Volontari dei Syria Civil Defense cercano i sopravvissuti sotto le macerie di un ospedale MSF bombardato dai russi a Ma'arrat al-Nu'man, Idlib, il 15 Febbraio 2016
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di Gabriele Del Grande
Ieri i bombardamenti russi nel nord della Siria hanno colpito due ospedali di Medici Senza Frontiere, a Ma'arrat al-Nu'man e a 'Azaz, causando la morte di 19 civili. Conoscevo l'ospedale di 'Azaz. L'avevo visitato nel settembre 2013 insieme agli attivisti siriani con cui per un anno avevo viaggiato tra Aleppo e la provincia di Idlib. Ieri ho provato a ricontattarli e ho scoperto che nessuno di loro è rimasto in Siria. Abu Mohammad è a Copenaghen, Wassim a Kiel, Shiro a Stuttgart. Con loro, se ne sono andati tanti degli uomini del Jaish al-Hurr (l'Esercito Libero Siriano) che avevo conosciuto nei miei viaggi. Quelli che avevano preso le armi dopo i sei mesi di manifestazioni del 2011 represse nel sangue. Quelli che avevano iniziato a combattere prima per difendersi e poi per liberare il paese dalla dittatura. Tra Aleppo e Idlib, di loro non c'è più traccia. Chi non è morto è fuggito. E chi non è fuggito è stato risucchiato dai vortici d'odio di questa sanguinosa guerra arruolandosi tra i qaedisti di Jabhat al-Nusra, i salafiti di Ahrar Ash-Sham e le altre milizie islamiste a libro paga di Arabia Saudita, Turchia e Qatar, i grandi sponsor dell'opposizione siriana e delle sue milizie.
Sono soprattutto questi tre Paesi che, pur di togliere la Siria dall'influenza iraniana e sostituire Asad con un governo amico, hanno prima armato la rivoluzione per difenderla dalla feroce repressione del regime, e quindi hanno contribuito a trasformare una guerra di liberazione in una fratricida guerra settaria tra sunniti e sciiti, arrivando perfino a scendere a patti con gli uomini di Jabhat al-Nusra, la costola siriana di Al Qa'ida, già dal 2012 sulla black-list dell'antiterrorismo americana. Una scelta quantomeno discutibile se è vero che nel frattempo i qaedisti di al-Nusra non soltanto sono diventati la forza militare più importante nei territori controllati dall'opposizione nel nord della Siria, ma hanno da tempo disconosciuto l'autorità dell'opposizione siriana e di quel poco che resta dell'Esercito Libero. Motivo per cui ai recenti negoziati per la pace a Ginevra non sono stati nemmeno invitati...
Un paradosso non da poco: l'opposizione siriana non è in grado di controllare il suo braccio militare più forte, tuttavia continua a sostenerlo perché ne ha un dannato bisogno per piegare militarmente Asad e costringerlo al negoziato. Era questa in fondo la strategia di sauditi, turchi e qatarini e con loro degli americani, ça va sans dire. E va detto che avevano quasi centrato il loro obiettivo dopo quattro anni di guerra, 470mila morti, 11 milioni di profughi, un intero paese distrutto e per metà occupato dagli uomini dell'Isis, prontamente infiltratisi a Raqqa e dintorni dal vicino Iraq, approfittando del caos, dei pozzi petroliferi e di quantomeno inaspettate ritirate dell'esercito regolare siriano... Un anno fa Bashar Al-Asad era dato da tutti per spacciato. Poi però sono arrivati i russi. Era il settembre 2015 e da allora è cambiato tutto.
Cinque mesi di feroci e indiscriminati bombardamenti russi sul nord della Siria hanno di fatto rovesciato i rapporti di forza sul terreno, grazie anche alle milizie sciite di afghani, iraqeni e libanesi giunti sul campo di battaglia assieme ai consiglieri militari russi e iraniani per dare manforte alle malmesse e demotivate truppe di quel che rimane dell'esercito arabo siriano fedele al regime di Asad. Al punto che oggi l'unica sconfitta che si profila all'orizzonte è quella dell'opposizione.
Sì perché l'aviazione di Putin non sta bersagliando le roccaforti dell'Isis a Raqqa, bensì le milizie anti-Asad che più minacciano la tenuta del regime nel nord della Siria. Nelle province di Ladhiqiya e Idlib sono state bombardate a tappeto le roccaforti dei qaedisti di Jabhat al-Nusra e Jund al-Aqsa e le altre milizie islamiste di Jaish al-Fatah. Ad Aleppo i salafiti di Ahrar Ash-Sham, le milizie islamiste di Fatah Halab e quel che rimane dell'Esercito Libero. Per i russi, sconfiggerli non è soltanto prioritario rispetto all'Isis, bensì necessario: per salvare il regime dell'alleato Asad, dettare le regole al negoziato di Ginevra e allargare la propria presenza militare in una zona tanto strategica del Medio Oriente e del Mediterraneo.
I risultati dell'ultimo mese di combattimenti non lasciano dubbi. Il regime ha ripreso importanti posizioni nella provincia di Ladhiqiya e adesso - dopo aver liberato i due villaggi sciiti di Nubol e Zahraa, che da tre anni erano sotto l'assedio di al-Nusra – ha riconquistato tutta la provincia orientale e settentrionale di Aleppo, spingendosi per la prima volta in tre anni fino a 25 km dal confine turco.
Ma a fare le spese della strategia russa della terra bruciata sono soprattutto i civili. L'Osservatorio Siriano sui diritti umani ha documentato la morte sotto i missili e le famigerate cluster bombs dell'aviazione russa di almeno un migliaio di civili. Mentre è salito 70mila il numero degli sfollati scappati nelle ultime due settimane dalle zone bombardate a nord di Aleppo e ancora bloccati alla frontiera turca di Azaz.
In questo clima da vigilia della battaglia finale, lo scorso 3 Febbraio i qaedisti di al-Nusra hanno inviato ad Aleppo i propri rinforzi: un convoglio di centinaia di auto, carri armati e blindati. Una parata militare che sa di prova di forza, ma che in realtà nasconde un clima di crescente preoccupazione, almeno a giudicare dal crescente numero di defezioni tra gli uomini di al-Nusra, nonché da una serie di misteriosi omicidi e attentati ai vertici militari sia di Ahrar Ash-Sham che di al-Nusra, per non parlare delle insistenti voci di un negoziato segreto per la resa della cittadina di Mare e altre località a nord di Aleppo, che potrebbero essere cedute senza colpo ferire alle milizie curde del YPG, alleate del regime, di stanza a 'Afrin.
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A preoccupare il regime è invece il rischio concreto che la battaglia di Aleppo favorisca l'avanzata dell'Isis nel nord della Siria. Lo Stato Islamico infatti era stato espulso da Idlib e Aleppo nel Gennaio 2014 proprio dai qaedisti di Jabhat Al Nusra, dai salafiti di Ahrar Ash-Sham e da ciò che resta dell'Esercito Libero, in una sanguinosissima battaglia costata la vita a 7mila combattenti. L'indebolimento di queste milizie oggi bersagliate dai bombardieri russi, se da un lato apre la strada all'avanzata del regime, dall'altro romperà inevitabilmente l'argine che finora aveva tenuto l'Isis fuori da Aleppo.
Per questo, nell'intricato groviglio di alleanze sul campo di battaglia, Asad ha da poco inviato rifornimenti militari alle milizie curde dell'YPG - invise ai turchi ma alleate degli americani - con cui vuole da un lato tenere impegnato l'Isis sul fronte curdo del Rojava e dall'altro riprendersi il posto di frontiera con la Turchia di 'Azaz, a nord di Aleppo. Per le milizie dell'opposizione sarebbe un duro colpo perché da qui passano buona parte dei rifornimenti militari inviati da turchi, sauditi e qatarini. Ed è proprio per questo che l'esercito turco negli ultimi giorni ha più volte bombardato le postazioni in Siria dei curdi dell'YPG, che Erdogan considera un'organizzazione terroristica al pari del PKK con cui ha riaperto le ostilità da mesi.
Ad ogni modo, comunque vada a finire la battaglia di Aleppo, l'impressione è che il vento sia cambiato, e che soffi decisamente a favore di Asad. La prova è la relativa tranquillità degli americani, un tempo grandi oppositori del regime siriano e oggi molto più preoccupati dall'Isis. Le prime avvisaglie del cambio di priorità si erano avute lo scorso Ottobre, quando l'amministrazione Obama decise di annullare il programma di 500 milioni di dollari per l'addestramento militare dei ribelli siriani in Turchia e Giordania, preferendo usare quei fondi per armare direttamente i guerriglieri curdi del YPG in funzione anti-Isis sul modello di quanto avvenuto a Kobane.
Da allora certo, il segretario di Stato americano John Kerry pubblicamente continua ad alzare la voce contro il regime di Asad, così come fanno i suoi alleati turchi e sauditi che minacciano addirittura l'invio di truppe in Siria. Dietro le quinte però il discorso degli americani è un altro. Secondo una ricostruzione del quotidiano Al-Quds Al-Arabi, a margine della Conferenza di Londra dello scorso 4 Febbraio, in una riunione a porte chiuse con rappresentanti della società civile siriana, Kerry avrebbe dichiarato di essere al corrente che i russi stessero preparando “l'inferno” e di abituarsi all'idea che “presto non esisterà più nessuna opposizione siriana”. D'altro canto, il ministro degli esteri russo Lavrov ha precisato che, d'accordo con gli americani, il cessate il fuoco proposto alla Conferenza di Monaco la scorsa settimana non interesserà i bombardamenti su Jabhat al-Nusra e Ahrar ash-Sham nel nord della Siria.
È come se sottobanco russi e americani concordassero sulla necessità di sconfiggere le milizie qaediste e salafite ormai fuori controllo. Solo allora si potrà tornare al tavolo del negoziato a Ginevra con Asad vincitore militare, un'opposizione dalle armi spuntate e senza più diritti di veto e con un accresciuto ruolo politico ai curdi del YPG. Perché una soluzione politica va pur trovata. E non solo per alleggerire la pressione di milioni di rifugiati sui Paesi vicini e sull'Europa, ma anche e soprattutto per poter affrontare la vera priorità: la guerra contro l'Isis, il nemico che oggi inquieta la comunità internazionale molto più di Asad.
Se gli americani riusciranno a convincere l'opposizione siriana a tornare a Ginevra il 25 Febbraio per il secondo round dei negoziati, non è detto che non si riesca a raggiungere un accordo finora insperato che porti nel giro di uno o due anni a una transizione e delle elezioni. Certo, molti gruppi boicotteranno il voto, a partire dalle famiglie delle decine di migliaia di civili uccisi barbaramente dal regime in questi cinque anni. Ma la maggior parte dei siriani, in assenza di alternative credibili, tra i tanti signori della guerra sceglieranno Asad come l'unico in grado di garantire la sicurezza, che dopo tanti anni di spargimenti di sangue sarà il bene più prezioso anche della libertà.
E vedrete che l'astuto Asad saprà offrire parole di riconciliazione e perdono ai suoi oppositori, di fronte alle quali il mondo accetterà il suo ritorno sulla scena internazionale. Milioni di siriani rientreranno nel paese. E l'attenzione della stampa mondiale si sposterà presto su altri teatri di guerra. Solo allora i servizi segreti del regime inizieranno a cercare i dissidenti ancora vivi e le loro famiglie, per farli sparire uno ad uno. Che poi è quello che fece il padre, Hafez Al-Asad per un intero decennio dopo la distruzione di Hama del 1982. La memoria del regime è sempre più lunga di quella dell'opinione pubblica, per non parlare della stampa che già adesso pare aver dimenticato i crimini atroci commessi da Asad in questi cinque anni. Con buona pace della rivoluzione tradita, dei suoi martiri innocenti e dei tantissimi esuli – compresi i miei amici attivisti rifugiati in Germania e Danimarca - che in Siria non metteranno più piede per molti anni a venire.