia tempesta: pensarono fosse la luce di Dio nell'atto prima di morire. Notarono poi una strana barchetta avanzare e infine toccare, rimanendo come appiccicata, la loro nave, che si assestò di colpo e smise di ondeggiare. Tutt'intorno divenne calmo e, dove quel lume mandava il chiarore, le onde si appiattivano tosto come ad un comando. Decisero di tirarla a bordo; il capitano la portò a prua e, appoggiato al parapetto, la sporgeva proteso in avanti, tenendola stretta tra le mani come uno scudo contro il terrore e la morte: la nave avanzò seguendo il bagliore che dileguava le tenebre. Un sacerdote si aggrappò alle vesti del capitano, il quale strinse più forte la piccola imbarcazione; uno del pellegrini prese la tunica del sacerdote e tutti tra di loro si tennero per mano, tutti in ginocchio. Si elevò un canto al Signore, che divenne più forte e gioioso man mano che rivedevano la riva e si riavvicinavano ad essa.

    Questo fu il miracolo più grande di San Nomolitio, altre sue vittorie contro il male ritornarono subito alla memoria, altre furono riscoperte trovando e leggendo dei vecchi libri che narravano della sua vita e di altri santi già ben noti. Inoltre si narra che la mattina seguente diverse persone ammalate, per lo più famigliari di pellegrini, d'improvviso guarirono. E da beato fu fatto santo.

    Gli fu costruita una chiesa vicino al porto in marmo bianco, di architettura superba, che da molte miglia lontano si stagliava luminosa tra i riflessi azzurri sulla spuma bianca del mare per sempre domato: mille artisti vennero da tutta la Puglia e dal resto d'Italia per affrescarla e adornarla. Le navate ed il transetto furono dipinti con scene bibliche e di vita del santo; la reliquia con la barchetta fu posta sotto l'altare mentre in fondo nell'abside troneggiava la sua statua. Lo scultore lo raffigurò come descritto nei libri, ma aggiungendo quell'aura particolare di santità che solo arte fortemente inspirata e devozione profonda sanno infondere; di fianco la statua aveva una barca con equipaggio, che nell'intenzione dell'artista voleva rappresentare la barchetta sacra oppure, in una seconda interpretazione, la stessa nave salvata, o forse entrambi: la cosa, purtroppo, non si seppe mai.

    Tuttavia, da allora Nomolitio, amato da tutti i Sipontini, divenne il santo protettore della città e di tutti i naviganti che lo veneravano.

    Come ultimo fatto, Agostino, la notte successiva, ebbe un'altra visione di San Nomolitio: non molti secoli sarebbero trascorsi che Siponto si sarebbe dimenticata di lui e della sua luce, che solo l'amore e la venerazione dei suoi abitanti poteva

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