Emily Wilson - Seneca
Emily Wilson - Seneca
Emily Wilson - Seneca
libro
SENECA
Biografia del grande filosofo della classicità
SENECA
Anche la sua eredità è ambigua, in senso sia letterale sia metaforico. Seneca
aveva promesso di lasciare dietro di sé, come sua opera migliore, l’«immagine
della propria vita». Ma aveva anche giurato di affidare nel suo testamento del
denaro agli amici, come segno di gratitudine per i «servigi» che gli avevano
reso. L’immagine di un filosofo ricco come Creso, ossessionato dal pensiero
della propria reputazione dopo la morte (anziché, poniamo, dal pensiero
dell’immortalità dell’anima), sembra assai lontana dall’ideale socratico. E, fra
l’altro, Nerone avrà poi rispettato le ultime volontà del suo vecchio maestro? È
più probabile che si sia ripreso le terre e le ville che gli aveva regalato. La
moglie di Seneca, che avrebbe voluto sacrificarsi accanto al marito, fu salvata
dai soldati dell’imperatore e gli sopravvisse. Non sappiamo quali siano state le
parole pronunciate dal filosofo agonizzante: non ci sono state tramandate, per lo
meno non da Tacito, che è la nostra unica fonte. Il tempo del potere e
dell’influenza di Seneca fu breve. La sua fu una morte di compromesso, con
prime, seconde, terze soluzioni; una morte che seguiva una vita di compromessi
e complessi negoziati fra ideale e realtà, fra filosofia e politica, fra virtù e
denaro, fra motivazione e azione.
La storia della sua vita pone un interrogativo di portata più ampia, addirittura
universale, che assume una particolare rilevanza nel nostro tempo. Il successo,
che cos’è? Questa domanda percorre come un filo rosso tutta la produzione
letteraria di Seneca. Egli mette costantemente in scena i conflitti fra i modelli
antitetici della buona vita e della vita di successo. Il provinciale Seneca era salito
in alto, era stato esiliato ed era caduto in disgrazia, ma nella sua età di mezzo si
era trovato all’improvviso a essere uno degli uomini più potenti di Roma e infine
il braccio destro dell’imperatore. In questo ruolo si sentiva sempre più
intrappolato, alienato e terrorizzato. Dopo avere supplicato invano Nerone di
concedergli il permesso di ritirarsi, gli aveva restituito una parte delle ricchezze
ricevute in dono, e nel 64 d.C. si era allontanato dalla corte. La distanza non era
stata sufficiente a salvarlo. La condanna per cospirazione fu la sentenza
definitiva che l’imperatore pronunciò contro il suo maestro, consigliere e amico
di un tempo.
Seneca, che era uno studioso profondo della filosofia stoica, sapeva che il
saggio ideale doveva essere sempre libero, sereno e felice fino alla morte, anche
nell’agonia, nella sofferenza più lancinante, nell’umiliazione e nel lutto. Era però
anche consapevole della distanza che lo separava dal modello stoico. Di sé
diceva di essersi soltanto incamminato sulla via della sapienza (proficiens), mai
di avere raggiunto il traguardo. La coscienza della propria imperfezione
costituisce probabilmente il lato più amabile di questo personaggio dal fascino
infinito. Tacito ci mostra un filosofo che anche nei suoi ultimi istanti è alla
ricerca della pace interiore, non un uomo che ha già trovato tutte le risposte. Nei
suoi trattati Seneca immagina la morte come una facile via d’uscita, una porta
sempre aperta: «Fra tutte le esperienze ... non ne ho resa nessuna più accessibile
della morte» (La provvidenza 6, 7). Il saggio, ribadisce continuamente, dovrebbe
mostrarsi sempre superiore alla sorte, buona o cattiva che sia, e con la forza di
volontà saper superare facilmente qualsiasi sfida: non perché siano difficili non
facciamo le cose, afferma, ma le cose «sono difficili perché non osiamo farle»
(Lettera 104, 26). Eppure per Seneca, nonostante il coraggio, furono difficili
tanto la vita quanto la morte.
Le fonti
Un libro incentrato sulla vita di Seneca va incontro a difficoltà particolari.
Alcune sono all’ordine del giorno per qualsiasi biografia che si occupi di un
personaggio della storia antica o premoderna. Il biografo non dispone di nessuna
delle tante prove documentali – lettere, diari, fotografie, oggetti, testimonianze
orali di amici, studiosi, nemici, amanti, sposi, editori o studenti – di cui può
spesso disporre chi si occupa di persone scomparse più di recente. Quanto a
Seneca, oltre la metà della sua enorme produzione letteraria è andata perduta,
compresi i discorsi politici, le lettere private, gran parte degli scritti in versi, i
saggi sull’India e l’Egitto, un trattato giovanile sui terremoti, un libro sul padre e
un dialogo sul matrimonio. Sulla prima parte della sua vita sappiamo
pochissimo, di conseguenza questa biografia ha inevitabilmente poco da dire
sull’infanzia e la giovinezza dello scrittore latino, e si concentra in particolare su
un paio di decenni della piena maturità, quelli in cui egli compose quasi tutte le
opere tramandateci e per i quali, a causa del suo coinvolgimento con Nerone,
abbiamo riferimenti in altri autori.
Le difficoltà, però, non derivano soltanto dalla scarsa documentazione: anche
la natura dei riscontri è problematica. Gli scritti superstiti di Seneca sono
voluminosi, assai più consistenti di quelli di gran parte degli autori antichi.
Abbiamo le tragedie, saggi su svariati argomenti, le lettere filosofiche, una satira
politica e un ampio trattato su temi scientifici (Questioni naturali). A differenza
di quasi tutti gli autori del lontano passato, Seneca usa spesso la prima persona e
parla a lungo e dettagliatamente della quotidianità e di come viverla. Eppure,
nessuna delle opere appena elencate ha un rapporto diretto e semplice con la vita
dell’autore. Nessuna è così prossima all’autobiografia quanto le lettere private di
Cicerone all’amico Attico. Quelli senecani sono scritti rivolti a un pubblico,
attentamente costruiti a questo scopo, anche quelli all’apparenza più personali,
come la lettera di consolazione alla madre sul proprio esilio. Ogni accenno a fatti
che possono sembrare autobiografici è sfuggente e spesso inaffidabile. Nelle
composizioni letterarie, come ci capiterà di constatare più volte in questo libro,
Seneca sembra giocare a rimpiattino con il desiderio del lettore di saperne di più
sul suo vissuto. Per esempio: egli fu esiliato e scrisse molto sull’esilio in
generale e anche sul proprio. Ma i pochi dettagli che ci regala sulle condizioni
materiali della sua vita durante il soggiorno coatto in Corsica sono tutti, dal
primo all’ultimo, costruzioni letterarie, sul modello di un altro, famoso,
predecessore romano, Ovidio. 5 Problemi ancora più complessi sorgono quando
si cercano nei suoi scritti notizie utili a ricostruire la sua vita familiare (genitori,
mogli e figli) e le amicizie, per non parlare poi delle informazioni più ambite (e
al tempo stesso più elusive), quelle sui suoi rapporti con Nerone. Gli scritti
possono tutt’al più aprire qualche spiraglio su come Seneca vedeva la propria
vita, ma non dobbiamo mai dimenticare quanto sia ardua l’impresa.
Possiamo almeno sperare di ricostruire attraverso le opere una serie di princìpi
coerenti su argomenti filosofici astratti o magari anche su questioni più pratiche,
come, per esempio, se sia bene partecipare alla vita politica e se la salute
contribuisca alla felicità umana. Oppure, supponendo che la concezione
senecana del mondo sia cambiata nel corso del tempo, possiamo sperare di
ricostruire la sua opinione su questa o quella questione in un determinato
periodo. 6 Ebbene, anche questo risulta a volte un compito impossibile. Di molte
delle sue opere superstiti non possiamo stabilire con precisione la data. Ci sono
contraddizioni fra uno scritto e l’altro, e persino contraddizioni e tensioni interne
a ciascuno scritto. E, come se non bastasse, molte delle posizioni che l’autore vi
assume sono incompatibili con ciò che sappiamo della sua vita. E allora perché
sorprendersi se lo storico Cassio Dione (dell’inizio del III secolo d.C.) lo accusa
di ipocrisia?
Di solito gli studiosi moderni non attribuiscono molta importanza a questo
genere di accuse, ritenendole il frutto di aspettative semplicistiche e persino
anacronistiche fondate su un supposto nesso fra vita e letteratura e sul significato
della coerenza. 7 Assoluzioni così rapide, tuttavia, sono spesso superficiali e
basate talvolta su premesse ancora più semplicistiche, quale quella, per esempio,
che un bravo scrittore non possa non essere una brava persona. La domanda più
interessante non è perché Seneca non sia riuscito a mettere in pratica i princìpi
che predicava, ma perché predicasse quei princìpi con tanta inflessibilità ed
efficacia, vivendo come viveva. Le opere superstiti rivelano una tensione
affascinante e prolungata verso la coerenza, concepita come la capacità di restare
immobili, mentre tutt’intorno il mondo continua a girare. I concetti di constantia
e inconstantia che Seneca utilizza hanno un significato alquanto diverso dai
concetti moderni, postromantici, di «integrità» e «ipocrisia». Mentre il termine
«ipocrisia», derivante dal greco hypokrisis, che significa «recitazione»,
suggerisce uno sfasamento – in un momento specifico – fra il comportamento
esteriore di un individuo e la sua realtà interiore, l’«incostanza» suggerisce
invece l’incapacità a restare identici a se stessi in ogni momento del tempo. In
che cosa consiste la saggezza?, si chiede Seneca in una lettera a Lucilio. La
saggezza, si risponde, consiste «nel volere sempre le stesse cose e, viceversa, nel
rifiutare sempre le stesse cose» (Lettere morali a Lucilio 20, 5). L’ideale stoico
della constantia, su cui Seneca scrisse un trattato che ebbe una grande influenza,
coincide con la capacità del saggio di restare immobile, sempre uguale, sempre
stabile, in un mondo in cui tutto cambia. Seneca aspirava ad avere un’identità
coerente, che si mantenesse invariata, sia che egli banchettasse a corte, sia che
marcisse in esilio su un’isola rocciosa, lontano dal centro del potere. Sapeva,
però, quanto fosse difficile raggiungere questo ideale.
L’ambizione politica e l’aspirazione a diventare una guida filosofica
scaturivano dalle medesime profondità della sua psiche: dal desiderio di sentirsi
al sicuro in patria e di controllare il mondo mutevole che lo circondava, anziché
trovarsi costantemente scagliato ai suoi margini opposti. Seneca fu per tutti i suoi
anni un vero outsider e un vero insider. Come un pendolo, la sua vita si
avvicinava e si allontanava costantemente da Roma e dal centro del potere: dalla
Spagna a Roma; da Roma all’Egitto e ritorno; da Roma alla Corsica e ritorno, e
poi una lunga e dolorosa serie di vacillamenti e tentativi di sottrarsi alla corte
neroniana, fosse pure per rifugiarsi nella sicurezza della tomba.
Questo libro rintraccia i paradossi derivanti dal suo tentativo di conquistare
l’imperium, che è a un tempo «controllo», «dominio» e «impero», sia nella sfera
pubblica sia nella sfera personale: il tentativo, cioè, di esercitare la propria
influenza sugli altri nella società e insieme di trovare la stabilità al proprio
interno. La frase citata in esergo – «Il dominio di se stessi è il massimo dominio»
– è tratta da una delle Lettere morali a Lucilio (113, 30), nella quale Seneca
esamina il rapporto problematico fra i due tipi di imperium. Coloro che cercano
di conquistare il mondo e ottenere il potere politico, militare ed economico
valgono molto meno di coloro che riescono a conquistare il dominio di sé
(imperare sibi maximum imperium est); detto in altri termini: il massimo del
potere è l’autocontrollo. L’attività di scrittore e filosofo consentiva a Seneca di
proiettarsi verso un’alternativa alla politica e all’ambizione, per cercare di creare
un modello interamente suo del «vero» potere: un impero dentro la propria
mente.
Ma significherà pur qualcosa il fatto che l’immagine cui ricorre per descrivere
tale alternativa appartenga al mondo dell’esteriorità? Il controllo di sé è definito
nei termini del controllo politico, e di un controllo politico di una specie
particolare: l’impero. I suoi tentativi di contrapporre all’impero di Nerone
l’impero della filosofia non furono mai coerenti fino in fondo: tra l’uno e l’altro
si verifica sempre una forma di osmosi. Per esempio, l’acuta percezione che
Seneca ha della vacuità del lusso non può essere scissa dalla sua esperienza di
vita fastosa. Egli sapeva bene di che cosa parlava. Aveva toccato con mano
l’impossibilità di comperare la pace dell’anima con la ricchezza: se non fosse
stato così ricco, non avrebbe avuto la stessa consapevolezza dei pericoli e dei
vantaggi del denaro. Seneca non era né un mostro né un santo: era un uomo di
talento, ambizioso, con un carattere profondamente meditativo, un uomo che si
dibatteva alla ricerca di un difficile compromesso fra i suoi ideali e i poteri
costituiti, costantemente teso verso il raggiungimento di un equilibrio fra
aspirazioni e realtà. Come creare un Sé autentico, come dimorarvi pienamente e
che cosa si intenda per autenticità: sono temi, questi, che occupano un posto
centrale nei suoi scritti, e sarebbero di per sé sufficienti per capire quanto le sue
opere tocchino da vicino le ansie e le preoccupazioni del nostro tempo.
Seneca avrebbe voluto essere l’uomo più famoso e potente di Roma, ma anche
vivere in uno stato di calma perfetta, in pace con se stesso, senza l’assillo della
paura e dei sensi di colpa che lo accompagnarono per tutta la vita adulta. La sua
intelligenza e il suo peso letterario e politico furono eccezionali, ma non
altrettanto eccezionali furono i suoi desideri, apparentemente contraddittori e per
molti versi tipici delle forti pressioni cui erano sottoposte le élite romane del
tempo. Dopo una lunga ed estenuante fase di guerre civili, la repubblica era
morta definitivamente con la battaglia di Azio (31 a.C.) e con la vittoria e
l’ascesa di Ottaviano, poi Augusto, come unico reggitore dell’impero. Augusto,
tuttavia, non si proclamò re (per i romani rex fu sempre un termine
problematico), ma «primo fra eguali», princeps, termine da cui derivò
«principato», il nome dato al regno suo e dei suoi successori. Era l’unico uomo a
tenere in mano le redini dell’impero, ma si proclamava il «restauratore della
repubblica». Sotto Augusto e i suoi successori della famiglia Giulio-Claudia –
Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone – divenne tuttavia sempre più evidente che il
Senato, che era stato l’organo di governo durante la repubblica, aveva ormai
perso gran parte del suo potere, passato all’imperatore, alla corte e all’esercito,
senza il quale l’impero sarebbe collassato. Le antiche famiglie dell’aristocrazia
romana, tuttavia, esprimevano ancora un rispetto del tutto formale all’ideale
repubblicano e cercavano in ogni modo di persuadersi di detenere ancora un
potere reale. Il conflitto tra le istituzioni concrete e l’immaginazione politica
poneva le élite in una posizione di profonda contraddizione. Fra la realtà e le
forme di discorso accettate si era creato uno scollamento, che produceva una
cultura della dissimulazione: la finzione era un prerequisito del successo
politico. 8 I patrizi aspiravano ad affermare la propria virilità (da virtus, una virtù
tutta maschile) in un sistema politico che li aveva spogliati dei vecchi poteri.
Parlavano e scrivevano ricorrendo a un linguaggio ambiguo, che si prestava
sempre a più interpretazioni. Lo stile in voga, nei discorsi e negli scritti, era un
impasto di levigate arguzie aforistiche, una cascata di frasi che del vero avevano
soltanto il suono, quasi a compensare la sottostante paura della falsità. La
retorica non era più soltanto uno stile, ma un modo di stare al mondo. Di questo
stile Seneca fu maestro, e questa fu una delle sue eredità letterarie più
importanti. In un qualsiasi elenco delle citazioni latine più famose troveremo
sicuramente parecchi suoi aforismi, alcuni famosissimi, quali «La costrizione
solitamente ha più potere della devozione» (Le troiane v. 581); «A sé rivendica
tutti natura» (Fedra v. 352); «Il crimine si nasconde con il crimine» (Medea v.
721). Spesso gli aforismi manifestano preoccupazioni ricorrenti: la fortuna e i
suoi molti rovesci («Colui che il giorno, giungendo, vede superbo, / costui il
giorno, fuggendo, vede prostrato», Tieste vv. 613-614); i pericoli e la futilità
della ricchezza e dell’avidità («Non fanno re i tesori», v. 344); i temi della
regalità e dell’autorità («È re chi non temerà nulla», v. 388); i meccanismi
dell’ambizione e del potere («Chi domanda da timido suggerisce il rifiuto»,
Fedra vv. 593-594); la virtù e la forza di volontà («A dirigersi ai buoni costumi
non è mai troppo tardi», Agamennone v. 243); e la morte («Chi può esservi
costretto non sa morire», Ercole Furioso v. 426).
Queste preoccupazioni – e lo stile epigrammatico e incisivo con cui sono
espresse – erano tipiche dell’epoca, ma nessuno seppe formularle meglio di
Seneca. Per farsi un’idea di quanto fosse cambiata Roma dai tempi della
repubblica, è sufficiente dare anche soltanto uno sguardo a uno scrittore la cui
vita e le cui opere possono essere paragonate a quelle di Seneca: Cicerone. 9
Entrambi ebbero una formazione retorica e furono autori prolifici, entrambi
scrissero in versi e in prosa, comprese alcune opere filosofiche, ed entrambi
furono protagonisti sulla scena politica del loro tempo. L’uno e l’altro furono
figure controverse, accusate di doppiezza (Cicerone di indecisione e improvvisi
voltafaccia, Seneca di predicare bene e razzolare male); due uomini che
suscitarono profonda ostilità ma anche profonda amicizia. Entrambi furono
mandati in esilio e poi richiamati a Roma. E quando il vento politico non soffiò
più a loro favore, a tutti e due non restò che la morte: Seneca fu costretto a
suicidarsi per ordine di Nerone; Cicerone fu ucciso dai sicari di Antonio nel 43
a.C. La morte di Cicerone coincise con l’inizio della fine per la repubblica,
quella di Seneca con la fine del sogno che un intellettuale potesse guidare la
politica romana.
Le somiglianze e le differenze tra le due vite ci aiutano non soltanto a capire la
trasformazione subita da Roma nell’arco di soli cent’anni, ma anche quali
fossero le caratteristiche delle lealtà intellettuali e politiche di Seneca. L’uno e
l’altro appartenevano all’ordine equestre, ossia alla classe dei cavalieri, avevano
studiato retorica e filosofia e, dopo aver ricoperto la carica di console (il
consolato era l’ufficio più alto della carriera pubblica), erano entrati
automaticamente a far parte delle élite romane. La loro vita però fu molto
diversa. Cicerone era un celebre avvocato e aveva percorso a passo di carica
tutto il cursus honorum, salendo da un gradino all’altro non appena raggiunta
l’età richiesta. Seneca aveva intrapreso la carriera pubblica in età più matura, in
parte a causa della salute cagionevole e in parte forse perché meno interessato
alla vita politica, specialmente nel clima poco congeniale del regno di Tiberio.
La sua più grande aspirazione era dedicarsi allo studio della filosofia. Cicerone
declamava i suoi discorsi in tribunale e in Senato, e si considerava un oratore,
non soltanto un retore. Seneca scriveva i discorsi per Nerone, ma non ambiva a
pronunciarli di persona, forse anche perché, come lamentano le antiche fonti, il
suo era il tempo della «morte dell’oratoria», un’arte che, dopo Cicerone e il
tramonto della repubblica, aveva perso ogni potere di modificare gli assetti
politici. 10
Le differenze non finiscono qui. Cicerone e Seneca si situano agli estremi
dello spettro politico. Il primo, nonostante le tante indecisioni e i compromessi,
si batté a favore delle antiche istituzioni repubblicane. Il secondo apparteneva
all’impero e all’imperatore. Benché fosse animato da una profonda ostilità verso
alcuni sovrani come Caligola e Claudio (manifestata però soltanto dopo la loro
morte), e da una resistenza sotterranea nei confronti di Nerone, suo pupillo e
mecenate, Seneca era del tutto disinteressato alla restaurazione della repubblica e
non era pregiudizialmente avverso al principato in quanto istituzione.
Cicerone e Seneca avevano una visione diversa anche dell’importanza della
filosofia e della politica. Il primo componeva scritti filosofici soltanto negli
intervalli fra un impegno politico e l’altro e considerava la filosofia un mezzo e
non un fine: il suo scopo ultimo era la rinascita della repubblica. Per il secondo,
la filosofia era un fine in sé: con la sua abilità retorica, egli ambiva a trasformare
la forma mentis dei suoi lettori, non il sistema di governo. Al tempo di Cicerone
vi era ancora la percezione di poter mutare la realtà con l’azione politica, e il
grande oratore sperava davvero di provocare la caduta di Cesare e Antonio.
Seneca invece aveva perso ogni speranza di poter minimamente modificare il
regime esistente, opponendosi in modo diretto a qualcuno dei tre imperatori sotto
cui visse. Poteva tutt’al più sperare di arginare alcune delle tendenze peggiori di
Nerone e di rafforzare il più possibile la propria autonomia.
Sul piano letterario, invece, Cicerone fu un precursore fondamentale per
Seneca, il maggiore fra quanti avevano tentato di tradurre il pensiero filosofico
greco nella lingua latina. I riferimenti filosofici di Cicerone erano tuttavia molto
diversi da quelli di Seneca. Cicerone era un eclettico, interessato a varie scuole, e
nei tempi più bui, come durante il disperato dolore per la morte della figlia
Tullia, aveva setacciato tutti i movimenti del pensiero greco alla ricerca di
consolazione. E ogni tanto si diceva deluso che nessuna filosofia sembrasse in
grado di risolvere i problemi più gravi che lo affliggevano. Le sue simpatie
andavano principalmente all’Accademia, la scuola fondata in origine da Platone,
che si era evoluta ai tempi di Cicerone in una forma di scetticismo. Egli
effettuava però anche incursioni in altri campi, nell’epicureismo e nello
stoicismo. Le Tusculanae disputationes (Conversazioni di Tuscolo) sono una
vivace sintesi delle argomentazioni di derivazione stoica a favore della
tranquillità dell’animo, il cui scopo è aiutare il lettore, e l’autore, a superare il
lutto, il dolore e la paura della morte. Nel De officis (I doveri) Cicerone segue la
versione dello stoicismo mista a platonismo elaborata da Panezio nel II secolo
a.C. La sua analisi più ampia dello stoicismo e dell’epicureismo si trova nel De
finibus (Dei fini) trattato nel quale sintetizza, e critica, il pensiero degli epicurei e
degli stoici prima di esporre la propria visione.
Cicerone considerava totalmente irrealistica l’etica stoica: l’ideale dell’uomo
perfetto, cui ambiva la Stoà, non aveva alcun nesso con la realtà, come si
desume dall’orazione Pro Murena e da altri testi. E in fondo non era neppure un
ideale, perché il saggio non aveva nessun coinvolgimento emotivo con il mondo
in cui viveva. Cicerone era assolutamente contrario al raggiungimento
dell’apatheia, ossia l’assenza di passioni. Nelle Tusculanae (libri 3 e 4) sostiene
con forza la tesi che non è possibile, e neppure desiderabile, liberarsi dei
sentimenti del dolore, della rabbia e della paura.
Seneca, invece, riteneva lo stoicismo un modello prezioso per un politico
pragmatico situato al centro del potere romano, un altro segno di quanto fossero
cambiati radicalmente i tempi. In un mondo in cui la pace dell’animo era così
spaventosamente difficile da conquistare, era più che mai vitale aggrapparsi a un
ideale di tranquillità.
Lo stoicismo
Lo stoicismo, il movimento nel quale Seneca più si riconobbe, si proponeva di
offrire una prospettiva di felicità individuale in un periodo di grandi
sconvolgimenti sociali. L’uomo ideale, nella teoria stoica, è il sapiens, il saggio
in grado di comprendere pienamente la verità che nulla, tranne la virtù, conta
davvero. Raggiungere questa meta significa vivere in perfetta armonia con la
natura dell’universo.
Come movimento intellettuale, lo stoicismo esisteva già da oltre tre secoli
quando nacque Seneca, e in quei trecento e più anni aveva subìto vari
cambiamenti e conosciuto sviluppi importanti. Anche la storia della Stoà, come
quella di molte altre scuole, comincia con Socrate, in particolare con il Socrate
che indossava lo stesso mantello in estate e in inverno, era guidato da un segno
divino (daimonion), insegnava che era meglio subire un torto che infliggerlo e
sosteneva che nessuno compiva volontariamente il male. I concetti di ascetismo
(o «semplicità volontaria»), di provvidenzialismo (essere guidati da una forza
divina misteriosa ma del tutto affidabile) e una sorta di intellettualismo (tutte le
azioni malvagie sono dovute a errori di pensiero), accompagnati dall’insistenza
sulla bontà come componente primaria, e anzi unica, della felicità umana, furono
tutti coniati da Socrate e poi sviluppati dagli stoici.
Il secondo contributo lo diedero i cinici (termine che significa «simili a cani»),
chiamati spregiativamente così perché vagavano di villaggio in villaggio come
cani randagi. Il promotore di questa corrente fu, nel IV secolo a.C., Diogene, che
si dice abitasse dentro una botte e non possedesse nulla se non una ciotola di
legno. La leggenda vuole che un giorno, dopo avere visto un ragazzo povero
bere acqua dalle mani, egli gettasse via anche la ciotola, essendosi reso conto
che era anch’essa superflua. I cinici si presentavano come seguaci di Socrate e
praticavano ed esaltavano la povertà, sostenendo che i beni materiali distolgono
dalla vita virtuosa. La vera felicità e la pace dell’animo si possono conquistare
soltanto con l’autosufficienza, la quale è raggiungibile solo attraverso
l’indifferenza per le cose materiali e le false regole sociali. Il filosofo cinico,
come il fondatore della sua scuola, Diogene, trascorreva la vita nudo o vestito di
stracci, e defecava e fornicava in strada senza vergogna. Un giorno, racconta
un’antica leggenda, Alessandro Magno andò a visitare Diogene e gli chiese se
potesse esaudire qualche suo desiderio. «Sì, che tu ti tolga dal mio sole», replicò
il saggio. Alessandro non si offese: nel filosofo riconobbe uno spirito affine,
capace di ignorare le convenzioni umane. E il conquistatore del mondo
commentò: «Se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene».
Il cinismo non attrasse folle di seguaci, e per ovvie ragioni: non erano molti
quelli che desideravano condurre la vita randagia di Diogene. Ma il nucleo
centrale della dottrina – la consapevolezza che le ricchezze materiali e lo status
sociale non portano sempre la felicità – affascinava un numero crescente di
persone. Nel III e II secolo a.C., con la caduta delle poleis greche e l’ascesa dei
grandi imperi (prima quello macedone e poi quello romano), quando il paesaggio
culturale, militare e politico nell’area mediterranea subì sconvolgimenti enormi e
terrificanti, le persone colte anelavano sempre più alla pace dell’animo e
cercavano conforto non nei grandi cambiamenti sociali bensì nella guarigione
spirituale. Tutti i grandi movimenti filosofici dell’epoca – cinismo, stoicismo,
epicureismo e scetticismo – promettevano ai propri adepti il raggiungimento
dell’atarassia, della serenità imperturbabile. La felicità (eudaimonia, in greco)
non consisteva nella gioia o nell’allegria estreme, né in conquiste o avvenimenti
esteriori, ma nella capacità individuale di mantenere una disposizione calma in
qualsiasi circostanza.
Lo stoicismo, rispetto al cinismo, può essere considerato una versione
socialmente più accettabile, intellettualmente più profonda e più compatibile con
i comportamenti non soltanto degli schiavi e dei diseredati, ma anche delle élite
ellenistiche e romane, costituite da persone che non volevano vivere seminude
dentro una botte, ma erano alla ricerca della pace dello spirito, dell’autostima,
della virilità e dell’autonomia in un mondo sempre più grande e sconcertante.
Non sorprende perciò che la dottrina stoica si diffondesse ampiamente.
La scuola stoica fu fondata intorno al 301 a.C. da un greco di nome Zenone,
che viveva ad Atene e in gioventù aveva avuto come maestro il cinico Cratete. In
che cosa consistesse con precisione il suo insegnamento è difficile dirlo, perché
di questo filosofo – come degli altri stoici greci – non possediamo nessuno
scritto. Fu comunque da Zenone che il movimento prese nome, o più esattamente
dal luogo in cui insegnava, la Stoa Poikile, il portico dipinto eretto nella parte
settentrionale dell’agorà di Atene.
Lo sviluppo sistematico dello stoicismo si deve a un filosofo di poco
posteriore, Crisippo, 11 il cui pensiero discende chiaramente dal cinismo. Gli
stoici, come i cinici, ritenevano che niente avesse valore tranne la virtù, che la
virtù fosse necessaria e sufficiente per la felicità e che per essere felici
bisognasse vivere in armonia con la natura. Essi, tuttavia, differivano dai cinici
su due punti fondamentali: attribuivano grande importanza alla ragione e
all’azione, compreso l’impegno politico. Mentre il cinico Diogene si era liberato
immediatamente di Alessandro, lo stoico Crisippo avrebbe discusso con lui e gli
avrebbe dato consigli sulla vita pubblica.
Dello stoicismo, come di tanti altri grandi movimenti intellettuali
dell’antichità, si parla come di una «scuola». Il termine «scuola» implica una
tradizione di credenze e pratiche condivise, non necessariamente un luogo fisico
comune, e non comporta un accordo totale su tutti i punti dottrinali. La
documentazione, frammentaria e insufficiente, che possediamo sullo stoicismo
greco induce a ritenere che il movimento, nel corso della sua storia, abbia subìto
numerosi cambiamenti. Gli studiosi distinguono di solito fra la prima Stoà, la
Stoà media (anche se fra i due periodi il divario è meno grande di quanto si
ritenesse un tempo) e infine lo stoicismo romano, caratterizzato da un interesse
crescente per l’etica. Spesso, comunque, anche in uno stesso periodo, i pensatori
avevano posizioni diverse. Seneca era un eclettico e, pur riconoscendosi
primariamente nello stoicismo, si abbeverava a varie altre fonti. L’adesione a una
scuola non comportava l’accettazione di tutti gli aspetti dottrinari tramandati
dalla sua tradizione: un movimento filosofico non era una fede. Seneca fu un
pensatore originale e creativo, e diede contributi nuovi e significativi alla
psicologia stoica.
Alcune nozioni fondamentali, tuttavia, furono condivise durante tutta la storia
del movimento dalla maggior parte dei suoi seguaci, incluso Seneca. Gli stoici
ritenevano che il mondo fosse governato da una ragione universale (fato, dio o
provvidenza), che guidava l’intera natura, si identificava anche con Giove o
Zeus ed era associata al fuoco primordiale. A questo principio «si addice
qualsiasi appellativo. Se vuoi chiamarlo fato non sbaglierai», scrive Seneca
(Questioni naturali 2, 45, 2). Nella fisica stoica il cosmo segue un modello
ciclico: a intervalli regolari tutto viene distrutto dal fuoco (ekpyrosis) e poi
ricostruito (palingenesis). La natura non è inerte né priva di un fine: l’intero
universo segue un modello fisso, predeterminato e sempre benevolo. È dunque
nell’interesse dell’umanità seguire la natura, che è sempre buona. Tuttavia,
nonostante la ferma credenza nel fato, gli stoici attribuivano grande importanza
alle decisioni individuali, ritenendo che gli esseri umani avessero sempre la
facoltà di scegliere se conformarsi alla volontà dell’universo, oppure opporvisi.
Nella visione di Seneca, il saggio che adegua i propri desideri a quelli di dio
diventa seguace di dio; lo sciocco, che non si adegua a ciò che non può non
essere, è semplicemente suo schiavo (La provvidenza 5, 6-7).
Virtù e conoscenza sono dunque strettamente connesse. Molti movimenti
filosofici dell’antichità, fra cui il platonismo, ritenevano che l’anima dell’uomo
contenesse elementi sia razionali sia irrazionali. Non così gli stoici, per i quali
gli esseri umani erano un tutto unico, non una collezione di parti diverse, e quel
tutto era totalmente razionale. Ovviamente, essi erano soggetti a falsi
ragionamenti e a credenze errate, ma era proprio il fallimento della ragione a
condurli all’infelicità e alle azioni malvagie. In una simile concezione, la logica
non poteva che occupare un posto preminente. Gli stoici ritenevano l’umanità
perfettamente in grado di comprendere l’universo ed erano convinti che la
felicità dipendesse dalla nostra capacità di ragionare correttamente. Il pensiero
ideale era quello capace di conformare la mente alla volontà razionale che
governava l’universo. Gli stoici erano logici sofisticati e fecero grandi progressi
nel settore della logica formale: i loro avversari li deridevano spesso per i
ragionamenti astrusi e l’amore per il paradosso.
L’etica era, ed è, la sfera più discussa della filosofia stoica, la più stimolante o
la più irritante, a seconda dei punti di vista. Il modello è il «saggio»: al maschile,
naturalmente, perché quasi tutti gli stoici e i loro simpatizzanti, compreso
Seneca, partono dal presupposto che l’essere umano ideale sia uomo e
stabiliscono una correlazione fra virtus e vir, fra virtù e virilità, anche se alcuni
pensatori, e in particolare Gaio Musonio Rufo, un giovane contemporaneo di
Seneca, ritenevano le donne perfettamente in grado di diventare filosofe. 12
Il saggio è sempre pienamente consapevole che la sola virtù è sufficiente a
rendere felici: tutto il resto, compresi il piacere, il dolore, la salute, la ricchezza e
la libertà, appartiene agli «indifferenti». O tutto o niente: non ci sono vie di
mezzo. Il saggio agisce sempre, in ogni istante, in modo virtuoso, e possiede
tutte le virtù. È sempre guidato dalla sapienza, anche nel compiere gesti
apparentemente normali, che possono apparire non particolarmente virtuosi,
come nutrirsi o lavarsi, e i suoi atti sono sempre dettati dalla saggezza, dal
coraggio, dalla temperanza e dal senso di giustizia. Al contrario, coloro che
saggi non sono non possono mai agire in modo virtuoso, neppure quando
compiono atti all’apparenza buoni, come per esempio salvare un bambino dal
fuoco, oppure neutri, come mangiare, perché sono sempre in uno stato di vizio.
Non solo: il saggio è il solo a essere libero e autosufficiente; tutti gli altri, anche
quando sembra che compiano delle scelte, in realtà si trovano costantemente in
uno stato di schiavitù metafisica (Cicerone, De finibus). Per illustrare questo
paradosso gli stoici ricorrevano alla metafora dell’annegato: non occorre un
oceano d’acqua per annegare, dicevano, bastano pochi centimetri d’acqua sopra
la tua testa per impedirti di respirare.
Si tratta, naturalmente, di affermazioni paradossali, e non è difficile capire
perché l’etica stoica suscitasse tanta derisione. Del resto gli stessi stoici
ammettevano che il vero saggio è una rara avis, forse non esiste neppure: non è
facile essere perfettamente virtuosi e perfettamente saggi. Qual era dunque lo
scopo pratico di questo ideale? Se dal punto di vista della virtù un malvagio reale
non è peggiore di chi compie qualche piccolo fallo, per quale ragione dovremmo
cercare di migliorarci? Che significato ha la parola «progresso», se la virtù è
qualcosa che si ha o non si ha?
Gli stoici, in realtà, riservavano molto spazio al percorso verso la virtù e
all’educazione necessaria per proseguire il cammino. Essi operavano una netta
distinzione fra lo svolgimento di una «funzione corretta» (kathekon) e
l’esecuzione di «un’azione totalmente corretta» (katorthoma). Alla prima
categoria appartiene qualsiasi atto che sia in accordo con la natura (mangiare,
respirare, eseguire esercizi fisici appropriati e così via), e le funzioni corrette
possono essere compiute non solo da tutti gli umani, ma anche dalle piante e
dagli animali. Chi non è saggio può addestrarsi, magari con l’aiuto di un
maestro, a eseguire in modo corretto un numero crescente di funzioni e avanzare
così verso la piena consapevolezza della reale natura dell’universo. Forse non
raggiungerà mai la saggezza, ma già il provarci è di per sé uno sforzo degno.
Molti, come faceva scherzosamente notare il poeta satirico Luciano,
accusavano gli stoici di essere completamente fuori dal mondo. 13 In teoria,
dicevano, si può ammettere che sia più importante essere buoni che ricchi, ma
quanti, messi di fronte alla scelta fra ricchezza e miseria, preferirebbero la
seconda? Gli stoici affrontarono teoricamente il problema e introdussero una
categoria intermedia, quella delle cose non del tutto buone né del tutto cattive:
«gli indifferenti» (adiaphora). Non avevano difficoltà ad ammettere che, a parità
di valore, era preferibile non essere torturati, imprigionati, resi schiavi, ridotti in
miseria, disonorati, morire, veder morire i propri cari o subire una malattia
dolorosa o debilitante. Dice Epitteto: «Delle cose, alcune sono buone, altre
cattive; beni sono le virtù e ciò che partecipa delle virtù; mali sono i contrari;
indifferenti sono la ricchezza, la salute e la fama» (Diatribe 2, 9, 15). Le cose
indifferenti non sono commensurabili con il valore della virtù: non si può dire
che una quantità x di tortura sia meglio di una quantità x di vizio. Ma per gli
stoici il saggio, anche sotto tortura, anche mentre viene mutilato, reso schiavo o
sottoposto alle peggiori umiliazioni, è libero e felice, e, finché la sua virtù resta
integra, conduce la vita ideale.
La promessa dello stoicismo, cui si deve gran parte della sua attrattiva, è che
chiunque riesca a formarsi un approccio corretto all’universo godrà di una vita di
gioia pura. Lo stoico non reprime l’ansia, la rabbia o il dolore, come si ritiene
comunemente; egli non si lascia turbare, o meglio ledere, da nessuno di questi
sentimenti. «L’invulnerabilità non consiste nel non essere colpiti, ma nel non
restare feriti» (La costanza del saggio 3, 1-4).
Nel movimento stoico esistevano posizioni significativamente diverse sulla
valutazione da attribuire agli «indifferenti preferiti». 14 La questione crebbe
d’importanza a mano a mano che aumentava il numero degli stoici attivi nella
vita pubblica e nella politica, e costituì uno dei temi fondamentali per Seneca.
Panezio di Rodi, che scriveva nel II secolo a.C., apportò alcune modifiche
importanti allo stoicismo tradizionale greco, rendendolo più flessibile, più
eclettico, più incentrato sugli aspetti pratici del comportamento e meno sulle
astrazioni logiche e metafisiche. Egli insegnò per un certo periodo a Roma e fu
uno dei pensatori che più influirono sugli stoici latini, compresi Cicerone e
Seneca, il cui stoicismo differisce dalle forme precedenti per l’interesse (tipico di
Panezio) per le scelte pragmatiche, la psicologia e gli impulsi naturali.
Per Seneca lo stoicismo non era un’attività intellettuale astratta, bensì una
guida pratica non solo nelle decisioni importanti, ma anche nelle piccole
abitudini quotidiane. Nella sua vita egli scelse più volte fra gli indifferenti
preferiti e gli indifferenti non preferiti: preferì Roma all’esilio, la grande
ricchezza a un benessere modesto, un altissimo prestigio a corte alla vita umile
di provincia. Nei suoi scritti risuona ossessivamente la domanda se indulgere
«agli indifferenti preferiti», quali il denaro e gli onori, sia d’ostacolo al cammino
verso il valore vero, che è la virtù. Lo stoicismo gli consentiva di giustificare la
sua preferenza per cose indifferenti quali la salute, la ricchezza e il lusso in
contrapposizione all’esilio, alla tortura o alla morte, ma il timore che le cose
indifferenti potessero intorbidare il pensiero, perché troppo facilmente
confondibili con il bene vero, non lo lasciò mai.
Al tempo di Seneca, lo stoicismo non era l’unica corrente filosofica a
disposizione delle élite romane, e non era neppure la scelta più ovvia. C’erano i
peripatetici (i seguaci di Aristotele); c’era l’Accademia (fondata da Platone);
c’erano i cinici (citati con ammirazione da Seneca); c’erano i pitagorici e la
scuola indigena dei Sestii, con i quali Seneca sentiva un’affinità particolare. Era
molto influente anche l’epicureismo (dal nome del fondatore, Epicuro), secondo
il quale il valore essenziale per gli esseri umani non era la virtù ma il piacere. A
differenza però degli edonisti – detti anche cirenaici, dal loro fondatore,
Aristippo di Cirene – con i quali venivano spesso ingiustamente confusi, gli
epicurei non proponevano una vita dedita all’appagamento dei sensi. Epicuro
insegnava anzi che il modo migliore per raggiungere il piacere fisico era una vita
di moderazione, perché l’eccesso, per esempio nel mangiare e nel bere, finiva
per provocare più dolore che piacere. E insegnava anche che i piaceri e i dolori
più forti non sono fisici, ma mentali. L’acme del piacere e la liberazione dalla
sofferenza psichica si raggiungono soltanto superando la paura della morte,
comportandosi con gentilezza e giustizia verso il prossimo ed evitando le
turbolenze della vita pubblica. L’ideale epicureo è una vita tranquilla in
compagnia degli amici più intimi, trascorsa nella contemplazione dei moti
casuali dell’universo atomico.
L’adozione del pensiero stoico ebbe per Seneca implicazioni politiche
importanti, perché gli stoici, a differenza degli epicurei che propugnavano il
distacco dalla vita pubblica, avevano una lunga tradizione di impegno civico.
Epicuro diceva: «Nasconditi mentre vivi la tua vita». Seneca scelse invece
l’impegno, ma aveva letto Epicuro (e gli altri epicurei) e ne teneva in grande
considerazione le idee, che spesso cita con apprezzamento nelle Lettere morali a
Lucilio, composte in un periodo in cui era alla disperata ricerca di un modo per
ritirarsi a vita privata.
L’approccio di Seneca allo stoicismo è, per certi versi, peculiare. Egli parla
costantemente di suicidio, di morte e di brevità della vita, molto più spesso e più
a lungo di quanto non avessero fatto i filosofi greci. E rispetto ai greci accentua
il côté pratico, più che teoretico, del pensiero stoico. Seneca diede un contributo
notevole e originale all’analisi della psicologia, tracciando per esempio una
distinzione netta fra gli impulsi involontari e le emozioni vere e proprie. I suoi
scritti sono importanti anche perché non furono composti in greco, che era la
lingua tradizionale della filosofia, ma in latino, e lo sono anche per la grande
abilità letteraria e retorica con cui egli esplora le idee filosofiche e
semifilosofiche. Seneca era uno scrittore non meno che un filosofo.
LO SCRITTORE, L’UOMO
Tradizione vuole che una biografia cominci dal luogo di nascita, dalla famiglia e
dall’infanzia del protagonista. Tutte cose, afferma Seneca, che non hanno alcuna
importanza:
Considera il valore che ha in sé e per sé il fatto che io sia nato: ti accorgerai che è qualcosa di
poco conto e indeterminato, una materia per il bene o per il male, senza dubbio è il primo
passo per ogni sviluppo, ma non è il più importante perché è il primo.
(I benefici 3, 30, 2)
Che cosa pensate di coloro che dall’aratro vennero a glorificare la repubblica? Svolgete il
rotolo della vita di un qualsiasi aristocratico e arriverete alle sue umili origini. Perché parlare
di singole persone, quando posso mostrarvi la città stessa?
Un tempo questi colli erano spogli e fra le ampie mura non c’era niente di più grandioso di
una piccola capanna. Ora su di essa splende il Campidoglio, con tetti spioventi e lucente di
oro puro. Potete biasimare i romani se esaltano le loro umili origini, anche quando potrebbero
celarle? Niente che non appaia sorto da qualcosa di piccolo sembra loro grande. 2
(Controversiae 1, 6, 4)
«Svolgete il rotolo della vita» dice l’autore, così come si srotolava un papiro
per leggere un testo a partire dalla prima riga. Le biografie delle élite –
suggerisce la metafora – sono sempre facili da raccontare, perché sono tutte
identiche. Il rotolo di papiro della vita di un nobile narra sempre la stessa storia:
l’ascesa da origini umili ai gradini più alti della società.
Tutte le città sono nate dal nulla, anche se molte non amano ricordarlo. Nella
Roma del I secolo a.C., invece, l’idea della mobilità sociale era un tema
ricorrente. Roma era diventata una potenza mondiale con straordinaria rapidità e,
con la conquista improvvisa di un impero, il cambiamento sociale era la norma
per i suoi cittadini. Accanto all’orgoglio, però, nel passo citato delle
Controversiae si percepisce anche una punta d’ansia. Gli «uomini nuovi»
tendevano non tanto a vantarsi della propria rapida ascesa sociale, quanto delle
umili origini. Il narratore sa che potrebbero levarsi voci critiche verso quei
parvenu che non riuscivano a nascondere le proprie radici contadine. Il menarne
vanto può essere dettato dall’orgoglio, ma anche dall’apprensione. I romani,
sembra dire Seneca il Vecchio, rivendicano le loro origini modeste, non come
accade in altre culture più ipocrite. Non sono come i greci, che sono campioni di
doppiezza: i romani dicono la verità sui propri antenati. In questo modo, egli
riesce ad affermare un principio e il suo contrario: da un lato sostiene che i
romani sono buoni (cioè onesti), perché risoluti a non nascondere la propria
provenienza, potenzialmente vergognosa, dall’altro, che essi non hanno niente di
cui vergognarsi, nessuno scheletro nell’armadio. Anzi, quelli che dall’aratro
sono «venuti a fare il bene della repubblica» sono i personaggi più illustri del
canone politico e morale romano, primo fra tutti Cincinnato, il nobile del V
secolo a.C., che lavorava i suoi campi quando fu chiamato a governare da solo
Roma per sconfiggerne gli invasori e, dopo essere stato al comando per appena
sedici giorni, era tornato ad arare la terra. 3 Arrivare al centro del potere
imperiale partendo dal basso era dunque un modello profondamente radicato
nell’immaginario culturale romano. Pochi, però, conobbero un’ascesa tanto
vertiginosa come quella di Seneca il Giovane e furono così profondamente
immersi nel cuore stesso dell’impero.
Lucio Anneo Seneca – il suo nome era identico a quello del padre – trascorse
l’infanzia in una Roma dove la cultura dominante relegava al margine la sua
lingua e cultura nativa, quella celtica. Fu per lui sicuramente un’esperienza
formativa. 4 I suoi scritti comunicano infatti tensione e dialogo fra voci
molteplici, una caratteristica, questa, che alcuni studiosi hanno definito
essenzialmente «teatrale». Si potrebbe però altrettanto giustamente parlare di una
profonda consapevolezza della presenza di differenze ideologiche e culturali, che
con ogni probabilità si era sviluppata in lui durante l’infanzia. Nel I secolo a.C.
Cordova era attraversata da varie linee di faglia, fra cui la divisione fra i romani
e i nativi ispanici (chiamati rispettivamente Hispanienses e Hispani) e la
divisione fra i sostenitori di Giulio Cesare e i sostenitori di Pompeo. Le guerre
civili ebbero infatti un impatto enorme sulla regione.
Cordova, però, non era un sonnolento angolo provinciale: per molti versi era
vicina ai centri del potere quanto un piccolo borgo italico. Nel I secolo a.C. la
città era una fiorente colonia romana (fig. 2) e, anzi, era la principale città della
Spagna Ulteriore e una delle prime colonie romane fondate nella penisola
iberica. 5 Aveva grandi risorse naturali: sorgeva ai piedi della catena montuosa
della Sierra Nevada, sul fiume Guadalquivir, ed era circondata da una pianura
fertile, ideale per l’agricoltura. Situata nell’estremo sud della Spagna, poco più a
nord dello stretto di Gibilterra e dell’antica città di Cartagine, era anche un
importante centro di commerci.
Cordova non era nata come colonia provinciae, bensì come colonia latina,
una definizione che comportava un diverso statuto giuridico: gli abitanti di una
colonia latina non godevano della cittadinanza romana. Ma al momento della
nascita di Seneca la città era salita di grado, e le élite, come la famiglia degli
Annei, erano cittadini romani a tutti gli effetti, con gli stessi diritti di tutti i
cittadini dell’impero. 6
2. Cordova oggi. La sua principale attrattiva turistica è la Grande Moschea, costruita nel X secolo, quando
la penisola iberica era sotto il dominio islamico. La lunga occupazione romana è testimoniata dal ponte e
dai resti del tempio.
Il sentimento di lealtà verso Seneca, ammesso che fosse davvero sentito dai
cordovani, forse non era del tutto ricambiato. Nei suoi scritti sono rari i
riferimenti alla Spagna, ma di tanto in tanto egli accenna a una particolare
nostalgia per la provincia in cui è nato. Nella lettera 66 ricorda l’assedio,
condotto dal generale romano Scipione, della città di Numanzia, rasa al suolo nel
133 a.C. durante la terza guerra punica: «Grande è Scipione ... ma grande è
anche il coraggio degli assediati» (Lettera 66, 13). Seneca avrebbe avuto buoni
motivi per schierarsi con le popolazioni delle province, che i romani spremevano
con i tributi e, a volte, come durante l’assedio di Numanzia, sterminavano senza
pietà. Ma egli trascorse buona parte della sua vita al servizio dei dominatori, e
soltanto qua e là nelle sue opere compare un cenno di empatia. Seneca si scrollò
alla svelta dai sandali la polvere cordovana e fu in seguito accusato di abusi
finanziari per avere prestato ai britanni denaro a tassi altissimi e averne poi
richiesto all’improvviso la restituzione. Ammesso dunque, e non concesso, che
nell’intimo egli parteggiasse per le province, una cosa è certa: non permise mai
ai suoi sentimenti di interferire con il profitto.
Madre e figlio
Dov’è quella gioia di bimbo che si rinnovava ogni volta che vedeva sua madre?
Sull’infanzia di Seneca non abbiamo nessuna notizia certa. Si suppone che sia
cresciuto come molti altri figli delle classi alte del suo tempo. Che abbia
trascorso gran parte della giornata giocando con i fratelli: erano tre,
probabilmente molto vicini per età. Che abbia avuto dei giocattoli: bambole,
cubetti di legno, statuette, perline, carri e armi finte (fig. 3). I bambini amano
molto i balocchi, osservava da vecchio Seneca, citando questo amore come
esempio della vanità dei desideri umani: «I fanciulli ... apprezzano qualsiasi
giocattolo, tanto da anteporre ai genitori e ai fratelli collanine da quattro soldi»
(Lettere morali a Lucilio 115, 8). Noi, si domandava altrove, che siamo ancora
lontani dalla perfetta saggezza, non siamo forse come tanti marmocchi che si
trastullano con i loro gingilli? Qual è la differenza?
Se i fanciulli sono avidi di gettoni, noci e monetine, costoro [gli adulti] invece sono avidi di
oro, argento e città; se i fanciulli gestiscono fra di loro le magistrature e imitano la pretesta, i
fasci e il tribunale, costoro fanno sul serio il medesimo gioco nel Campo, al foro e nella curia.
(La costanza del saggio 12, 2)
3. Seneca bambino aveva probabilmente giocattoli simili a questo cavallo di legno dipinto.
I fanciulli colpiscono i genitori sul volto e il pargolo tante volte spettina la mamma e le
strappa i capelli o le sputa addosso, oppure scopre le sue vergogne davanti alle persone di casa
e dice senza riguardo parole oscene: eppure non chiamiamo offesa nessuno di questi atti.
(11, 2)
L’infanzia è un’età della vita che merita indulgenza: i piccoli non possono
evitare di essere maldestri o di sbavare. Ma Seneca non si abbandona mai al
sentimentalismo: la fanciullezza è uno stato da cui si deve cercare di uscire al più
presto, con l’aiuto della filosofia.
Chi era la persona che il piccolo Seneca graffiava e bagnava di saliva? Le cure
e le attenzioni quotidiane dei più piccoli erano affidate agli schiavi: nutrici, balie,
insegnanti, musici, intrattenitori e medici. Sarà stato uno schiavo o un liberto a
insegnargli a leggere, probabilmente con le tavolette di cera e forse con dei
modelli per tracciare le lettere dell’alfabeto. E siccome soffriva già di attacchi di
bronchite e forse di asma, sarà stato probabilmente seguito da uno o più medici,
che di solito erano schiavi o liberti greci. L’esperienza della malattia fu uno dei
tanti fattori che favorirono la sua propensione alla filosofia, soprattutto nelle
forme più ascetiche. Si abituò sicuramente fin da bambino ai regimi di vita tipici
dei malati cronici: vigilanza costante e grande attenzione alla dieta, esercizio
fisico, e la routine quotidiana che nell’antichità era, ancora più di oggi, una
componente cruciale della pratica terapeutica. L’abitudine a prestare una
particolare cura a se stesso e a cercare ogni giorno di procedere verso un ideale
irraggiungibile di sanità perfetta lo accompagnò per tutta la vita. Negli scritti
della maturità, l’attenzione si sposta dalla salute del corpo alla salute spirituale,
che è l’aspirazione del filosofo stoico. Ma il metodo, basato sull’autocontrollo,
su un’accurata gestione dell’attenzione e del tempo, e infine sull’esercizio
quotidiano, è molto simile.
Nei suoi primi anni Seneca passò sicuramente molto tempo con la madre: i
padri lasciavano in genere alle donne di casa la cura dei bambini, finché non
fossero usciti dalla prima infanzia e non avessero avuto l’età per iniziare la
«vera» educazione, fondata sulla retorica e la filosofia. Elvia probabilmente
allattò il figlio al seno, perché questa pratica era considerata una delle antiche
virtù delle matrone romane, anche se si era appena diffusa la moda di affidare i
neonati alle balie. La madre fu una figura fondamentale per Seneca nella prima
fase della sua vita e continuò ad avere un’influenza importante anche in
seguito. 12
Forse Elvia era una romana proveniente dall’Italia, conosciuta da Seneca il
Vecchio durante uno dei suoi frequenti viaggi nella capitale. O forse, ed è più
probabile, apparteneva all’élite ispano-romana di Cordova. Era una donna di
buona famiglia, benestante e con ottime relazioni, ed era piuttosto istruita. La
madre di Elvia era morta dando alla luce la figlia, che perciò era cresciuta con
una matrigna, ma aveva saputo farsi voler bene, tanto che quel rapporto
notoriamente difficile si era trasformato in un rapporto filiale. Si presume che la
donna avesse almeno una figlia biologica, una sorellastra che sarebbe stata per
Elvia una sorella a tutti gli effetti; solo così si spiegherebbe quello che sembra un
vero e proprio enigma: Seneca infatti la definì «figlia unica» e affermò tuttavia
che aveva una sorella, zia dello stesso Seneca. Questa zia, come vedremo, ebbe
un ruolo importante nella vita del nipote, diventando la sua protettrice negli anni
della gioventù. Elvia era cresciuta in una famiglia «antiquata e rigida», scrive il
figlio, e quei princìpi la guidarono per tutta la vita. All’epoca della sua nascita le
famiglie delle classi alte avevano cominciato a impartire un’educazione letteraria
alle fanciulle. La prassi era controversa: il protagonista di una delle satire di
Giovenale – di una generazione più giovane di Seneca – proclama che «le donne
non dovrebbero conoscere tutta la storia». «Odio» dichiara «la donna che si rifà
di continuo al Metodo di Palemone, senza sbagliare mai una regola di lingua e,
ostentando le sue anticaglie, cita versi a me sconosciuti» (Satire 6, 451-454).
Come succede spesso nelle satire di Giovenale, i versi, più che contro
l’apparente bersaglio, vanno a discredito del narratore, che fa la figura
dell’idiota, lamentandosi che le donne sono capaci di un rigore intellettuale di
cui lui è privo. Ma battute antifemministe del genere erano tutt’altro che rare.
Certo, questo non era il caso di Seneca, che aveva un grande rispetto per
l’intelligenza e la tempra della madre, e per tutta la vita ebbe per amiche donne
forti e istruite, come Agrippina, la madre di Nerone, e sua sorella Giulia Livilla.
Il legame con la madre e la zia educò Seneca a considerare le donne, se non alla
pari, almeno come persone degne di profondo rispetto. Era stata probabilmente
Elvia a introdurlo allo studio della storia e della poesia, gettando così i semi di
un amore, durato per tutta la vita, per Virgilio e Ovidio, i cui versi egli non si
stancò mai di citare. Seneca si dispiace che alla madre non sia stato permesso di
proseguire gli studi, manifestando un sentimento di critica implicita al padre
ormai morto.
Magari mio padre, che pure fu ottimo marito, non si fosse arreso del tutto alle consuetudini
degli antichi e avesse voluto che tu approfondissi i precetti della filosofia e non ne avessi
soltanto una infarinatura!
(Consolazione alla madre Elvia 17, 4)
Il padre e i fratelli
Una moglie viene torturata da un tiranno che vuole scoprire se sa qualcosa del complotto del
marito per ucciderlo. La donna continua a negare. Poi il marito uccide il tiranno. L’uomo
divorzia dalla moglie perché non è riuscita a dargli un figlio in cinque anni di matrimonio. La
donna lo querela per ingratitudine.
(Controversiae 2, 5)
Quindi intervenivano a turno i vari oratori, prima i difensori della donna, poi
quelli del marito. Spesso era una sola persona a ricoprire i diversi ruoli,
immedesimandosi nell’uno o nell’altro personaggio. «Mettetela alla ruota!»
gridavano i torturatori. «Appiccate il fuoco! Il sangue è quasi secco là!
Squartatela, frustatela, strappatele gli occhi – mutilatela perché non soddisfi più
il marito come madre dei suoi figli!» Non è difficile capire perché queste scene
melodrammatiche esercitassero tanto fascino.
L’arte della declamazione latina discendeva dalla tradizione greca dei discorsi
pubblici, che erano nati allo scopo di divertire e istruire i cittadini. Quintiliano
(2, 4, 41) faceva risalire la pratica a Demetrio Falereo (IV secolo a.C.), mentre
Filostrato l’attribuiva ai più antichi sofisti greci come Gorgia di Leontini
(Filostrato 481). In Grecia i secoli d’oro della teoria e della prassi retorica furono
il III e il II a.C., dopo la morte di Alessandro Magno (323 a.C.), quando le città
greche erano sotto il dominio dell’impero macedone. Greci e romani ritenevano
che l’ascesa della retorica fosse connessa con la perdita di potere politico dei
cittadini. In un’epoca in cui le poleis erano escluse dai veri centri del potere, gli
uomini (non le donne, naturalmente) conservavano, o acquisivano, il senso della
propria virilità e autonomia culturale sviluppando le abilità retoriche e letterarie.
Lo sfoggio oratorio aveva perciò una funzione assimilabile a quella sociale e
psicologica esercitata dalla filosofia stoica, che, non a caso, cominciò a
diffondersi ampiamente proprio nello stesso periodo. L’addestramento, tanto
filosofico quanto retorico, dava alle élite romane, spogliate del potere politico, la
sensazione di controllare le situazioni e ne incrementava l’autostima. I figli
dell’aristocrazia non cercavano più il proprio imperium nel governo, ma in
mondi sociali e intellettuali più piccoli.
I romani imitarono i modelli culturali greci, inclusa la pratica del dibattito a
tema, che divenne una componente essenziale nella formazione dei giovani delle
élite, un tirocinio per la futura carriera politica e giuridica. Cicerone, racconta
Svetonio, declamò in greco fino a quando non divenne pretore e continuò a farlo
fino alla vecchiaia (Dei grammatici e retori 25, 3). Nella Roma imperiale,
tuttavia, la declamazione assunse caratteristiche significativamente diverse dal
modello greco. Seneca il Vecchio ne parla come di un fenomeno del tutto nuovo,
che egli conosce «fin dalla culla perché è nata dopo di me» (Controversiae 1,
Prefazione 12). Benché non del tutto nuova come egli pretendeva, l’oratoria
restrinse parecchio il proprio raggio d’azione: il suo impiego primario divenne
puramente pedagogico e scomparvero i grandi discorsi di carattere pubblico.
Nacquero nuove branche, quali la controversia (o dibattito), un esercizio di
preparazione al ruolo di avvocato difensore o accusatore nei tribunali, e la
suasoria (persuasione), un genere di declamazione volta a consigliare o
sconsigliare una determinata azione pubblica, i cui protagonisti erano talora
personaggi storici famosi, come Alessandro Magno. 14
Una delle ragioni per cui la declamazione acquisì tanto prestigio sotto il
principato fu probabilmente lo svuotamento sistematico delle istituzioni
pubbliche. Con l’accentramento del potere nelle mani di un uomo solo – da
Augusto ai suoi successori della dinastia Giulio-Claudia: Tiberio, Caligola,
Claudio e Nerone – il Senato perse gran parte della sua importanza e, di
conseguenza, anche l’oratoria politica perse il proprio potere. Ormai il diritto di
parola spettava soltanto all’imperatore: si può quindi immaginare quanto peso
avesse il ruolo ricoperto da Seneca il Giovane, che, sulla base del retaggio
educativo paterno, costruì la propria ascesa, diventando l’autore dei discorsi di
Nerone.
Benché la retorica non possedesse più, al tempo di Seneca il Vecchio e dei
suoi figli, il potere politico di cui aveva goduto sotto la repubblica, la
declamazione occupava ancora un posto di rilievo nella cultura romana, non solo
come disciplina curricolare nelle scuole di politica e di diritto, ma anche come
forma di intrattenimento. Le sue tecniche, sosteneva Seneca padre, potevano
giovare a tutte le professioni, compresa quella del filosofo. Lo stile della lingua
scritta, il modo di parlare, la rapidità di pensiero e la capacità mnemonica, tipici
della declamazione, impregnarono tutta la cultura latina dell’epoca. Agli allievi
veniva richiesto di trovare su ogni tema proposto argomentazioni convincenti a
favore e contro, e quasi tutti i giovani delle famiglie altolocate venivano educati
a parlare e pensare secondo queste modalità. Non conoscere i canoni della
declamazione significava essere socialmente esclusi.
Nelle sue opere Seneca il Vecchio ci ha trasmesso le voci dei grandi maestri
che prediligeva. Fra i più ammirati c’era un suo «carissimo amico», Marco
Porcio Latrone, originario anch’egli della Spagna (Controversiae 1, Prefazione
12), un uomo capace di trovare sempre l’approccio migliore per ogni argomento.
Sapeva interpretare qualsiasi ruolo, per lavoro o per divertimento; aveva una
memoria straordinaria e una profonda conoscenza della storia, era in grado di
tenere discorsi magnificamente strutturati, scorrevoli e sempre appropriati,
afferma ammirato Seneca padre, additandolo come esempio ai figli.
Anche Ovidio studiava declamazione, e nelle Controversiae Seneca il Vecchio
ricorda la lotta del compagno di studi per conformarsi ai vincoli del genere
declamatorio: poeta nato, anche quando cercava di imitare le battute migliori di
Latrone, finiva per convertirle in versi (2, 2, 8). Ovidio era un declamatore
straordinario, ma indisciplinato, e rifiutava di esibirsi a meno che non si trattasse
di soggetti amorosi. Nelle sue composizioni poetiche si compiaceva dei propri
errori, di cui era perfettamente consapevole: una volta gli amici gli chiesero di
eliminare tre versi di una sua poesia, ed egli acconsentì a patto che lo lasciassero
a sua volta scegliere tre versi da conservare, che avrebbe trascritto in segreto.
Quando li mostrò, i compagni scoprirono che Ovidio aveva scelto di salvare
proprio i tre versi che essi avrebbero voluto sopprimere (2, 2, 12). Seneca
racconta l’aneddoto senza alcun commento, ma nelle sue parole si coglie una
punta di ammirazione e insieme di disapprovazione per quel giovane che seguiva
così ostinatamente la propria ispirazione. Si intuisce che come padre avrebbe
voluto una maggiore obbedienza dai figli. E invece il poeta Ovidio, esiliato da
Augusto per i suoi versi licenziosi ma anche perché coinvolto nell’adulterio della
figlia, rappresentò sempre per Seneca il Giovane una fonte di ispirazione
letteraria e un modello irraggiungibile di libertà intellettuale, pagata a carissimo
prezzo.
Seneca padre era uno strenuo difensore della declamazione, in cui vedeva un
mezzo per educare i giovani ai valori romani, ma anche uno strumento duttile
per analizzare e raccontare storie. E di un difensore, la declamazione cominciava
in effetti ad avere bisogno, perché a Roma si stavano levando voci sempre più
ostili nei suoi confronti. Un personaggio di Petronio, contemporaneo di Seneca il
Giovane, la definisce un esercizio di suoni «leggeri e vani», e la incolpa di avere
«snervato e messo a terra il corpo del discorso» (Petronio, Satyricon 1). Tacito,
che appartiene a una generazione successiva, lamenta che lo stile declamatorio è
utilizzato per presentare soggetti lontani dalla vita reale (Dialogo sull’oratoria
35), e rimpiange il tempo in cui i giovani imparavano l’eloquenza osservando e
imitando i veri oratori nell’esercizio quotidiano della loro professione in
tribunale o nelle assemblee pubbliche: l’insegnamento avveniva «all’aperto»,
non al chiuso in aule finte, e gli allievi potevano assistere a dibattiti in cui gli
avversari non combattevano «con spade fasulle, ma con armi vere» (Dialogo
34). Anche Plinio ricorda con nostalgia il tempo in cui la retorica aveva un
potere reale in campo pedagogico e oratorio (Storia naturale 8, 14, 8). Giovenale
trovava insopportabilmente noiose le declamazioni, che chiamava «cavoli
riscaldati» (Satire 7, 155). Seneca il Vecchio, perciò, pur affermando che i
migliori oratori, come Latrone, erano da tempo scomparsi, difendeva un modello
di educazione in cui molti vedevano ormai un segno di declino culturale.
D’altra parte, il giudizio secondo cui la declamazione era del tutto sconnessa
dalla realtà, pur cogliendone il carattere teatrale, non era del tutto equo.
Nonostante la scarsa plausibilità degli argomenti trattati, i dibattiti consentivano
di esplorare aspetti importanti delle tensioni culturali del tempo. Osserviamo un
esempio tratto dalle Controversiae di Seneca il Vecchio: «Un padrone malato
chiese al suo schiavo di dargli del veleno, egli rifiutò. Il padrone lasciò scritto
nel testamento che i suoi eredi dovevano crocifiggere lo schiavo. Lo schiavo si
appella ai tribuni» (Controversiae 3, 9). Per poter dibattere su un caso del
genere, gli allievi dovevano cercare di caratterizzare il padrone e lo schiavo, e
perciò erano costretti ad affrontare il complesso nodo etico e giuridico della
schiavitù a Roma e dei rapporti fra l’una e l’altra categoria. La declamazione
offre quindi una lente con cui scrutare le preoccupazioni culturali dell’epoca
imperiale e vedere non soltanto come i romani argomentassero e perorassero una
causa, ma anche quali modelli di comportamento ritenessero plausibili o
ammirevoli.
Scopriamo così che nella vita culturale dell’epoca occupavano un posto
centrale le preoccupazioni riguardanti i rapporti fra padri e figli e la sessualità
femminile, considerata una forza dirompente e potenzialmente distruttrice. Erano
questi i problemi che gli allievi affrontavano nei loro dibattiti. Discutevano di
eredità contese, di comportamenti stravaganti, di tradimenti e spesso di castità,
seduzione e violenza carnale. Del rapporto madre-figlia si parlava molto poco.
La declamazione era un territorio tutto maschile, e le donne compaiono soltanto
come argomento di discussione, mai come partecipanti, e sono quasi sempre
sacerdotesse, prostitute, mogli e vittime di stupri. Le Suasoriae e le
Controversiae sono testi di estrema artificiosità, il cui scopo non è mettere a
nudo i sentimenti profondi di un padre verso la sua famiglia, ma permettere agli
oratori di esibire la loro perizia declamatoria. E tuttavia la lettura di questi scritti
offre qualche indizio sulla concezione che Seneca il Vecchio aveva della
paternità in generale e forse anche della propria.
La prefazione al Secondo libro delle Controversiae offre alcune indicazioni
particolarmente interessanti del rapporto di questo padre con i suoi tre figli. 15 E
lascia anche intravedere in quale considerazione egli tenesse il successo nel
mondo politico, finanziario e sociale, e quale valore attribuisse alla filosofia. Fra
le righe si intuisce che la sua era una famiglia molto competitiva, che i tre
maschi erano sempre in gara non solo fra loro ma anche con quel padre dal
carattere dominante, che cercava, con non poca abilità psicologica, di conservare
il controllo sui suoi eredi anche quando erano ormai adulti.
Quando nei suoi scritti si rivolge ai «ragazzi», questi sono già grandicelli – fra
i trenta e i quarant’anni – anche se il padre finge a scopo retorico che stiano per
intraprendere i primi passi della propria carriera. La dedica è a tutti e tre –
«Seneca, ai figli Novato, Seneca e Mela» – ma l’attenzione dell’autore si sposta
ben presto su uno solo, il più giovane, Mela, che vorrebbe dedicarsi alla
filosofia, anziché alla carriera politica o all’avvocatura. «Vedo che l’animo tuo,
non attirato dalla politica e alieno da ogni ambizione, una sola cosa brama: non
avere brame.» Il padre si affretta a precisare di non essere deluso dalla rinuncia
del figlio ad avere successo nel mondo, e assicura che non eserciterà su di lui
alcuna pressione: «Io non porrò mai ostacoli a nessuna tua valida aspirazione.
Volgiti dove l’animo inclina e, contento del rango di tuo padre, sottrai alla
fortuna la più gran parte di te» (Controversiae 2, Prefazione 3).
La maschera che Seneca padre indossa è quella del patriarca romano del buon
tempo antico, che per legge aveva diritto di vita e di morte su tutta la famiglia,
moglie e figli compresi. Nel momento stesso in cui lascia libero il suo
terzogenito di seguire la propria vocazione, egli sottolinea il suo potere di
concedergli o negargli il permesso di farlo. E la libertà che garantisce a Mela non
è totale: prima di dedicarsi agli studi filosofici, dovrà apprendere la disciplina
prediletta dal genitore, la declamazione. Quella era la via che aveva seguito
Fabiano, un filosofo della cerchia dei Sestii piuttosto noto (che forse ebbe anche
una certa influenza su Seneca il Giovane), il quale, prima di diventare filosofo,
aveva imparato a declamare. La lezione che il padre vuole impartire è chiara:
«Per giungere alle mete che tutto il tuo animo è impegnato a definire, l’esercizio
della declamazione ti sarà utile com’è stato a Fabiano» (2, Prefazione 4).
L’autore ricorre qui a un tipico tropo latino, l’exemplum, che consiste nel
proporre a modello morale qualche personaggio storico o mitico. 16 Quello che
non dice, però, è la ragione per cui la declamazione potrebbe essere uno
strumento utile per un futuro filosofo. E anzi, l’esempio che egli cita sembra
dimostrare esattamente il contrario: la formazione declamatoria era diventata per
Fabiano un ostacolo contro cui era costretto a lottare. Il suo maestro, Aurelio
Fusco, lo aveva educato a uno stile retorico molto fiorito, «effeminato», dal
quale Fabiano aveva cercato con fatica di liberarsi, senza mai riuscirvi
pienamente. E dunque la cattiva declamazione gli aveva nociuto. Nella maturità
era diventato meno prolisso, ma non si era mai spogliato totalmente della
tendenza all’oscurità, inculcatagli dalla scuola di retorica. Nello sforzo di reagire
all’insegnamento ricevuto, Fabiano aveva coltivato uno stile aforistico molto
controllato, che però diventava a volte così conciso da risultare incomprensibile.
Le sue frasi si troncavano spesso così bruscamente da essere monche più che
sintetiche.
L’exemplum di Fabiano si presta a due interpretazioni inconciliabili. La prima:
forse la passione per la filosofia contribuì a renderlo un oratore e un declamatore
migliore. Seneca padre narra infatti come egli sia riuscito a tenere a freno alcuni
vizi retorici appresi a scuola e a diventare un dicitore e uno scrittore meno
ampolloso. Il merito non è dunque della declamazione ma degli interessi e degli
studi filosofici. La seconda: le sue competenze filosofiche non avevano alcuna
relazione con l’abilità declamatoria appresa in gioventù, un’abilità che anzi
costituì un ostacolo per il suo sviluppo professionale successivo. In sostanza,
Fabiano riuscì a diventare un buon declamatore e un buon filosofo, nonostante la
pessima educazione ricevuta da Aurelio Fusco.
Una cosa però è chiara: al narratore non interessa tanto costruire un racconto,
coerente sul piano logico, sul genere di istruzione e di tirocinio intellettuale più
adatto a Mela, quanto promuovere le sue predilezioni. La declamazione in sé e
per sé non portava alla chiarezza del pensiero, ma allenava la memoria e
facilitava l’acquisizione di uno stile nitido e aforistico. E, soprattutto, abituava
l’allievo ad affrontare, da punti di vista diversi e in modo vivido, un’ampia
gamma di storie, senza preoccuparsi troppo della coerenza. L’esempio di
Fabiano serve perciò all’autore per esaltare la declamazione, stabilendo un suo
vago nesso con la filosofia, ma senza la minima intenzione di evidenziare un
collegamento preciso fra le due discipline.
Gli interrogativi sull’eticità della retorica circolavano già nel mondo greco
almeno fin dal tempo di Platone, che nel Gorgia puntava il dito contro l’abilità
oratoria, cui contrapponeva la filosofia. L’oratoria aveva invece trovato a Roma i
suoi difensori, i quali, per respingere gli attacchi dei filosofi, associavano le due
discipline. La virtù era un valore essenziale per gli oratori migliori. L’oratore,
diceva Catone il Vecchio, deve essere un uomo virtuoso, esperto nell’arte del
dire: vir bonus, dicendi peritus. Se non è un uomo dabbene, tutta la perizia del
mondo non basterà a farne un vero oratore. Cicerone, che condivideva questa
concezione, diede un contributo notevole alla creazione di un lessico filosofico
della lingua latina. La filosofia era per lui un rifugio, un’evasione dalle tensioni e
dalle ansie connesse con l’impegno in politica e nei tribunali, ma gli forniva
anche strumenti utili per comprendere e affrontare la vita pubblica. Cicerone
costituiva perciò un esempio di un possibile connubio fra politica attiva e vita
speculativa, un modello sempre presente nella mente di Seneca padre e ancora
più in quella del suo secondogenito.
Un tempo a Roma la filosofia era vista con sospetto: una disciplina importata,
aliena, una minaccia per i buoni valori della tradizione, che era basata su modelli
di vita esemplare e sui costumi degli antenati (mores maiorum). Catone il
Vecchio, detto anche Catone il Censore, aveva invocato la cacciata di tre filosofi,
che erano giunti nel 155 a.C. da Atene per diffondere nella capitale la
conoscenza della filosofia (Plutarco, Vita di Catone). Poi, però, i tempi erano
cambiati, l’ostilità dei romani verso la filosofia si era attenuata, e la disciplina,
pur suscitando ancora qualche diffidenza come potenziale veicolo di corruzione
delle antiche virtù, era diventata un cardine del curriculum scolastico delle élite.
Seneca figlio disegna il ritratto di una figura paterna di vecchio stampo: un
patriarca, religioso, tradizionalista e molto ostile alla filosofia. L’immagine però
è in contrasto con quanto il padre stesso aveva affermato, 17 quando aveva
espresso ammirazione per «gli insegnamenti elevati e virili» dello stoicismo
(Controversiae 2, Prefazione 1). Se Seneca il Vecchio avesse detestato la
filosofia, perché mai avrebbe incoraggiato il suo secondogenito a intraprenderne
lo studio? 18 Curiosamente, fra l’altro, nelle opere tramandateci, il figlio non dice
una parola sulla passione paterna per la retorica e neppure sulle sue abilità nel
mondo degli affari e della finanza. L’unica conclusione possibile è che egli abbia
lavorato di fantasia nel delineare il suo rapporto con il padre, e che l’abbia fatto
soprattutto per due ragioni. La prima: presentandosi come il discendente di un
uomo che era il sale dell’antica terra romana, egli rafforzava la propria
credibilità etica. All’autore delle Lettere morali a Lucilio non conveniva dirsi il
discendente di un parvenu, di un provinciale arricchito, che alimentava
l’ambizione della prole, amava dedicarsi agli esercizi retorici nei momenti di
ozio e si interessava un poco di filosofia (greca, per giunta!) soprattutto come
strumento di promozione sociale.
La seconda ragione di questo ritratto fittizio è di carattere più personale.
Probabilmente dipingersi come il prediletto di un padre devoto era confortante
per Seneca figlio, anche se era uno stravolgimento notevole della realtà, dal
momento che il padre aveva un debole per Mela, il minore dei suoi figli, e forse
non riservava la stessa considerazione agli altri due. Nelle Controversiae c’è un
passo, interessante e complesso, in cui Seneca il Vecchio si diverte a giocare con
l’etimologia del nome Mela, suggerendone la derivazione da melior
(«migliore»), per cui essere «Mela» significa già di per sé essere superiore ai
fratelli:
La tua intelligenza, maggiore di quella dei tuoi fratelli, era pienamente idonea a tutte le buone
arti, ma è prova di una intelligenza superiore anche non lasciarsi sedurre, dalla sua capacità, a
farne un impiego sbagliato. E poiché ai tuoi fratelli piacciono le mete ambiziose e si avviano
al foro e alle cariche pubbliche – dove anche i vantaggi che si sperano sono da temere –
persino io che pure l’avevo esortata e lodata anche se pericolosa, purché percorsa con onore,
ora che due miei figli hanno già preso il largo, cerco di trattenere almeno te nel porto.
(Controversiae 2, Prefazione 4)
(Lettera 78, 3)
4. Seneca compì probabilmente il suo primo viaggio a Roma insieme al padre e ad altri familiari su un carro
analogo a questo.
5. L’Ara Pacis (Altare della Pace) fu eretta nel 13 a.C. per celebrare il ritorno di Augusto a Roma in trionfo
dopo le campagne di Spagna e Gallia.
Fu qui, quasi certamente, che Lucio Anneo Seneca indossò la toga virilis, con
un rito di passaggio paragonabile al Bar mitzvah ebraico. La toga era una lunga
veste, sovrapposta a una tunica leggera, che si portava piegata a metà su una
spalla. Non era certo un indumento comodo: rischiava continuamente di
penzolare, impediva di correre e di svolgere una qualsiasi attività manuale, e il
tessuto, che era di lana candida, doveva essere molto spesso lavato e stirato. Ma
era proprio la scomodità a renderla un simbolo: la toga rappresentava la
ricchezza e il potere delle élite maschili, era un segno che distingueva i romani
dai forestieri (nessun’altra cultura adottò un modello così stravagante), ed era
anche la veste del tempo di pace: nessuno sarebbe potuto salire su un cavallo e
andare in guerra così abbigliato. I ragazzi romani deponevano la toga praetexta
con la banda purpurea intorno all’orlo e indossavano la toga virile – tutta bianca
– intorno ai quattordici-quindici anni. La cerimonia segnava il passaggio
dall’adolescenza alla maturità e l’ingresso fra le élite.
Per Lucio Anneo Seneca la vestizione fu sicuramente uno dei momenti più
emozionanti. Ripensando a quella cerimonia giovanile, in una lettera composta
quand’era ormai vecchio, Seneca scrive all’amico Lucilio: «Certo ti ricordi
quanta gioia provasti quando, deposta la toga pretesta, indossasti la toga virile e
fosti accompagnato come in corteo fino al foro». Subito, però, si affretta a
precisare che la toga virile è un simbolo di maturità puramente esteriore, che la
vera maturità è tutt’altra cosa: «Aspettati una soddisfazione anche più grande,
quando avrai dismesso un abito mentale puerile e la filosofia ti avrà iscritto nel
ruolo degli uomini tutti d’un pezzo. Fino a questo momento persiste non la
fanciullezza, ma, ciò che è più grave, la puerilità» (Lettera 4, 2). Molti, prosegue
la lettera, consumano il corpo e anche la toga inseguendo cose che non hanno in
realtà alcuna importanza: «Si suda per avere il superfluo. È questo il
comportamento che logora la toga, che ci fa invecchiare sotto la tenda, che ci
sospinge su lidi stranieri» (4, 11). Quanto alla toga, precisa nella lettera
successiva, deve essere semplice, né di un bianco abbagliante né visibilmente
sporca, perché la saggezza è dentro la persona, non nel suo abito. E tuttavia
riconosce che l’abito può anche essere un’indicazione importante dello stato
interiore.
Due furono le discipline che più contribuirono alla crescita intellettuale di
Seneca dall’infanzia alla maturità: la retorica e la filosofia. Egli cominciò
sicuramente da fanciullo ad ascoltare le declamazioni che tanto piacevano al
padre, e imparò ben presto a comporne di suo pugno e a recitarle. Sulla sua
formazione retorica non sappiamo nulla, perché – e la cosa non è priva di
significato – egli non vi fa mai cenno. Ci tiene a presentarsi come filosofo
(anche se un filosofo con uno stile latino fortemente retorico ed elegantemente
costruito) e non come un retore che casualmente scrive qualcosa su un
argomento filosofico. Eppure Seneca seppe utilizzare come pochi l’educazione
retorica che aveva ricevuto, modificando e amplificando i tropi arguti amati dal
padre e dai suoi insegnanti per creare uno stile spigoloso, acuminato,
punteggiato di frecciate continue. L’esercizio declamatorio lo addestrò anche a
vedere le questioni da molteplici punti di vista e a introdurre nelle sue prose una
polifonia di voci. Anche il desiderio di parlare di filosofia in latino, e non in
greco, che era il veicolo tradizionale di questa disciplina, potrebbe essergli stato
ispirato dai primi contatti, che aveva avuto nelle sale di declamazione, con la
forza e la potenza della lingua nativa, capace di trasformare in un idolo della
grande capitale persino un provinciale come Latrone. Seneca conosceva il greco,
l’aveva imparato da piccolo, presumibilmente con un precettore greco,
sicuramente uno schiavo, ma non ebbe mai la tentazione di scrivere in questa
lingua.
Fra le élite non era affatto inconsueto che gli adolescenti frequentassero le
scuole di filosofia. Molti patrizi mandavano i figli a studiare ad Atene, ma non
Seneca il Vecchio, forse perché era troppo costoso oppure perché voleva che i
figli imparassero a conoscere la cultura latina mentre entravano a contatto con
l’eredità intellettuale greca. L’atteggiamento dei romani verso la filosofia era
molto cambiato da Cicerone in poi. 21 Mentre prima si tendeva a considerarla una
disciplina frivola se non addirittura nociva, in seguito essa aveva cominciato a
radicarsi nella capitale, in parte per merito di Cicerone stesso, che, soprattutto
nei periodi in cui era costretto a tenersi lontano dalla politica attiva, si dedicava a
scrivere ampi sommari della filosofia greca e a esprimere giudizi sulle varie
scuole, con l’obiettivo di creare una sintesi fra la teoria greca e la prassi etica
romana. Al tempo di Seneca la filosofia era ormai un campo di studi molto
apprezzato e persino una professione: la carriera del filosofo era diventata
un’alternativa possibile a quella politica, come dimostra il caso di Mela.
Al silenzio sui suoi studi retorici, Seneca contrappone una descrizione molto
viva dell’entusiasmo con cui egli si tuffò nello studio della filosofia, entusiasmo
persino eccessivo, come commenta con la saggezza del poi. Era «il primo ad
arrivare e l’ultimo ad andare» di tutti gli allievi della sua classe, ricorda,
tratteggiando un quadro delicatamente umoristico e autoironico del rapporto che,
adolescente esigente e ossessivo qual era, intratteneva con il suo paziente
maestro di filosofia. Seneca padre aveva scelto per il figlio lo stoico Attalo, sulla
cui eloquenza e intelligenza egli ci ha lasciato molti commenti ammirati. Di
Attalo non ci è giunto nessuno scritto, ma si presume che i suoi interessi si
estendessero anche alle scienze naturali, perché, a quanto pare, scrisse un trattato
sui fulmini.
Il giovane Seneca era entusiasta delle sue lezioni e non ne era mai sazio. Lo
tormentava, racconta, con continue domande e richieste di altre spiegazioni, e
Attalo reagiva con un misto di incoraggiamento e rimprovero. Come tutti gli
allievi, gli diceva, anche tu hai bisogno di procedere adagio, un passo alla volta,
senza la pretesa di conoscere tutto e subito. A Lucilio, nelle lettere, Seneca
rivolgerà uno dei consigli che aveva ricevuto dal maestro Attalo: «Devi attingere
non ciò che vuoi, ma quanto sei in grado di recepire. Basta che tu abbia un poco
di coraggio: prenderai secondo una misura che ben si equilibra con i tuoi
desideri. Quanto più l’animo ha ricevuto, tanto più aumenta la sua capacità
ricettiva» (Lettera 108, 2).
Fin qui siamo nell’ambito del buon senso: ai giovani discenti viene spesso
ricordato che occorre imparare a camminare prima di poter correre. Ma nella
stessa lettera Seneca scrive di avere ricevuto da Attalo anche stimoli più
specifici, verso mete più ardue, per esempio il monito a condurre una vita sobria,
soprattutto nel mangiare e nel bere. «Quando udivo Attalo inveire contro i vizi,
gli errori, i mali della vita, ho provato spesso compassione per il genere umano e
ho creduto che egli fosse un uomo sublime e superiore a ogni umana grandezza.
Definiva se stesso un re, ma, ancor più che un re, mi sembrava un uomo munito
della facoltà di censurare i regnanti» (Lettera 108, 13). L’affermazione che il
saggio è un re era quasi un cliché dello stoicismo, ma essa acquista una
risonanza particolare nel contesto della vita dello scrivente. Seneca si sarebbe
infatti trovato a tentare di conciliare due modelli di controllo o di potere quasi
regale (imperium) diversi fra loro e apparentemente incompatibili: da un lato
l’imperium del principe romano e dall’altro l’imperium del saggio stoico.
Nella stessa lettera Seneca ricorda l’impressione profonda che gli aveva
lasciato l’elogio di Attalo della povertà, della moderazione e dell’ascetismo, e
con quanto ardore egli avesse immediatamente cominciato a rifiutare gli sprechi
e i lussi tipici delle élite romane del suo tempo. La vera chiave della felicità, gli
aveva insegnato Attalo, era essere liberi dai desideri. Quell’ideale Seneca lo
rincorse per tutta la vita, ed è un punto su cui ritorna spesso. Con tono
lievemente autoironico racconta all’amico di avere introiettato a tal punto gli
insegnamenti di Attalo da avere conservato alcuni dei suoi ambiziosi propositi di
sobrietà anche quando si era ormai allontanato dagli studi filosofici per dedicarsi
alla carriera politica:
Dopo questi incontri mi sono rimaste, o Lucilio, talune consuetudini ... Ricondotto alla prassi
della vita cittadina, ben poco riuscii a conservare dei miei buoni inizi. Di qui la rinuncia per
tutta la vita alle ostriche e ai funghi, che, per la verità, non sono propriamente cibi, ma
stuzzichini che inducono a mangiare chi è sazio fino al collo ... È roba che va giù facilmente e
facilmente torna su. Di qui la decisione di astenerci per tutta la vita dall’uso di profumi,
perché il miglior profumo che si può avere sul corpo è nessun profumo. Di qui uno stomaco
che fa a meno del vino. Di qui il tenersi lontano per tutta la vita dalle terme: siamo convinti
che far cuocere il corpo fino a rinsecchirlo ed esaurirlo a furia di sudorazioni è pratica inutile
e da smidollati. Le altre abitudini, che avevo eliminato, sono tornate ma in un modo da
consentirmi di osservare una certa misura per quelle da cui avevo cessato di astenermi, ed è
una limitazione piuttosto vicina all’astinenza e non so se ancora più difficile di questa, perché
certe consuetudini dell’animo è più facile sradicarle che moderarle.
(Lettera 108, 14-16)
In quel tempo (19 d.C.) venivano messi al bando i culti stranieri e tra le prove di superstizione
si poneva l’astinenza dalla carne di certi animali. Allora, per espresso desiderio di mio padre,
che non temeva le false accuse, ma detestava la filosofia, tornai alle mie precedenti abitudini,
ed egli non trovò difficoltà nel persuadermi a nutrirmi meglio.
(Lettera 108, 22)
Poi dovetti cedere e giunsi al punto di sciogliermi io stesso, riducendomi a una forma estrema
di deperimento. Più volte presi di slancio la decisione di spezzare la mia vita, ma ne fui
distolto dal pensiero della vecchiezza del mio tenerissimo padre. Considerai infatti non quanto
coraggiosamente potessi morire, ma fino a che punto gli potesse mancare il coraggio di
reggere alla mia scomparsa. E così ordinai a me stesso di vivere. 23
(Lettera 78, 1-2)
Era dunque arrivato più volte al punto di volersi dare la morte, sembra dire
con vanto, e se non l’aveva fatto fu non per mancanza di coraggio, ma per non
far soffrire il padre. La relazione padre-figlio è anche in questo caso
profondamente ambivalente. Da un lato il padre è «tenerissimo», «gentilissimo»,
«indulgentissimo», e il figlio fa affidamento sulla sua amorosa protezione.
Dall’altro, però, lo protegge soltanto con la sua debolezza, non con la sua forza:
non è il padre a impartirgli ordini, ma è il figlio stesso a darseli. È il segno
dell’ingresso nella virilità: «Ordinai a me stesso di vivere».
Poi però, nonostante quello che ha appena detto, Seneca afferma che a
impedirgli di suicidarsi non fu tanto il padre, quanto la filosofia: «Gli studi
furono per me la salvezza. Attribuisco alla filosofia il merito di avermi rimesso
in piedi e della mia convalescenza. Le devo la vita, nulla di meno» (Lettera 78,
3). La filosofia soppianta il padre biologico come ispirazione e fonte di
guarigione. La debolezza del vecchio genitore gli impedisce di morire
fisicamente, ma è la filosofia, madre adottiva, a infondergli il soffio vitale.
Come spesso succede con gli scritti in prosa di Seneca, quando il lettore pensa
di essere finalmente giunto a una conclusione, si trova davanti a uno scarto. Non
è soltanto per amore della filosofia, dichiara, che egli ha superato la crisi: un
grande aiuto gli è venuto dall’amicizia. «Nulla, o Lucilio, può riconfortare e
aiutare un ammalato quanto l’affetto degli amici; nulla ci toglie furtivamente con
pari efficacia l’attesa e il timore della morte» (Lettera 78, 4). Tre, dunque,
sarebbero le ragioni, diversissime fra loro, che lo hanno aiutato a superare la
malattia: al dovere verso il vecchio padre si affiancano con uguale forza gli studi
filosofici e la gioia di trascorrere il tempo con gli amici più cari. Ma la filosofia
torna a essere il conforto decisivo, quando Seneca tira le conclusioni. La
migliore ricetta per guarire è il disprezzo della morte: è questa la vera cura di
tutti i mali (Lettera 78, 3), perché, quando si supera la paura della morte, tutto il
resto diventa secondario. Ma è proprio vero? Come dimenticare che all’inizio
della lettera egli aveva raccontato all’amico Lucilio di avere desiderato di
togliersi la vita per non soffrire più? Si stenta a capire quanto possa essere di
aiuto il disprezzo della morte, se la morte è agognata, ma non è disponibile.
Da questa auto-rappresentazione emerge un Seneca in preda a una paura
indefinita, la cui natura e risoluzione mutano di continuo, persino nello stesso
paragrafo. La morte passa da cura a malattia e poi torna a essere cura, ma la
costante è la paura. In termini freudiani, l’atteggiamento di Seneca verso la
morte è una forma di «paura nevrotica», in cui l’affetto negativo è connesso
soltanto simbolicamente, non empiricamente, con l’oggetto della paura. 24 Le
manifestazioni patologiche di un’ansia dalle motivazioni oscure sembrano
alludere a un desiderio disperato di trovare una zona di sicurezza e di conforto
psicologico in molteplici luoghi – nella famiglia, negli amici, nella filosofia (e in
seguito, come vedremo, nel potere politico, nel denaro e nello status sociale) –,
benché ognuno di essi offra forme di rassicurazione incompatibili con gli altri
rimedi.
La sensazione di una paura non localizzata emerge con forza in numerose
opere di Seneca. Forse l’espressione più memorabile si trova nelle tragedie,
alcune delle quali potrebbero essere state composte quando l’autore era ancora
piuttosto giovane. Il senso della paura lo accompagnò per tutta la vita. Il suo
Edipo dichiara:
Gli dei stanno intorno a me e sopra di me con funzione di censori di quanto faccio e dico. 1
Dalle lettere relative al periodo più acuto della malattia e del suo superamento si
desume che furono il padre in ansia, gli amici devoti e l’amore per lo studio a
riportare in vita Seneca quando era ormai sull’orlo della morte. Ma nella
Consolazione alla madre Elvia egli disegna un quadro del tutto diverso. Nel
momento in cui la sua condizione si aggravò pericolosamente, si legge,
intervenne la «gentile» sorella della madre (sorellastra, probabilmente), che lo
prese e lo portò con sé in Egitto, nella speranza che il clima caldo gli giovasse.
La zia, donna colta e ben introdotta, andava a raggiungere il suo futuro sposo, il
prefetto romano Gaio Galerio ad Alessandria.
A quel tempo l’Egitto era in genere ritenuto il paese ideale per la cura delle
malattie polmonari, anche se non da Plinio, il quale sosteneva che la vera
ragione dei miglioramenti era la lunga traversata del Mediterraneo. L’aria
impregnata di acqua salmastra asciugava la congestione dei polmoni e persino il
mal di mare era benefico per la testa, gli occhi e il torace. Plinio raccomandava
anche altri rimedi: il succo di porro (Storia naturale 20, 22) e, soprattutto, il
sangue dei cavalli selvaggi, purtroppo non facile da reperire, che poteva essere
eventualmente sostituito con una pozione di latte d’asina e succo di porro,
integrati da nasturzio e miele. Infine, per l’asma e per tutte le difficoltà
respiratorie erano un vero toccasana il fegato di volpe mescolato con il vino
rosso, o la cistifellea di orso sciolta nell’acqua (28, 55). E chissà che Seneca,
sempre attorniato dai medici più prestigiosi, non abbia provato questi rimedi.
Quando partì per l’Egitto, Seneca aveva circa venticinque anni. Vi rimase per
circa un decennio, probabilmente quasi sempre ad Alessandria, che era allora
una grande metropoli multiculturale, passata sotto il dominio romano dopo la
sconfitta di Cleopatra nel 31 a.C. All’inizio si suppone abbia trascorso parecchio
tempo a letto, ma poi dovette rimettersi a sufficienza per riprendere gli studi e
dedicarsi alla scrittura. La città ospitava la biblioteca più famosa dell’antichità, e
questo non poteva che fargli piacere. L’avevano fondata i Tolomei, la dinastia
macedone di lingua greca che aveva governato l’Egitto dal III secolo a.C.
Correva voce che Giulio Cesare l’avesse incendiata, ma forse il danno fu solo
parziale o forse l’incendio fu semplicemente un’invenzione. Ad Alessandria,
comunque, i libri abbondavano. Seneca studiò la cultura, la storia e i costumi
locali, e compose un trattato sull’Egitto, che è andato perduto. In quegli anni
coltivò anche gli studi filosofici e forse compose diversi scritti, nessuno dei
quali, purtroppo, può essere datato con precisione, perché non sappiamo nulla di
quel periodo così formativo.
A poco a poco Seneca ritrovò le forze, aiutato anche dalle attenzioni
amorevoli della zia: «Sono guarito da una lunga malattia per le sue affettuose
cure materne» (Consolazione alla madre Elvia 19, 2). Nel 31 lasciò l’Egitto per
Roma. Il viaggio per mare durava di solito tre settimane: la nave, partita da
Alessandria, faceva una prima tappa a Creta, poi una seconda nel nord della
Sicilia e di qui raggiungeva la costa tirrenica risalendola fino alla capitale. Non è
escluso che insieme a Seneca ci fosse anche lo zio, che in quello stesso periodo
annegò durante la traversata, ma è più probabile che Lucio viaggiasse su un
vascello più affidabile, e infatti raggiunse Roma sano e salvo insieme alla zia.
Seneca aveva ormai circa trentacinque anni, un’età piuttosto avanzata,
secondo le consuetudini romane, per intraprendere la carriera politica. Per sua
fortuna, però, la zia era abile, poteva contare su relazioni importanti ed era
pronta ad aiutarlo. Come egli ricorda alla madre:
Ha spiegato la sua influenza per farmi riuscire questore e, lei che non ha mai avuto il coraggio
di parlare o salutare a voce alta, per tenerezza verso di me, ha vinto il suo riserbo. La sua vita
sempre appartata, la sua modestia che la opponeva alla villana petulanza di tante donne, il suo
desiderio di tranquillità, i suoi costumi, tenuti in serbo per la casa e la quiete, non le
impedirono per nulla di farsi anche ambiziosa per me.
(Consolazione alla madre Elvia 19, 2)
La Roma nella quale Seneca approdò nel 31 d.C. attraversava una fase
interessante e insieme terribile della sua storia. L’imperatore Tiberio, figlio
adottivo di Augusto, era salito al potere nel 14, ma non si dava gran pena di
governare: sperava che le ruote del regime continuassero a girare senza il suo
intervento. Nel 26 si stabilì sull’isola di Capri, dove, secondo le malelingue,
passava da un’orgia all’altra. Nel frattempo non mancavano i pretendenti al
trono imperiale. Il più noto era Lucio Elio Seiano, che nel 31 fu nominato
console e sfruttò il prestigioso incarico come una leva per assumere il controllo
dell’impero. Il suo complotto fu però scoperto, e Tiberio inviò al Senato l’ordine
di giustiziare immediatamente il cospiratore. Seiano e i suoi seguaci furono
mandati a morte nel giro di pochi giorni, e nelle settimane seguenti il letargico
Tiberio si svegliò dal torpore quel tanto che bastava per ordinare un’altra strage
di oppositori ed eliminare tutti coloro che erano coinvolti nelle trame.
La vita di Seneca sotto Tiberio si svolse all’insegna della paura. I primi anni
del suo regno furono relativamente buoni, paragonabili addirittura a quelli del
Divino Augusto (La clemenza 1, 1). Negli anni successivi, però, proprio quando
ebbe inizio la carriera pubblica di Seneca, Tiberio divenne paranoico e asociale
fin quasi alla follia. Il filosofo lo descrive brutale e avido, un uomo
assolutamente incapace di generosità: persino i suoi doni erano sempre
accompagnati da rimproveri e lasciavano l’amaro in bocca, tanto da far svanire
nel beneficiario qualsiasi senso di gratitudine (I benefici 2, 7). A un vecchio
amico che gli chiedeva «Ti ricordi...?», l’imperatore aveva subito tappato la
bocca: «Non mi ricordo che cosa sono stato». Tiberio diceva di avere
completamente dimenticato la sua vita precedente. «Aborriva qualunque
rapporto con amici e coetanei … voleva che si guardasse unicamente alla sua
fortuna presente, che si pensasse solo a quella e si parlasse solo di quella:
considerava ogni vecchio amico una spia» (5, 25, 2). Nella Roma di quegli anni
trionfavano la delazione, lo spionaggio e il sospetto: un clima simile a quello
dell’America del maccartismo. Sotto Tiberio Cesare, scrive Seneca, «ci fu una
continua frenesia di accusare, che divenne quasi un’abitudine generale e rovinò
Roma in piena pace più gravemente di qualsiasi guerra civile» (3, 26, 1). Non
solo tutti i discorsi e gli scritti pubblici erano controllati, ma si poteva essere
chiamati a rispondere anche delle azioni all’apparenza più innocenti, dei gesti
più spontanei. Con una sorta di umorismo nero, Seneca racconta l’aneddoto di
un uomo della guardia pretoriana, che portava al dito un anello con l’effigie
dell’imperatore. Una sera si ubriacò e prese in mano un pitale, presumibilmente
per orinare, e toccò quell’oggetto impuro con la mano inanellata (3, 26, 2). Al
banchetto partecipava anche una spia, che, notato il gesto, chiamò i convitati a
testimoni della profanazione. L’uomo sarebbe stato giustiziato, se un suo schiavo
non avesse avuto la prontezza di spirito di far scivolare l’anello sul proprio dito,
appena in tempo per «dimostrare» l’innocenza del padrone. Forse fu per tutto
questo che Seneca si trattenne così a lungo in Egitto anche dopo la guarigione. È
comprensibile che fosse riluttante, non solo per ragioni di salute, a rientrare in
quel mondo di sospetto e paura. Che poi però decidesse di nuotare in quelle
acque torbide e ottenesse un successo significativo sotto Tiberio è anche un
segno del suo coraggio, della sua curiosità e della sua ambizione.
Gli anni trascorsi a Roma sotto Tiberio gli impartirono una grande lezione
sulla necessità che l’imperatore fosse generoso e clemente con i sudditi, un
argomento su cui Seneca avrebbe poi insistito a lungo nei discorsi scritti per
Nerone. Quegli anni gli fecero anche capire chiaramente quali pericoli corresse
un consigliere o un pubblico servitore che avesse cercato di diventare più potente
del principe, com’era accaduto a Seiano. La sua cospirazione aveva avuto quale
unico risultato quello di inasprire ancora di più quell’atmosfera paranoica, in cui
si creavano – o si immaginavano – costantemente complotti e controcomplotti.
La cultura della paura che regnava fra le élite romane di quel periodo fu
sostanzialmente funzionale all’instabilità del sistema imperiale: per tenere
saldamente le leve del potere, l’imperatore aveva bisogno di assicurarsi che
l’aristocrazia, nelle cui mani un tempo era il controllo del governo, restasse
debole. Non è questa, però, la visione che Seneca ci propone. Egli presenta
invece la mancanza di generosità di Tiberio e l’atmosfera di terrore da lui
coltivata semplicemente come difetti personali. E con l’aneddoto del pitale e
dello schiavo fedele sembra dirci che la migliore risposta in quel mondo di
pericolo costante è la vigilanza individuale, l’integrità e la lealtà verso il proprio
gruppo sociale, non l’opposizione esplicita al regime. Furono queste le lezioni
che Seneca apprese sotto Tiberio e che non avrebbe mai rinnegato negli anni
turbolenti che seguirono.
7. Caligola, imperatore dal 37 al 41 d.C., pare avesse deciso di mandare a morte Seneca e avesse desistito,
essendo venuto a conoscenza che sarebbe comunque morto presto di malattia.
Seneca, che quanto a saggezza superava tutti gli uomini del suo tempo come anche molti altri,
per poco non venne mandato a morte senza che avesse commesso alcuna ingiustizia o che ne
avesse dato l’impressione, ma per il semplice fatto che in Senato aveva perorato bene una
causa in presenza dell’imperatore. Gaio Caligola ordinò quindi che egli venisse mandato a
morte, ma poi lo liberò, poiché credette a una donna che era solito frequentare, secondo la
quale Seneca aveva una malattia che lo stava logorando e di lì a poco sarebbe morto.
(Cassio Dione, Storia romana 59, 19, 7-8)
Non mi sono gettato con precipitazione in una decisione disperata per sottrarmi al furore dei
potenti. Vedevo presso Gaio [Caligola] gli strumenti di tortura, vedevo il fuoco, sapevo che
sotto di lui già da molto tempo l’umanità era caduta così in basso che tra le prove di
misericordia era annoverata l’uccisione delle vittime: tuttavia non mi gettai sulla spada né mi
precipitai in mare a bocca aperta, perché non sembrasse che per restare fedeli non si potesse
far altro che morire.
(Questioni naturali, Prefazione 4, 17)
Mi piaceva raccogliere gli avvenimenti di una sola epoca, che s’erano svolti in una parte
infinitesima del mondo e tra pochissimi uomini; ora è possibile vedere l’intera sequenza e
l’intreccio di tanti secoli, di tante età, di tutti gli anni; si possono vedere i regni che attendono
di sorgere e quelli che stanno per crollare, la caduta delle grandi città e il futuro fluire del
mare.
(26, 6)
Cordo aveva scritto una storia del periodo repubblicano, che il Senato aveva
dato ordine di bruciare quando l’autore era caduto in disgrazia. Ora Seneca
mostra un Cordo che si eleva al di sopra delle sue disgrazie personali e della città
che ha tentato di mandarlo in rovina. Dall’alto dei cieli, la stessa Roma, in un
periodo che molti ritenevano ancora glorioso, gli appare come una parte remota
del mondo. Da quelle altezze, egli scorge non soltanto il passato ma anche il
futuro, e vede il crollo delle città, dei poteri e degli imperi; e vede inoltre non
soltanto l’estinzione dell’umanità – un evento piccolo nella scala infinita del
tempo cosmico – ma anche grandi sommovimenti geologici. E preconizza la fine
del mondo in un grande incendio:
Quando poi verrà il tempo in cui il mondo dovrà estinguersi per rinnovarsi, codesti esseri si
distruggeranno con le loro stesse forze, le stelle si scontreranno con le stelle e, in una
universale conflagrazione dell’essere, arderanno d’un sol fuoco tutti i corpi celesti che ora
splendono in buon ordine. Anche noi, anime felici che abbiamo avuto in sorte l’eternità,
quando parrà a dio che sia il momento della ricostruzione, divenendo, nella distruzione di
tutto, una piccola aggiunta al crollo immenso, ci trasformeremo negli elementi primordiali.
Felice tuo figlio, o Marcia, che già conosce questo!
(26, 6-7)
Queste righe, le ultime del dialogo, dicono poco o nulla sul dolore della
madre, come se lo stato emotivo di Marcia non interessasse più all’autore. Ma la
loro retorica è possente e mira a distogliere la mente della donna dal lutto,
volgendola in un’altra direzione. In questa, che fu una delle sue prime opere,
Seneca mostra già di padroneggiare un tipo di scrittura capace di passare
agilmente da una visione individuale a una visione cosmica, per rivelare che il
mondo è ben più grande e ben più vasto della nostra stessa capacità
immaginativa e va oltre ciò che gli esseri umani sono in grado di visualizzare o
raggiungere. Attraverso l’elogio agiografico di Cordo, Seneca trasmette anche il
messaggio che la scrittura è la via per conquistare una fama e un riconoscimento
duraturi.
L’amore legittimo
Con il ritorno a Roma, Seneca fu nelle condizioni di crearsi un ambiente
domestico più stabile: una moglie e un figlio, contatti più stretti con i fratelli, la
madre, i nipoti. Sappiamo che si sposò ed ebbe un figlio, che però morì da
piccolo, nel 41 d.C. (Consolazione alla madre Elvia 2, 5). Seneca accenna
soltanto brevemente a questo lutto e sembra voler dire che la scomparsa del
bambino è un dolore soprattutto per la nonna Elvia, che ha visto morire in rapida
successione non uno, ma tre nipoti, presumibilmente figli di Novato e Mela (2,
4). Sul figlio scomparso Seneca non manifesta alcuna emozione, né qui, né
altrove, né accenna quale sia stato il suo ruolo di padre. Il figlioletto fu sepolto
dalla nonna Elvia e non sappiamo neppure se Seneca abbia partecipato al
funerale di quello che, a quanto ci è dato sapere, fu il suo unico figlio.
Di fronte alla tranquillità con cui Seneca parla della morte del figlio,
potremmo essere indotti a credere che sia stato un uomo di una insensibilità
mostruosa. Forse, però, faremmo meglio a non emettere sentenze precipitose: la
mortalità infantile a quel tempo era molto più frequente di quanto non lo sia ora
nel mondo occidentale. Questo non significa che non causasse dolore e lutto,
naturalmente, ma la morte di un infante era un evento meno inatteso e quindi
meno sconvolgente di quanto non lo sia oggi.
Fra l’altro, l’unica testimonianza che abbiamo della perdita di questo figlio è
contenuta nella Consolazione alla madre Elvia, che, si è visto, è un’opera
altamente letteraria: non è affatto l’espressione delle emozioni e dei sentimenti
più profondi dell’autore, bensì una composizione retorica e filosofica formale di
tipo virtuosistico. Ciò che Seneca si propone è ridurre l’intensità del dolore di
Elvia, e difficilmente ci sarebbe riuscito se avesse ricordato il suo lutto di padre.
Nella consolazione, Seneca indossa la maschera del filosofo e del saggio stoico,
capace di spiegare a una madre addolorata e troppo umana perché deve mettere
da parte il suo dolore. Dal punto di vista della dottrina stoica la morte di un
bambino appartiene al novero delle «cose indifferenti»: non è preferibile, ma non
è neppure tale da turbare la tranquillità del saggio. È questo il «personaggio» di
cui Seneca veste i panni, e pertanto è impossibile stabilire quanto esso
corrisponda alla realtà. Ciò non toglie che si possa considerare crudele anche la
semplice pretesa di vedere gli altri, inclusi i figli, come «cose indifferenti». In
ogni caso, non possiamo trarre nessuna conclusione chiara sui sentimenti di
Seneca riguardo alla morte di suo figlio. Possiamo soltanto essere certi che
aveva un figlio e che quel figlio morì.
La Consolazione alla madre Elvia contiene altri due passi indicativi del
rapporto di Seneca con l’infanzia. Alla madre egli rivolge un invito pressante:
E guarda ai nipoti che ti hanno dato: Marco è un piccino simpaticissimo, vedendo il quale se
ne va ogni tristezza. Non c’è dolore grande o recente, che incrudelisca in un cuore, che egli
non riesca a addolcire con le sue carezze. Quali lacrime non asciuga la sua gioia; quale cuore,
serrato dall’ansia, non riapre la sua arguzia? Chi non si sentirà invitato al gioco dalla sua
spensieratezza? E quel suo chiacchierio, che non ci si stanca di ascoltare, chi non attirerà,
strappandolo ai pensieri che l’imprigionano? Mi ascoltino gli dei e ci concedano che questo
bimbo sopravviva!
(18, 4-6)
Irrobustisci e modella il suo comportamento. I princìpi che ci vengono impressi nella prima
giovinezza sono quelli che penetrano più a fondo. Lascia che si abitui alla tua conversazione,
che venga formata dalla tua autorità. Tu le darai molto, anche semplicemente con il tuo
esempio.
(18, 7-8)
L’idea che sia così facile insegnare l’etica a una adolescente è alquanto
ottimistica, di un ottimismo che forse non fu estraneo alla decisione di Seneca di
accettare il ruolo di precettore di Nerone. Noi, purtroppo, non abbiamo modo di
sapere se Elvia abbia avuto successo con Novatilla.
Veniamo infine alla questione della moglie di Seneca. 9 È probabile che le
nozze siano avvenute subito dopo il suo ritorno a Roma e l’avvio della carriera
politica. Intorno al 40 d.C. Seneca era sicuramente già sposato, perché nel 41
ebbe un figlio legittimo. Un cenno alla moglie si trova nel Terzo libro dell’Ira, in
cui l’autore scrive che la donna, essendole da tempo familiare la sua abitudine
all’autoanalisi notturna, resta con tatto in silenzio affinché il marito possa
procedere all’esame della sua giornata senza essere disturbato. Purtroppo, però,
della loro vita coniugale non sappiamo nulla. Sulla moglie Paolina abbiamo
alcune informazioni al momento della morte di Seneca, e alcuni studiosi
sostengono che sia stata l’unica sua sposa. È invece molto probabile che ci sia
stato un matrimonio precedente con una donna di cui non conosciamo né il nome
né la storia, morta in un momento imprecisato degli anni Quaranta, forse di
parto, e che il vedovo si sia poi risposato. Queste, però, sono soltanto illazioni,
perché né Seneca né nessuna delle nostre altre fonti fornisce qualche
informazione.
Sappiamo invece molto di più riguardo a ciò che Seneca pensava del
matrimonio in generale, perché all’argomento dedicò un trattato, scritto
probabilmente intorno al 38-39 d.C. o poco più tardi e intitolato appunto Sul
matrimonio, di cui purtroppo sopravvivono soltanto alcune citazioni. 10 Da queste
si desume che Seneca contestava la concezione epicurea, secondo la quale è
quasi sempre un errore sposarsi e avere figli, perché moglie e prole metterebbero
a repentaglio la tranquillità del filosofo. 11 Seguendo invece il modello stoico,
Seneca riteneva l’amore fra i sessi non una fonte di delusione e frustrazione,
bensì una necessità naturale e spirituale, che deve fondarsi sulla ragione e non
sulla passione. Il matrimonio viene quindi presentato come una componente
della vita ideale, ma, fedele alla dottrina stoica, Seneca lo colloca fra le cose
«indifferenti», non fra quelle di valore come la virtù. Si tratta tuttavia di un
«indifferente preferibile», il che significa che una buona moglie è meglio di
nessuna moglie. Gli epicurei, dichiara, avevano una visione troppo negativa
dell’istituzione matrimoniale:
Epicuro ... sostiene che solo in rari casi un saggio debba convolare a nozze, poiché molti
fastidi sono connessi con il matrimonio. E come le ricchezze, gli onori, la salute del corpo e
quant’altri noi chiamiamo «indifferenti» non sono né beni né mali, bensì, trovandosi in una
posizione mediana, divengono beni o mali secondo l’uso e l’esito che hanno, così anche le
mogli sono situate sul confine tra i beni e i mali. È però grave per un saggio arrivare a
dubitare se stia per sposare una donna buona o una cattiva.
(Sul matrimonio fr. 5, 45)
Anche in questo caso Seneca è alla ricerca di un compromesso fra gli ideali
della vecchia Stoà e la realtà della Roma del suo tempo. Ancora una volta tenta
di mediare fra la nozione stoica, secondo cui soltanto la virtù è essenziale per la
felicità, e la realtà sociale e psicologica per la quale la maggior parte delle
persone, compreso lui stesso, tende a volere nella vita qualcosa di più della sola
virtù. E in quel «di più» rientra anche il matrimonio. Inoltre, in uno spirito che
potrebbe essere considerato niente affatto stoico, egli aggiunge che a fare o
disfare un matrimonio non è tanto il comportamento del marito, quanto il tipo di
donna che egli sceglie. Tutto dipende dunque dalla condotta della moglie: una
posizione in contrasto con l’ortodossia della Stoà, per la quale ciò che conta è
l’atteggiamento del singolo individuo, non quello altrui. Per Seneca, la
responsabilità del successo o dell’insuccesso di un matrimonio è tutta femminile.
E qual è il pericolo morale più grande per un uomo sposato? Non è avere delle
amanti e tradire i voti matrimoniali, ma, sorprendentemente, amare troppo la
moglie. Seneca ironizza, per esempio, su un «tizio», sul quale pare circolassero
numerose battute, che viveva in simbiosi con la moglie:
Né lui, né sua moglie bevevano se prima il bicchiere non era stato toccato dalle labbra
dell’altro, per non dire di altri comportamenti ridicoli, indizi evidenti di una passione ardente
incapace di frenare la propria inopportuna violenza. Certo, l’amore al suo nascere è un
sentimento onorevole; è piuttosto il suo eccesso a renderlo disgustoso; e tuttavia conta poco,
una volta caduti nella follia, se all’origine di tale follia ci fosse una causa onorevole.
(fr. 26, Haase 1852)
Sotto Caligola, a quanto pare, Seneca non se l’era poi passata tanto male: aveva
intessuto una solida rete di contatti fra l’aristocrazia e a corte, che comprendeva,
forse, il principe stesso. Ma nel 41 d.C. l’odiato autocrate fu assassinato nel
corso di una congiura, cui parteciparono numerosi senatori. Caligola non aveva
eredi maschi e i pretoriani (le guardie del corpo che proteggevano il palazzo
imperiale) imposero la nomina di Claudio (fig. 8). Il Senato, pur riluttante,
acconsentì. Claudio discendeva dalla famiglia Giulio-Claudia, era nipote di
Ottavia, la sorella dell’imperatore Augusto, e perciò aveva tutti i titoli per
aspirare al trono. Ma era claudicante e balbuziente, ed era ritenuto un idiota, per
cui raramente era stato preso in considerazione come possibile candidato.
In realtà, una volta asceso al potere, Claudio fu molto attivo, realizzò diverse
grandi opere pubbliche e ampliò i confini dell’impero rimasti invariati dalla
morte di Augusto. La sua conquista più importante fu la Britannia, che si era più
volte ribellata al dominio di Roma. Successivamente Seneca trasse un vantaggio
finanziario dalle opportunità concesse da quella nuova ala dell’impero. Gli
storici Svetonio e Tacito affermano che Claudio non possedeva le competenze
necessarie per governare l’impero ed era uno strumento nelle mani di mogli e
liberti. 12 Ma il loro giudizio non è condiviso da diversi studiosi moderni – e
neppure da Robert Graves nel suo romanzo storico Io, Claudio – che
considerano Claudio tutt’altro che uno sciocco. L’imperatore, essi affermano,
indossava la maschera di una persona debole e dipendente per poter
sopravvivere in un mondo in cui esibire una qualsiasi abilità significava andare
incontro alla morte.
Ho rischiato la mia testa per conservare la mia fedeltà; non mi è stata strappata nessuna parola
che non potessi pronunciare mantenendo pura la coscienza; ho temuto tutto per gli amici, per
me niente, se non di non essere stato abbastanza un buon amico. Non ho versato lacrime come
una donna; non mi sono mai messo, supplicando, nelle mani di nessuno; non ho fatto niente di
indegno di un uomo buono né di un uomo vero. Superiore ai miei pericoli, pronto ad
affrontare ogni minaccia, ho ringraziato la fortuna che aveva voluto mettermi alla prova ... se
fosse meglio che morissi io per salvare la fedeltà o venisse meno la fedeltà per salvare me.
(Questioni naturali 4a, Prefazione 15-16)
Seneca rimase in Corsica per otto anni. Non sappiamo come li abbia trascorsi.
Possiamo supporre che abbia impiegato buona parte del tempo scrivendo e
studiando, e forse anche componendo alcune delle tragedie e una parte del
trattato L’ira, sul quale torneremo più avanti. Due sono le opere scritte con
certezza sull’isola, perché entrambe sono concepite come strumenti per facilitare
la fine dell’esilio: la Consolazione a Polibio e la Consolazione alla madre Elvia.
Diversissimi per tono e contenuto, entrambi questi testi hanno però come
obiettivo comune quello di promuovere il ritorno a Roma del loro autore, non
quello di consolare il dedicatario: anzi, sotto questo profilo le due consolazioni
non possono che essere considerate un completo fallimento. Tuttavia, entrambe
rivelano la grande abilità retorica del loro compositore e, di conseguenza,
riescono a perorarne con efficacia la causa.
La Consolazione alla madre Elvia è una variante assai originale del genere
consolatorio. Convenzionalmente, la consolatio era indirizzata a una persona in
lutto per la morte di un proprio caro: il defunto, ovviamente, non poteva esserne
l’autore. Seneca si propone invece di confortare la madre per la perdita del suo
secondogenito, cioè di lui stesso. E lo fa scindendosi. Da un lato interpreta il
ruolo del saggio, del filosofo che consola la madre dolente nel momento del
bisogno. Dall’altro è l’esiliato, colui che subisce una condizione implicitamente
equivalente alla morte. Seneca è consapevole di imprimere una torsione al
genere della consolatio: «Consultando tutte le opere composte dai più illustri
ingegni per frenare e moderare i dolori, non ho trovato esempio di persona che
avesse consolato i suoi cari, mentre essi lo stavano compiangendo»
(Consolazione alla madre Elvia 1, 2). L’opera rivela dunque la stupefacente
abilità retorica del suo autore.
Nel suo duplice ruolo, Seneca può proporsi da un lato come l’uomo dotato di
una eccezionale forza morale di fronte ai patimenti, dall’altro come l’uomo che
soffre in circostanze terribili, senza tuttavia autocommiserarsi. Egli insiste sui
cliché dello stoicismo: ciascuno di noi è autore della propria felicità, per il
saggio la sfortuna non è «cattiva» e così via (4, 3-5, 1; 6, 1). L’esilio non è che
una delle cose «indifferenti», e, in quest’ottica, si riduce soltanto a un
cambiamento di residenza. Ma proprio mentre rivendica la sua capacità di essere
superiore a tutte le forme puramente materiali di sofferenza, elencandole a una a
una, egli sottolinea anche le privazioni alle quali è sottoposto sull’isola,
tracciando un quadro estremamente efficace dei lussi inutili di cui l’esiliato viene
privato, con il risultato di evidenziare la superfluità dello sfarzo e insieme la
propria forza intellettuale, che gli permette di coglierne la vacuità:
Ma colui che rimpiange la sua porpora, stracarica di tinta, intessuta d’oro, cosparsa di fregi
variopinti, è povero per colpa sua, non della fortuna ... Gli mancherà sempre di più, rispetto ai
suoi desideri ... Brama mobili splendenti di vasi d’oro, pezzi d’argenteria marcati con i nomi
di artisti antichi, bronzi diventati preziosi in seguito alla follia di pochi ... una folla di schiavi
che faccia sembrare stretta anche una casa ampia, animali messi a pastura e costretti a
ingrassare, marmi provenienti da tutte le parti del mondo: anche se gli si accumula tutto
questo, un’anima insaziabile non si sentirà mai sazia, così come non ci sarà mai acqua
bastante a placare chi è assetato, non per naturale esigenza, ma per una febbre che gli brucia le
viscere, perché quella non è sete, è malattia.
(11, 2-3)
I versi riprendono il tema della Consolazione alla madre Elvia: essere esiliati
in Corsica è come essere morti. I corsi detestano ancora Seneca, e, dato il ritratto
che ha fatto della loro isola, non è difficile capirne il motivo. Secondo una
leggenda locale lo scrittore ebbe una relazione con una ragazza del posto, la
quale poi lo frustò con rami di ortica. E proprio l’ortica circonda ancora il luogo
in cui si dice che egli sarebbe vissuto, benché sia stato dichiarato monumento
storico dalla Francia (fig. 10). 28
Delle sue condizioni di vita sull’isola, Seneca traccia un quadro a tinte fosche,
quasi del tutto fittizio. Nello stesso passo in cui lamenta che la Corsica è solo
roccia sterile, abitata esclusivamente da barbari, osserva anche che alcuni vi si
trasferiscono spontaneamente, inclusi i romani. Sull’isola infatti c’era una vivace
colonia romana, con una élite raffinata. Seneca stesso era forse accompagnato da
amici e parenti, compreso il fratello Novato, ed è probabile che anche la moglie
lo avesse seguito.
A prendersi cura di lui erano numerosi schiavi; sebbene esiliato, ammette,
aveva più servitori dei grandi scrittori e filosofi dei tempi andati: «Sappiamo con
certezza che Omero ebbe un solo schiavo, Platone tre, Zenone nessuno, e fu il
fondatore della vigorosa e virile filosofia stoica» (12, 4). Una vita in compagnia
di familiari e amici, con almeno quattro o cinque servitori, non assomiglia molto
a un confino solitario. E anche le condizioni materiali non dovevano poi essere
così cattive come vorrebbe farci credere. La Corsica era separata da Roma da
appena una striscia di mare e il suo clima mite non era molto diverso da quello
della capitale: le lagnanze di Seneca sul clima sono dunque un’invenzione. E
l’isola non era affatto spoglia: secondo Plinio i suoi pini erano i più belli del
mondo, e i suoi porti, afferma Diodoro, erano ottimi. 29
10. Nei suoi otto anni di esilio in Corsica, Seneca visse in questa torre. Nonostante il quadro a tinte fosche
che egli traccia dell’isola, la Corsica aveva un buon clima e ospitava una fiorente comunità romana.
Questo scritto l’ho composto come ne sono stato capace, con mente intorpidita e indebolita
dalla lunga inazione. Se ti parrà che esso non sia degno del tuo genio o non basti a rimediare
al tuo dolore, pensa quanto è inetto a consolare gli altri chi è prigioniero dei suoi mali, pensa
con quanta difficoltà sovvengono le espressioni latine a un uomo attorno al quale strepita un
rozzo parlare di barbari, insopportabile anche per quei barbari che hanno un minimo di
istruzione.
(Consolazione a Polibio 18, 9)
Gli scritti composti da Seneca durante la relegatio, pur non sortendo l’effetto
immediato di garantirgli il ritorno a Roma, non passarono inosservati, anzi, gli
consentirono di continuare a raccogliere onori e ammirazione per le sue abilità
retoriche e la sua cultura, e prepararono il terreno per la sua nomina a precettore
di Nerone. Ebbero tuttavia anche un’altra funzione importante: lo aiutarono a
elaborare i sentimenti di dolore, noia, impotenza e in particolare, forse, a
superare la rabbia che in alcuni momenti deve essere stata fortissima in quella
sua reclusione forzata.
L’ira è un argomento su cui Seneca discetta con particolare efficacia. Il trattato
dedicato a questo tema non può essere datato con certezza; 33 non si può
escludere che sia stato composto immediatamente prima dell’esilio, ma è molto
più probabile che sia posteriore alla condanna. L’ipotesi più credibile è che i
primi due libri risalgano al periodo corso e il terzo a dopo il ritorno a Roma:
quest’ultimo, infatti, appare più tardo e scritto chiaramente nella capitale. 34
L’ira doveva riguardarlo da vicino: un soggetto utile su cui meditare durante la
relegatio. Seneca non poteva non avere provato l’impulso a dare sfogo alla sua
collera nel vedersi accusato e condannato, cacciato da Roma e privato di parte
dei suoi beni. E per di più per un reato che forse non aveva commesso. Ma anche
se fosse stato colpevole di cospirazione o di adulterio, una condanna pubblica
così umiliante e una privazione così forte non poterono non suscitare in lui un
risentimento profondo. Nel trattato sull’ira, però, Seneca affronta le proprie
emozioni soltanto in modo indiretto. Non c’è un solo riferimento esplicito alla
sua esperienza personale e alle terapie da lui adottate per superarla.
Di quale ira si parla dunque nel trattato? Il libro è dedicato al fratello Novato,
che, così dice Seneca, lo aveva invitato a scrivere sui rimedi per placare l’animo
esacerbato. Forse Novato considerava il fratello minore particolarmente irritabile
o forse era egli stesso soggetto ad attacchi di collera che ne sconvolgevano la
calma interiore. L’ipotesi più probabile, però, è che Seneca volesse persuadere
l’imperatore a non essere più adirato con lui e a farlo tornare a Roma. Lo scritto
mette a fuoco l’ira dei potenti, e inizia con l’affermazione iperbolica che
«nessuna calamità è costata più cara al genere umano» dell’ira, che ha provocato
spargimenti di sangue, avvelenamenti, incendi, distruzioni di città, morti
violente, assassinii e guerre, in cui «interi popoli sono stati mandati a morte
senza distinzione alcuna» (L’ira 1, 2, 3). Un’analisi di questo genere attribuisce
un grande peso alle passioni umane e molto poco all’economia o all’ideologia
politica. Seneca tralascia il grande quadro politico per concentrarsi su una tessera
assai più piccola della società, il singolo individuo. Il suo punto di vista
corrisponde perfettamente alla posizione delle élite romane dell’epoca, ormai
prive di vero potere, ma ci consente anche di cogliere la sua situazione personale
di vittima della collera di un autocrate.
Sarebbe tuttavia riduttivo pensare che Seneca abbia concepito L’ira soltanto
come un mezzo per persuadere l’imperatore a perdonarlo oppure per attrarre il
pubblico dei lettori e alimentare così la sua popolarità. L’interpretazione migliore
è forse quella che considera questo trattato una meditazione rivolta a tutti coloro
che sono tentati di cedere alle emozioni eccessive, ossia a noi tutti. Qui, come in
altre occasioni, Seneca riesce a trascendere la propria situazione di esiliato e a
guardare le cose dall’alto, parlando della condizione umana in generale. Il tema
delle «passioni», vale a dire delle emozioni eccessive (e quindi negative), fu
importante per tutte le varie scuole filosofiche romane, così come lo era stato per
le scuole ellenistiche che ne rappresentavano il modello. Gli stoici non erano i
soli a ragionare sui turbamenti emotivi. Dopo l’annessione della Grecia operata
da Alessandro Magno e la scomparsa, nel IV secolo a.C., della polis, in cui tutti i
cittadini (maschi) delle classi alte partecipavano attivamente al governo della
città, la vita intellettuale si era sempre più concentrata sull’individuo, e la
filosofia etica si era sempre più spesso dedicata a quella che noi chiameremmo
psicologia. Nel periodo ellenistico i filosofi avevano cominciato a interrogarsi su
come potesse un essere umano conquistare l’imperturbabilità, l’atarassia. Il
contributo maggiore in questo campo era venuto dagli stoici, che avevano
indagato con particolare profondità, e catalogato, i vari modi in cui un individuo
può lasciarsi turbare da falsi pensieri, che, in base alla loro teoria, sono la causa
delle emozioni negative, vale a dire delle «passioni». 35
Gli stoici suddividevano le passioni in quattro categorie: il piacere, il dolore, il
desiderio e la paura, che, con i loro eccessi, impedivano di raggiungere la giusta
tranquillità spirituale. Ma non tutti i sentimenti sono negativi: quelli che
collimano perfettamente con la realtà, così come viene intesa dagli stoici, sono
positivi. Il vero saggio, per esempio, proverà «gioia» nel constatare la propria
bontà. 36 Questi sentimenti, però, sono affatto diversi dalle «passioni», che,
provocate da falsi concetti della realtà, hanno la capacità di mettere a tacere il
pensiero retto. Così, per esempio, chi vive nell’ansia per timore della morte è
convinto che la morte sia davvero un male anziché una cosa indifferente (anche
se a volte non preferibile).
Di tutte le passioni, la peggiore è proprio l’ira, perché totalmente aggressiva e
distruttiva. Se le altre passioni «hanno, a dire il vero, una componente di
tranquillità e calma», l’ira invece «è tutta eccitazione e impulso a reagire, è
furibonda e disumana brama di armi, sangue e supplizi, dimentica se stessa pur
di nuocere all’altro, è pronta a precipitarsi immediatamente sulle armi ed è avida
di una vendetta destinata a coinvolgere il vendicatore» (1, 1). A scatenare l’ira
sono la percezione di avere subìto un’ingiuria e il desiderio di vendicare
un’offesa, che l’adirato ritiene di avere ricevuto o di essere sul punto di ricevere
(2, 1, 3). Seguendo la dottrina stoica classica, Seneca afferma che l’ira è un
male: nemica della pace interiore, è priva di qualsiasi utilità politica e sociale e
non serve neppure per governare o fare la guerra. Possono esserci momenti in
cui un soldato deve combattere e uccidere, in cui un governante deve condannare
un criminale, ma queste azioni dovrebbero essere sempre eseguite secondo i
dettami della ragione, mai secondo i capricci della passione. La legge, non l’ira,
deve essere l’arma primaria dello stato.
L’accento posto da Seneca sul fatto che è responsabilità del leader controllare
le proprie emozioni ha un evidente significato politico in quella prima fase
dell’impero. La transizione dalla repubblica – un regime in cui il potere era
condiviso da un’ampia classe di pubblici ufficiali appartenenti alle varie
istituzioni, quali il tribunato, l’esercito e il Senato – al principato, in cui il potere
ultimo era nelle mani di un uomo solo, era piuttosto recente. L’abito mentale,
politico e culturale dei romani non si era ancora messo al passo con la nuova
realtà. 37 Le élite continuavano a concepire se stesse come membri di una vera
classe di governo, benché non godessero più di un reale potere politico, ma
facessero ormai anch’esse parte del novero dei sudditi. A ciò si aggiunga che il
potere del principe poggiava in maniera preponderante sulla sua capacità di
mantenere buoni rapporti con l’esercito, per cui non era più, come ai tempi della
repubblica, la legge ad avere l’ultima parola, bensì l’imperatore con il sostegno
dei militari. Era quindi più che mai importante che il principe sapesse mediare
fra i due poli opposti dell’ira e della clemenza. Seneca cita con orrore le terribili
parole di Caligola, Oderint dum timeant: «Che mi odino pure purché mi
temano». 38 Un simile grado di aggressività esula dai limiti dell’autorità per
diventare semplicemente una mostruosità, dichiara.
Ma non sono soltanto i governanti a dover essere consapevoli dei propri moti
dell’animo. Nell’Ira Seneca affronta uno dei suoi temi principali: come dotarsi
di un senso di sicurezza in un mondo incerto e come conquistare il vero potere
senza inseguire false promesse che si dimostrano sempre illusorie. L’ira è una
tentazione per tutti, egli afferma, perché può sembrare affine a beni reali quali la
giustizia e la sicurezza. Ma, come tutte le passioni, è una falsa amica che ci
alletta per spingerci a trasgredire: «Solo la virtù è sublime ed elevata, e non c’è
mai la grandezza dove non c’è anche la compostezza» (1, 21, 4).
Uno dei contributi più originali di Seneca all’indagine stoica delle emozioni è
l’attenzione che egli riserva ai sentimenti involontari. 39 Questa indagine lo
conduce a una visione molto più sfumata e plausibile dell’ira e delle altre
passioni. Occorre, egli afferma, saper distinguere fra gli «impulsi» (motus), che
sono risposte preconscie e non richiedono l’assenso della mente, e le vere
passioni (affectus) che implicano di necessità una serie particolare di credenze. 40
Se ci rovesciano sulla testa un secchio di acqua fredda, rabbrividiamo; se
veniamo insultati, arrossiamo; e a teatro possiamo provare rabbia, pietà o dolore
per i personaggi sul palcoscenico, pur sapendo benissimo che non sono reali.
Tutte queste emozioni però, dichiara Seneca, non sono vere «passioni», a meno
che non acconsentiamo a dare loro credito.
Le metafore cui egli ricorre nell’analizzare l’ira sono tratte molto spesso dal
linguaggio medico. Lo stato d’ira è incompatibile con la felicità ed è perciò
simile a una malattia, che va curata con la filosofia. Chi è sano, moralmente e
psicologicamente, è felice: «Costitutivo e specifico della virtù è il godere e
rallegrarsi» (2, 6, 2). Il saggio non si infurierà mai per il comportamento sciocco
degli altri. Se si adirasse ogni volta che si imbatte in una condotta negativa, tutta
la sua «vita trascorrerebbe nell’ira e nella tristezza» (2, 7, 1). Egli perciò si
considera un terapeuta, circondato da malati (2, 10, 7): proverà pietà per gli
sconsiderati e desidererà curarli, perché sa che i loro atti non potranno mai
ferirlo.
Particolarmente interessante è la descrizione della genesi e dello sviluppo
dell’ira, e i consigli su come modificare i nostri comportamenti. È molto più
difficile eliminare del tutto l’ira che controllarne le manifestazioni, dicono
alcuni. Seneca dissente; piuttosto è vero il contrario: «È più facile eliminare le
passioni rovinose», come richiede la via stoica, «che controllarle» (1, 7, 2). Altri
potrebbero sostenere che in talune circostanze sia giusto adirarsi ed esigere, per
esempio, la punizione di colui che ha commesso il male («l’ira è avida di
punire»). Ma la scelta migliore, dichiara Seneca, è fingere di essere adirati, non
esserlo davvero: una messa in scena, al contrario della vera ira, può sempre
essere tenuta sotto controllo (2, 16 sgg.).
Il saggio non si limita a indicare il metodo di autoeducazione più idoneo, ma
si occupa anche della formazione dei bambini e degli adolescenti, ai quali
occorre insegnare l’approccio corretto verso le passioni. Forse la madre di
Nerone, Agrippina, aveva letto i primi libri dell’Ira, in cui si dimostra
chiaramente quanto sia importante la formazione dei giovani, e forse fu anche
per questo che scelse Seneca come precettore del figlio dodicenne:
«L’educazione esige la massima diligenza per poter dare il frutto più abbondante.
È facile infatti adattare le anime ancora tenere, è difficile recidere i vizi che sono
cresciuti con noi» (2, 18, 2).
Seneca ha una visione molto pessimistica degli effetti sconvolgenti, debilitanti
e brutalizzanti dell’ira (e di altre emozioni negative) sugli esseri umani, ma è
convinto che con la giusta forma di esercizio essi possano migliorare fino a
eliminarla completamente. Quando siamo in preda all’ira, scrive, sarebbe
sufficiente guardarsi allo specchio per capire che è una malattia odiosa, e
chiunque voglia essere sano e felice deve liberarsene interamente.
La concezione delle passioni come mali facilmente curabili, che Seneca
espone nelle opere filosofiche, è in netto contrasto con la rappresentazione delle
emozioni violente che egli propone nei drammi. Non sappiamo quando siano
state composte le otto tragedie giunte fino a noi sotto il suo nome: Edipo,
Agamennone, Fedra, Medea, Ercole furioso, Le troiane, Tieste e Le fenicie,
quest’ultima incompiuta, 41 ma è probabile che siano state scritte nel corso di
molti anni. L’analisi stilistica induce a ritenere che alcune siano state composte
relativamente presto, forse sotto Caligola o negli anni dell’esilio, mentre altre (il
Tieste e probabilmente Le fenicie) potrebbero appartenere al periodo neroniano.
Sul rapporto fra le tragedie e le opere filosofiche i critici hanno discusso a lungo.
Alcuni studiosi sostengono che i drammi esemplificano ciò che accade quando
non si riesce a controllare le passioni: le tragedie sarebbero cioè delle moralities
stoiche, drammi allegorico-pedagogici raffiguranti la caduta di quanti si lasciano
sopraffare dall’ira, dalla lussuria o dalla paura.
Questa analisi, però, non rispecchia l’esperienza che si ha leggendo o vedendo
le tragedie, perché le passioni sono dipinte in modo troppo vigoroso, vivido e
godibile per essere allegorie. Ciò non significa che i drammi non abbiano alcuna
relazione con le meditazioni senecane sulle passioni e sui loro effetti negativi:
più che illustrazioni delle prose, le tragedie, nella loro cupezza, sembrano la loro
immagine speculare. Il Seneca drammaturgo indossa le vesti e la voce di
personaggi resi folli da desideri incontenibili e si diletta della loro ampollosa
retorica.
Durante l’esilio Seneca compose probabilmente non soltanto i primi libri
dell’Ira, ma anche la Medea. Basata sullo stesso mito della tragedia omonima di
Euripide, in quella senecana Giasone ha già recuperato il vello d’oro con l’aiuto
della principessa della Colchide, Medea, i due sono sposati da diversi anni e
hanno dei figli. Ora vivono a Corinto, e Giasone medita di risposarsi con la
principessa Creusa per consolidare la sua posizione in Grecia. Furibonda, Medea
prepara la vendetta. Progetta di uccidere prima la principessa con un abito e una
corona avvelenati, poi i figli che ha avuto da Giasone, e, commessi gli omicidi,
fugge su un carro trainato da draghi, che le viene offerto dal nonno, il dio del
sole Elio.
Medea è una donna esiliata dalla sua terra, rosa dall’ira, decisa a vendicarsi
del suo nemico e insieme a conservare la propria dignità e autonomia; in lei si
coglie un’eco oscura della vita in esilio di Seneca. La sua furia è immaginata con
grande maestria; a volte Medea sembra citare frasi tratte dall’Ira, come quando
parla della difficoltà del re di Corinto, Creonte, a controllare le proprie passioni:
Medea sa che l’ira può accecare la mente e corrompere l’animo dei potenti.
Alcuni versi della tragedia anticipano le meditazioni in prosa di Seneca sul
dovere che hanno i governanti di essere compassionevoli (La clemenza):
La sofferenza l’ha resa capace di azioni che sono frutto del suo io adulto. Ha
soppresso la famiglia e i vecchi amici, e così facendo si è spogliata del suo io
passato, più debole: ora può realizzare tutto il suo potenziale, lei che è nipote del
Sole, una figura la cui ubiquità e il cui potere ricordano quelli dell’imperatore.
La tragedia contiene echi sorprendenti delle esperienze che Seneca andava
compiendo nel periodo in cui essa fu composta.
Come tutti gli eroi tragici del teatro senecano, Medea ha un bisogno disperato
di spettatori. Ha appena ucciso uno dei figli, ma lo considera un delitto inutile,
perché Giasone non vi ha assistito:
Forse il bisogno di avere un pubblico in carne e ossa era anche per Seneca una
delle ragioni principali per cui desiderava tornare a Roma, pur sapendo quanto
fosse pericoloso salire sul carro del drago.
Purtroppo non abbiamo nessuna testimonianza su chi fossero gli spettatori dei
suoi drammi, né dove o come essi fossero rappresentati. In passato molti studiosi
ritenevano che le tragedie fossero destinate alla sola lettura, ma oggi quasi tutti
concordano nell’affermare che erano concepite per essere rappresentate sulla
scena. Può darsi che qualcuna sia stata recitata quando l’autore era ancora in
esilio, e questo spiegherebbe perché la sua fama abbia continuato a crescere
negli otto anni in cui egli rimase relegato in Corsica.
La revoca dell’esilio
Agrippina, per non farsi conoscere solo nel male, ottiene per Anneo Seneca il richiamo
dall’esilio e insieme l’assegnazione della pretura, persuasa che quest’atto avrebbe riscosso
favore in tutti, ciò per la notorietà degli scritti di lui; inoltre si proponeva di far crescere, sotto
la guida di tale maestro, Domizio, ancora ragazzo, e di servirsi dei consigli di Seneca nel suo
progetto di conquistare il potere. Si presumeva infatti che Seneca sarebbe stato fedele ad
Agrippina per il ricordo del beneficio e ostile a Claudio per il dolore dell’offesa.
(12, 8)
a. Nusquam est qui ubique est (Lettera 2, 2): «Ecco quel che capita a chi trascorre la vita spostandosi da un
luogo all’altro: incontra molta gente che lo ospita, ma nessuna amicizia».
III
«NESSUN VIZIO È SENZA RICOMPENSA» a
Il fantasma ricorda gli orrori vissuti, quando era stato costretto a cibarsi dei
propri figli. Ma sa che il peggio deve ancora venire: starebbe sicuramente meglio
agli Inferi, mondo di frustrazioni più che di mostruosità. E tuttavia è costretto a
rivedere quel luogo di orrori. Forse anche Seneca era oppresso da premonizioni
di sventura, quando dalla Corsica tornò a Roma per assumere un incarico alla
corte di quell’imperatore che l’aveva esiliato, della sua nuova moglie Agrippina
(sorella di Giulia Livilla, che forse era stata sua amante ed era morta da tempo) e
del figlio di Agrippina e Tiberio, Nerone. Correva voce, racconta Svetonio, che
la prima notte che egli trascorse a palazzo ebbe un incubo: sognò di essere il
precettore di Caligola (Svetonio, Vita di Nerone 7). Una fonte antica, non molto
affidabile (lo Scoliaste), scrive: «Seneca ci mise poco a capire che Nerone era
nato selvaggio e crudele e lo ammansì, ma diceva spesso alle persone più vicine
che al leone bastava assaggiare anche una sola volta sangue umano per tornare
alla sua innata selvatichezza». 3
Può darsi che all’inizio Seneca sperasse di riuscire a cambiare la natura del
suo giovane allievo: assunse infatti il compito di educare Nerone quando il
principe aveva appena dodici anni, e lo seguì fino all’ascesa al trono all’età di
diciassette (fig. 11). Sui suoi metodi pedagogici non abbiamo molte notizie e non
sapremo mai quando il maestro perse la speranza che il discepolo migliorasse.
Nel contempo, però, egli ricopriva anche l’ufficio di pretore con compiti
amministrativi – un incarico che gli permetteva forse di intervenire nella
gestione della corte –, e non è escluso che fungesse pure da giudice nei processi
penali.
Agrippina lo aveva incaricato di insegnare al figlio la retorica, ma non la
filosofia, che riteneva inadatta a un futuro imperatore (Svetonio, Vita di Nerone
52). Contro la tesi che la filosofia in generale, e quella stoica in particolare, fosse
incompatibile con l’esercizio del potere, Seneca scrisse più volte negli anni
successivi. Agrippina, evidentemente, sperava che egli assumesse il ruolo molto
più ampio di consigliere: il suo proposito non era che il maestro conducesse il
figlio a liberarsi delle emozioni negative e ad avviarsi sul sentiero della
saggezza, ma che gli inculcasse i princìpi della strategia politica e
dell’eloquenza. Lo scopo dell’imperatrice madre era promuovere i propri
interessi oltre a quelli del figlio, ed era quindi disposta a concedere a Seneca
qualche ricompensa.
Seneca adottò con Nerone i metodi didattici che aveva appreso dal padre e dai
suoi maestri di retorica, esercitandolo a perorare cause fittizie alla maniera di un
avvocato difensore in tribunale. Il giovane allievo amava i tratti teatrali
dell’insegnamento retorico e si considerava un grande attore. Seneca però,
racconta Svetonio, non «gli fece conoscere gli antichi oratori», perché voleva
che «ammirasse più a lungo la sua di oratoria» (ibid.). Naturalmente non
sappiamo se questa affermazione corrisponda al vero, ma è probabile che Nerone
volesse dedicarsi alla poesia più che alla retorica. Sulla sua abilità di poeta i
giudizi sono contrastanti. Seneca ne cita ammirato un verso piuttosto ampolloso
– «I colli delle colombe di Citera brillano a ogni movimento» (Questioni
naturali 1, 5, 6) – e chissà che egli stesso, oltre a stimolare la creatività del
pupillo, non recitasse insieme a lui anche qualche scena delle sue tragedie. In
retorica, comunque, o per colpa dell’allievo o per colpa dell’insegnante, i
risultati non furono brillanti. Nerone fece pochi progressi, tanto che, quando
divenne imperatore, fu Seneca a scrivergli i discorsi, mentre tutti i suoi
predecessori se ne erano occupati di persona. Più che mancare di talento, il
giovane era refrattario all’insegnamento: intelligente ma ostinato, non intendeva
sottostare al rigore degli studi retorici e filosofici. Non sappiamo, naturalmente,
con quanta tenacia Seneca abbia cercato di contrastare queste sue tendenze.
Certo è che Nerone aveva altre passioni: amava dipingere, scolpire, cantare,
cavalcare, guidare i cocchi e recitare versi (Tacito, Annali 13, 3, 3).
11. Seneca fu assunto da Agrippina per insegnare la retorica al figlio Nerone, un allievo probabilmente
ribelle, come suggerisce l’immagine.
Quando hanno portato via la lucerna e mia moglie, che conosce la mia abitudine, tace, io
scruto l’intera mia giornata e controllo tutte le mie parole e azioni, senza nascondermi nulla,
senza passar sopra a nulla. Perché dovrei temere uno qualunque dei miei errori, se posso dire
a me stesso: «Questo, vedi di non farlo più; per questa volta ti perdono. In quella discussione
sei stato troppo polemico; impara a non contendere più con gli incompetenti, che non
vogliono imparare perché non hanno mai imparato. Hai rimproverato quello là con eccessiva
franchezza, quindi non lo hai corretto, ma offeso; d’ora in poi non guardare soltanto se è vero
quello che dici, ma anche se la persona alla quale parli è in grado di accettare la verità».
L’uomo buono gradisce un ammonimento, ma tutti i cattivi sono estremamente restii ai
pedagoghi.
(L’ira 3, 36, 3-4) 4
la sua intenzione di non essere giudice di tutte le cause, con il risultato di lasciar imperversare
la prepotenza di pochi, come quando, entro un’unica casa, stanno accusatori e accusati;
nessuna tolleranza ci sarebbe stata sotto il suo tetto per la venalità e l’intrigo; il palazzo e lo
stato erano due cose diverse. Il Senato poteva conservare le sue competenze, mentre l’Italia e
le province dello stato dovevano ricorrere ai consoli, ai quali toccava dare accesso al Senato;
sua, invece, la responsabilità degli eserciti a lui affidati.
(13, 4; cfr. Cassio Dione, Storia romana 61, 3, 1)
13. Seneca, qui raffigurato con la toga come un oratore romano, scrisse i discorsi per Nerone.
Verso la fine di dicembre del 55 o all’inizio del 56 Seneca scrisse un saggio sulla
clemenza, che dedicò al diciottenne Nerone. La qualità più sorprendente del
giovane imperatore, scriveva, è l’innocenza e la ripulsa della violenza:
Tu, Cesare, hai evitato che nella città scorresse sangue, e il fatto che tu ti sia potuto vantare di
non avere sparso una sola goccia di sangue umano in tutto il mondo è tanto più grande e
meraviglioso perché a nessuno fu mai affidata la spada più in giovane età di te.
(La clemenza 3, 9, 3)
Che Nerone fosse il più giovane imperatore nella storia di Roma è senz’altro
vero, ma l’esaltazione della sua gentilezza d’animo mal si concilia con la realtà,
visto che aveva fatto assassinare il fratellastro appena qualche mese prima. La
datazione del trattato è stata a volte messa in dubbio proprio perché molti
rifiutavano di credere che Seneca avesse avuto la sfrontatezza di innalzare lodi
alla mitezza, innocenza e compassione neroniane in un periodo come quello. Ma
le prove che La clemenza fu composta a ridosso della morte di Britannico sono
incontrovertibili. 20 La domanda che viene spontanea è dunque: qual è il rapporto
fra il trattato e il Nerone assassino?
Possiamo leggere questo testo come l’espressione di un’abietta adulazione, la
dimostrazione che Seneca era disposto a incensare quel giovane violento,
pericoloso e potentissimo fino al punto di negare totalmente la realtà dei suoi
comportamenti. È una lettura che può sembrare allettante a un primo approccio;
nel Proemio, Seneca scrive: «Oggi tutti i tuoi cittadini confessano apertamente
che sono felici e che a questi beni non si potrebbe aggiungere nulla, purché siano
duraturi» (Proemio 1, 7). Una simile affermazione poteva non suonare
ridicolmente falsa, dato che nei primi anni del regno di Nerone fra le élite
romane circolava un certo ottimismo. Non si può neppure escludere che
l’omicidio di Britannico le avesse sconvolte meno di quanto si possa pensare
oggi. 21 Dopotutto, le loro più grandi paure riguardavano sicuramente la propria
sicurezza, per cui sapere se l’imperatore fosse o meno disposto ad ammazzare i
suoi familiari era meno importante che sapere se avrebbe ucciso i potenti al di
fuori del palazzo.
Resta però un’ambiguità. Nella Clemenza Seneca sta dicendo a Nerone che
egli possiede già tutte le virtù o che ha bisogno di acquisirle? L’opera si apre con
l’annuncio che l’autore intende scrivere sulla misericordia per porgere a Nerone
uno «specchio» che gli rimandi l’immagine di un imperatore incamminato verso
la più piacevole delle mete:
Ho deciso di scrivere sulla clemenza, Nerone Cesare, per poter fare in qualche modo la parte
dello specchio, e mostrarti l’immagine di te stesso, che sei avviato a raggiungere il massimo
dei piaceri.
(Proemio 1, 1)
Le ricchezze di Seneca
Seneca era non solo molto ricco, sosteneva Suillio, ma lo era nonostante la
falsa pretesa di essere un «filosofo», e accumulava beni a spese di altri cittadini.
La caccia all’eredità dei «vecchi senza eredi» era una pratica disonesta allora
piuttosto diffusa: nel Satyricon Petronio ne traccia un quadro memorabile. Il
protagonista, Eumolpo, si finge un vecchio nababbo malato e senza figli per far
uscire allo scoperto i cacciatori di lasciti – che fingono di essergli amici – e
smascherarli. La circonvenzione dei vecchi privi di eredi era un topos talmente
abusato dai moralisti romani che Suillio avrebbe potuto inserirlo tranquillamente
nel suo elenco di accuse, anche se la denuncia fosse stata falsa. Certo è che
Seneca coltivava con grande cura le relazioni sociali nella capitale e non è
escluso che qualcuno degli ospiti con cui libava e cenava seduto a quei tavoli
con le gambe d’avorio fosse d’età avanzata, facoltoso e senza figli.
L’accusa di avere «prosciugato le province» è più grave dal punto di vista
etico ed è anche più difficile da confutare. I ricchi romani prestavano spesso
denaro a interesse nei territori conquistati ed è probabile che lo facesse anche
Seneca. Cassio Dione racconta che con l’usura Seneca aveva contribuito alla
sollevazione dei britanni nel 61 d.C., chiedendo l’improvvisa restituzione di un
prestito di quaranta milioni di sesterzi. Forse la cifra è esagerata e il
collegamento fra l’insurrezione e il debito non così stretto, ma non ci sono
elementi per escludere che egli prestasse denaro a interesse, né per ritenere che
se ne vergognasse.
Seneca, scrive Tacito, fu informato subito delle accuse di Suillio e partì al
contrattacco. Il delatore fu sottoposto a una serie di processi per corruzione e
condannato alla confisca di metà dei suoi averi e all’esilio. Seneca si prese
dunque una rivincita più che abbondante su uno dei suoi nemici personali senza
troppi peli sulla lingua. Suillio però seppe sfruttare al meglio la situazione in cui
venne a trovarsi: non chinò la testa durante la condanna e visse senza troppi
patemi il suo lussuoso esilio, guardandosi bene dal tornare a Roma. Non è
escluso che Seneca, infuriato per il coraggio dimostrato dal suo accusatore,
ribollisse ancora di rabbia, perché anche il figlio di Suillio fu processato. A porre
fine allo scontro intervenne Nerone: la vendetta, disse, aveva superato il limite,
dimostrando, in questo caso, più clemenza del suo maestro (13, 43).
Le accuse lanciate da Suillio dovevano avere lasciato il segno, tanto più che
probabilmente non erano le uniche, per cui la cacciata di un nemico non bastava
a chiudere la bocca a tutti gli altri. Nel 59, forse l’anno successivo ai fatti citati,
Seneca compose un lungo trattato autoassolutorio, La vita felice. 31 Dedicato al
fratello maggiore Novato, lo scritto rivela con chiarezza il suo modo di reagire
alle accuse di ipocrisia e di arricchimento eccessivo e molto poco stoico. Egli
affronta di petto il tema del valore dei beni terreni. Comincia esaminando il
rapporto tra la felicità e il piacere (voluptas), e confuta l’idea che il piacere sia
una componente intrinseca della felicità.
Ostenta disprezzo nei confronti di questa concezione assai diffusa, ma
insensata, del problema; la ricchezza, l’eloquenza e il potere non sono garanzie
di una felicità vera e duratura: sono illusioni, che «di fuori splendono, ma dentro
sono misere» (La vita felice 2, 4).
Un attacco più consistente e complesso è riservato ai seguaci
dell’epicureismo, la scuola filosofica che era la principale rivale dello stoicismo
nella Roma del tempo. A differenza di molti detrattori di Epicuro, Seneca non ha
difficoltà ad ammettere che gli epicurei non sono affatto edonisti ed esprime un
rispetto sincero per i veri insegnamenti del maestro. Gli edonisti, invece, «non
sanno valutare la schietta frugalità e asciuttezza del piacere di Epicuro – tale lo
reputo, per Ercole – ma si precipitano sulla parola nuda e cruda, facendone un
pretesto e una maschera delle proprie libidini» (13, 2). Il male, dunque, non sta
in Epicuro, bensì nei suoi falsi epigoni, che si definiscono epicurei, ma si
guardano bene dall’adottare lo stile di vita austero del caposcuola. Resta il fatto,
però, che l’equiparazione epicurea fra piacere e virtù è errata. Il saggio non
disprezza il piacere, ma lo ritiene sempre secondario rispetto all’obiettivo
principale, la virtù. I piaceri del corpo hanno certamente un loro posto nella vita
ideale, ma soltanto se sono come «le truppe ausiliarie e i soldati armati alla
leggera (debbono servire, non comandare)» (8, 2). Anche la virtù è apportatrice
di piacere, ma non la si ricerca per questo, bensì per se stessa. Equiparando
piacere e virtù, come fanno gli epicurei, ci si espone ai rischi della fortuna.
Qualsiasi piacere fisico, anche la gioia più moderata, come quella che un
epicureo prova di fronte a una crosta di pane e a un sorso d’acqua, conditi solo
con la fame e la sete, e mangiati in compagnia di un solo amico, può esserci
strappato.
Queste considerazioni sembrano rinviare alle scelte che l’autore ha effettuato
nella propria vita. Egli non si stanca mai di ripetere che non si deve permettere al
desiderio di benessere fisico di allettarci, spingendoci a compiere passi contrari
non soltanto alla virtù ma anche (che è poi la stessa cosa) alla libertà. Forse
Seneca prova disagio per avere accettato di mettersi al servizio dell’imperatore,
compromettendo la propria libertà, ed è per questo che ribadisce questo punto
con tanta insistenza. Nell’enunciare l’ideale stoico, che consiste nel seguire in
ogni istante dio e la natura, il suo linguaggio si fa politico: «Siamo nati sotto una
tirannide: la libertà è obbedire a dio» (15, 7). Chiaramente, servire Nerone non
significava essere liberi e Seneca ne era consapevole, per cui organizza le sue
argomentazioni in modo tale da presentarsi come colui che serve un potere più
alto di quello terreno, un impegno che, paradossalmente, gli consente una libertà
più elevata, esente dalle costrizioni di un’esistenza meramente fisica.
La vita felice contiene una risposta esplicita a chi lo rimproverava di essere
ipocrita. Seneca immagina un accusatore anonimo, che gli si avvicina e gli
chiede «la solita cosa». E qual è la solita cosa? È un lungo elenco di accuse per
le sue ricchezze e per il coinvolgimento in attività che per lo stoico non
dovrebbero avere alcun valore, ma dovrebbero essere semplicemente
indifferenti:
Perché le tue parole sono più virtuose della tua vita? Perché abbassi la voce di fronte ai
superiori, ritieni il denaro un mezzo necessario, risenti dei danni, piangi alla notizia della
morte di tua moglie o del tuo amico, tieni conto del tuo buon nome e ti senti ferito dalla
maldicenza? Perché il tuo podere è curato più di quanto non lo esiga un reddito normale?
Perché la tua tavola non è imbandita secondo le tue parche massime? Perché hai mobili troppo
ricercati, perché in casa tua si beve vino più vecchio di te, si mantiene un’uccelliera? E pianti
alberi che non ti daranno altro che ombra, e tua moglie porta appeso alle orecchie il
patrimonio di una buona casata, e i tuoi schiavetti son ben forniti di vesti preziose? Perché in
casa tua il servire a tavola è un’arte, non si può disporre l’argenteria a caso o a piacere, ma
s’apparecchia secondo le buone regole e c’è uno scalco al tuo servizio?
(17, 1-2)
Perché hai possedimenti di là dal mare, perché ne hai più di quanti tu ne conosca? Vergogna!
O sei tanto sconsiderato che non conosci nemmeno i tuoi pochi schiavi, o sei tanto smodato
nel lusso da averne di più di quanto la tua memoria riesca a ricordare!
(Ibid.)
Con questa lunga sequela di rimproveri Seneca sembra voler dare una risposta
ai suoi critici, ma lo fa in modo ambiguo. Per esempio: il suo immaginario
accusatore lo critica perché mostra un dolore poco filosofico per la morte della
moglie, ma poco più avanti obietta che la consorte – viva, si presume – indossa
gioielli scandalosamente costosi. Seneca aveva con ogni probabilità perso la
prima moglie e, quando scrisse La vita felice, doveva essersi già risposato.
Cassio Dione parla di un «brillante matrimonio» in «questo periodo», ed è
verosimile che si riferisca alle nozze con Paolina. Ma, anche ammesso che la
morte della prima moglie e i preziosi orecchini della seconda corrispondano al
vero, è pur sempre possibile vedere nella contraddizione che gli viene imputata
la volontà di tenersi nel vago, come se dicesse: questo vale per qualsiasi filosofo
non all’altezza dei suoi ideali, che si chiami Lucio Anneo Seneca o in altro
modo.
Lo slittamento disorientante dal particolare al generale e poi di nuovo al
particolare consente a Seneca di mantenere l’ambiguità: questa, sembra dire, non
è una confessione. Anche l’anonimo accusatore passa dall’attacco al singolo a
contestazioni più generali sull’ipocrisia dei filosofi: aliter loqueris, aliter vivis,
«parli in un modo e vivi in un altro», «la tua vita non è coerente con le tue
parole» (18, 1). Ma a essere incoerente non è il solo Seneca, è un’intera
categoria: «I filosofi non mettono in pratica ciò che dicono» (20, 1).
Nelle parole dell’accusatore avviene un ulteriore spostamento, come se ora
criticasse una persona che è, e non è, Seneca. Non si preoccupa molto di
indagare sull’origine di tutta quella ricchezza: nel catalogo delle sue critiche non
figurano domande quali «Perché prosciughi le province?» e «Perché vai a caccia
di eredità?». Né si alza a chiedere: «Perché tu, che ti definisci filosofo, sei al
servizio di un sovrano che ha assassinato il fratello, e gli fai propaganda e ti
arricchisci sotto di lui?». Le accuse si appuntano quasi tutte sui possedimenti
materiali, fra cui gli schiavi sono soltanto una costosa sottocategoria. Non
appena compare un cenno a questioni più spinose e gravi, Seneca se ne allontana
a grande velocità: «Perché abbassi la voce di fronte ai superiori?». La risposta
implicita è che il «filosofo» rischierebbe l’esilio o la morte se alzasse la voce.
Diversa è invece la domanda: «Perché piangi alla notizia della morte di tua
moglie o del tuo amico?». La risposta sottintesa è che il filosofo, il quale
sostiene di essere tanto distaccato da poter sopportare con calma qualsiasi
perdita, in realtà ha, come tutti, i suoi affetti. In sostanza, Seneca riconosce che
anche l’aspirante saggio dipende dagli altri. Ma la distanza fra queste due
debolezze, l’avarizia e l’amore, è per Seneca meno grande di quanto possa
apparire. L’attrazione per i beni materiali, così come egli la presenta, sta
precisamente nel fatto che essi consentono al possessore di conservare e
incrementare il proprio prestigio sociale. Il ricco non desidera cibi raffinati, vini
preziosi o gioielli per la moglie perché è avido, ingordo o perché è un esteta, e
neppure perché queste cose gli piacciono. Non è il profumo dei vini d’annata o
la bellezza degli orecchini a suscitare le sue brame. A tentarlo è ciò che il lusso
rappresenta. La brama insaziabile di ricchezza non è ispirata dagli oggetti in sé,
ma dal desiderio di suscitare ammirazione. L’avidità è perciò una funzione della
falsa coscienza: colui che non sa come diventare veramente buono (e perciò
veramente ammirevole) acquisendo saggezza e virtù secondo la vera via stoica si
aggrapperà a questi falsi beni, che non potranno mai nutrire un vero rispetto di
sé.
Da un certo punto di vista il desiderio di accumulo sembra semplicemente
assurdo: perché desiderare cose che non si vedranno né useranno mai? Il modo
in cui Seneca formula la domanda, però, contiene di fatto anche la risposta.
Quelli appena elencati non sono beni che si desiderano per utilizzarli, ma perché
sono simboli del potere sociale. L’idea che il continuo arricchimento servisse a
risalire lungo la scala sociale apparteneva alla realtà della Roma dell’epoca, in
cui il prestigio si fondava su un insieme di attività politiche, di nobiltà ereditaria
e di ricchezza. Spesso fra queste tre categorie si creavano tensioni, ben visibili
nel caso di Seneca. A volte, il rango basato sulla nascita poteva essere più alto o
più basso della posizione censuaria. Seneca si procurò una quantità di beni che lo
ponevano molto al di sopra della classe equestre cui apparteneva per nascita.
In una tragedia come il Tieste entra in scena un personaggio, Atreo, il cui
desiderio di dominio e di superiorità sugli altri è talmente insaziabile che persino
l’aver costretto l’odiato fratello a cibarsi dei figli non è sufficiente a placarlo:
«Al delitto si deve misura qualora lo si compia, non qualora lo si restituisca.
Anche questo per me è ancora poco» (vv. 1053-1054). Nelle opere in prosa,
invece, Seneca rovescia il cliché tragico per cui la sete di potere è smisurata,
inappagabile, contrapponendovi un’aspirazione illimitata alla virtù, anche se mai
interamente realizzata. La sua prima linea di difesa dall’accusa di ipocrisia è
ammettere che è in parte vera: riconosce di non praticare del tutto quello che
predica. Insiste però anche nel dire che comunque si sforza ogni giorno di
avvicinarsi sempre più alla meta. Ma subito dopo prova a rovesciare l’accusa sul
suo accusatore:
Non sono un saggio e, se questo può ingrassare la tua malignità, nemmeno lo sarò. Non puoi
pretendere da me che io sia alla pari degli ottimi, ma che sia migliore dei malvagi. Mi basta
questo: togliere ogni giorno qualcosa ai miei difetti e rimproverare a me stesso i miei errori.
Non sono ancora arrivato alla buona salute e nemmeno ci arriverò; preparo dei calmanti per la
mia podagra, non una terapia, e mi accontento di sentirne diradarsi gli attacchi e attenuarsi le
fitte; ma se paragono i miei piedi ai vostri, io, debole, mi sento un corridore.
(La vita felice 17, 3-4)
Sorprendentemente, nonostante i tentativi di generalizzazione effettuati nel
ritrarre il filosofo-ipocrita, quando passa al contrattacco Seneca prende di mira
un singolo individuo, che di difetti ne ha tanti. In questo modo il discorso passa
dal piano dei princìpi a quello dei comportamenti specifici. Ma a un’accusa di
ipocrisia non si dovrebbe dare una risposta diretta, indipendentemente da chi l’ha
formulata? Seneca invece presenta la questione in termini molto più personali.
Ancora una volta, però, evita di identificarsi del tutto con la voce del filosofo, sia
pure di un filosofo imperfetto: «Questo non lo dico di me, perché so d’essere
sepolto sotto un cumulo di vizi, ma di chi ha già fatto qualche cosa» (17, 4). Ed è
rapidissimo nel passare dall’autoaccusa all’autodifesa e poi di nuovo
all’autoaccusa.
L’altra sua linea di difesa consiste nel mettere da parte se stesso per parlare di
famosi filosofi del passato e di figure etiche esemplari. Anche Platone, Epicuro,
Zenone e i maggiori pensatori cinici furono accusati di non praticare quello che
insegnavano (18, 1 - 19, 3). Forse anche quei grandi uomini, scrive, non hanno
sempre agito in conformità con i loro princìpi, ma quel che importa non sono i
loro errori, bensì le loro conquiste: «La meditazione sulle proprie aspirazioni al
bene è già lodevole, anche a prescindere dai risultati. È meraviglia se non
raggiungono la vetta, avviati come sono su un sentiero scosceso? Se sei uomo,
ammira il loro generoso tentativo, anche quando li vedi cadere» (20, 2). In un
felice crescendo, Seneca esalta lo sforzo di vivere secondo gli ideali stoici, anche
quando non si riesce a restarvi pienamente fedeli. Sottotraccia, però, si coglie
una certa ansia, il sospetto che l’ambizione, anche quella filosofica, possa essere
pericolosa. L’appello a intraprendere la via della filosofia si conclude con una
frase che riecheggia il passo delle Metamorfosi di Ovidio sulla morte di Fetonte:
«Chi tenterà di attuare questo programma camminerà verso gli dei e, anche se
non li raggiunge, almeno cade nell’ardita impresa» (20, 5). Fetonte, il figlio del
Sole, aveva voluto condurre per i cieli i cavalli del padre, ma non era riuscito a
controllarli ed era morto. Sulla sua tomba, le sorelle, le Eliadi, avevano inciso
queste parole: «Qui giace Fetonte, auriga del cocchio di suo padre: se non seppe
guidarlo, pure egli cadde in una grande impresa».
Seneca torna quindi al tema del perché un filosofo, pur predicando il
«disprezzo delle ricchezze» e di altri beni materiali, se li tenga stretti, e, pur
affermando che la morte, la malattia e l’esilio fanno parte delle cose
«indifferenti», faccia di tutto per evitarli. Il problema, suggerisce Seneca, non
sono le ricchezze, la salute o la vita, ma è il modo di porsi nei loro confronti. Il
filosofo non avrà nulla da obiettare se queste cose gli capiteranno in sorte e, anzi,
ne sarà felice, ma non perderà la sua serenità se per caso le ricchezze, la salute o
la vita lo lasceranno: «Il saggio non si ritiene indegno di nessun dono della sorte,
non ama le ricchezze, però le preferisce» (21, 4). Ma come si giustifica questa
affermazione? Il filosofo, dice Seneca, apprezza in particolare le maggiori
possibilità che la ricchezza offre di praticare la virtù: «La povertà permette di
esercitare un solo genere di virtù, la fermezza e sopportazione, mentre la
ricchezza apre un vasto campo alla temperanza, alla circospezione, all’ordine,
alla magnificenza». E conclude: «Il saggio non disprezzerà se stesso, se sa
d’essere molto piccolo di statura, ma preferirà essere alto» (22, 1-2).
Il discorso prosegue con l’esame della dottrina stoica delle cose che noi
chiamiamo «indifferenti»: ebbene, anch’esse possono avere qualche pregio, e
alcune sono preferibili ad altre. Come richiede l’ortodossia stoica, Seneca non
usa mai l’aggettivo «buono» per parlare delle cose indifferenti: esse sono
pregevoli, ma non buone. La distinzione è importante. Fra indifferenti di egual
valore, le cose pregevoli sono preferibili ad altre, ma non sono di per sé
sufficienti per la felicità dell’uomo, e pertanto non sono veramente buone. Solo
una vita consacrata alla virtù è davvero buona. Ciò non toglie che alcune cose
indifferenti siano migliori di altre, dichiara Seneca in perfetto linguaggio stoico.
L’importante è che si riesca a godere della ricchezza senza lasciarsi turbare
qualora scompaia: «Se le mie ricchezze mi lasceranno, non porteranno via altro
che se stesse», perché, dice al suo immaginario accusatore, «le ricchezze sono
mie, tu, invece, sei delle ricchezze» (22, 5).
Un filosofo può dunque essere ricco in modo giusto o in modo sbagliato.
Perché lo sia nel modo giusto, occorrono tre condizioni. La prima: il saggio non
farà dipendere la sua felicità dalla ricchezza, ma, come il destinatario della
poesia di Kipling intitolata Se, saprà far fronte tanto alla buona quanto alla
cattiva sorte e saprà «trattare allo stesso modo questi due impostori». La
seconda: il saggio deve acquisire le sue ricchezze in maniera onesta, senza
sottrarre illegittimamente niente a nessuno, perché «la ricchezza non deve essere
macchiata del sangue altrui». La ricchezza di Seneca avrebbe superato questo
test? Non è affatto sicuro. Egli divenne ricchissimo mentre era al servizio di
Nerone, ma ricorse anche all’usura, che provocò molte sofferenze nelle province,
e fu almeno complice, se non direttamente responsabile, di alcuni degli atti di
sangue del regime, fra cui l’assassinio di Britannico. Si noti, comunque, che il
discorso sulla maniera onesta di arricchirsi è sempre in terza persona. Seneca
non dice: «La mia ricchezza non è stata tolta a nessun altro e non è macchiata di
sangue», ma dice: «il filosofo può avere abbondanti ricchezze, purché non siano
state sottratte ad altri o lorde di sangue altrui» (23, 1). E su come il «filosofo» –
questa inesistente astrazione – possa riuscire ad accumulare i tesori di cui godrà
senza mai abusare, Seneca si tiene molto nel vago. È un regalo della fortuna,
dice (23, 2), e dunque sarebbe scortese rifiutare i doni di una dea. Si guarda bene
dall’ammettere che la fortuna può operare a volte per mezzo di agenti non
proprio angelici, come Agrippina e Nerone. Ed evita di spiegare in qual modo la
fortuna deponga le ricchezze nel grembo del filosofo senza che egli compia
alcunché di discutibile o, meglio ancora, senza che alzi neppure un dito per
ottenerle. Come il don Giovanni di Byron, che si imbatte ovunque in donne
bellissime, pronte a gettarsi ai suoi piedi, senza il minimo sforzo da parte sua,
così il saggio di Seneca si ritrova ricco per una sorta di caso fortunato.
La terza condizione, essenziale, perché l’atteggiamento del filosofo verso le
ricchezze sia quello giusto è la generosità. Egli si mostrerà benefico e munifico
verso i meno fortunati, donando con costanza e disinteresse, ma con
discernimento. In fondo, una delle principali ragioni per cui la ricchezza è
apprezzabile è che permette a chi la possiede di donare: Ubicumque homo est, ibi
benefici locus est, «Dovunque c’è un uomo, ivi si può collocare un beneficio»
(24, 3). I ricchi hanno più possibilità dei poveri e, in questo senso, sono più
bene-stanti. Il pensiero che i migliori doni possano non essere materiali, che il
beneficium possa consistere anche nell’offrire amore, tempo, lavoro,
sollecitudine o parole gentili, sembra non sfiorare neppure Seneca.
Ci sono due tipi di aspiranti filosofi ricchi: il primo è un peccatore imperfetto,
filosofo solo nel senso che aspira a diventare migliore. Egli non riesce a far
collimare dottrina e vita, ma se non altro ci prova: «Non puoi pretendere che io
risponda a puntino alla regola che professo: io bado soprattutto a farmi, a
plasmarmi e aspiro a un ideale molto elevato; quando avrò raggiunto la meta che
mi sono proposto, potrai pretendere che le mie azioni corrispondano alle mie
parole» (24, 4). Il secondo è più forte e più sicuro di sé. Preferisce essere ricco
piuttosto che un povero che dorme sotto il ponte Sublicio, rifugio di molti
diseredati nella Roma del tempo. E preferisce indossare la toga e i sandali
piuttosto che andare in giro a spalle e piedi nudi, ma può essere ugualmente
felice nell’uno e nell’altro caso (25, 2). Colpisce il cenno ai diseredati della
Roma neroniana, tanto più perché, com’è evidente, il filosofo ideale non è
neppure sfiorato dall’idea di alleviarne la sorte. I poveri fungono soltanto da
metafora di quel che potrebbe un giorno essere lui stesso, non sono persone
concrete nei confronti delle quali egli avverta una qualche responsabilità. 32
Seneca non si raffigura nelle vesti di un uomo che ha raggiunto un rapporto
ideale con la ricchezza. Il sapiente per eccellenza è Socrate, che a questo punto
del trattato prende la parola e dichiara la sua condivisione del punto di vista
stoico. Socrate, che insegnava gratuitamente e aveva un solo mantello per
l’estate e l’inverno, potrebbe non sembrare il personaggio più adatto a difendere
l’idea che al filosofo non dispiacerebbe essere molto ricco, se potesse. Eppure,
afferma Seneca, a ben vedere il filosofo greco è dalla sua stessa parte; coloro che
criticano i pensatori per le loro ricchezze non sono diversi da quanti attaccarono,
imprigionarono e mandarono a morte Socrate dopo lunghe sofferenze:
«Balzateci addosso, attaccate: vi vincerò sopportandovi» (27, 3). Ad accusare i
filosofi di ipocrisia sono proprio gli ipocriti, persone che odono, ma non
ascoltano quello che i filosofi dicono: «Dunque non c’è incoerenza tra il mio
dire e il mio vivere; al vostro orecchio arriva soltanto il suono delle parole, ma
non ve ne chiedete il significato» (25, 8).
La vita felice affronta quindi rapidamente altre questioni etiche sollevate dalla
ricchezza del filosofo. Seneca sfiora appena il tema se l’acquisizione, il possesso
e l’uso della ricchezza da parte di un singolo costituisca o provochi
un’ingiustizia sociale significativa. Ricorda con poche parole che la ricchezza
dovrebbe provenire da fonti lecite, e questo è tutto. Nelle opere che ci sono state
tramandate, Seneca non accenna mai alle sue attività di prestatore di denaro e
agente immobiliare, né forse la cosa sorprende. Così come non sorprende che
non parli mai in modo esplicito dei beni ricevuti da Nerone e dalla casa
imperiale.
Nella Vita felice Seneca si dilunga molto di più sulla destinazione della
ricchezza che sulla sua provenienza. Dedica particolare attenzione a ciò che un
uomo ricco dovrebbe fare con il suo denaro. Ma nei Benefici, in cui l’argomento
viene trattato in modo più esteso, il discorso ruota intorno alle motivazioni del
donatore piuttosto che agli eventuali vantaggi per il beneficiario, ed esamina
soprattutto le relazioni di tipo orizzontale, vale a dire fra pari, più che quelle di
tipo verticale, ossia fra persone di livelli sociali diversi. 33 Seneca non si
domanda se i poveri abbiano diritto a ricevere una parte del denaro accumulato
dai ricchi: il problema della distribuzione della ricchezza, per lui come per quasi
tutti i suoi contemporanei, non sussiste. La giustizia politica non rientra fra i suoi
interessi. Il tema principale è il tipo di debito sociale e gli obblighi in cui incorre
il ricco nel distribuire e nel ricevere ricchezze.
Nella quotidianità della Roma del I secolo d.C. essere danarosi e influenti
comportava una serie di interazioni sociali quotidiane. Seneca era il patrono di
molti individui meno ricchi e importanti di lui, che da lui dipendevano e
aspiravano a ottenerne i favori: la dignitas di un ottimate era strettamente
correlata al numero di clienti che lo attorniava. La sua giornata cominciava con
una folla di visitatori mattutini, che sollecitavano favori, regali, denaro e
riconoscimento. E anche quando egli usciva di casa, aveva al suo seguito un
lungo corteo. A cena doveva intrattenere lautamente i suoi patrocinati: quei
cinquecento tavoli con le gambe d’avorio venivano usati spesso. I clienti erano,
ufficialmente e legalmente, sotto la sua protezione. Era suo compito proteggerli
sul piano finanziario e politico, ed essi, in cambio, si mostravano deferenti verso
il loro mecenate, gli facevano visita, lo seguivano negli spostamenti, ne
promuovevano l’immagine se concorreva a qualche carica pubblica e
contribuivano più in generale alla popolarità, all’onore e alla sicurezza del
patrono. Un esponente importante della clientela di Seneca era Fabio Rustico,
uno scrittore cui viene attribuita una storia della Roma contemporanea o,
alternativamente, una biografia di Seneca, nessuna delle quali ci è pervenuta. Ma
il ritratto tutto positivo da lui tracciato del carattere e della vita del suo patrono
contribuì a forgiare la fama di Seneca presso gli storici successivi, che
utilizzarono i suoi scritti come fonte. In questo, come in altri casi, era il
protettore a essere beneficiato dal protetto. Seneca era un patrono generoso:
Giovenale lamenta che nella sua generazione (alla fine del I secolo d.C.) non se
ne trovavano più di altrettanto munifici. Al suo patrono il poeta satirico dice:
«Nessuno ti chiede i regali che Seneca mandava ai suoi modesti amici, o quelli
del buon Pisone, o quelli che Cotta soleva elargire, allora, infatti, alla gloria dei
titoli o delle cariche si preferiva d’esser chiamati generosi» (Giovenale, Satire V,
vv. 108-111).
Seneca si serviva della sua enorme ricchezza per conservare la sua cerchia di
beneficiati, al cui centro egli sedeva come in un mondo parallelo alla corte
neroniana. 34
La gentilezza e la gratitudine
Seneca non fu del tutto estraneo alle stravaganze edonistiche e teatrali di Nerone
e della sua corte. Secondo un’antica diceria, tramandata da Cassio Dione, egli
ebbe molti rapporti con giovani non più imberbi (nella Roma antica fare sesso
con maschi adulti era ritenuto molto più disdicevole che fare sesso con
adolescenti), «vizio che trasmise a Nerone» (Storia romana 61, 10, 4). Con ogni
probabilità si trattava di una delle tante maldicenze che circolavano sugli
intellettuali più noti: ai filosofi si attribuivano modelli di comportamento «alla
greca» e pertanto censurabili. La stessa fonte suggerisce anche che, nei primi
anni del regno neroniano, Seneca fece il possibile per evitare di partecipare ai
banchetti dell’imperatore, con la «scusa» di dedicarsi agli studi filosofici.
Sicuramente egli avrà desiderato ogni tanto trascorrere qualche ora in solitudine
e tenersi lontano dalle eccentricità e dagli eccessi della vita di corte, ma
altrettanto sicuramente era anche consapevole che troppi rifiuti avrebbero
suscitato le ire di Nerone. E infatti, più che condurre una vita ritirata, egli
partecipò attivamente alle decisioni dell’imperatore, sia personali sia politiche,
per tutti gli anni Cinquanta.
Lo aveva già aiutato, come abbiamo visto, durante la relazione con la liberta
Atte. Ma la vita amorosa di Nerone divenne ancora più complicata quando si
invaghì di una nobildonna, Poppea Sabina, che voleva non soltanto sedurre, ma
anche sposare. Poppea era già maritata con un amico e sodale del principe,
Otone, che in seguito sarebbe stato per breve tempo imperatore. Le fonti antiche
forniscono versioni differenti di questa storia. Dione racconta che Nerone
combinò il matrimonio fra Poppea e Otone per potere essere facilmente a
contatto con lei. In ogni caso, egli sperava di divorziare da Ottavia e sposare
Poppea.
L’unico ostacolo alle nozze era la madre Agrippina, la quale non voleva che il
figlio ripudiasse la moglie che aveva scelto per lui. Dietro la volontà di
divorziare forse non c’era soltanto la passione per Poppea, ma anche, e il tema
emerge con forza nelle fonti antiche, il desiderio di liberarsi una volta per tutte
del potere e dell’influenza materni. Nerone aveva allontanato Agrippina dal
palazzo, relegandola in una villa a sud di Roma, ma era ancora ossessionato
dall’idea di essere tenuto sotto controllo o, come scrive Tacito, dalla convinzione
che Agrippina, «ovunque fosse», sarebbe stata sempre «per lui un peso gravoso»
(Annali 14, 3). E fu così che ne decise la morte.
La sua era una soluzione estrema anche in base al codice di comportamento
non certo scrupoloso della dinastia Giulio-Claudia, e non era facile da realizzare.
Se fosse venuto alla luce, il matricidio ben difficilmente sarebbe stato accettato
dai romani. Era un delitto quasi senza precedenti nella storia, e anche i pochi casi
che si erano verificati non erano tali da incoraggiare l’aspirante assassino.
Qualcosa del genere era avvenuto in Egitto più di un secolo prima (80 a.C.),
quando Tolomeo XI era stato designato erede al trono a condizione che sposasse
la matrigna. Egli l’aveva sposata, ma poi, per ragioni a noi ignote, l’aveva
uccisa: l’omicidio, però, aveva sollevato una rivolta e Tolomeo era stato linciato.
Quanto a Nerone, probabilmente non era del tutto certo di controllare così
saldamente le leve dello stato da poter osare di assassinare la madre senza subire
la medesima sorte. Che abbia preso ugualmente la decisione dimostra non
soltanto un’atroce mancanza di scrupoli e assenza di affetto, ma anche,
implicitamente, la fiducia che egli riponeva nei suoi consiglieri. Senza l’aiuto di
Seneca, di Burro e di altri collaboratori non avrebbe mai potuto condurre a
termine il suo proposito.
Il liberto Aniceto, che era stato il suo precettore prima di Seneca, architettò
uno schema complesso, che prevedeva di portare Agrippina per mare su
un’imbarcazione costruita in modo da affondare durante la navigazione. Nerone
invitò la madre ad accompagnarlo in una gita di piacere su quella fatidica barca.
Agrippina non era un’ingenua ed era consapevole di non essere più nelle grazie
del figlio, ma forse in quell’occasione le fu difficile credere che egli intendesse
davvero ucciderla. E comunque, se avesse tradito i suoi sospetti, non avrebbe
fatto altro che rafforzare la volontà di Nerone. Così, pur temendo di cadere in
una trappola, accettò l’invito. Il piano tuttavia fallì: la barca non si disintegrò
come previsto e Agrippina riportò soltanto lievi ferite (14, 6).
Ormai, però, l’imperatrice madre aveva la certezza che il figlio la voleva
morta. Nerone cercò altri complici per architettare un nuovo piano. Ovviamente,
si rivolse per prima cosa ai suoi consiglieri più fidati, Seneca e Burro, i quali con
ogni probabilità erano già al corrente delle sue intenzioni. Quando li convocò e
rivelò i suoi propositi, i due, così racconta Tacito, da principio tacquero, o perché
troppo sconvolti oppure perché, essendo a conoscenza delle sue mire, avevano
bisogno di tempo per mettere a punto una strategia. Poi, prosegue Tacito, Seneca
ruppe il silenzio: «Guardò Burro in viso e gli chiese se si doveva impartire ai
soldati l’ordine di ucciderla» (14, 7). Fu ciò che fecero: Agrippina fu aggredita
nel suo letto da un manipolo di armati. Sapeva, naturalmente, che il mandante
era il figlio e quando essi presero a infierire su di lei, gridò «Colpite il ventre!»,
indicando il grembo che aveva custodito Nerone (14, 8). Agrippina, racconta
Cassio Dione, aveva sempre sospettato che prima o poi si sarebbe arrivati a
questo; mentre complottava per portare sul trono il figlio, aveva dichiarato: «Che
mi uccida, purché regni» (Cassio Dione, Storia romana 61, 1, 2).
Che giudizio dare del ruolo di Seneca in questa vicenda agghiacciante?
Agrippina era stata la sua grande benefattrice: lo aveva richiamato dall’esilio e
gli aveva assegnato un ruolo prestigioso a corte, nominandolo precettore e poi
primo consigliere del figlio. Eppure, Seneca non solo fu complice del suo
assassinio, ma lo diresse anche, indicando la strategia da adottare e, subito dopo,
scrivendo la lettera per il Senato – attribuita a Nerone, che era nascosto a Napoli
– nella quale giustificava il delitto. Agrippina tramava per assassinare
l’imperatore, recitava il messaggio, e quando un suo liberto fu trovato armato, la
sua morte era diventata inevitabile. E di morire meritava comunque, perché
voleva condividere il potere con il figlio, per cui la guardia pretoriana, il Senato
e il popolo si sarebbero trovati nella situazione umiliante di essere governati da
una donna. Ad Agrippina venivano attribuite tutte le malefatte del regno di
Claudio, ma ora con la sua morte la nazione sarebbe vissuta sotto una stella più
benevola (Tacito, Annali 14, 11-12). Nerone aveva sopportato minacce costanti:
«Che la mia vita sia sicura, fino ad ora non posso né crederlo, né rallegrarmene»,
affermava nella lettera ai senatori (Quintiliano, Istituzione oratoria 8, 18). Anche
in un mondo in cui la dissimulazione era la norma e le dinastie imperiali avevano
spesso le mani lorde di sangue, Seneca si era spinto troppo in là e aveva suscitato
il disgusto del popolo romano, indignato più per il suo comportamento che per
quello del barbaro Nerone, che ormai non scandalizzava più nessuno. Con quella
lettera, conclude Tacito, «Seneca aveva siglato la confessione del delitto» (14,
11). Lo sdegno, però, si risolse in un mormorio privato e quasi tutti, Senato
incluso, si adeguarono alla versione ufficiale. Si celebrò lo scampato pericolo
dell’imperatore e fu decretato un giorno di ringraziamento per la sua salvezza.
Come reagì Seneca al ruolo che egli aveva avuto nell’uccisione di Agrippina?
La sua risposta, complessa, gravida di sensi di colpa, apologetica e difensiva, si
intravede in una delle sue prose più lunghe e impegnative, I benefici, un trattato
in sette libri sugli obblighi sociali. 35 L’opera fu probabilmente composta in un
periodo di tempo piuttosto lungo: i primi libri furono forse scritti poco dopo la
morte di Agrippina e gli ultimi verso il periodo in cui Seneca cercava di
allontanarsi dalla corte. Fra le pagine si colgono squarci del suo stato d’animo e
dei suoi tentativi di districarsi dal groviglio dei suoi rapporti con Nerone e
l’imperatrice madre. Seneca si pone molte domande. Era debitore di qualcosa nei
loro confronti? E, se lo era, di cosa si trattava? Riportandolo a Roma dall’esilio,
favorendone la carriera, ponendolo al proprio servizio ed elevandolo a
consigliere di più alto grado in tutto l’impero, Agrippina aveva creato in lui un
debito di gratitudine? E Nerone non aveva fatto altrettanto, donandogli denaro,
ville, amicizia e prestigio sociale? Che cos’è esattamente il dono? Deve essere
ricambiato e, se sì, in che modo? E viceversa: Seneca aveva dato qualcosa ad
Agrippina e al figlio con il suo servizio intellettuale e politico? Si possono
mettere sullo stesso piano i doni materiali e i doni immateriali? Oppure sono
incommensurabili? Che Seneca rimuginasse su simili questioni non sorprende,
ma è comunque affascinante osservare la minuziosità, per non dire l’ossessione,
con cui se ne occupa nei Benefici, che molti hanno considerato un saggio
curiosamente ripetitivo. L’autore gira in continuazione intorno a poche essenziali
domande, come se fosse sempre insoddisfatto delle risposte.
I benefici sono un’opera molto astratta: le sue considerazioni si possono
applicare a qualsiasi essere umano in grado di poter dare o ricevere qualcosa da
un altro essere umano. Ma sono chiaramente il frutto di una lunga e approfondita
meditazione sulla situazione particolare in cui si trovava l’autore. Come
documento pubblico, quale effettivamente era, il trattato offre una risposta a tutti
coloro che accusavano Seneca di ingratitudine verso l’assassinata Agrippina. Ma
è anche lo strumento con cui Seneca si difende dai sospetti di avere servito
Nerone soltanto per trarne vantaggi materiali e con cui confuta anche la tesi di
quanti sostenevano che egli non avrebbe mai potuto ripagare i suoi benefattori
per i doni ricevuti. L’opera è dunque un congegno sottile ed efficace per mezzo
del quale l’autore poteva fare i conti con i rimorsi e le ansie che lo affliggono,
ma anche con la diffidenza pubblica nei confronti di un filosofo che occupava
una posizione di potere tanto elevata.
In un famoso saggio, intitolato Gifts, Ralph Waldo Emerson scrive che la
legge dei benefici è un canale pericoloso su cui navigare: da un lato, i doni sono
obbligatori sul piano sociale, perché si suppone che cementino i legami
reciproci. Dall’altro, però, l’idea di suggellare un rapporto con un oggetto
materiale è di per sé problematica. Il destinatario può essere felice dell’oggetto
(nel qual caso il rischio è che ami l’oggetto più del donatore) oppure non
curarsene, nel qual caso il regalo è inutile, o peggio. La pratica del dono che
sembra legarci gli uni agli altri può in realtà creare ostilità e rinforzare il senso di
diseguaglianza. Non perdoniamo mai del tutto il donatore, perché accettandone i
doni ci poniamo inevitabilmente in una posizione di dipendenza. Per questo,
afferma Emerson, i doni preziosi sono quelli che non hanno alcuna ovvia utilità,
ma rappresentano ideali di bellezza, come i fiori o i frutti. E il dono migliore in
assoluto è il dono di sé. Un uomo e un dono «non sono in alcun modo
commensurabili», e perciò lo scambio di oggetti materiali non ha nessuna
effettiva correlazione con il dono davvero importante: la reciprocità dei rapporti.
Il dono essenziale non sta nelle cose, ma nell’amore che doniamo. Se non c’è
amore, i doni sono un insulto e non servono a comperare l’unica cosa necessaria:
coloro che li ricevono «divorano i tuoi servigi come mele e ti lasciano fuori»
dalla porta. Il dio dei doni è l’amore. Il valore materiale di qualsiasi dono è
irrilevante: un regno e il petalo di un fiore hanno la stessa importanza.
L’approccio di Emerson alla complessa rete sociale creata dallo scambio di
doni non coincide con quello di Seneca. Ma, come Emerson, anche Seneca è
interessato a esplorare i dilemmi insiti nel potere, nella generosità e nella
dipendenza, e nel ricercare un’alternativa alle relazioni basate esclusivamente sul
profitto e sullo status sociale. Egli apre il suo trattato dichiarando:
Tra i numerosi e diversi errori di coloro che vivono alla leggera e sconsideratamente direi,
mio ottimo Liberale, ce ne sono due tra i quali non si può fare distinzione: il non saper dare e
il non saper ricevere benefici.
(I benefici 1, 1)
16. La regina Boudicca guidò il suo popolo contro il dominio romano. La ribellione, fallita, sarebbe
scoppiata perché i ricchi romani, fra cui Seneca, avevano chiesto all’improvviso la restituzione delle ingenti
somme che avevano prestato.
Al mattino i lottatori sono gettati in preda ai leoni e agli orsi, a mezzogiorno ai loro spettatori.
Si ordina a chi ha ucciso di gettarsi in preda a chi lo ucciderà, e si tiene in serbo il vincitore
per un altro massacro: la conclusione è la morte di tutti i combattenti. La faccenda si compie
col ferro e col fuoco. E questo avviene mentre lo spettacolo è sospeso. «Ma costui ha
commesso un delitto, ha ucciso un uomo.» E allora? Perché ha ucciso, ha meritato di subire
questa punizione; ma tu, sventurato, che cosa hai fatto per assistere a questo spettacolo?
(Lettera 7, 4-5)
Quella appena citata è senza dubbio una denuncia della pratica per cui i
criminali venivano costretti a lottare fino all’ultimo sangue per divertire il
pubblico. Ma a suscitare l’indignazione di Seneca non sono le vittime: dalle sue
parole si intuisce che meritano il trattamento che ricevono. A preoccuparlo è
piuttosto l’abbrutimento che un simile spettacolo provoca negli spettatori.
Da Seneca ci saremmo forse aspettati che esprimesse un giudizio più ampio,
di carattere politico, scagliandosi contro un’istituzione che a molti di noi oggi
appare brutale e crudele. Perché non ha invocato la fine dei combattimenti fra
gladiatori anziché assistervi e poi lagnarsi? Perché mostra così poca
comprensione per i plebei che soffrivano e morivano nell’arena, mentre è
particolarmente attento ai bisogni psicologici delle élite che si godevano quei
tormenti? Ma chiedere a chiunque, per quanto amante della filosofia, di
innalzarsi molto al di sopra della cultura del suo tempo è chiedere troppo.
Seneca, come ha ben dimostrato Miriam Griffin, era da cima a fondo un uomo
della sua epoca, forgiato dalla cultura in cui era nato e cresciuto. Le sue idee sui
gladiatori non erano affatto diverse da quelle di altri filosofi e intellettuali suoi
contemporanei. Ciò che lo distingue e continua a suscitare apprezzamento e
ammirazione è lo straordinario vigore con cui egli evoca la sete di sangue degli
spettatori dei giochi nonché la fondatezza psicologica della sua intuizione che
assistere ad atti di sofferenza e crudeltà abbrutisce l’animo umano. Dall’arena
egli torna ogni volta peggiore (Lettera 7, 3). Seneca era invischiato in quel
mondo di crudeltà e teatralità, ma era anche capace di capire quanto possano
nuocere certi consumi culturali.
Nerone non condivideva i dubbi del suo antico precettore sul valore degli
spettacoli nel Colosseo; egli però non voleva essere uno spettatore, bensì un
attore. Alle tensioni e alle pressioni del suo ufficio di imperatore egli reagiva
trasformando il potere in una sorta di performance. Quando si esibiva suonando
la lira, recitando versi o drammi sul palcoscenico, tutti erano costretti ad
applaudire, e nessuno si sottraeva. Nessuno, tranne Trasea. Gli altri accorrevano
in massa ai suoi spettacoli. Seneca e Burro gli stavano di fianco, «proprio come
fanno alcuni maestri, con la funzione di dargli sostegno: essi agitavano le mani e
i mantelli ogni volta che l’imperatore diceva qualcosa e incitavano gli altri a fare
la stessa cosa» (Cassio Dione, Storia romana 61, 20, 39).
Un atteggiamento molto diverso fu quello di Epitteto, un filosofo stoico di
qualche anno più giovane di Seneca. Nato nella città di Ieropoli in Frigia
(nell’attuale Turchia), Epitteto era un liberto e rimase povero per tutta la vita.
Non aveva ricevuto nessuna educazione letteraria o retorica formale e non
coltivava ambizioni politiche: la prima metà dei suoi anni la trascorse da
schiavo. Era zoppo, probabilmente perché un padrone crudele gli aveva spezzato
una gamba in tenera età. Da giovane era stato portato a Roma come suo schiavo
dal liberto Epafrodito, potente segretario di Nerone. Emancipato, aveva studiato
filosofia stoica con il grande maestro Gaio Musonio Rufo ed era diventato a sua
volta un influente insegnante di filosofia. Non lasciò nessuno scritto, ma le sue
conferenze e lezioni furono annotate da un allievo devoto, Arriano di
Nicomedia, che le pubblicò con il titolo Diatribe (o Discorsi), e le riassunse in
un libro intitolato Enchiridion (o Manuale di Epitteto). A differenza di Seneca, e
di molti altri scrittori, Epitteto non si preoccupava di pronunciare frasi ben
tornite, che sopravvivessero a lungo.
In una diatriba (2, 1) il filosofo pone un quesito molto interessante, che può,
fra l’altro, esserci utile anche per riflettere su Seneca. Quello che si chiede è
come si possa conservare la propria dignità in qualsiasi circostanza, anche
quando si è minacciati di morte, di tortura, di schiavitù, di mutilazione o di un
altro qualsiasi degli «indifferenti non preferibili». Fra gli altri esempi, Epitteto
porta quello di un uomo al quale venga chiesto di assecondare Nerone,
partecipando a una sua recita. La risposta è espressa in forma dialogica, con una
serie di rapide battute che evidenziano il conflitto fra le diverse forze in atto: c’è
il dramma del festival letterario di Nerone, il dramma della vita politica in
generale e quello più individuale della vita del singolo, la cui responsabilità è di
recitare la parte giusta in commedia, così come gli è stata assegnata dalla natura.
Scrive Epitteto:
Colui, infatti, che si sia messo anche una sola volta a riflettere su siffatte questioni (come la
partecipazione al festival neroniano), confrontando fra loro il valore degli oggetti esterni e
calcolandolo, è molto simile a coloro che hanno ormai dimenticato il valore della propria
persona. A che scopo, infatti, mi domandi: «È preferibile la morte o la vita?». Io rispondo:
«La vita». «La fatica o il piacere?» Io rispondo: «Il piacere».
«Ma se non faccio la parte nella tragedia mi si taglierà la testa.»
«Allora va pure a fare la tua parte; io per conto mio non la farò.»
(Epitteto, Diatribe 1, 2, 12-17)
In quasi tutta la Grecia si considerò onore tra i più grandi l’essere proclamato vincitore a
Olimpia e tra quel popolo non fu mai un disonore per alcuno salire sulla scena e prodursi in
pubblico spettacolo: azioni giudicate tra noi disonoranti o ignobili, o per lo meno, lontane
dalla rispettabilità.
(Cornelio Nepote, Libro dei sommi capitani delle nazioni straniere, Proemio 5) 40
Questi sentimenti, però, evaporano con una rapidità quasi comica non appena
Tieste viene a sapere che il fratello afferma di averlo perdonato e di essere
pronto ad accoglierlo a braccia aperte nella sua reggia. Seneca però suggerisce
che a muovere Tieste non è soltanto l’amore fraterno, ma il desiderio di
riconquistare il potere. «Io faccio conto che sia mia qualsiasi cosa sia, fratello,
tua» (v. 535), dichiara, come a dire che non solo dividerà tutto con Atreo, ma che
Atreo dovrà dividere tutto con lui. Le sue ultime parole prima di entrare nella
reggia sono: «Le leggi e le armi serviranno, come io stesso, a te» (v. 543), quasi
a voler sottintendere non solo che egli condividerà il potere con Atreo, ma che il
fratello avrà il controllo su Tieste oltre che su tutto il resto. Tieste fa atto di
sottomissione ad Atreo sentendo, sia pure confusamente, di commettere un
errore terribile, ma appare anche incapace di resistere alla tentazione.
Se il debole, avido, pomposo Tieste rappresenta il lato non certo lusinghiero
del ritratto che Seneca traccia di se stesso, Atreo, l’artista mostruoso, pungolato
dall’ambizione e da una sete smodata di potere, è l’altro lato. In questo folle
personaggio, una delle creature più riuscite di Seneca, si intravede il volto di
Nerone, ma anche quello del suo creatore. Dettaglio dopo dettaglio la tragedia
porta allo scoperto il desiderio incontenibile di Atreo di compiere un atto
inaudito, eccezionale, qualcosa che vada ben al di là della comune vendetta.
Uccidere i nipoti non gli basta e si dispiace di non avere ideato un piano migliore
e di non avere provveduto a far sì che Tieste sapesse di quale cibo si stava
saziando (vv. 1053-1068). È a Tieste che è rivolto lo spettacolo della pedofagia:
è lui lo spettatore privilegiato di Atreo. La tragedia evoca un mondo in cui la
malvagità e l’avidità non conoscono limiti, e il desiderio di vedere ed essere visti
è infinito e insaziabile. Atreo è un personaggio ben più vivo e interessante del
suo scialbo e ipocrita fratello. Per vie misteriose, il desiderio ossessivo e
incontenibile dei personaggi più terribili delle tragedie, Atreo e Medea, evoca il
desiderio di perfezione assoluta del saggio stoico (fig. 17). L’ideale della virtù,
così come quello del vizio, richiede un’autonomia totale, un dominio delle
circostanze e della sorte, un desiderio che gli eroi tragici cercano di realizzare
non conducendo una vita in armonia con la natura, ma inseguendo passioni e
azioni contrarie a qualsiasi legge naturale. Il Tieste può essere letto non solo
come l’espressione del disgusto di Seneca per gli eccessi di Nerone, ma anche
come un gesto di ammirazione: di fronte alle atrocità dell’imperatore, analoghe a
quelle di Atreo, il ruolo di Seneca è tutt’al più quello di un Tieste o di una
guardia.
17. Nei suoi ultimi anni Seneca tentò di ritirarsi a vita privata per dedicarsi ai suoi libri.
Lo spettacolo non poteva continuare per sempre. Nel 62 d.C. Burro, che aveva
condiviso con Seneca il compito di consigliare il giovane imperatore e tentare di
imbrigliarne i comportamenti, morì all’improvviso. Correva voce che una mano
sconosciuta l’avesse avvelenato. Si diceva che a procurare il veleno, mascherato
da medicamento per la gola, fosse stato proprio Nerone (Svetonio, Vita di
Nerone 35). Molti, compreso il nuovo capo dei pretoriani, furono felici di
vederlo uscire di scena. Senza l’appoggio di Burro e della guardia del pretorio, la
posizione di Seneca si indebolì fortemente e si fece più pericolosa. Era arrivato il
momento di provare sul serio ad andarsene.
«Siamo giunti ormai agli ultimi anni della vita di Seneca, quelli in cui sentiva di
avere i giorni contati e si preparava quotidianamente alla morte. Ma fu proprio in
quegli anni che videro la luce due delle sue opere in prosa più grandi: le Lettere
morali a Lucilio e le Questioni naturali. La prima è una raccolta di epistole
avvincenti, dallo stile raffinato, che l’autore invia a un amico un poco più
giovane e nelle quali affronta i vari aspetti di una vita condotta all’insegna della
filosofia. La seconda costituisce la sua trattazione più completa dei fenomeni
naturali e scientifici.
Dopo essere stato per diversi anni lo speechwriter e il principale consigliere
politico di Nerone, Seneca si andava estraniando sempre più da quel sovrano che
di giorno in giorno diventava più tirannico e istrionico. Era stato allora che aveva
iniziato a tentare di allontanarsi da una vita pubblica, che aveva liberamente
abbracciato, ma nella quale non poteva più restare impegnato, se non a costo
della propria integrità e incolumità.
Forse, non appena richiamato dall’esilio, aveva anche pensato di andare ad
Atene a studiare e insegnare filosofia, anziché tornare a Roma per addestrare
nell’uso della retorica il giovane Nerone. E ora, ormai avanti negli anni, egli
forse rivolse lo sguardo verso gli altri filosofi e maestri del suo tempo, e si chiese
se la sua vita di politico e scrittore famoso non fosse stata un errore. Non sarebbe
stato meglio se si fosse dedicato soltanto allo studio e all’insegnamento della
dottrina stoica come facevano tanti altri anche a Roma? E forse si soffermò a
pensare al più giovane Gaio Musonio Rufo, la cui vita e le cui opere non
avrebbero potuto essere più diverse dalle sue. Nato in Etruria da una famiglia
equestre, Musonio Rufo viveva nella capitale guadagnandosi da vivere con
l’insegnamento e scrivendo saggi di morale stoica (fu maestro di Epitteto). Il suo
interesse era rivolto non tanto ai settori di studio più teorici della Stoà, come la
fisica e la logica, quanto ai comportamenti umani, nella convinzione che la
filosofia fosse lo strumento migliore per liberare gli uomini (e nel suo caso
anche le donne) dalle false credenze e dai desideri corrotti. La sua versione dello
stoicismo era di carattere soprattutto pratico, meno incentrata sull’individuo di
quella di Seneca e più attenta ai rapporti basati sulla bontà. Il suo obiettivo
principale era far sì che gli esseri umani vivessero in armonia fra loro in un
mondo di affetti privo di crudeltà e adottassero modelli di vita semplici, ascetici
(Musonio Rufo arrivò persino a indicare come tenere puliti capelli e barba senza
sprecare troppo tempo in frivolezze). I suoi scritti ci sono giunti soltanto sotto
forma di appunti delle sue lezioni, presi da un allievo. Come il suo pupillo
Epitteto, e diversamente da Seneca, Rufo non aveva interesse né per la
letteratura, né per la politica: egli voleva trasmettere le proprie idee agli allievi
per modificarne i comportamenti.
Le sue priorità erano molto diverse da quelle di Seneca, soprattutto sul piano
sociale, e assunse posizioni affatto originali, per esempio denunciando con forza
l’abbandono dei neonati indesiderati e sostenendo che le donne avevano le stesse
capacità intellettuali degli uomini e, come gli uomini, avrebbero dovuto
dedicarsi alla filosofia. Per difendere le sue convinzioni pare che a un certo
punto avesse preso anche posizione sul piano politico, schierandosi al fianco di
un oppositore di Nerone, Rubellio Plauto, e seguendolo nell’esilio nel 60. Nel
62, alla morte del suo protettore, era tornato a Roma, ma fu sempre guardato con
sospetto dall’imperatore. Figura per molti versi parallela, Musonio Rufo si
mostrò molto meno disposto di Seneca a scendere a compromessi sociali e
politici.
La dottrina stoica non comportava di per sé la dissidenza politica. Negli anni
Sessanta dell’era cristiana a Roma si incontravano uomini che, come Lucano,
erano filostoici e insieme filorepubblicani, ma se ne incontravano anche molti
altri, come Seneca, la cui concezione filosofica non coincideva con
l’opposizione politica. Seneca dunque non era in difficoltà a causa dello
stoicismo, ma perché era ormai diventato un peso per Nerone: da collaboratore
prezioso per promuoverne l’immagine e assecondarne i piaceri, evitandogli il
biasimo dell’opinione pubblica, il vecchio era ormai diventato agli occhi
dell’imperatore un guastafeste e un ostacolo.
Dopo la morte di Burro, il rovello di Seneca divenne come districarsi dalla
situazione insostenibile di ministro di un autocrate ormai diffidente e dal
comportamento sempre più eccentrico, senza insospettirlo ancora di più e
rimetterci la vita. Da tempo meditava di ritirarsi, ed era alla ricerca di una via
d’uscita praticabile: ora però la questione si era fatta urgente. Un modo per
evitare che il suo ritiro dalla vita pubblica fosse giudicato un tradimento era
indossare la maschera del «filosofo», invocando motivi puramente psicologici e
non politici per volersi allontanare da quel mondo di competizione sfrenata. In
un trattato intitolato L’ozio, che si suppone composto molto prima del suo
distacco dalla corte neroniana, 2 Seneca traccia un quadro efficace dei vantaggi di
una vita lontana dalla politica, in cui evoca anche le pressioni, psicologiche e
morali, cui è sottoposto chi vive sotto continuo scrutinio pubblico. Al dedicatario
del trattato (che forse è ancora una volta il vecchio amico Sereno) egli spiega che
solamente una vita di solitudine, appartata, consente di perseguire con coerenza
le proprie finalità. La società contemporanea, scrive Seneca, stimola non soltanto
l’immoralità, ma anche l’incoerenza: le persone cambiano continuamente idee e
comportamenti, influenzate dalle mode e dalla cerchia in cui vivono. E perciò
l’unico modo per restare fedeli ai propri ideali è condurre una vita lontana
dall’arena politica.
In un altro trattato, La brevità della vita, Seneca esorta il dedicatario, l’amico
Paolino, ad allontanarsi dal tumulto della vita pubblica. Nel 55 Paolino si era
dimesso da uno degli incarichi amministrativi più prestigiosi di Roma, quello di
prefetto dell’annona, e fu probabilmente in quell’occasione che Seneca gli
dedicò il suo scritto. Paolino aveva forse messo in pratica il consiglio di Seneca?
In realtà è molto più probabile che fosse stata Agrippina a costringerlo a
dimettersi, per lasciare il posto a un altro dei suoi favoriti, Fenio Rufo. 3 Seneca,
però, presentando il ritiro di Paolino a vita privata come una sua scelta e non
come un’imposizione, persegue un duplice intento: salvare la faccia all’amico e,
insieme, al regime. Non è neppure escluso che già nel 55 egli fosse consapevole
che un giorno, forse non troppo lontano, sarebbe toccato anche a lui essere
cacciato da Palazzo o desiderare disperatamente di fuggire. Di conseguenza, una
dichiarazione pubblica sul valore della rinuncia agli incarichi costituiva una
mossa utile anche ai suoi fini, perché serviva a preparare il terreno per quel
giorno che, ne era convinto, sarebbe sicuramente arrivato.
I due trattati, inoltre, consentivano al loro autore di esprimere i suoi sentimenti
negativi sulla vita di corte. Seneca evoca con maestria il marasma dei tempi e
lascia intuire con chiarezza quali fossero i suoi pensieri in quegli ultimi anni:
Certamente, tra tutti i nostri mali, il peggiore è questo: cambiamo persino i vizi. Non abbiamo
neppure la buona sorte di rimanere in un vizio al quale siamo già avvezzi: passiamo dall’uno
all’altro, e ci tormenta anche il constatare che le nostre scelte non sono soltanto cattive, ma
anche incostanti.
Siamo sbattuti dai flutti e ci attacchiamo a un rottame dopo l’altro, abbandoniamo quello
che avevamo cercato, torniamo a cercare quel che avevamo buttato: tutto, in noi, è un
avvicendarsi di brame e pentimenti.
(L’ozio 1, 2-3)
Se il popolo romano mi chiedesse come mai ho con lui più comunanza di portici che di idee,
come mai non inseguo i suoi amori né fuggo le sue avversioni, risponderei come la volpe
accorta al leone ammalato: «Le orme mi spaventano, guardano tutte dalla tua parte, nessuna
all’indietro».
(Orazio, Le lettere 1, 1, vv. 70-75)
Orazio, come Seneca, si guarda bene dal dire che il principe può essere una
minaccia per chi dissente, ma l’uno e l’altro lasciano intendere molto
chiaramente che l’insidia viene da un uomo solo, molto potente, di cui tutti
potrebbero essere vittime.
Orazio torna alle favole di Esopo anche in un’altra lettera in versi. Questa
volta la volpe è meno prudente:
Da ben quattordici anni, o Cesare, sono stato affiancato alla tua giovinezza carica di speranze;
e da ben otto anni tu reggi l’impero. In tutto questo tempo mi hai colmato di tanti onori e
ricchezze che nulla manca alla mia fortuna se non di porvi un limite.
Io null’altro avrei potuto offrire alla tua generosità, se non i miei studi coltivati per così dire
nell’ombra, studi che, se poi ebbero fama, fu solo perché ho affiancato con i miei
insegnamenti la tua giovinezza; e questa è la grande ricompensa della mia opera. Ma tu mi hai
circondato di immenso favore e di incalcolabile ricchezza, tanto che spesso mi chiedo: sono
proprio io, venuto da famiglia equestre e provinciale, a essere annoverato fra le personalità di
spicco a Roma? Come ho potuto io, uomo nuovo, brillare fra tanti nobili che vantano una
lunga serie di antenati autorevoli?
Io, vecchio e inadatto anche a incombenze meno gravi, non potendo reggere il peso delle mie
ricchezze, ti chiedo un aiuto. Da’ ordine ai tuoi procuratori di amministrare queste sostanze e
di inglobarle nei tuoi beni. Non ch’io voglia ridurmi in povertà, ma, consegnate quelle
ricchezze il cui splendore mi abbaglia, tornerò a dedicare allo spirito quel tempo prima
riservato alla cura di ville e giardini.
(Tacito, Annali 14, 53)
Non il tuo senso di misura, se mi renderai il denaro, non il tuo bisogno di riposo, se lascerai il
principe, ma la mia cupidigia e la tua paura della mia crudeltà saranno sulla bocca di tutti. E
quand’anche prevalessero le lodi per la tua continenza, non sarebbe in ogni caso bello per un
saggio acquistarsi gloria proprio recando infamia a un amico.
Ciò detto, abbracciò e baciò Seneca, «fatto com’era per natura ed esercitato
per consuetudine a velare l’odio con false affettuosità». A Seneca non restò che
ringraziare: non poteva fare altro, se voleva rimanere vivo. Poi però, prosegue
Tacito, egli adottò uno stile di vita assai più riservato, pur restando ufficialmente
al servizio di Nerone. Non se ne andò da Roma, ma tenne lontano i visitatori e
rimase il più possibile nei suoi appartamenti, a leggere e a scrivere, dicendo che
era troppo malato per uscire. La malattia fu, ancora una volta, un utile pretesto
per rimediare a una situazione sociale impossibile.
Fu in questo periodo che Seneca scrisse due delle opere più importanti della
sua vecchiaia: le Questioni naturali e le Lettere morali a Lucilio.
Nessuna di esse parla esplicitamente della vita dell’autore, entrambe però
implicano una lunga meditazione su temi strettamente connessi con il suo
rapporto con Nerone e con le lotte di potere degli ultimi anni. Le Lettere
costruiscono a poco a poco un «Io» che è pubblico non meno che privato, un Io
stilizzato, quello di un uomo che rappresenta «tutti gli uomini». Esse però
evocano anche, con una intimità che affascina, i dettagli di una vita quotidiana
che sembra molto simile a quella di Seneca. Nell’epistolario ci sono gli schiavi, i
viaggi sui carri, in carrozza o in lettiga, i bagni, i rumori della città, la routine
quotidiana, il dilemma del che fare in ogni ora del giorno, le abitudini di lettura, i
problemi della malattia e della stanchezza, e i seccatori. Con le Questioni
naturali, il suo trattato più importante sulla storia naturale e la scienza, forse
Seneca tentò di distogliere la mente dalle ansie della vita politica e personale,
volgendola verso la relativa semplicità dei fenomeni della natura. Eppure, anche
questo testo reca l’impronta della complessità dei suoi atteggiamenti e delle sue
posizioni politiche.
Lucano e Petronio
Lo schiavo che esca di casa senza il permesso del padrone prenderà cento legnate. 4
Prima di parlare delle Lettere morali a Lucilio e delle Questioni naturali, sarà
bene ricordare in che cosa la posizione assunta da Seneca come scrittore si
differenzi da quella di altri autori suoi contemporanei. Come sappiamo, egli
presentò a Nerone il nipote Lucano e, presumibilmente, oltre a insegnargli i
fondamenti dello stoicismo, contribuì anche alla sua educazione e formazione
letteraria. All’inizio Lucano e Nerone furono amici, ma poi, forse intorno ai
primi anni Sessanta, l’amicizia si guastò. Le fonti più antiche forniscono ragioni
discordanti di questa rottura. Tacito (Annali 15, 49) la attribuisce alla gelosia di
Nerone per il talento poetico di Lucano, tanto che, per «soffocarne la fama», gli
ordinò di non pubblicare i suoi versi. Svetonio, invece, spiega che Nerone,
avendo perso ogni interesse per Lucano, aveva cominciato a ignorarlo e che
Lucano aveva preso a satireggiarlo nelle sue poesie (Svetonio, Vita di Lucano).
È probabile, invece, che all’origine della tensione non ci fossero soltanto
motivi letterari e personali, ma anche un forte elemento politico: Lucano era
ormai ostile alla stessa istituzione imperiale. La sua opera più celebre, la Guerra
civile, nota come Farsaglia, iniziata intorno all’anno 60 e rimasta incompiuta,
probabilmente per la morte del suo autore nel 65, è un poema epico sulla
battaglia di Farsalo, in cui avvenne lo scontro decisivo della guerra civile fra
Cesare e Pompeo. Il grande combattimento è narrato da un punto di vista
filorepubblicano: non appena Cesare attraversa il Rubicone e distrugge la
repubblica, il mondo intero si disintegra. In mezzo a tanta follia, sangue e
disordine, si staglia un unico eroe: Catone, lo stoico che difende gli antichi
valori, il solo rimasto fedele ai suoi ideali, l’unico a condurre una vita in armonia
con la natura, mentre intorno tutto sprofonda nel caos.
Nei suoi versi, dunque, Lucano si oppone al regime neroniano in modo molto
più esplicito di quanto non faccia suo zio in tutti i suoi scritti. Lo stoico Catone,
profondamente politicizzato, è una figura di filosofo molto più combattiva e
dissidente di Seneca. Il poema, tuttavia, non è privo di contraddizioni. La più
evidente è che l’opera inizia con un elogio smaccato, per non dire servile, di
Nerone, la cui presenza sul trono ricompenserebbe più che a sufficienza il
mondo per tutto il sangue versato durante le guerre civili. L’imperatore sembra
sul punto di salire sull’Olimpo quale novello Apollo. Se soltanto questo «dio»
vorrà volgere lo sguardo su Roma e assumere una posizione intermedia in cielo,
ci sarà la pace:
Se tu premerai con il tuo peso una parte sola del cielo pur immenso, l’asse percepirà il tuo
peso. Fa tua la parte centrale del cielo, in modo che questo resti in equilibrio, e quella parte di
cielo tutta libera resti serena, nella parte ove sta Cesare non vengano nuvole a ostacolare. Solo
allora, deposte le armi, il genere umano provveda a se stesso, ogni popolo ami di amore
reciproco, la pace mandata per il mondo tenga chiusi i battenti di ferro di Giano bellicoso.
(Lucano, La guerra civile 1, 55-62)
Queste parole furono scritte prima del dissidio con Nerone? Ma allora perché
le ritroviamo nella versione più tarda del poema? La spiegazione più plausibile
potrebbe essere che il nipote era alle prese con un dilemma non dissimile da
quello dello zio: come dar voce a una forma di resistenza al regime neroniano
senza venirne distrutto. Egli sperava, forse, che Nerone non andasse oltre le
prime pagine elogiative, immaginando che anche il resto fosse dello stesso
tenore. E forse sperava anche che i lettori politicamente più vicini a lui
leggessero fra le righe e interpretassero l’apparente adulazione come una forma
di dissimulazione ironica.
L’altro grande scrittore di quegli anni fu una figura di tutt’altro genere, ancora
più distante da Seneca per ethos, stile e ideologia. Petronio era nato intorno al 27
e quindi negli anni Sessanta era sulla trentina. Famoso per le battute mordaci e
pericolose, e la passione per la vita mondana, era stato soprannominato «arbitro
dell’eleganza». A differenza di Seneca, apparteneva alla classe senatoriale e
aveva ricoperto diversi incarichi pubblici: era stato fra l’altro governatore di una
provincia e infine console, compiti che si diceva avesse assolto piuttosto bene,
con grande sorpresa di quanti lo consideravano soltanto un esteta.
L’unica sua opera giunta fino a noi è un frammento di una composizione
molto più ampia, il Satyricon, una sorta di protoromanzo, parte in prosa e parte
in versi, che narra le avventure e le disavventure di un giovane, alla ricerca
dell’adolescente di cui è innamorato, e di molti altri personaggi comici che
incontra nei suoi vagabondaggi. La sola parte trasmessaci quasi intatta è «La
cena di Trimalcione», in cui Petronio descrive con grande brio il grottesco
banchetto offerto da un liberto arricchito (fig. 18). La satira prende di mira
soprattutto l’anfitrione, un nuovo ricco, rozzo e incapace di comprendere la
volgarità di tutto il suo stravagante sfoggio di opulenza. Il banchetto è
organizzato come uno spettacolo a tema e le pietanze sono una festa per gli occhi
più che per lo stomaco: i piatti sono ispirati ai segni dello zodiaco, vengono
servite uova di pavone che sembrano contenere pulcini, salsicce posate su
chicchi di melagrana perché si presentino come carne alla brace, un maiale con
la pancia rigonfia di salamelle e cotechini. Ma il filo rosso che collega tutti i
momenti di questa esibizione è la caducità, il trascorrere del tempo, di cui
Trimalcione è nevroticamente consapevole. Al centro della tavola troneggia uno
scheletro d’argento, con cui egli intende ricordare agli ospiti la loro mortalità, e
dopo molte chiacchiere annaffiate con innumerevoli bicchieri di vino pregiato,
proveniente da vigne che possiede, ma non conosce, Trimalcione legge le sue
ultime volontà e mette in scena il proprio funerale, con tanto di dolenti e di
discesa agli Inferi.
L’anima non può disprezzare portici e soffitti a cassettoni risplendenti d’avorio e boschetti
tagliati con cura e corsi d’acqua deviati per farli giungere nei palazzi, prima di avere fatto il
giro di tutto l’universo e di avere detto, guardando in basso il mondo angusto e per gran parte
coperto dal mare, con vaste regioni desolate anche nelle terre emerse e con zone bruciate o
ghiacciate: «È tutto qui quel punto che viene diviso col ferro e col fuoco fra tanti popoli? Oh,
come sono ridicoli i confini posti dagli uomini!».
(1, Prefazione 8)
L’assurdità non sta semplicemente nel fatto che gli esseri umani
sopravvalutino l’importanza dei loro possedimenti terreni o che si ritengano più
importanti di quanto non siano in realtà. E non sta neppure nel fatto che essi
attribuiscano un peso eccessivo a cose quasi totalmente prive di valore: no, il
vero problema è che gli uomini sprecano la propria vita combattendo e lottando
per cose che, viste da una prospettiva celeste, non sono più importanti di un
formicaio. In quest’ottica, anche gli eserciti più potenti altro non sono che «un
andirivieni di formiche che si affaticano in uno spazio angusto» (1, Prefazione
10).
Qui il linguaggio è quasi del tutto impersonale: non si parla né di «io» né di
«tu», ma di «mente» e di «esseri umani». Il narratore aspira a raggiungere una
visione che vada al di là del singolo individuo e abbracci l’universo intero. Così
facendo, egli trascende il groviglio di lotte personali in cui è immerso questo
filosofo nativo di Cordova, intrappolato nella corte imperiale romana. La Spagna
è l’esempio di una terra che può sembrare ai confini di un grande impero, ma in
realtà non è poi così remota: «Qual è, infatti, la distanza che intercorre fra le
coste più lontane della Spagna e l’India? Uno spazio di pochissimi giorni, se un
vento favorevole spinge la nave ... Ma quella regione celeste offre un viaggio
che dura trent’anni al pianeta più veloce» (1, Prefazione 13). In queste pagine
Seneca si libera della prospettiva che era stato costretto a adottare quando, per
compiacere Nerone, ingigantiva la grande ascesa che aveva compiuto al suo
servizio, passando dall’oscurità della provincia al cuore dell’impero. Ora si
accorge che quel percorso era un nonnulla, non più di un battito di ciglia.
Il libro sui tuoni e sui fulmini fu l’ultimo a essere composto, anche se
tradizionalmente figura come secondo. L’argomento permette a Seneca di parlare
a lungo dell’ordine divino dell’universo. Nella natura tutto è regolato: lì «regna
l’ordine» (2, 13, 3). Nulla è casuale: tutte le cose e le azioni sono inevitabili e
nessuna forza può modificarne il corso. E tuttavia agli esseri umani resta il libero
arbitrio, la facoltà di scegliere come agire. Si dice, scrive Seneca, che i fulmini
sono scagliati dagli dei soltanto per punire i malvagi, per spingere con il terrore
l’umanità ad agire bene (1, 42, 3), ma il vero sovrano dell’universo, il vero
Giove, che può essere identificato anche con il fato, la fortuna, la provvidenza e
numerose altre entità, è sempre benevolo nell’esercizio del potere, un modello
per re e imperatori terreni. Giove è «reggitore e custode dell’universo, anima e
spirito del mondo, signore e artefice di quest’opera, al quale si addice ogni
appellativo» (2, 45, 1-2). Lo studio dell’ordine divino dell’universo porta Seneca
a concludere, ancora una volta, che è necessario accettare l’inevitabilità della
morte, che verrà quando vorrà, se non con il fulmine, allora con altri mezzi. E
perciò «prendiamo coraggio dalla disperazione stessa», scrive all’amico Lucilio,
perché «tutti siamo conservati per la morte» (2, 59, 6). Inserendo la propria
morte, che vede imminente, nel disegno cosmico e nel comune destino umano,
Seneca, costantemente minacciato da Nerone, riesce a sentirsi meno solo.
Avendo perso di recente due amici, Burro e Sereno, deceduti, a quanto pare, di
morte naturale, Seneca intensifica l’amicizia con Lucilio, al quale dedica le
Questioni naturali e le Lettere. Di questo dedicatario si sa ben poco: la nostra
unica fonte è Seneca stesso, ed egli è avaro di informazioni concrete. Sappiamo
che Lucilio era nato nell’Italia meridionale, apparteneva alla classe equestre, si
recava spesso a Pompei, era di qualche anno più giovane di Seneca ed era stato
procuratore della Sicilia. Gli si attribuisce un poemetto sui vulcani, intitolato
Etna, argomento che avrebbe potuto studiare da vicino quand’era sull’isola:
sicuramente l’autore di questo saggio, chiunque fosse, conosceva bene le
Questioni naturali. Lucilio, a quanto si apprende da Seneca, desidera
approfondire i suoi studi filosofici e ha chiesto consiglio all’amico, che è un
poco più avanti su questa via. Egli sta pensando di ritirarsi dalla vita politica per
dedicarsi alla filosofia, una situazione che ricorda molto da vicino il recente
passato di Seneca, tanto che alcuni commentatori hanno ipotizzato che il
dedicatario sia un personaggio fittizio, anche perché il suo nome ricorda quello
di Seneca, essendo il diminutivo di Lucio. 8 In sostanza Lucilio sarebbe un
Seneca più giovane, meno prestigioso.
A volte Seneca sembra presentare l’amico come un suo doppio idealizzato.
Lucilio non permetterebbe mai all’ambizione di distoglierlo dai suoi studi: «So
quanto tu sia alieno dall’ambizione e quanta familiarità tu abbia con la vita
ritirata e la cultura» (4, Prefazione 1). Subito dopo, però, Seneca, com’è nel suo
stile, passa a un argomento più generale, meditando sulla rarità di questo genere
di autosufficienza. Quasi tutti «noi», scrive, ci tormentiamo, «ora per amore, ora
per disgusto di noi stessi», e, quel che è peggio, non siamo mai in pace, «mai soli
con noi stessi» (4, Prefazione 2). Il narratore, come spesso accade in questo
trattato, si situa in una posizione ambigua, fluttuando fra il peccatore e il
moralista. Sa analizzare i tormenti dell’inautenticità psicologica, ma non ha la
costanza necessaria per evitarli. A Lucilio raccomanda di rifuggire sopra ogni
altra cosa dall’adulazione e di diffidare degli adulatori, ma lo fa in maniera così
iperbolica da suscitare nel lettore il sospetto che proprio questo egli stia facendo
con Lucilio. 9 Subito dopo, però, con un brusco e tipico scarto, egli invita l’amico
a chiedersi se il ritratto lusinghiero che ha appena tracciato sia autentico, perché
potrebbe anche non esserlo. Questo esercizio di autoanalisi, condotto in
solitudine, ha comunque i suoi vantaggi: se le lusinghe sono false, «sei
comunque stato messo in ridicolo senza testimoni» (4, Prefazione 18). Ormai
Seneca sa quali siano i «benefici» che regala una vita trascorsa insieme ad amici
immaginari.
I lettori del Doctor Faustus di Marlowe e del Paradiso perduto di Milton
conoscono bene il dilemma posto tanto dalle Questioni naturali quanto dalle
Lettere morali a Lucilio. Seneca sa di potersi ritirare dal mondo, anche se gli
resta il problema di come vivere con se stesso, perché, come dice il Satana
miltoniano, «dovunque fugga è sempre inferno: sono io l’inferno» (Paradiso
perduto 4, v. 75). Seneca è però convinto di riuscirci: «Bisogna, dunque, fuggire
e ritirarsi in se stessi; anzi, bisogna mettersi in salvo anche da se stessi»
(Questioni naturali 4, Prefazione 20). Lucilio, al quale egli dedica le due opere,
costituisce in parte la soluzione del problema: attraverso l’evocazione
dell’amico, Seneca immagina, e abita, il suo «Io» migliore, sottraendosi al
fardello del mondo materiale e a quello della sua storia personale. Benché divisi
dal mare, scrive all’amico, noi «staremo insieme, con la parte migliore che è in
noi; ci daremo vicendevolmente consigli non dettati dal volto di chi ascolta»
(ibid.). Il volto contiene infatti la possibilità dell’inganno: un volto può sempre
essere una maschera. La scrittura è dunque l’unico luogo in cui Seneca può
sentirsi, o essere, in armonia con il meglio di sé ed essere il migliore amico di se
stesso.
La contemplazione delle nuvole e delle tempeste non è pura evasione dalla
realtà. Le minacce della meteorologia sono analoghe a quelle della corte: dei
tiranni, come del tuono, dobbiamo imparare a non avere paura. E subito il
discorso cambia direzione e il tema diventa l’agentività umana, inclusa quella di
Seneca. Un filosofo, si domanda, può influenzare o persino capire un tiranno più
di quanto possa influenzare la pioggia? E spostandosi su un piano ancora diverso
egli osserva: è consolante vedere forze gigantesche agire con terribile furia e
violenza, ma senza crudeltà, e sempre osservando l’ordine divino delle cose.
Il cibo calmi la fame, la bevanda estingua la sete, gli indumenti tengano lontano il freddo, la
casa sia la nostra difesa contro le intemperie. Che sia stata costruita con zolle o con marmi
variegati di provenienza straniera non ha alcuna importanza. Sappiate che un uomo si trova al
coperto altrettanto bene sotto un tetto di paglia quanto sotto uno d’oro.
(Lettera 8, 5)
E il tetto d’oro non è una fantasia: i ricchi romani di quell’epoca, fra cui
presumibilmente lo stesso Seneca, vivevano davvero in case con pareti e soffitti
decorati con il prezioso metallo e altri materiali costosi, e arricchite da dipinti,
mosaici, statue e stucchi. L’esemplare più famoso era il palazzo costruito da
Nerone nel 64: la Domus Aurea, la casa d’oro. 10 Ora che conduceva una vita
semplice, quasi in ritiro, Seneca aveva il distacco sufficiente per guardare con
occhio severo la vita di agi che egli stesso aveva condotto per buona parte della
sua maturità e per criticare quietamente i modi sempre più stravaganti e tirannici
di Nerone. Contemporaneamente, però, riconosceva, come altre volte, che la
ricchezza non era di per sé un male: «È un uomo eccezionale chi si serve di
stoviglie di terracotta come se fossero d’argento e non è da meno chi utilizza
quelle d’argento come se fossero di terracotta» (5, 6). Quello cui Seneca ambiva
non era la povertà e neppure la semplicità volontaria, ma la pace interiore, e
cercava il modo per limitare i danni che la ricchezza provoca nell’animo di chi la
possiede. Vivere a livello di sussistenza, scrive, altro non è se non quello che
«molte migliaia di schiavi e molte migliaia di poveri fanno continuamente». I
ricchi dovrebbero emularli, ma non per toccare con mano quanto sia dura la loro
vita, bensì per constatare quanto sia facile sopportarla.
Nelle Lettere racconta anche la sua lotta con i malanni che l’affliggono, primo
fra tutti l’asma che da sempre lo tormenta, quella mancanza di respiro che i
medici chiamano «allenamento alla morte» (54, 2). Si descrive vecchio e
fisicamente debole, «un mal di mare spossante e senza sfogo» lo aveva
tormentato durante la breve navigazione da Napoli a Pozzuoli (53, 2) e il freddo
lo fa soffrire molto di più di quand’era giovane: «La mia età ... a mala pena si
sgela nel cuore dell’estate. E così trascorro ben coperto la maggior parte del
tempo» (67, 1).
Nella lettera 83 racconta con brio la sua routine quotidiana in un giorno in cui
può dedicarsi a leggere e scrivere senza interruzione, un giorno felice, perché
«una vita ritirata senza lo studio è un lasciarsi seppellire mentre si è vivi». Fin
dalla gioventù Seneca si era sempre tenuto in forma con esercizi facili e di breve
durata, che «stancano il corpo senza troppi intralci ... la corsa, il sollevamento
dei pesi, il salto in alto e il salto in lungo» (15, 4). Adesso che ha passato i
sessant’anni si stanca facilmente, e perciò ha come allenatore un piccolo
schiavo, di nome Fario, il quale, come il suo padrone, sta cominciando a perdere
i denti (un bambino dunque di cinque o sei anni: chissà che cosa pensava del
vecchio signore!). Lo schiavetto è uno specchio per Seneca, che scopre in lui la
propria vulnerabilità. Ormai, scrive all’amico, sono diventato così fragile che
persino Fario è troppo veloce per me, e, mentre il ragazzo diventa ogni giorno
più forte, io divento ogni giorno più debole: fra poco dovrò trovare un allenatore
anche più piccolo.
Dopo gli esercizi Seneca fa un bagno nell’acqua tiepida. Da vecchio non
sopporta più l’acqua gelida, in cui prima si tuffava con gioia:
Io, così entusiasta dei bagni freddi, che alle calende di gennaio facevo una visita al canale, io
che inauguravo l’anno nuovo non solo leggendo qualcosa in pubblico, presentando una
composizione scritta o pronunciando un discorso, ma anche tuffandomi nell’acqua Vergine,
ho trasferito armi e bagagli dapprima sulle rive del Tevere, poi a questa tinozza, che, quando
mi sento in gran forma e tutto va per il verso giusto, mi accontento sia scaldata dai raggi del
sole.
(83, 5)
Al bagno segue una colazione frugale, giusto un po’ di pane secco, senza
neppure sedersi a tavola, poi gli occhi si chiudono per un istante, come accade
agli infanti: «Talvolta so di avere dormito, talaltra ne ho solo il sospetto» (6, 83).
Dopo si rimette subito al lavoro, alternando lettura e scrittura: «Non dobbiamo»
confida a Lucilio «limitarci a scrivere né limitarci alla lettura. La prima attività
deprimerà le nostre energie e le esaurirà ... l’altra le renderà languide e
inconsistenti. Si deve riprendere alternativamente questa e quella, e temperare
l’una con l’altra» (84, 2).
La routine quotidiana è spesso interrotta da frequenti spostamenti. Nelle
Lettere Seneca racconta gli inconvenienti di quel continuo vagare da un luogo
all’altro e lo stravolgimento delle abitudini che provoca: mentre viaggia in
calesse, per esempio, non può né fare ricerche, né scrivere. A volte, quando ha la
curiosità di vedere qualche villa da una bella spiaggia, si fa trasportare in lettiga
anche per un lungo tratto; poi però si lamenta del continuo sballottamento, che lo
stanca quasi più che andare a piedi (55, 1).
Ovviamente non si chiede quanto si stancassero i suoi schiavi, che portavano
la lettiga con il loro aristocratico passeggero: la vita semplice, «peripatetica», di
Seneca richiedeva l’affaccendarsi di molte persone, anche se ora ne aveva
intorno meno di quando viveva a corte. Seneca doveva essere un padrone
ragionevolmente comprensivo: in una delle sue lettere più famose, la 47, si
appella a Lucilio e ai suoi ricchi lettori romani perché trattino con compassione e
gentilezza i loro schiavi, ricordando che sono anch’essi esseri umani. Sferza i
padroni crudeli, che durante i loro opulenti banchetti costringono i servi a restare
in piedi tutta la notte senza mangiare né bere, senza parlare, tossire e neppure
starnutire. Come ama fare spesso nei suoi scritti, Seneca dialoga con un
interlocutore immaginario, il quale obietta: «È uno schiavo». «Ma forse è libero
nell’animo» osserva Seneca. «È uno schiavo» ribadisce l’altro; «Ma questo gli
nuocerà? Mostrami uno che non lo sia: questo è schiavo della passione, quello
dell’avidità, un terzo dell’ambizione, tutti della paura» (47, 17).
La sua abilità stilistica è così efficace che si stenta a credere che Seneca non
stia affrontando in modo nuovo, addirittura rivoluzionario, un problema
concreto. In realtà quelle che espone erano idee molto diffuse, quasi all’ordine
del giorno, fra le classi alte della Roma del suo tempo. Un contemporaneo e
conterraneo di Seneca, lo scrittore di agricoltura Columella, parlava e scherzava
amichevolmente con i suoi schiavi-contadini, e trattava umanamente anche
quelli imprigionati e incatenati (sic; Columella, De re rustica 1, 8). Seneca non
aveva dunque un atteggiamento più illuminato dei suoi contemporanei verso la
schiavitù e i propri servi: è convinto che il padrone debba trattare con clemenza
gli esseri umani che possiede, ma, come tutti nel mondo antico, dà per scontata
l’istituzione della schiavitù e si occupa raramente della vita concreta dei suoi
schiavi. 11 Anche l’affermazione che tutti gli esseri umani hanno un’anima
«libera» serve a giustificare la condizione materiale in cui vivono gli schiavi.
Essa appartiene al novero delle cose «indifferenti», quelle che non toccano la
virtù dell’anima e perciò non provocano un vero danno. 12
Gli schiavi interessano a Seneca soltanto in quanto lo aiutano a capire meglio
se stesso. Mentre evoca le difficoltà della vita e l’approccio filosofico più idoneo
per affrontarle, il suo sguardo è sempre quello del padrone, mai del servo: «Ho
una salute precaria, ma questa fa parte del mio destino. I miei schiavi si sono
messi a letto, tutti ammalati; le mie rendite hanno subìto un tracollo, la casa ha
cominciato a scricchiolare; perdite, duri colpi, paure mi hanno quasi subissato:
sono cose che capitano» (96, 1). La malattia degli schiavi diventa il banco di
prova della capacità di autocontrollo del loro proprietario, non è un problema di
chi sta male. Non dissimile è la sua reazione il giorno in cui, appena arrivato in
una delle sue ville, si imbatte in uno schiavo, che ricordava bambino, ridotto
ormai a un vecchio cadente, e subito pensa alla propria vecchiaia e alla morte
imminente (12, 3). Non lo sfiora neppure la domanda di quali fatiche abbiano
consumato così prematuramente quell’uomo. La schiavitù non viene mai
considerata in quanto istituzione sociale specifica e ingiusta, imposta a
particolari individui, ma come una metafora per illustrare vari cliché filosofici,
per dire, per esempio, che non dovremmo mai essere schiavi del nostro corpo
(14), ma della filosofia, perché così godremmo della vera libertà (8, 7), oppure
per affermare che «chi teme è schiavo» (66, 16). Ogni volta che nelle Lettere
Seneca parla di ricchezza e di povertà, il discorso finisce sempre per spostarsi
sulla questione di come un ricco possa liberarsi dalla paura di cadere in miseria,
mai di come alleviare le condizioni di chi è schiavo o davvero diseredato (17).
Basta imparare a vivere al di sotto dei propri mezzi per rendersi conto che la
ricchezza è meno necessaria di quanto si pensi. La povertà volontaria permette al
ricco di restare ricco, ma con un senso molto più profondo di pace interiore: è
tutto quello che ha da dire sull’argomento.
Le Lettere contengono passi che rivelano quanto sia ancora privilegiata la
condizione in cui egli vive, anche quando afferma di condurre la «vita
semplice». A volte ne è consapevole, e prova un certo imbarazzo di fronte alla
propria incapacità di spogliarsi dei costumi delle élite. Un giorno, mentre viaggia
sul carro di un agricoltore, tirato da muli, con il guidatore scalzo e lacero, teme
di essere visto da qualche altro privilegiato e, pur riconoscendo che la sobrietà è
superiore al lusso stravagante, non può fare a meno di sentirsi a disagio: «A
stento riesco ad accettare che gli altri si accorgano che la vettura è la mia» (87,
4). In un passo precedente raccontava di trascorrere giorni felici con l’amico
Massimo e «con quei pochissimi schiavi che poteva contenere una sola carrozza,
senza altri oggetti all’infuori di quelli che portiamo addosso» (87, 2). Se gli
schiavi che riempivano un intero veicolo erano considerati «pochissimi», è facile
immaginare quanti fosse abituato ad averne attorno. La sua dieta adesso è
spartana: «Il pranzo è ridotto al minimo indispensabile: è pronto in meno di
un’ora». Naturalmente, quell’ora di preparazione del pane e della frutta per il suo
pasto è un’ora di lavoro per i suoi servi, perché il grand’uomo abbia tutto il
tempo per contemplare l’universo e scriverne.
Il suo minuscolo seguito di schiavi includeva sicuramente uno o più segretari,
che prendevano nota dei suoi pensieri, un medico che aveva cura dei suoi
costanti malanni, un ragazzo che fungeva da allenatore per gli esercizi fisici e
per la corsa, e ancora altre mani servili per lavarlo, massaggiarlo, vestirlo e
tenere pulita la casa. E sicuramente c’erano almeno un cuoco e un fornaio per
preparargli i pasti. Altri schiavi si occupavano delle sue ville e dei terreni in sua
assenza, ed erano sempre pronti a servirlo quando arrivava in visita. Seneca
ringrazia la sua tolleranza di filosofo, che gli ha permesso di non infuriarsi la
notte in cui al suo arrivo nella villa di Albano non ha trovato niente di pronto. Il
fornaio non gli ha cotto il pane fresco, ma lui si accontenta di quello meno
croccante del fattore, o del custode, o del contadino: ci penserà la fame a rendere
buono quel «pane cattivo». La sua idea di una vita modesta deriva senz’altro dal
confronto con quella delle élite romane: tutti, scrive, viaggiano ormai
accompagnati da muli carichi di «vasi di cristallo e di fluorite, cesellati da artisti
di gran nome» (123, 7). Gli artigiani, ovviamente, non sono inclusi in quel
«tutti». Anche nei suoi ultimi, difficili anni, Seneca fu un gentiluomo ricco e
servito a puntino.
Ad accompagnarlo non erano soltanto gli schiavi: con lui c’era anche la
moglie Paolina con le sue ancelle, fra cui sicuramente un paio di servette per
lavarle i capelli e acconciarli, e c’era anche una vecchia «pazza» di nome
Arpaste, ereditata da un’anziana parente, che era diventata particolarmente
divertente (i pazzi erano considerati spassosi) e utile come exemplum filosofico
da quando all’improvviso era diventata cieca, e siccome non lo sapeva, si
lamentava sempre che la casa era buia (50, 2).
In tutto l’epistolario c’è un solo passo in cui Seneca parla di Paolina, e si ha
l’impressione che egli abbia con lei un legame intimo e affettuoso, anche se
profondamente narcisistico. Egli racconta a Lucilio di essersi rifugiato a
Mentana per sottrarsi a una febbre ricorrente. Aveva insistito per partire,
seguendo l’esempio del fratello maggiore Gallione (Novato), che, preso da
febbre mentre era in Acaia, si era immediatamente imbarcato, perché «il male
era dovuto non al corpo, ma al luogo» (104, 1). Paolina aveva cercato di
trattenere il marito, preoccupata per la sua salute, ma Seneca ne aveva ignorato
le suppliche, pur apprezzandone l’affettuosa sollecitudine:
Sapendo che il suo respiro vibra all’unisono col mio, comincio, per suo riguardo, ad avere
riguardo di me stesso, e sebbene la vecchiaia mi abbia reso più forte per certe prove, sto
perdendo il vantaggio dell’età. Infatti mi viene in mente che in questo vecchio c’è pur sempre
un essere che va crescendo, un virgulto cui si devono certi riguardi. Orbene, poiché non posso
ottenere che essa mi ami più intensamente, essa ottiene però da me che io sia più scrupoloso
nel volermi bene. Bisogna pur dimostrare comprensione per i sentimenti onesti, e, talora,
anche se ci assillano vari motivi di segno negativo, è necessario, per riguardo dei propri cari,
richiamare, sia pure a prezzo di sofferenze, il soffio vitale e trattenerlo, per così dire, in bocca,
dal momento che l’uomo dabbene deve vivere non quanto a lungo gli piace, ma finché ne
valga la pena. Chi non apprezza la propria moglie o un amico, tanto da indugiare un poco più
a lungo nella vita, chi persisterà nell’idea di voler morire, è un uomo tutt’altro che forte.
(104, 2-3)
Che cosa faccio nel mio ritiro? Curo la mia piaga ... La mia piaga è proprio nell’anima ... Non
c’è motivo perché tu voglia raggiungermi per progredire moralmente. Sbagli se speri di
ricavarne qualche aiuto: qui non abita il medico ma un ammalato ... Preferisco che tu
compatisca il mio ritiro piuttosto che invidiarlo.
(68, 7-9)
Moriamo ogni giorno. Infatti giorno dopo giorno ci è tolta una parte di vita e persino quando
cresciamo, la vita decresce. Abbiamo perso l’infanzia, poi la fanciullezza, poi la giovinezza.
Fino a ieri tutto il tempo che è passato è perduto; questo stesso giorno, che stiamo vivendo, lo
condividiamo con la morte. Non l’ultima goccia esaurisce la clessidra, ma tutto ciò che prima
è colato.
(24, 20)
Mi indicherai un uomo che attribuisca un valore effettivo al tempo, che sappia soppesare ogni
giornata, che si renda conto di morire ogni giorno? Sbagliamo, infatti, in questo: che
ravvisiamo la morte davanti a noi; ebbene: una gran parte della morte appartiene già al
passato. Tutto ciò che della nostra esistenza è dietro di noi, la morte lo tiene saldamente.
(1, 2)
Indizi sparsi qua e là rivelano però che di tanto in tanto anche Seneca volge lo
sguardo all’indietro, alla sua vita passata. Accenna persino alla lontana
fanciullezza:
Mi sono appena seduto, da ragazzino, alla scuola del filosofo Sozione; ho appena cominciato
a trattare cause; da ieri appena non ho più voluto trattarne, da ieri appena non ho più potuto.
(49, 2)
Molto più spesso, però, Seneca invita Lucilio a ripercorrere mentalmente non
l’intero arco della vita, bensì le ore appena trascorse. Scrive: considera «i singoli
giorni come singole vite» (101, 10). Una vita vissuta in modo così episodico
scoraggia le lunghe reminiscenze autobiografiche. Nelle Lettere, Seneca non
vive in una dimensione temporale che copra tutta la sua esistenza: vive dentro
quel certo giorno e in quel certo momento, ma anche sotto l’occhio dell’eternità.
Quando la mente raggiunge uno stato di equilibrio, «può contemplare dall’alto la
catena dei giorni e degli eventi, e pensare, ridendo di cuore, al succedersi dei
tempi» (101, 9). L’animo umano non è confinato entro i limiti di una singola
vita: «Tutti gli anni mi appartengono ... non c’è alcun tempo che non sia
accessibile al pensiero» (102, 22). A volte, però, la visione si estende anche al
passato: di fronte ai lutti, il miglior conforto è mantenere intatti i ricordi, perché
«ci viene tolto ciò che abbiamo, mai quello che abbiamo posseduto» (98, 11). La
memoria permette di conservare per sempre almeno le vestigia di ciò che un
tempo è stato nostro, ma il consiglio è di rammentare soltanto le cose buone.
Considera, scrive a Lucilio, «nell’intimo della tua coscienza gli aspetti positivi
del tuo ruolo», così non avrai bisogno di un pubblico: «Sii spettatore di te stesso,
sii estimatore della tua personalità» (78, 18-20). Anche in quel suo ritiro, sia
pure relativo, perché ha con sé la moglie, gli amici e un buon numero di
servitori, Seneca riesce a trovare un uditorio nella sua mente e nella sua
memoria.
Con grande frustrazione del biografo, Seneca racconta molto poco riguardo a
ciò che del suo passato gli dà più gioia o più pena. Quando i ricordi sono
dolorosi, non scende mai nei dettagli:
Già provavo disgusto di me stesso, già disprezzavo quello che restava di una vita intaccata,
pronto, ormai, a passare in quella sconfinata dimensione temporale e al possesso dell’eternità,
quando fui svegliato all’improvviso dall’arrivo della tua lettera.
(102, 2)
L’epistolario, per sua natura, scandisce il tempo, lo spezzetta ogni volta che un
messaggio si chiude e un altro si apre, e offre a chi scrive l’occasione per
cambiare continuamente argomento.
Nelle Lettere a Lucilio Seneca accenna più volte alle vicende della propria
vita, mai però in modo esplicito e specifico. Spesso attribuisce ad altri – al
destinatario o a persone generiche – episodi che sembrano riguardarlo molto da
vicino. Nella lettera 19, per esempio, si dispiace che Lucilio, di umili origini
provinciali, abbia avuto la sfortuna di conquistare tanta prosperità: «Oh, se ti
fosse toccato di invecchiare entro i modesti limiti dei tuoi natali e la fortuna non
ti avesse lanciato così in alto!» (19, 5). Il successo nella vita pubblica comporta
una condizione di schiavitù permanente, non tanto a un padrone, quanto ai propri
desideri. Una volta intrapreso il cammino dell’ambizione, le nostre brame non
hanno più limite: «l’una nasce dalla fine dell’altra». Il potere e la ricchezza sono
strumenti di servaggio: «Sottrai il collo al giogo che lo ha logorato: uno stacco
netto è più appagante di una continua oppressione» (19, 6).
A sentirlo, si direbbe che sia facile rinunciare alla ricchezza e al potere.
Quando immagina che Lucilio gli chieda come fare, la sua risposta è Utcumque!
In un modo o nell’altro ne uscirai. Ma quanto è sincero nel presentare come
un’impresa di poco conto qualcosa che sa per esperienza essere estremamente
difficile? Forse non è un caso che nella lettera successiva riprenda il tema
cruciale dell’incoerenza. La cosa che più teme, scrive, non è tanto di agire contro
le sue convinzioni più profonde o dire cose di cui in realtà non è convinto,
quanto la possibilità che le sue convinzioni, e di conseguenza anche le sue parole
e azioni, siano in uno stato di flusso perenne. «Il maggior indizio di una mente
non certo ben disposta» proclama «è rappresentato dall’incostanza e
dall’oscillazione continua tra virtù simulate e amore per i vizi» (120, 20).
Soltanto chi ha l’animo buono è sempre uguale a se stesso e perciò conoscibile.
Tutto l’epistolario è attraversato dalla corrente sotterranea della paura di non
riuscire a mantenere un’identità stabile. La forma episodica del testo e la sua
frammentazione potrebbero suggerire l’assenza di un Io coerente, costante,
oppure suggerire che quell’Io sia in grado di restare tale soltanto per qualche
paragrafo. Il tarlo che lo rode è: sono cambiato da quando mi sono messo al
servizio di Nerone oppure no? E nessuna delle due possibili risposte è
consolante.
Nelle Lettere Seneca parla spesso di insegnamento e apprendimento. Si
direbbe che si domandi ancora se nel suo ruolo di antico precettore di Nerone
egli abbia fatto qualcosa di buono, e, se la risposta è negativa, si chieda di chi sia
stata la colpa, sua o dell’allievo. Il maestro – e su questo punto insiste a lungo –
deve guidare il discepolo non tanto con le parole quanto con i comportamenti:
deve essere un modello di vita. Certo, i libri sono utili a certi scopi, ma sono
molto meno importanti di un insegnante in carne e ossa: «Ti saranno tuttavia più
utili di ogni discorso scritto la viva voce e il trovarci a vivere insieme» scrive
all’amico Lucilio (6, 5). E se l’educatore non sa tener fede ai suoi precetti?
Questo interrogativo ricorre varie volte, e con un sottofondo di ansia. La
corrispondenza fra vita e dottrina è fondamentale: «Questa è la suprema
funzione della saggezza e il suo carattere distintivo: mettere in armonia le parole
con le opere, far sì che in ogni circostanza l’uomo sia coerente e identico a se
stesso» (20, 2). Un filosofo non comunica la saggezza semplicemente con le
parole, ma soprattutto attraverso l’esempio, come faceva Epicuro: «Egli non
professa la verità, la testimonia» (20, 9). Fra il Seneca che si dichiara imperfetto,
pieno di piaghe morali – un malato più che un guaritore –, e il Seneca che insiste
sulla necessità di vivere all’altezza dei propri precetti esiste sempre una tensione
irrisolta.
In uno stato d’animo più positivo, Seneca dichiara che non bisogna mai
smettere di imparare. Racconta che persino ora, in età così avanzata, frequenta le
lezioni di filosofia, rivolte all’educazione dei giovani, che si preparano a
intraprendere la loro carriera. È un modo molto più proficuo per un vecchio di
impiegare il tempo che non andando a teatro, agli incontri di lotta o dei
gladiatori (76, 3-4).
Nelle Lettere a Lucilio, Seneca si chiede ripetutamente se valga la pena
insegnare la filosofia. In una lettera immagina di dialogare con un interlocutore
convinto che l’educazione filosofica sia soltanto uno spreco di tempo. E lo è,
spiega costui, perché nessuno fa quello che predica: «Chi suggerisce con il
massimo zelo tutte queste cose, neppure egli stesso riesce ad attuarle». I precetti
non hanno mai cambiato nessuno, perché o sono rivolti a chi sa già come
comportarsi, oppure a qualcuno che non lo sa, e non serviranno a modificarne la
condotta (94, 11). La replica di Seneca – «Non perché non guarisce tutto è lecito
dire che (la filosofia) non risana nulla» (94, 24) – costituisce per certi versi una
nuova definizione degli obiettivi che egli si propone di raggiungere con i suoi
scritti e i suoi insegnamenti. La differenza fondamentale sta tutta nel fatto che
dare consigli è cosa ben diversa dal dare informazioni, un’operazione, questa,
che consiste semplicemente nel trasferire dei dati da una persona all’altra. La
filosofia morale ha invece il compito di risvegliare l’attenzione dei discepoli
verso princìpi che essi potrebbero anche conoscere a livello subliminale:
«Talvolta infatti sappiamo le cose, ma non vi prestiamo attenzione» (94, 25). Lo
stile aforistico, così incisivo di Seneca, mira proprio a far sì che i suoi precetti
vadano a segno, non passino inosservati e restino incisi nella memoria: «La virtù
cresce imponente per effetto di un tocco, di una spinta» (24, 29).
Seneca, però, sa che a volte l’insegnamento non ottiene gli effetti desiderati.
L’argomento riaffiora di tanto in tanto, inaspettatamente. Mentana (fig. 19), dove
Seneca aveva una delle sue ville, era uno dei luoghi in cui egli amava coltivare la
vite, un passatempo che non solo trovava molto corroborante, ma gli offriva
anche l’occasione per meditare sui metodi di coltivazione. Le viti erano allievi
ideali, rispondevano ai suoi tentativi di innesto e di modellarne la crescita, ma
anche nel mondo agricolo c’erano differenze fra un discepolo e l’altro: «Non
tutte le viti indistintamente tollerano innesti. Se una vite è vecchia, corrosa, se è
malferma e gracile, o non riceverà il pollone o non lo alimenterà né lo
assimilerà, né si trasformerà secondo la sua qualità e natura specifica» (111, 2).
E più di questo, sul suo fallimento come precettore di Nerone, Seneca non dirà
mai.
Si accumuli in te solo tutto ciò che molti ricconi hanno posseduto; la fortuna ti faccia
progredire oltre la misura dell’opulenza che può toccare a un privato cittadino, ti copra d’oro,
ti vesta di porpora, ti conduca a tal punto di raffinatezza e di risorse materiali che tu possa
seppellire la terra sotto lastre di marmo, e ti sia lecito non solo possedere, ma addirittura
calpestare le ricchezze; si aggiungano statue e pitture e tutto ciò che l’arte nelle sue diverse
forme di espressione ha escogitato per una vita fastosa: ebbene, da tutto questo imparerai a
desiderare ardentemente beni ancora più grandi.
(16, 8)
non è estraneo alla vita pubblica anche se si è rifugiato nel suo privato; anzi, può darsi che,
lasciato uno spazio angusto, si trasferisca in una sfera più prestigiosa e di più ampio orizzonte
e, stabilitosi nel cielo, comprenda quanto basso sia il luogo in cui si poneva quando ascendeva
alla sedia curule o alla tribuna.
(68, 2)
Per uno che scriveva così spesso dell’importanza di essere pronti ad affrontare
la morte con coraggio, Seneca fu bravissimo a scansarla. Del resto non negava
che anche per i più avanzati sul cammino della sapienza è molto difficile
eliminare del tutto la paura della morte, perché essa appartiene alla categoria
delle cose che, «pur non essendo mali, ne hanno la parvenza» (Lettere morali a
Lucilio 82, 15). Il pensiero di come appropriarsi della morte, facendone qualcosa
che gli appartenga e sia sempre in suo potere, e non qualcosa che ne minacci
l’autonomia, non lo abbandona mai. Seneca è sempre alla ricerca di modi per
reinventare la morte, per porla su un piano in cui egli possa tenerla sotto il suo
controllo e farne un’espressione del suo Io, anziché essere alla mercé di qualcun
altro. La morte, afferma, è la grande livellatrice, perché appartiene a tutti; l’unica
differenza fra un uomo e l’altro sta nel come si muore, perché «ognuno muore la
propria morte». La morte è anche un atto squisitamente personale, e Seneca
aspirava a essere l’agente dei suoi ultimi istanti, a non chiudere gli occhi
all’improvviso sotto l’effetto di qualche veleno: «La morte migliore è quella che
più piace» (70, 12). Con queste parole egli sembra ammettere che potrebbe
anche non riuscire a morire come vorrebbe, ma non rinuncia mai a immaginare
la propria fine. Medita ossessivamente sulla morte di filosofi famosi, in
particolare Socrate e Catone il Giovane, che preferì gettarsi sulla spada piuttosto
che sopravvivere alla scomparsa della repubblica. Entrambi costituiscono un
esempio di come la morte, benché imposta da un potere politico esterno, sia stata
conseguita secondo il loro desiderio. Possedere la morte significa per Seneca
avere sempre a portata di mano una via di fuga verso la libertà: abbiamo «un
solo ingresso alla vita ma numerose uscite» (70, 14). La morte è anche la prova
suprema della nostra capacità di essere coerenti con i princìpi etici che
professiamo, perché «verrà il giorno che esigerà da noi l’applicazione di questa
sola virtù» (70, 19).
Egli volle far morire anche sua moglie Paolina, sostenendo di averla indotta al disprezzo della
morte e al desiderio di morire con lui. Così incise anche le vene di lei, ma egli, dopo una
lunga agonia, che venne resa più rapida dall’intervento dei soldati presenti, morì prima di
Paolina, che, in questo modo, riuscì a sopravvivere. Seneca, tuttavia, non si svenò finché non
ebbe apportato delle correzioni al libro che stava scrivendo e non ebbe affidato ad alcuni
conoscenti le altre opere, che una volta cadute nelle mani di Nerone, temeva andassero
distrutte.
(Cassio Dione, Storia romana 62, 25, 1-2)
Eppure anche ora il suo atteggiamento verso Nerone è conciliante, più che
rivoluzionario. Le tendenze omicide dell’imperatore appartengono a suo giudizio
all’inevitabile; contro di esse né lui né i suoi amici possono fare nulla. In quegli
ultimi istanti la più grande preoccupazione di Seneca è di creare una scena che
rimanga impressa nella mente dei suoi futuri lettori, possibilmente tanti, e non di
influenzare il corso politico di Roma. Le sue parole su Nerone, osserva
sardonico Tacito, «sembravano rivolte a tutti indistintamente», benché fossero
rivolte, si suppone, soltanto a un gruppetto di amici. E, anche dopo che marito e
moglie si sono tagliati i polsi, Seneca continua a parlare al suo pubblico: «Fece
venire gli scrivani cui dettò molte pagine che, divulgate nella forma testuale»,
afferma Tacito, «evito qui di riferire con parole mie» (15, 63). Lo storico
ironizza, sornionamente, sul tentativo di Seneca di controllare il copione della
propria morte, e implicitamente lascia intendere che c’è qualcosa di
inappropriato in quel maestro di retorica che si autopromuove fino all’ultimo
respiro.
Il taglio delle vene non ebbe l’effetto voluto. Forse Seneca sospettava già che
potesse non essere lo strumento più adatto per lui: nelle Questioni naturali aveva
osservato che, quando si apre una vena, il sangue a volte sgorga fino allo
svuotamento, ma altre volte la lacerazione si rimargina, bloccando la via
d’uscita, e altre ancora interviene qualche altra causa (Questioni naturali 3, 15,
5). Nel suo caso, il sangue smise di defluire perché il suo corpo era troppo
vecchio e magro, emaciato dai lunghi anni di digiuno. Egli si recise allora anche
le vene dietro le ginocchia, ma inutilmente. Temendo che la vista delle sue
sofferenze turbasse troppo Paolina, e anche per «non essere indotto a cedere di
fronte ai tormenti di lei, la induce a passare in un’altra stanza», dove i soldati le
bendano le braccia, salvandole la vita. Che Seneca temesse di essere distolto dal
suo proposito dal dolore della moglie è un dettaglio significativo, che più di
qualsiasi altro differenzia la sua morte da quella di Socrate. È evidente che
Seneca non possedeva il dono permanente della calma e della risolutezza
perfette: per tener fede ai suoi princìpi morali era costretto a una lotta costante.
Quando neppure la seconda incisione bastò a dissanguarlo, Seneca, emulando
ancora una volta Socrate, chiese la cicuta. A somministrargliela non fu il
giustiziere pubblico, bensì il suo medico privato, Anneo Stazio (il nome può far
pensare a un parente, ma è più probabile che si trattasse di un liberto, un ex
schiavo che Seneca aveva poi emancipato). Il veleno, presumibilmente costoso,
era stato acquistato da tempo, pronto per una morte che Seneca si aspettava
potesse essergli imposta con il suicidio. Ma neppure la cicuta riuscì a spegnere
quel corpo debole e freddo. E allora egli «entrò in una vasca di acqua calda, ne
asperse gli schiavi più vicini e aggiunse che con quel liquido libava a Giove
liberatore». Infine chiese di essere immerso in un bagno caldissimo e morì
soffocato dai vapori. Fu cremato immediatamente, secondo la sua richiesta
(Tacito, Annali 15, 64).
La morte, che aspettava da tempo, era infine arrivata. Era stata un momento di
grande teatralità, contrassegnata, come tutta la vita di Seneca, da numerosi
compromessi. La sequenza di tentativi andati a vuoto ha una sua atrocità – non
riusciva neppure a uccidersi bene – ma anche un suo umorismo macabro, come
era sicuramente nelle intenzioni di Tacito, che ne è il narratore. Il desiderio di
Seneca di controllare i suoi atti fino all’ultimo istante appare con grande
evidenza, ma altrettanto evidente è l’impossibilità di realizzare l’ideale stoico
della coerenza e dell’imperturbabilità sotto il peso delle pressioni e delle
violenze della Roma neroniana e anche delle sue stesse fragilità. Si può irridere
una morte che fu così lenta e difficile da raggiungere, ma si può anche ammirare
la costanza con cui l’aspirante suicida prova e riprova, incurante degli scacchi
subiti, proprio come aveva fatto per tutta la vita, tentando, dopo ogni fallimento,
di riprendere il cammino della virtù filosofica.
Ognuno dei tentativi andati a vuoto richiese una nuova serie di attrezzi di
scena, tutti costosi. Non poteva esserci morte più appropriata per un uomo che
era vissuto da ricco ed era diventato il critico più acuto del consumismo della
Roma neroniana e il migliore analista della psicologia dell’opulenza. Nei suoi
ultimi anni Seneca lamentava di avere sempre freddo e amava i bagni caldi. Il
bagno in cui morì fu uno strumento di dolore e di perdita, ma anche uno
strumento elitario, riscaldato e somministrato dagli schiavi per aprire, a
quell’uomo di alto rango, l’ultima porta verso la libertà. La morte di Seneca,
nonostante tutti i suoi sforzi, e forse anche per essi, fu lo specchio più fedele
della sua vita. Il suo ultimo atto fu un corpo a corpo lento, doloroso, retorico,
estremamente melodrammatico fra l’idealismo filosofico e l’umana debolezza di
fronte al potere politico.
Dopo la morte di Seneca, Nerone arrestò chiunque avesse qualche
connessione con la congiura: l’anno 65 si svolse all’insegna di una serie infinita
di esecuzioni e suicidi forzati, di cui quello del suo maestro fu, in un certo senso,
il meno impressionante. Il tribuno Subrio Flavio morì di una morte meno teatrale
ma non meno coraggiosa di quella di Seneca, e Tacito gli rende l’onore (non
concesso a Seneca) di tramandarne le ultime parole. Interrogato da Nerone, così
spiega le ragioni della sua adesione alla congiura: «Ti odiavo. Nessun soldato ti è
stato fedele più di me, finché hai meritato di essere amato. Ho cominciato a
odiarti da quando sei diventato assassino di tua madre e di tua moglie e auriga e
istrione e incendiario» (15, 67). In quell’anno Nerone uccise con un calcio al
ventre la seconda moglie, Poppea, che era incinta. Seguirono molti altri esili e
morti. Musonio Rufo fu bandito da Roma. Il nipote di Seneca, Lucano, e l’anno
dopo anche suo padre Mela furono imprigionati con l’accusa di cospirazione. A
Lucano, racconta Svetonio, non fu difficile estorcere la confessione, e si mise a
implorare nel modo più abietto di salvargli la vita, arrivando a denunciare anche
la madre innocente, nella speranza di placare l’ira dell’imperatore matricida.
L’unica cosa che ottenne fu di scegliere come morire, e allora Lucano scrisse una
lettera d’addio al padre, contenente anche alcune modifiche ai suoi versi, fece un
lauto pranzo e porse le braccia al medico perché gli tagliasse le vene (Svetonio,
Vita di Lucano).
Anche Petronio, che Tigellino invidiava perché Nerone lo trovava tanto
divertente, fu condannato a darsi la morte: si tagliò le vene, poi se le fasciò
parzialmente per conversare un’ultima volta con gli amici e scivolare lentamente
nel sonno eterno durante il banchetto (Tacito, Annali 16, 19). Le morti più
memorabili, nella lunga serie di suicidi forzati, furono quelle di Barea Sorano e
soprattutto di Trasea Peto, la cui fine ricorda quella di Seneca, ma la supera in
nobiltà. Accusato di disprezzo verso l’imperatore, si tagliò le vene e, quando il
suo sangue – non l’acqua del bagno – sprizzò sul pavimento, esclamò: «A te,
Giove liberatore, dedico questa libagione!». Seneca aveva deliberatamente
attutito il significato politico della propria morte, Trasea l’esaltò. Il suo suicidio
fu il primo esempio di una serie di riappropriazioni della vita, della morte e degli
scritti di Seneca.
Nerone, pupillo, patrono, imperatore e nemico di Seneca, morì meno di
quattro anni dopo. Le tasse esose, la cattiva amministrazione e le pessime
relazioni pubbliche avevano reso molto instabile l’impero. Le province di
Germania e Spagna erano in fermento, la guardia pretoriana, che in teoria
avrebbe dovuto proteggerlo, si era schierata con Galba, il governatore di una
delle province iberiche. Nerone, come il suo maestro Seneca, prese a vagare da
un luogo all’altro, temendo di essere ucciso. Dopo alcune ore disperate di
indecisione era fuggito da Roma verso una sua villa nel nord del paese,
cavalcando a piedi nudi, con la faccia coperta da un velo, accompagnato soltanto
da alcuni liberti fedeli. Infine, persa ogni speranza di salvarsi, aveva ordinato ai
liberti di scavargli la fossa sul ciglio della strada, piangendo al pensiero di ciò
che il mondo avrebbe perso con la sua morte. «Quale artista muore con me!»
esclamò. Sentendo il fragore degli zoccoli dei cavalli dei suoi inseguitori farsi
più vicino, si pugnalò alla gola con l’aiuto del suo liberto (Svetonio, Vita di
Nerone 47-49). 17
Roma piombò in una serie di lotte per la successione: il 65 è ricordato come
l’anno dei quattro imperatori, nessuno dei quali durò più di qualche mese. La
morte spettacolare di Nerone, all’insegna dell’umorismo nero e del narcisismo,
ricalca quella del suo antico precettore, ma Nerone, a differenza di Seneca, nella
scena finale non aveva accanto né una moglie fedele, né parenti, né amici. Li
aveva uccisi tutti.
Il Seneca inglese, letto a lume di candela, regala molte belle frasi, come il sangue è un
mendicante e così via; e se ti intrattieni con lui in un gelido mattino, ti offrirà interi Amleti, e
discorsi tragici, oserei dire, a manciate. Ma, ahimè! Tempus edax rerum (il tempo tutto
divora): c’è forse qualcosa che duri per sempre? Il mare, che evapora a gocce, con il tempo si
prosciugherà, e Seneca, che sanguina verso dopo verso e pagina dopo pagina, alla fine morirà
per il nostro teatro.
Sul palcoscenico, afferma Nashe, Seneca era già moribondo nella seconda
metà del Cinquecento, eppure aveva davanti a sé un cammino ancora lungo. I
suoi drammi costituirono un retaggio importante per la tragedia giacobiana del
secolo successivo, per scrittori come Webster e altri. Nel famoso verso della
Duchessa di Amalfi «Sono ancora la duchessa di Amalfi!», risuona il «Medea
nunc sum!» della Medea senecana.
Si potrebbe anche pensare che nel Cinque-Seicento il teatro di Seneca
piacesse tanto ai lettori, agli scrittori e al pubblico perché quello greco era quasi
del tutto sconosciuto, e che Shakespeare avrebbe scritto diversamente se avesse
letto Eschilo, Sofocle ed Euripide. Ma sarebbe un’interpretazione piuttosto
riduttiva. Le tragedie greche più lette e amate dagli spettatori erano quelle dal
carattere più senecano, come l’Ecuba di Euripide: con la sua trama di vendette e
apparizioni di fantasmi era uno dei testi più tradotti in latino e quindi più noti nel
periodo shakespeariano. Se il teatro senecano era così popolare e influente era
perché aveva un’affinità profonda con una serie di specifiche preoccupazioni
culturali allora particolarmente sentite, dall’affermazione dell’Io all’ira, che il
drammaturgo latino aveva espresso con tanta efficacia. L’altra faccia della
constantia, che Lipsio rintracciava nella prosa senecana, era la terribile
insistenza sull’identità individuale, sull’aspirazione disperata al dominio sul
mondo e alla vendetta, e sul desiderio schizofrenico di potere, incarnato da
Atreo, da Medea e dal folle Ercole: tutte espressioni dello spirito imperialista
impazzito. Il potere, l’autoaffermazione, la vendetta e la costruzione di un
universo non cristiano, nel quale la ruota della fortuna gira costantemente, sono i
temi tipici del teatro di Elisabetta e di Giacomo I, e sono tutti mutuati da Seneca.
L’Europa di allora aveva, come la Roma imperiale, istituzionalizzato lo
spettacolo della violenza, ed era questa la sorgente di quell’interesse così vivo
per il teatro senecano. Entrambe le culture, vigorose e consapevoli della propria
novità, erano alla ricerca di modi per rappresentare spettacoli di distruzione e
assistervi da spettatori. 31
In Francia, l’influenza di Seneca produsse un teatro piuttosto diverso da quello
britannico, formalmente più controllato e rispettoso delle «unità» classiche di
spazio e tempo, con trame ispirate al mondo antico. Pierre Corneille prese molti
spunti non solo dalle opere teatrali, ma anche da quelle in prosa di Seneca: la sua
grande tragedia intitolata Cinna (1641), per esempio, drammatizza un aneddoto
sulla misericordia di Augusto, tratto dalla Clemenza. Racine modellò il suo
capolavoro, Fedra, sull’Ippolito di Euripide e sulla Fedra di Seneca, ma il suo
rapporto con lo scrittore latino fu complesso e a volte anche ostile. Persino
quando, come nel Britannico, la trama è incentrata su avvenimenti accaduti
durante la vita di Seneca, la figura etica non è quella del filosofo, bensì quella di
Burro, noto per la «severità della sua morale», mentre a Seneca vengono
attribuite virtù più superficiali come «l’eleganza e l’affabilità». 32
Seneca ebbe un’influenza notevole, anche se per lo più sotterranea, sulla vita
culturale e politica del XVIII e XIX secolo, ma cominciò a essere guardato con
sospetto o addirittura completamente ignorato come grande autore della
letteratura latina dell’«età argentea» o imperiale. I suoi drammi così artificiosi e
ampollosi erano troppo lontani dal naturalismo imperante nel teatro e nel
romanzo. Se nel Cinque-Seicento si dava per scontato che le tragedie senecane
fossero state scritte per essere messe in scena – come di fatto accadeva –,
nell’Ottocento fra gli studiosi prevalse l’idea che fossero destinate soltanto alla
declamazione e non al palcoscenico, un motivo in più per condannarne
l’artificiosità. Lo stesso atteggiamento critico venne riservato anche agli scritti in
prosa, considerati il frutto artefatto di un ipocrita, che predicava bene e razzolava
male. Si era ormai affermata un’esigenza nuova di realismo, un bisogno di
«verità» nella letteratura come nella vita, e forse era anche diminuita la fiducia
nella capacità degli intellettuali di contribuire a migliorare il mondo. Se qualche
volta a Seneca veniva assegnato un ruolo in letteratura, come nel romanzo Quo
vadis?, si trattava comunque di un ruolo secondario.
I due saggi di T.S. Eliot, Seneca nelle traduzioni elisabettiane e Shakespeare e
lo stoicismo di Seneca del 1927, furono molto influenti e contribuirono, con il
pretesto di andare controcorrente, a perpetuare un atteggiamento profondamente
ostile soprattutto nei confronti delle tragedie. Esse sono state molto criticate,
osserva Eliot, ma giustamente, perché sono ampollose e «retoriche» nel senso
peggiore del termine: «Tutti i personaggi sembra che parlino sempre con la
stessa voce e al massimo volume». 33 La sua conclusione è che Seneca non ebbe
sul teatro elisabettiano, e su quello shakespeariano in particolare, l’influenza che
gli viene di solito attribuita. E per fortuna, dice. Nel secondo dopoguerra, però,
cominciò a farsi strada una concezione piuttosto diversa. In Germania, in
particolare, il rapporto infausto di Seneca con Nerone e l’ordine che gli venne
impartito di suicidarsi divennero metafore del nazismo e del
collaborazionismo. 34 A volte Seneca era ancora visto come l’adulatore di
Nerone, per esempio nel divertente film di Steno del 1956, Mio figlio Nerone,
che riprende la storia di Poppea. Ma poi cominciò a essere preso di nuovo sul
serio. In Gran Bretagna, nel 1968, Ted Hughes scrisse un adattamento
dell’Edipo, nel quale ingigantiva l’orrore e la desolazione del testo originale. 35 A
poco a poco Seneca divenne di nuovo significativo, non più tuttavia quale
difensore della clemenza o campione dell’autocrazia com’era accaduto agli
albori dell’età moderna, bensì quale scrittore le cui preoccupazioni politiche e le
cui insoddisfazioni prefiguravano le esperienze della globalizzazione e del
totalitarismo.
Il modello senecano di etica, così pragmatico, attirò sempre più l’attenzione
degli intellettuali, dei filosofi, e persino degli psicoterapeuti. Michel Foucault,
nella Cura di sé – terzo e ultimo volume della Storia della sessualità –, mostra
un interesse particolare per l’autoanalisi e per il modello di Sé proposti da
Seneca, un modello che va praticato e posto in essere attraverso l’azione, e un Sé
«interlocutorio» e «sociale» che lo studioso francese reputa la migliore
alternativa all’Io dualistico di Descartes e dei suoi eredi. Alcuni critici, come
Pierre Hadot, hanno sostenuto, plausibilmente, che Foucault ha distorto il
concetto senecano di Sé a causa di un’eccessiva identificazione. Per Hadot,
Seneca era invece importante come filosofo dell’«interiorità». 36 A noi, però, non
interessa tanto se Foucault abbia torto o ragione su Seneca, quanto che lo abbia
trovato così utile per ripensare i suoi concetti di identità individuale. Nella Cura
di sé, Foucault, prendendo spunto da Seneca (ed Epitteto), giunge ad ammettere
che forse il divario fra la psicoterapia, l’attivismo politico, la politica
dell’identità e la filosofia etica è meno profondo di quanto si ritenesse un
tempo. 37 L’analisi senecana dell’ira e delle emozioni in generale regge il
confronto con l’analisi moderna dei disturbi emotivi e della salute mentale, e ha
particolari affinità con il movimento psicologico della terapia cognitiva.
Negli Stati Uniti, in questi ultimi anni, si è verificato un risveglio di interesse
per lo stoicismo, e altrettanto è avvenuto nella cultura europea, inclusa quella
britannica. I modelli preferiti da quanti guardano al mondo antico in cerca di
guida per l’autoaiuto sono Epitteto e Marco Aurelio. 38 Questo accade perché in
Seneca la possibilità dell’individuo di corrompersi ed essere oppresso dai sensi
di colpa occupa uno spazio maggiore, e la lettura dei suoi scritti può non essere
altrettanto confortante. L’etica intorno a cui ruota il Gladiatore di Ridley Scott
(2000) non è quella di Seneca, ma di Epitteto, e lo stesso discorso vale per
Conrad Hensley, l’operaio, apparentemente ammirevole, del prolisso romanzo di
Tom Wolfe, Un uomo vero. In questo libro, lo stoicismo di matrice chiaramente
epittetiana diventa uno strumento utile per superare i tempi bui del tardo
capitalismo: il disonore, la perdita della ricchezza e la recessione economica.
Seneca, con le sue enormi ricchezze e la sua vita per lo più privilegiata, non è un
modello altrettanto utile: l’amore per il dialogo e il paradosso lo rendono meno
prezioso come strumento di autoaiuto, così come la continua insistenza sulla
morte e il suicidio e, soprattutto, il fatto che si definisca non un saggio, bensì un
discente, uno che cerca giorno dopo giorno di andare verso la meta.
Eppure è proprio per la sua complessità che Seneca meriterebbe di essere
studiato con particolare attenzione in un’epoca, la nostra, che per molti versi
ricorda quella in cui egli visse. La scrittrice Suzanne Collins coglie alcune di
queste analogie nella sua famosa trilogia The Hunger Games, la cui popolarità
dovrebbe essere già sufficiente a farci comprendere quanto sia grande la
rilevanza del pensiero senecano per il nostro tempo. La saga si svolge in un
mondo distopico, che è un amalgama fra gli Stati Uniti (in un’era futura dai tratti
esasperati, ma ben riconoscibili) e la Roma imperiale. Collins sottolinea le
spaventose diseguaglianze di ricchezza, status, potere, nonché il ricorso alla
morte violenta nell’«arena» per intrattenere e soggiogare le masse: panem et
circenses, come scriveva Giovenale. I tre romanzi sono una meditazione su temi
senecani, dal vuoto di una vita spesa al servizio di piaceri elitari alla questione di
come riuscire a conservare la propria integrità quando si è intrappolati in
situazioni orribili. Uno dei personaggi della saga, Peeta, prima di entrare
nell’arena, afferma: «Voglio morire come me stessa», un desiderio che più
senecano di così non potrebbe essere. I personaggi si trovano continuamente di
fronte a scelte impossibili: ritirarsi o ribellarsi, uccidere o collaborare con un
regime oppressivo e omicida. Non a caso, l’ideatore dei Giochi, ai quali
partecipa per la prima volta l’eroina, si chiama Seneca Crane. Il suo ruolo,
piuttosto modesto nella trilogia, viene molto ampliato nella versione
cinematografica del primo libro (The Hunger Games, 2012), e il suo rapporto
stretto, ma assai pericoloso, con il malvagio presidente Snow contiene evidenti
echi del rapporto fra Seneca e Nerone. Seneca Crane è l’ambasciatore e
portavoce del governo; il suo successo dipende dalla sua bravura nel creare
scenari complessi, in cui spingere gli adolescenti a massacrarsi per il
divertimento del pubblico. Per sua disgrazia, però, egli ha «una sfortunata vena
sentimentale», dice Snow, che gli instilla la tentazione di fare in modo che i due
protagonisti sopravvivano ai Giochi. Questo moderno Seneca, come il suo
lontano omonimo, è tormentato dalla sua posizione di cerimoniere del regime, e
come il Seneca neroniano è costretto a togliersi la vita. Nel secondo romanzo
della trilogia, Katniss Evergreen esprime la propria opposizione al regime, di cui
percepisce il punto debole, scrivendo «Seneca Crane» su un pupazzo appeso a
un cappio.
L’Occidente odierno, con il consumismo, le massicce diseguaglianze sociali e
l’esplosione della globalizzazione con i suoi commerci mondiali, ha evidenti
somiglianze con la Roma imperiale. Le élite, e non solo loro, sono alle prese,
come lo era Seneca, con le pressioni psicologiche esercitate da un eccesso di
ricchezza materiale unita alla mancanza del senso individuale di autonomia e di
partecipazione ai processi politici. L’orgoglio non è più considerato un difetto
nella società statunitense o britannica contemporanea, come accadeva invece
nell’Europa cristiana, tuttavia la versione senecana dell’affermazione di sé, così
tetra, titubante e morbosa, fornisce un utile correttivo all’ottimismo insensato
che si tenta di spacciare per fiducia in se stessi. 39 Dello stoicismo di Seneca
possono appropriarsi tanto le religioni monoteiste quanto le culture secolari: il
«nuovo stoicismo» di Larry Becker tenta di spogliare quello antico del ruolo
assegnato alla provvidenza e di reinventarlo per uomini e donne dotati di una
mentalità «scientifica» alle prese con le avversità del nostro mondo. 40
Seneca è stato soprannominato «la coscienza dell’impero», 41 ma lo si
potrebbe con più precisione definire il suo inconscio, un inconscio che però
aveva una voce pubblica e un ammirevole stile letterario. Il corpus delle sue
opere, eclettico e discordante, esprime le contraddizioni psicologiche e le
pressioni del consumismo, della globalizzazione e dell’impero, tutti temi di
enorme importanza per il mondo attuale, occidentale e no. L’idea che gli esseri
umani possano trovare la pace soltanto dentro di sé esercita un’attrattiva
particolare in una società frammentata e impaurita come la nostra. I difficili
tentativi senecani di conciliazione fra interiorità ed esteriorità, fra centro e
periferia, hanno un sapore di straordinaria modernità. Possiamo anche dubitare
della verità o utilità politica ed etica della nozione per cui soltanto chi è davvero
virtuoso può essere felice. Ma persino coloro che sono scettici verso lo stoicismo
riconoscono il fascino persistente della psicologia di Seneca, della sua vita fosca
e della sua opera letteraria complessa, paradossale e feconda.
CRONOLOGIA
Introduzione
1. La descrizione più accurata e completa della morte di Seneca (e di come fu accolta) si trova in Ker, 2009.
2. Sull’argomento, si veda Wilson, 2007.
3. Si allude qui al titolo del più informato fra i saggi accademici attuali sulla vita politica di Seneca: Miriam
Griffin, Seneca: A Philosopher in Politics (Griffin, 1976).
4. Rubens conobbe Seneca attraverso il neostoicismo dell’amico Lipsio e ne fu profondamente influenzato.
Si veda Morford, 1991.
5. L’esilio di Seneca verrà discusso più dettagliatamente nel capitolo II.
6. Il tentativo più ampio è Griffin, 1976, con un racconto dettagliato e ricco di sfumature, dettato dalla piena
consapevolezza dei problemi che pone questo tipo di ricerca. Sulle difficoltà e sulla desiderabilità di
considerare nell’insieme tutte le opere conservate di Seneca si veda in particolare Volk e Williams, 2006.
7. Si veda Bartsch e Wray, 2009.
8. Sulla dissimulazione si vedano Rudich, 1993, e Rudich, 1997. Si veda anche Bartsch, 1994.
9. La migliore biografia di Cicerone è Rawson, 1975.
10. Si veda in particolare Tacito, Dialogo sull’oratoria, Rizzoli, Milano 1993.
11. Quasi tutte le informazioni sullo stoicismo delle origini provengono dall’inaffidabile e aneddotico Vite
dei filosofi di Diogene Laerzio (Laterza, Roma-Bari 2010).
12. Si veda Asmis, 1996.
13. Si veda, in particolare, Luciano nell’Hermotimus, un dialogo, presumibilmente immaginario, fra la
controfigura dello scrittore e un amico sciocco, che è stato accalappiato dagli stoici. L’alter ego dello
scrittore ribadisce continuamente che la pretesa stoica di insegnare la verità è fuorviante e la vita è
troppo breve per essere sprecata in chiacchiere.
14. Si veda Long e Sadlay, 1987.
Epilogo
1. Sulla datazione dell’Ottavia gli studiosi sono discordi. Secondo alcuni fu composta poco dopo la morte di
Seneca, forse nel 68 d.C., sotto l’imperatore Galba; per altri è di molto posteriore. Si veda la discussione
in Ferri, 2003, pp. 5-30.
2. Per Quintiliano su Seneca, si veda Taoka, 2011, secondo il quale Quintiliano in realtà imita Seneca
(Lettera 114), mentre finge di attaccarlo.
3. Si veda anche Abbott, 1978, che sostiene, in modo non molto convincente, che Seneca potrebbe
benissimo avere conosciuto Paolo a Roma.
4. Si vedano Engberg-Pedersen, 2000, ed Engberg-Pedersen, 2004.
5. Una descrizione corposa del rifiuto dello stoicismo nel cap. 14 della Città di Dio si trova in Brooke,
2012, pp. 1-11.
6. Su questo punto si veda Colish, 1985.
7. Ebbenson, 2004, p. 108.
8. Passando da Origene, la trasformazione fu effettuata dal monaco Evagrio Pontico nel IV secolo.
9. Il passaggio è efficacemente illustrato da Sorabji, 2004.
10. Cunnally, 1986, p. 316, racconta la storia nei dettagli.
11. Le edizioni più importanti furono quelle di Erasmo, dell’umanista francese Marc-Antoine Muret e di
Giusto Lipsio. Su Muret si veda Kraye, 2005.
12. Il punto è ben spiegato da Monsarrat, 1984, p. 6.
13. Edwards, 1997.
14. Il termine Self-fashioning, «costruzione del Sé», è stato reso popolare dal saggio di Stephen Greenblatt
Renaissance Self-fashining (1980), dedicato in particolare a Thomas More: la rilevanza che questo
concetto ha in Seneca e il nesso fra Seneca e More sono stati analizzati da Edwards, 1997. Per ulteriori
informazioni sul contributo di Seneca alla concezione moderna del Sé, si veda Long, 2006.
15. Braden, 1985.
16. Stacey, 2007, esamina la posizione di Machiavelli rispetto a Seneca, argomento ripreso da Brooke,
2012.
17. Si veda Brooke, 2012, pp. 67-69.
18. Montaigne, Saggi 1, 12: «Della costanza» (Montaigne, 2008).
19. Quint, 1998, dimostra che l’ideale di Montaigne di rigetto della crudeltà discende dai suoi studi di
Seneca.
20. Su Lipsio, si vedano Lagrée, 2004 e Brooke, 2012, pp. 13-36. Entrambi sottolineano che il principe di
Lipsio è una figura alternativa, e più senecana, dell’autocrate di Machiavelli.
21. Œuvres Morales Mêlées 12, citato in Lagrée, 2004, p. 160.
22. Citato in Lagrée, 2004, p. 165.
23. Citato in Oestreich, 2008, p. 70.
24. Descartes, Le passioni dell’anima, citato in Rutherford, 2004, p. 191.
25. Da 2, 13. Il passo di Rousseau è discusso in Brooke, 2012, p. 189.
26. Citato in Brooke, 2012, p. 125.
27. Cassirer, 1961, pp. 166-170, citato in Brooke, 2012, p. 1.
28. Discusso in Brooke, 2012, p. 148.
29. Storia naturale della religione, p. 174, citato in Brooke, 2012, p. 180.
30. Su questo argomento, su cui ci sono molti studi, un buon punto di partenza è Boyle, 1997.
31. Di affinità fra le forme di violenza nella prima fase della modernità e la Roma antica parla Boyle, 1997,
p. 409.
32. Racine, Fedra, vol. I, p. 390, in cui si cita Tacito. Il rapporto fra Racine e Seneca è efficacemente
analizzato da Levitan, 1989.
33. T.S. Eliot, Opere, Bompiani, Milano 1992.
34. Ziolowski, 2004.
35. Hughes, 1983.
36. Hadot, 2008.
37. Foucault, 1995. Sugli echi attuali della presentazione del Sé in Seneca si veda Long, 2006.
38. James Bond Stockdale, un ufficiale di marina statunitense, che fu tenuto prigioniero in Vietnam per sette
anni, quasi sempre in isolamento, ha scritto e parlato a lungo dell’utilità di Epitteto (con un pizzico di
Marco Aurelio) non solo durante la prigionia ma anche quando comandava i suoi uomini. Nonostante
l’amore per lo stoicismo antico, Stockdale non mostra alcun interesse per Seneca, perché Seneca è molto
meno utile per un modello di stoicismo macho e militaresco come quello di Stockdale, tutto basato sulla
«volontà» e il «rispetto di sé» anche in tempi di sofferenza e palese fallimento. La sua convinzione è che
«il tuo bene e il tuo male sono opera tua» (1995, p. 240) e che le nostre azioni sono sempre giuste.
Stockdale non si cura di quanti gli domandano se non si senta mai «le mani sporche di sangue»: la pietà,
i sensi di colpa e la paura sono distrazioni di cui disfarsi.
39. Si veda Einrich, 2010, sui pericoli dell’attuale ottimismo americano.
40. Becker, 1999.
41. Grimal, 1978.
Traduzioni utilizzate
Cassio Dione, Storia romana, vol. VI, 5ª ed., Rizzoli, Milano 2012.
Cornelio Nepote, Libro dei sommi capitani delle nazioni straniere, in Opere,
UTET , Torino 1977.
Epitteto, Diatribe, in Tutte le opere, Bompiani, Milano 1992.
Decimo Giunio Giovenale, Satire, Rizzoli, Milano 1980.
Lucio Anneo Seneca, Lettere morali a Lucilio, Mondadori, Milano 1995.
–, De matrimonio, in Contro il matrimonio, Palomar, Bari 1997.
–, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2000.
Marco Anneo Lucano, La guerra civile, Mondadori, Milano 1995.
Publio Cornelio Tacito, Annali, Rizzoli, Milano 1990.
Quinto Orazio Flacco, Le lettere, Rizzoli, Milano 1989.
Tranquillo Gaio Svetonio, Vita dei Cesari, Garzanti, Milano 1977.
ULTERIORI LETTURE
Questo è un buon momento per leggere Seneca in inglese. Sono uscite di recente diverse ottime traduzioni,
fra cui una serie edita dalla Chicago University Press, che sta gradualmente pubblicando tutte le sue opere.
La Oxford World’s Classics ha presentato una bella selezione e traduzione delle Lettere, a cura di Elaine
Fantham (Selected Letters, 2010), una collezione dei dialoghi e saggi (Dialogues and Essays), tradotta da
Tobias Reinhardt (2009) e una selezione delle tragedie tradotta dalla sottoscritta (Six Tragedies of Seneca,
2010). Per le opere in prosa, esiste un’edizione della Cambridge University Press del 1995 (a cura di J.F.
Procopé e John M. Cooper), che comprende i saggi L’ira, La clemenza, L’ozio (On Anger, On Mercy, On the
Private Life) e la prima metà de I benefici, corredati da ottime note.
La fonte più accessibile e antica sulla Roma imperiale è Tacito, Annals, di cui raccomandiamo la recente
traduzionein inglese della collana Oxford World’s Classics, a cura di J.C. Yardley, 2008. Nella stessa
collana, vale la pena leggere anche la pettegola Life of Nero, in The Lives of the Caesars, scritta da Svetonio
e tradotta da Catherine Edwards (2009).
Il migliore studio moderno di Seneca in lingua inglese è Seneca: A Philosopher in Politics, di Miriam
Griffin, un’opera forse un poco impegnativa per i non specialisti, ma ricca di informazioni utili.
Il Nerone di Edward Champlin è un saggio vivace e brillante sull’imperatore e il suo tempo; altrettanto
interessante è il Nero di Miriam Griffin.
Per chi fosse interessato a conoscere un filosofo stoico molto diverso da Seneca, raccomandiamo
vivamente A.A. Long, Epictetus: A Stoic and Socratic Guide to Life (2004).
BIBLIOGRAFIA
Abbot, Kenneth M., 1978, Seneca and St. Paul, in Wege der Worte: Festschrift
für Wolfgang Fleischauer, a cura di D.C. Riechel, Böhlau, Köln, pp. 119-131.
Asmis, Elizabeth, 1996, The Stoics on Women, in Julie K. Ward (a cura di),
Feminism and Ancient Philosophy, Routledge, New York, pp. 68-92.
Barnes, T.D., 1974, Who Were the Nobility of the Roman Empire?, in «Phoenix»,
4, 28, pp. 444-449.
Bartsch, Shadi, 1994, Actors in the Audience, Harvard University Press,
Cambridge (MA ).
Bartsch, Shadi, 2006, The Mirror of the Self: Sexuality, Self-Knowledge and the
Gaze in the Early Roman Empire, Chicago University Press, Chicago (IL ).
Bartsch, Shadi e Wray, David (a cura di), 2009, Seneca and the Self, Cambridge
University Press, Cambridge.
Becker, Larry, 1999, A New Stoicism, Princeton University Press, Princeton (NJ ).
Bloomer, W. Martin, 1992, Valerius Maximus and the Rhetoric of the New
Nobility, University of North Carolina Press, Chapel Hill (NC ).
Bourgery, Abel, 1936, Le Mariage de Sénèque, in «Revue des études latines»,
14, pp. 90-94.
Bourdieu, Pierre, 2008, The Bachelor’s Ball: The Crisis of Peasant Society in
Béarn, trad. ingl. di R. Nice, Chicago University Press, Chicago (IL ); ed. or.
Le bal des célibataires. Crise de la société paysanne en Béarn, Seuil, Paris
2002.
Boyle, Anthony J., 1997, Tragic Seneca: An Essay in the Theatrical Tradition,
Routledge, New York.
Braden, Gordon, 1985, Anger’s Privilege: Renaissance Tragedy and the Senecan
Tradition, Yale University Press, New Haven (CT ).
Bradley, Keith R., 2008, Seneca and Slavery, in John G. Fitch (a cura di),
Seneca, Oxford University Press, Oxford, pp. 335-347.
Braund, Susanna Morton (a cura di), 2001, Seneca: De Clementia, Oxford
University Press, Oxford.
Brooke, Christopher, 2012, Philosophic Pride: Stoicism and Political Thought
from Lipsius to Rousseau, Princeton University Press, Princeton (NJ ).
Champlin, Edward, 2008, Nerone, trad. it. Laterza, Roma-Bari.
Chilton, Cecil W., 1960, Did Epicurus Approve of Marriage?, in «Phronesis», 5,
1, pp. 71-74.
Closs, Virginia, 2013, While Rome Burned: Fire, Leadership, and Urban
Disaster in the Roman Cultural Imagination, tesi di laurea presentata
all’Università della Pennsylvania,
http://repository.upenn.edu/dissertation/AAI3594781.
Colish, Marcia, 1985, The Stoic Tradition from Antiquity to the Early Middle
Ages, E.J. Brill, Leiden.
Cunnally, John, 1986, Nero, Seneca, and the Medallist of the Roman Emperors,
in «The Art Bulletin», LXVIII, pp. 314-317.
Curchin, Leonard A., 1995, Roman Spain: Conquest and Assimilation,
Routledge, London.
Duncan-Jones, Richard, 1994, Money and Government in the Roman Empire,
Cambridge University Press, Cambridge.
Dyson, Stephen L., 1970, The Portrait of Seneca in Tacitus, in «Arethusa», 3,
pp. 71-83.
Ebbensen, Sten, 2004, Where Were the Stoics in the Late Middle Ages?, in
Steven J. Strange e Jack Zupko (a cura di), Stoicism: Traditions and
Transformations, Cambridge University Press, Cambridge, pp. 108-131.
Edwards, Catherine, 1997, Self-Scrutiny and Self-Transformation in Seneca’s
Letters, in «Greece and Rome», 44, pp. 23-38.
Edwards, Catherine e Woolf, Gregory (a cura di), 2003, Rome the Cosmopolis,
Cambridge University Press, Cambridge.
Ehrenreich, Barbara, 2010, Bright-Sided: How Positive Thinking Is Undermining
America, Picador, London.
Eliot, Thomas S., 1992, Seneca nelle traduzioni elisabettiane, in Opere 1904-
1939, trad. it. Bompiani, Milano.
Engberg-Pedersen, Troels, 2000, Paul and the Stoics, T&T Clark, Edinburgh.
–, 2004, Stoicism in the Apostle Paul, in Steven J. Strange e Jack Zupko (a cura
di), Stoicism: Traditions and Transformations, Cambridge University Press,
Cambridge, pp. 52-75.
Fairweather, Janet, 1981, Seneca the Elder, Cambridge University Press,
Cambridge.
Fantham, Elaine, 2007, Dialogues of Displacement, in Jan F. Gaertner (a cura
di), Writing Exile: The Discourse of Displacement in Greco-Roman Antiquity
and Beyond, E.J. Brill, Leiden, pp. 173-192.
Fear, Trevor, 2007, Of Aristocrats and Courtesans: Seneca, «De Beneficiis»,
1.14, in «Hermes», 135, pp. 460-468.
Ferri, Ronaldo, 2003, Octavia, Cambridge University Press, Cambridge.
Foucault, Michel, 1995, La cura di sé, trad. it. Feltrinelli, Milano.
Fuhrer, Therese, 2000, The Philosopher as Multi-Millionaire: Seneca on Double
Standards, in Karla Pollmann (a cura di), Double Standards in the Ancient
and Medieval Worlds, Duehrkohp & Radicke, Göttingen, pp. 201-219.
Gahan, John J., 1985, Seneca, Ovid and Exile, in «Classical World», 78, pp. 145-
147.
Gaertner, Jan F. (a cura di), 2007, Writing Exile: The Discourse of Displacement
in Greco-Roman Antiquity and Beyond, E.J. Brill, Leiden.
Gleason, Maud, 1995, Making Men: Sophists and Self-Presentation in Ancient
Rome, Princeton University Press, Princeton (NJ ).
Graver, Margaret, 2007, Stoicism and Emotion, Chicago University Press,
Chicago (IL ).
Greenblatt, Stephen, 1980, Renaissance Self-Fashioning: From More to
Shakespeare, Chicago University Press, Chicago (IL ).
Gregorovius, Ferdinand, 1855, Wandering in Corsica, Cortland, London.
Griffin, Miriam, 1972, The Elder Seneca and Spain, in «Journal of Roman
Studies», 62, pp. 1-19.
–, 1976, Seneca: A Philosopher in Politics, Clarendon Press, Oxford.
–, 1994, Nerone. La fine di una dinastia, trad. it. Società Editrice Internazionale,
Torino.
–, 2013, Seneca on Society: A Guide to «The Beneficiis», Oxford University
Press, Oxford.
Grimal, Pierre, 1978, Sénèque, ou la Conscience de l’Empire, Fayard, Paris.
Grimm, Veronika, 1991, On the Mushroom that Deified the Emperor Claudius,
in «Classical Quarterly», 41, 1, pp. 178-182.
Haase, Friedrich, 1852, Seneca: Works, 3 voll., Teubner, Leipzig.
Hadot, Pierre, 2008, La filosofia come modo di vivere, trad. it. Einaudi, Torino.
Hemelrijk, Emily A., 1999, Matrona Docta: Educated Women in the Roman
Élite from Cornelia to Julia Domna, Routledge, New York.
Hughes, Ted, 1983, Seneca’s Oedipus, Faber, London.
Inwood, Brad, 2008, Reading Seneca: Stoic Philosophy at Rome, Oxford
University Press, Oxford.
Keay, Simon J., 1988, Roman Spain, University of California Press, Oakland.
Kelly, Gordon P., 2006, A History of Exile in the Roman Republic, Cambridge
University Press, Cambridge.
Ker, James, 2009, The Deaths of Seneca, Oxford University Press, New York.
–, 2009, Seneca and Self-Examination, in Shadi Bartsch e David Wray (a cura
di), Seneca and the Self, Cambridge University Press, Cambridge, pp. 160-
187.
–, 2011, A Seneca Reader: Selections from Prose and Tragedy, Bolchazy -
Carducci Publishers, Mundelein (IL ).
Knapp, Robert C., 1983, Roman Córdoba, University of California Press,
Oakland.
–, 1992, Latin Inscriptions from Central Spain, University of California Press,
Oakland.
Kraye, Jill, 2005, The Humanist as Moral Philosopher: Marc-Antoine’s Muret’s
1585 Edition of Seneca, in Jill Kraye e Risto Saarinen (a cura di), Moral
Philosophy and the Threshold of Modernity, Springer, Dordrecht, pp. 307-
330.
Lagrée, Jacqueline, 2004, Constancy and Coherence, in Steven J. Strange e Jack
Zupko (a cura di), Stoicism: Traditions and Transformations, Cambridge
University Press, Cambridge, pp. 148-176.
Lana, Italo, 1959, Sextiorum Nova et Romani Roboris Secta, in «Rivista di
filologia e di istruzione classica», 31, pp. 225-232.
Leach, Eleanor Winsor, 1989, The Implied Reader and the Political Argument in
Seneca’s «Apocolocyntosis» and «De Clementia», in «Arethusa», 22, pp. 197-
230.
Levick, Barbara, 2002, Women, Power, and Philosophy at Rome and Beyond, in
Gillian Clark e Tessa Rajak (a cura di), Philosophy and Power in the Graeco-
Roman World, Oxford University Press, Oxford, pp. 134-155.
–, 2003, Seneca e il denaro, in Arturo De Vivo ed Elio Lo Cascio (a cura di),
Seneca uomo politico e l’età di Claudio e di Nerone, Edipuglia, Bari, pp. 107-
114.
Levitan, William, 1989, Seneca in Racine, in «Yale French Studies», 76, pp.
185-210.
Lindsay, Hugh, 2009, Adoption in the Roman World, Cambridge University
Press, Cambridge.
Long, Anthony A., 1989, La filosofia ellenistica. Stoici, epicurei, scettici, trad. it.
il Mulino, Bologna.
–, 2004, The Socratic Imprint in Epictetus’ Philosophy, in Steven J. Strange e
Jack Zupko (a cura di), Stoicism: Traditions and Transformations, Cambridge
University Press, Cambridge, pp. 10-31.
–, 2006, From Epicurus to Epictetus, Oxford University Press, Oxford.
–, 2009, Seneca and the Self: Why Now?, in Shadi Bartsch e David Wray (a cura
di), Seneca and the Self, Cambridge University Press, Cambridge - New York,
pp. 20-36.
Macmullen, Ramsay, 1974, Roman Social Relations, 50 BC to AD 284, Yale
University Press, New Haven (CT ).
Manning, C.P., 1987, The Sextii, in «Prudentia», 19, pp. 16-27.
Monsarrat, Gilles D., 1984, Light from the Porch: Stoicism and English
Renaissance Literature, Didier Erudition, Lyon.
Montaigne, Michel de, 2008, Saggi, trad. it. Mondadori, Milano.
Morford, Mark, 1991, Stoics and the Neo-Stoics: Rubens and the Circle of
Lipsius, Princeton University Press, Princeton (NJ ).
–, The Roman Philosophers: from the Time of Cato the Censor to the Death of
Marcus Aurelius, Routledge, New York.
Morley, Neville, 1996, Metropolis and Hinterland, Cambridge University Press,
Cambridge.
Nussbaum, Martha, 2004, Cicero’s Problematic Legacy, in Steven J. Strange e
Jack Zupko (a cura di), Stoicism: Traditions and Transformations, Cambridge
University Press, Cambridge, pp. 214-249.
Oestreich, Gerhard, 2008, Neostoicism and the Early Modern State, Cambridge
University Press, Cambridge.
Oost, Stewart I., 1958, The Career of M. Antonius Pallas, in «American Journal
of Philology», 79, 2, pp. 113-139.
Osgood, Josiah, 2011, Claudius Caesar: Image and Power in the Early Roman
Empire, Cambridge University Press, Cambridge.
Quint, David, 1998, Montaigne and the Quality of Mercy, Princeton University
Press, Princeton (NJ ).
Rawson, Elisabeth, 1975, Cicero: A Portrait, Bristol Classics Press, Bristol.
Relihan, Joel, 1993, Ancient Menippean Satire, Johns Hopkins University Press,
Baltimore (MD ).
Roller, Matthew, 2004, Exemplarity in Ancient Rome: The Cases of Horatius
Cocles and Cloelia, in «Classical Philology», 9, pp. 1-56.
Rudich, Vasily, 1993, Political Dissidence Under Nero, Routledge, New York.
–, 1997, Dissidence and Literature Under Nero, Routledge, New York.
Rutherford, Don, 2004, On the Happy Life: Descartes vis-à-vis Seneca, in
Steven J. Strange e Jack Zupko (a cura di), Stoicism: Traditions and
Transformations, Cambridge University Press, Cambridge, pp. 77-197.
Rutledge, Steven, 2001, Imperial Inquisitions: Prosecutors and Informants from
Tiberius to Domitian, Routledge, New York.
Scheidel, Walter e Friesen, Steven, 2009, The Size of the Economy and the
Distribution of Income in the Roman Empire, in «Journal of Roman Studies»,
99, pp. 61-91.
Seneca, Lucio Anneo, 1984, Apocolocyntosis, a cura di Peter T. Eden,
Cambridge University Press, Cambridge.
Sorabji, Richard, 2004, Stoic First Movements in Christianity, in Steven J.
Strange e Jack Zupko (a cura di), Stoicism: Traditions and Transformations,
Cambridge University Press, Cambridge, pp. 95-107.
Sørensen, Villy, 2005, Seneca, trad. it. di Bruno Berni, Il Giornale, Milano.
Stacey, Peter, 2007, Roman Monarchy and the Renaissance Prince, Cambridge
University Press, Cambridge.
Stini, Frank, 2001, Plenum Exiliis Mare: Untersuchungen zum Exil in der
Römischen Kaiserzeit, Franz Steiner, Stuttgart.
Stockdale, James, 1995, Thoughts of a Philosophical Fighter Pilot, Hoover
Institution Press, Stanford (CA ).
Sussman, Lewis A., 1978, The Elder Seneca, E.J. Brill, Leiden.
Toaka, Yasuko, 2011, Re-Reading «Institutio Oratoria» 10.1125-31, in
«Arethusa», pp. 126-127.
Vassileiou, Alain, 1973, À propos d’un passage de Sénèque le Père (Contr. 2
Pref. 4): La psychologie d’un père ambitieux pour ses enfants au 1 er siècle
ap. J.-C., in «Latomus», 32, pp. 162-165.
Volk, Katharina e Williams, Gareth D., 2006, Seeing Seneca Whole:
Perspectives on Philosophy, Poetry and Politics, Brill, Leiden-Boston (MA ).
Vottero, Dionigi, 1998, Lucius Annaeus Seneca. I frammenti, Pàtron, Bologna.
Wallace-Hadrill, Andrew, 1982, The Imperial Court, in Alan K. Bowman,
Edward Champlin e Andrew Lintott (a cura di), The Cambridge Ancient
History: The Augustan Empire, 43 BC-AD 69, vol. X, Cambridge University
Press, Cambridge, pp. 283-308.
Williams, Gareth D., The Cosmic Viewpoint: A Study of Seneca’s Natural
Questions, Oxford University Press, New York.
Wilson, Emily, 2004, Mocked with Death: Tragic Overliving from Sophocles to
Milton, Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD ).
–, 2007, The Death of Socrates: Hero, Villain, Chatterbox, Saint, Profile Books -
Harvard University Press, London-Harvard (MA ).
Wimbush, Vincent L., 1998, Ascetic Behavior in Greco-Roman Antiquity,
Fortress, Minneapolis (MN ).
Winterbottom, Michael (a cura di), 1974, Seneca The Elder: Declamations, 2
voll., Harvard University Press, Boston (MA ).
Winterling, Aloys, 2011, Caligula, trad. ingl. di Deborah Lucas Scheider, Glenn
Most e Paul Psoinos, University of California Press, Oakland; ed. or.
Caligula. Eine Biographie, Beck, München 2004.
Ziolowski, Theodore, 2004, Seneca: A New German Icon?, in «International
Journal of the Classical Tradition», 11, pp. 47-77.
REFERENZE ICONOGRAFICHE
2. © Shutterstock.
3. © Per gentile concessione del British Museum.
4. Erich Lessing/Art Resource, NY .
5. © Manfred Heyde.
6. Erich Lessing/Art Resource, NY .
7. Album/Art Resource, NY .
8. Album/Art Resource, NY .
9. Scala/Art Resource, NY .
10. © Ethelwulf, The Megalithic Portal.
11. Album/Art Resource, NY .
12. Foto Marburg/Art Resource, NY .
13. © Shutterstock.
14. Scala/Art Resource, NY .
15. Gioielli: Album/Art Resource, NY . Coppa: © Shutterstock.
16. © Shutterstock.
17. © RMN -Grand Palais/Art Resource, NY .
18. Scala/Art Resource, NY .
19. © Shutterstock.
20. © Shutterstock.
21. © Shutterstock.
22. BPK , Berlin/Alte Pinakothek, Bayerische Staatsgemaeldesamm/Peter Paul Rubens/Art Resource, NY .
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio di cuore Stefan Vranka della Oxford University Press per avermi suggerito di scrivere un libro su
Seneca. La mia gratitudine va anche al Penn Humanities Forum, che con i suoi dibattiti interdisciplinari
sulla violenza (2012-2014) mi ha fornito un retroterra prezioso per ragionare sulla vita nella Roma
imperiale. Grazie anche ai miei colleghi, dottorandi e studenti dell’Università della Pennsylvania, che hanno
contribuito a creare un ambiente stimolante ma sicuro in cui scrivere, l’esatto opposto della brulla Corsica e
della corte neroniana.
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto,
trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro
modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle
condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile.
Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle
informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e
dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge
633/1941 e successive modifiche.
Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita,
acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di
consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata
pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore
successivo.
www.librimondadori.it
Seneca
di Emily Wilson
Original English language edition first published by Penguin Books Ldt., London
Text copyright © Emily Wilson 2015
The author has asserted her moral right
All rights reserved
Traduzione di Carla Lazzari
© 2016 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale: Seneca
Ebook ISBN 9788852077647